sabato 15 agosto 2009

LETTERA APERTA ALL'ON.LE GIUSEPPE BOVA

Caro Presidente, l’ennesima querelle in corso tra te e l’assessore Naccari, lungi dall’essere frutto della normale dialettica tra forze di varia estrazione che si ritrovano giocoforza all’interno dello stesso schieramento nascente, rischia di apparire all’opinione pubblica come paradigmatica dell’innaturalità dell’unione tra una coppia agonizzante di partiti dal passato splendore, non fosse altro perché, nell’immaginario collettivo, la tua figura viene identificata con la tradizione Comunista (spero che il termine non ti faccia orrore…) e quella di Naccari con la Democristiana.
Per quanto riguarda la nostra parte, due fatali errori politici stanno alla base delle difficoltà odierne e si chiamano Bolognina e maggioritario, oggi paghiamo le conseguenze di quelle scellerate decisioni mentre gli autori di quelle scelte continuano a gettare fango su un partito come il PCI che era il solo del quale la democrazia italiana non aveva alcun motivo di vergognarsi. Oggi quelli come me e te che, sia pur tra posizioni e responsabilità molto diverse, si ritrovano a fare il bilancio di una vita dedicata ad un’idea ed a un impegno politico totalizzante, devono fare i conti con la difficoltà di ritrovarsi in un contesto che non corrisponde certamente a quello che avevano sognato quando, adolescenti, avevano abbracciato un magnifico ideale. Le tue scelte sono sotto gli occhi di tutti, da politico abile e navigato quale sei, hai impugnato con mano ferma il timone e solchi con coraggio ed onestà i procellosi mari dell’Istituzione calabrese; hai messo da parte (ritengo a malincuore) la tua vecchia fede e guidi i tuoi centurioni nella missione impossibile di creare un contenitore capace di contenere l’incontenibile. Io, non avendo intrapreso la carriera politica, sono stato un po’ più libero nella scelta ed ho vagato per qualche hanno nella disperata ricerca di qualche traccia di Comunismo nelle sigle (ma appunto solo di questo si trattava) sorte dopo la sventurata diaspora. Il sospetto che la parte migliore della classe politica del PCI fosse rimasta all’interno delle magmatiche mutazioni seguite alla Bolognina, è diventato certezza al cospetto dell’incosciente azione Bertinottiana che di fatto ha consegnato il Paese nelle mani di Berlusconi; mi sono ritrovato quindi a riapprodare sulle antiche sponde che, nel frattempo, mutazione dopo mutazione, avevano prodotto l’immane creatura. Dopo qualche esitazione mi è sembrato che il Partito Democratico potesse rappresentare il naturale sbocco di una situazione che, ormai irreversibilmente, non indicava vie alternative alla drastica divisione in blocchi del sistema politico; sono andato indietro con la mente a quando, negli anni 70, ero riuscito a farmi una ragione della permanenza nel Partito Democratico americano dei segregazionisti del senatore George Wallace e degli afroamericani guidati da Jesse Jackson ed ho ritenuto (a torto?) che la democrazia italiana avesse (con il solito ritardo di 30 anni) raggiunto il livello di maturità di quella americana. Mi sono avvicinato pertanto al PD ed ho trovato nell’azione e nella persona di Demetrio Naccari, che avevo apprezzato nel ruolo di vicesindaco del mai troppo rimpianto Italo Falcomatà, la figura di politico che più si confaceva al nuovo grande progetto che mira ad unire le varie anime delle sinistra. A conferma di questa mia convinzione ho registrato con piacere la comune scelta di campo, tra te e Naccari, dello schieramento che fa capo a Bersani. La violenta polemica scoppiata in questi giorni tra il tuo portavoce, nonché segretario provinciale del PD, e Naccari risulta assolutamente incomprensibile a una lettura squisitamente politica; è legittimo pertanto chiederti quali siano i veri motivi che l’hanno determinata, così come pure ritengo legittimo chiederti, così come ha già fatto Giuseppe Falcomatà, di rispettare la memoria di Italo suggerendo ai tuoi uomini, e soprattutto a quel Mimmo Penna che, inopinatamente, dirige ancora una sezione a lui intestata, di evitare di strumentalizzare la sua figura per biechi motivi di parte. Italo ha sofferto molto, e qualcuno dice in modo fatale, gli ostracismi provenienti dal suo stesso partito, tutti noi siamo stati testimoni delle insane manovre che persone a te ben note tessevano contro la sua azione, ti chiedo pertanto, in nome della passata comune militanza, di porre fine a questo disgustoso spettacolo e di riportare il dibattito politico sul piano di una normale dialettica interna consona ad un moderno grande partito.
Franco Arcidiaco

LA VITA LETTERATURIZZATA DI UN LIBRAIO PENSANTE

Quando penso alla figura del libraio ideale, la mia mente torna agli anni 60/70 quando a Reggio, come in tutte le altre città d’Italia, esistevano ancora le librerie “vere”; quei negozi dalle pareti interamente ricoperte di scaffali di legno stracolmi di libri, il cui proprietario, prima di essere un commerciante, era soprattutto un colto e appassionato feticista che aveva nel libro il suo oggetto del desiderio; un desiderio che raggiungeva il suo acme all’atto della condivisione dell’amato-bene con il cliente-lettore. Era quello il momento in cui il libraio, spesso dopo averlo voluttuosamente annusato, porgeva il libro al lettore, felice di riporre la sua creatura in mani altrettanto anelanti di feticistico godimento. In quegli anni a Reggio operavano parecchi librai di questo genere, ma quelli che ricordo particolarmente erano dislocati sulla parte di Corso che percorrevo tutti i giorni a piedi per tornare da scuola verso casa, nei pressi del ponte Calopinace; incontravo la libreria Ave, oggi Nuova Ave gestita ancora da uno dei fondatori, il mitico Tullio Tralongo, ed altre tre librerie che purtroppo non esistono più: Carmelo Franco, Gangemi (quella vicino al Duomo e non “La Casa del Libro” di Peppino Gangemi che arrivò un po’ dopo) e Vadalà che si trovava a due passi da Piazza Garibaldi. Quest’ultima era la libreria che frequentavo di più, essendo la più vicina a casa mia, e mi capitava spesso di trovare il sig. Vadalà sulla porta che mi aspettava per segnalarmi l’arrivo di qualche novità; Le stelle fredde di Piovene, Una relazione di Cassola, Poema a fumetti di Buzzati, Io e lui di Moravia, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, freschi di stampa unitamente a tanti classici italiani e stranieri, passarono dalle sue mani alle mie in un misto di gioia e trepidazione. Oggi per fortuna in città resiste ancora un manipolo di librerie, oltre alla già citata Nuova Ave come non ricordare la storica Ambrosiano che continua nella sana tradizione della casa di accogliere amorevolmente tra i suoi vetusti ma solidi scaffali l’editoria locale, la libreria Amaddeo che, pur avendo nella “scolastica” il suo core-business, svolge il suo ruolo con professionalità e impegno e la piccola ma molto ben fornita Eden dal pubblico affezionato e fedele. Un discorso a parte merita la libreria di Enzo Caccamo. In posizione straordinaria, locali belli e accoglienti fanno della libreria Culture il luogo d’incontro preferito di giornalisti, politici ed intellettuali di varia estrazione. Enzo è un libraio sui generis, non sperate di trovare da lui al primo colpo il libro di cui avete appena letto una recensione, lui lo farà arrivare con calma solo una volta che si sarà convinto della sua bontà, se cercate un classico andate invece a colpo sicuro, troverete di tutto e di più, nelle varie collane e per tutte le tasche. Non si fa in quattro per l’editoria locale, probabilmente non coglie, tra le pagine dei libri prodotti in città, quell’ Odore indispensabile che gli consenta di entrarne in sintonia. Conosco Enzo da decenni ma fino ad oggi ho avuto con lui solo frequentazioni di tipo professionale, influenzate dagli alti e bassi della sua imprevedibile disponibilità; ai tempi di Via della Zecca, Enzo è stato di grande aiuto alla crescita della mia casa editrice mettendo a disposizione, gratuitamente, la sala conferenze per la presentazione dei miei primi libri. Il suo trasferimento nella nuova sede è coinciso con la fase di sviluppo della Città del sole ed i nostri rapporti sono stati condizionati inevitabilmente dai reciproci e sempre più assillanti impegni. Di recente ci siamo ritrovati per un Incontro in libreria con una mia autrice, ed Enzo mi ha fatto dono di un libro dall’intrigante titolo “L’odore dei libri” scritto ed edito da lui stesso con il raffinato marchio “Culture”. Leggerlo è stato un piacevole modo di trascorrere un uggioso pomeriggio domenicale dello scorso inverno ed il risultato è la conferma della straordinarietà del personaggio-libraio Enzo e del suo alter ego Elio, protagonista del racconto.
“Ogni mattina, appena apriva la libreria, Elio s’inchinava perché voleva salutare tutti i grandi maestri e, facendo il giro dei vari settori, nello stesso tempo controllava che tutto fosse sistemato. Ecco, infatti, che nella Filosofia un libro di Platone era stato inserito nella lettera P dei moderni. Così, rimettendolo nello scaffale giusto, Elio disse: ‘Buongiorno maestro! Li perdoni, non sanno che c’è un solo bene, il sapere! E un solo male, l’ignoranza!’ La signora delle pulizie, che ormai aveva capito che Elio normale non era, con la scopa gli fece intendere che ora doveva uscire. Lui allora accese Mozart e si mise con la panchina fuori…”. Questo è praticamente l’esilarante avvio del libro se si escludono le due paginette iniziali che riguardano il sogno di Elio e che, francamente, non assolvono il classico ruolo che dovrebbe avere un incipit che si rispetti (quello di intrigare il lettore) perché risultano confuse e incerte nell’intreccio e nello svolgimento. Sembra quasi di vederlo Enzo/Elio mentre s’inchina a rendere omaggio ai suoi amati classici, i suoi feticistici riti di apertura ricordano molto da vicino quelli del sottoscritto, quando ha la fortuna di arrivare la mattina in sede prima dei collaboratori e si abbandona a rituali molto simili, incurante del fatto che una cara amica li bolli come disturbi compulsivi. Proseguendo nella lettura il libro si rivela suggestivo e si dispiega in un’atmosfera surreale ed onirica. Un delirio colto, a tratti estremamente colto, un grido di dolore per la tragedia della condizione umana e professionale che trova nella lettura, nel sogno e nella filosofia, rifugio e catarsi. Una possibile via di fuga la indica uno dei personaggi più caratterizzati, il Professore poeta-drammaturgo, chiosando: “La letteraturizzazione della vita sarà la possibile terapia per sottrarsi alla vita veramente orrida”. E qui viene automatico il richiamo al grande Svevo che sosteneva la necessità che la vita si trasformi in letteratura, solo la vita non raccontata, infatti, viene considerata morta. Attraverso la letteraturizzazione ci si può sottrarre dalla vita vera e dalla realtà e rileggendo la vita raccontata possiamo invece far emergere gli eventi del passato. Secondo il pensiero di Svevo ogni persona deve “raccontare” se stessa, solo in questo modo la vita in ogni uomo acquisterà un senso. E a proposito dei protagonisti del libro, si rivela veramente un esercizio gustoso il cercare di riconoscere le figure reali che si nascondono dietro; d’altronde, chiunque sia mai passato dalla libreria Culture non faticherà ad associare i nomi corrispondenti a personaggi quali: il prof. Z, il filosofo-giornalista Gianni, il maestro-scultore (che si ritiene l’unica incarnazione di Michelangelo e non sopporta che altri presunti artisti trovino spazio in libreria), il Sognatore (che ama sentenziare: “Ciò che in letteratura è sublime, nella vita reale è nevrosi. Quindi non ci rimane che essere indifferenti senza cinismo e appassionati senza entusiasmo”), la Poetessa, Riccardo Meis segretario comunale in pensione, il Magistrato Santini Giustizia, il Direttore che esautora e sostituisce Elio/Enzo cercando di normalizzare la libreria che definisce “rifugio per esaltati”, il Professore poeta-drammaturgo dalla voce imperiosa e possente, il Professor psichiatra Savio Gentile. Altro esercizio gustoso, ma culturalmente molto impegnativo, è risalire alle letture che originano le innumerevoli suggestioni letterarie di cui il libro è letteralmente infarcito. Straordinario il carosello delle metamorfosi che generano l’insetto-scultore, e dei deliri più o meno onirici del Sognatore; vera e propria chicca finale l’inserimento (come non ricordare il mitico Lupo della steppa di Hesse?) del racconto scritto dal libraio Elio nel periodo della scomparsa, intitolato Secoli di Passione, introdotto da una prefazione stralunata del magistrato Santini Giustizia. Qui si parla di un Folletto che, arrivato per salvare il mondo dalla decadenza morale, fonda un circolo chiamato Il Circolo dei Disadattati che serve a “raggruppare le poche persone che si riconoscono nella profondità delle cose”. Il Folletto ci mette poco a rendersi conto che gli uomini illuminati sono merce rara e lo capisce dallo scarso interesse che dimostrano verso i classici della letteratura, gli uomini infatti rivolgono il loro interesse “ai libri moderni”; il Folletto non si da per vinto anzi alza la posta e, con i primi adepti del Circolo, fonda La Repubblica degli uomini. Uno dei primi iscritti, il giovane filosofo marxista, capisce che il Folletto è uno scienziato e lo convince a tentare degli esperimenti: intervenire sugli animali facendoli diventare uomini e viceversa. L’esperimento fallisce perché gli animali appena diventati uomini ne pretendono i diritti e gli uomini diventati animali non riescono a sopprimere l’istinto di divorare i propri figli. Per fortuna interviene un altro personaggio, il professore partigiano, che propone un grande convegno pubblico per diffondere il verbo de La necessità dell’uguaglianza fra gli uomini. Ognuno interviene per dire la sua e si parla di omologazione, fratellanza e amore universale, ma il problema è che pochi si rendono conto che l’amore di cui parla il Folletto è quello verso i libri e lui, per rendere più chiaro il suo pensiero, intensifica le manifestazioni e le conferenze approfittando della sala offerta gratuitamente dal direttore di una libreria. Il numero degli iscritti al Circolo comincia ad aumentare ed il Folletto, dopo aver subìto una scomunica dalla Chiesa, decide di diventare più diplomatico. Nel frattempo, però, il direttore della libreria scompare ed il nuovo proprietario, dopo aver trasformato la libreria in un supermercato del libro, chiede una cifra sproporzionata per ospitare le conferenze. Gli sforzi degli amici per trovare il libraio scomparso si rivelano vani mentre il Folletto prosegue nella sua attività di proselitismo. Alla fine di una conferenza clou, nella quale le più disparate opinioni si confrontano, il Folletto decide che è arrivato il momento di fare vedere agli amici la struttura ospedaliera dove opera con la sua équipe. La struttura ha il compito di favorire una metamorfosi positiva dei malati gravi, i cosiddetti vermi accademici rifatti, appagati, artificiosi, chiacchieroni, forbiti, meschini ed equilibristi, facendoli diventare colombe, simbolo della pace e della purezza. A questo punto la compattezza del Circolo si sfalda, i filosofi infatti sostengono che non si può interferire nell’ordine della cose, c’è chi propugna il ritorno alla vita in campagna ma anche questo si rivela una delusione: i gentiluomini di campagna si sono liberati delle biblioteche dei nonni…Ma il Folletto non finisce di stupire i suoi amici e li porta a visitare una megastruttura, frutto del risultato della sua opera, “essa era costituita da più piani, in ognuno dei quali erano specie diverse, accomunate da un unico intento: essere un punto di riferimento per le generazioni future attraverso la scrittura. Essi infatti dovevano creare opere in grado di trasmettere valori e ideali persi dall’uomo. Nei piani superiori, un’èlite di animali critici doveva valutare se questi testi esprimevano sentimenti onesti e non costruiti, profondi e non superficiali, umani e non animaleschi….questo luogo era una casa editrice animale, la quale doveva servire proprio per risvegliare l’istinto culturale perso da due secoli. I libri che venivano stampati andavano in giro per il mondo su navi a forma di librerie…”. Siamo alla fine del libro ed ecco riapparire, con una magia circolare (omaggio a “Il girotondo” di Schnitzler ed alla sua critica all’impossibilità umana di amare…, nel nostro caso, i libri?), il nostro libraio Elio. Torna Elio/Enzo ma solo per prendere atto che per lui, “che aveva una libreria di scaffali pieni di classici ma poche novità, non c’era motivo d’esistere più.” Chiude così Enzo Caccamo la sua cavalcata letteraria originale, brillante e, direi, inaspettata; una vera chicca intrigante e divertente che, con qualche necessario intervento di editing, può diventare un vero oggetto di culto. Mentre andiamo in stampa apprendiamo che “L’odore dei libri” ha ricevuto il premio speciale della giuria del Premio Palmi, complimenti ad Enzo e complimenti alla Giuria del Premio Palmi per il coraggio, assolutamente controcorrente, di premiare un libro edito da un editore-libraio indipendente, colto e ostinato sognatore.
Franco Arcidiaco

UN'ALTRA ESTATE DA DIMENTICARE

Radio due, trasmissione “Il cammello del mattino”, venerdì 10 luglio, la conduttrice Isabella Eleodori apre l’argomento “vacanze” ed elenca le mete preferite dagli italiani, secondo il solito sondaggio che ogni speaker radiofonico che si rispetti ha sempre a portata di microfono. Sciorina i nomi delle regioni italiane a vocazione turistica, esclusa la Calabria, istintivamente mi dolgo di non avere il mio mac a portata di mano per riempirla di male parole; ma come: con le centinaia di milioni investiti dalla giunta Loiero per promuovere il turismo nella nostra regione, è possibile che gli italiani non si sentano attratti dalle nostre bellezze? Il mio orgoglio di calabrese è ferito e m’impedisce, nell’immediatezza dell’offesa subita, di valutare oggettivamente la situazione. Mi trovo al mare, sulle coste del basso Jonio reggino, salgo in macchina per recarmi al lavoro in città e mi guardo attorno: bidoni della spazzatura semidistrutti traboccano di sacchetti maleodoranti, la strada piena di buche è attraversata da liquami sospetti, la spiaggia è invasa da relitti e detriti ricordo della grande mareggiata di gennaio, i proprietari dei lidi sono ancora al lavoro (il 10 luglio!!!) per montare le strutture, scheletri di enormi fabbricati non finiti ornano il lungomare, smarrito rivolgo lo sguardo speranzoso al mare azzurro, ma la schiuma che orla la risacca rivela subito la sua vera nauseante natura. Apro la radio, la trasmissione sta per finire, Isabella saluta gli ascoltatori ed io rimango con il dubbio se in fondo, escludendo la Calabria dalle mete turistiche, non abbia finito col renderci un gran favore. Che senso ha, infatti, attrarre i turisti sulle nostre coste, se poi abbiamo da offrire solo mare sporco, degrado, inciviltà e disorganizzazione? I lettori del nostro giornale, sfoderando il famoso orgoglio calabrese di cui sopra, lì per lì penseranno che magari il problema riguardi principalmente la provincia reggina; non ho alcuna difficoltà ad ammettere che quel territorio ha raggiunto un livello di degrado ormai irrecuperabile, ma conosco bene le condizioni in cui versa il resto della Calabria che non si differenziano di molto, con buona pace dei nostri politici che, minimizzando il problema, continuano a parlare di sviluppo turistico. Ma di cosa stiamo parlando? Ma quale turismo vogliamo attrarre con un territorio disseminato di ecomostri che sono la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio? E dietro questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà a recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti e in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento deturpa l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Ed allora tiriamolo pure fuori l’orgoglio, ma rendiamoci conto che le sue ferite non sono causate dai giudizi, sia pur impietosi, di chi ci osserva; alla base ci sono i comportamenti dei cittadini incivili e dei politici incapaci e/o corrotti e solo estirpando questo male potremo guarire le nostre ferite e andare fieri del nostro orgoglio, che solo allora sarà ben riposto.
Franco Arcidiaco

TOLLERANZA ZERO PER TORNARE ALLA LEGALITA’

Il problema della legalità in Calabria, e nel resto del Meridione, è strettamente correlato a quello del tasso di educazione civica della cittadinanza. E’ inutile girare attorno al problema: la stragrande maggioranza della popolazione meridionale non è assolutamente incline a rispettare le più elementari regole del vivere civile. Mettetevi in macchina o in treno da Roma in direzione Sud e guardatevi attorno: il paesaggio è completamente devastato; discariche abusive ad ogni angolo, ecomostri lungo le coste e sulle colline, facciate dei palazzi grigie e degradate, terrazze con i ferri arrugginiti che aspettano con pazienza la costruzione dell’ennesimo piano naturalmente abusivo, erbacce e vegetazione incolta come unico esempio di verde pubblico, automobili posteggiate in modo selvaggio, isole pedonali e piste ciclabili inesistenti e barriere architettoniche insormontabile incubo per i disabili. E’ evidente che questo stato di cose è il terreno di coltura ideale per il proliferare delle attività della criminalità organizzata; i brillanti successi degli investigatori, che sempre più frequentemente arricchiscono il loro palmarés con l’arresto di pericolosi latitanti, servono a ben poco se non vanno di pari passo con la lotta per l’affermazione della legalità quotidiana sul nostro territorio. Quando, un paio di decenni fa, l’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani decise di rendere vivibile e sicura la metropoli, in brevissimo tempo, attuando la famosa politica della “tolleranza zero”, riuscì brillantemente in quella che sembrava una missione impossibile.
Questa politica deriva dalla cosiddetta teoria “Delle finestre rotte” formulata nel 1982 dai criminologi James Q. Wilson e George Kelling, che prevede che se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre e a vivere in un ambiente devastato senza reagire: riparando la finestra ci si abitua al rispetto della legalità. Ecco oggi il meridione, e la nostra Calabria in particolar modo, hanno bisogno di una politica che abbia il coraggio di attuare la “tolleranza zero”, mettendo da parte quella pruderie di matrice liberal- cattolica che tanti danni ha provocato al nostro Paese nel dopoguerra. Nella nostra Regione tutte le notti vengono bruciate in media cinque autovetture; considerato che sono senz’altro da escludere fenomeni di autocombustione, significa che ormai in Calabria vengono risolte con questo simpatico ed innovativo sistema le piccole controversie della vita quotidiana; di questi duemila attentati incendiari annui, nessuno si preoccupa di venirne mai a capo, nessuno si rende conto che costituiscono la chiave di lettura socio-antropologica della realtà calabrese. E’ evidente, inoltre, che il ripristino della legalità deve passare obbligatoriamente, oltre che dall’apparato repressivo, dal lavoro educativo della famiglia e della scuola; ma qui entra in gioco l’altro grave problema che riguarda la preparazione e la sensibilità sull’argomento di genitori ed insegnanti; se un ragazzino vede i genitori buttare le carte dal finestrino della macchina e non sente parlare in casa della raccolta differenziata, non potrà mai diventare un buon cittadino; se la scuola non si fornisce degli strumenti per surrogare e/o integrare il ruolo della famiglia nell’educazione delle giovani generazioni e se i Comuni non si decidono ad attuare l’opportuna vigilanza sulle normali regole del vivere civile (dal parcheggio alla costruzione abusiva), il sistema della legalità quotidiana non si metterà mai in moto e la Calabria precipiterà, in modo sempre più irreversibile, in quel degrado che già oggi la contraddistingue drammaticamente dalle altre regioni d’Italia.
Franco Arcidiaco

LEGGI AD HOC PER COMBATTERE IL RACKET

La notizia che Pino Masciari, l’imprenditore calabrese divenuto testimone di giustizia dopo aver denunciato i suoi persecutori, è stato costretto a ricorrere allo sciopero della fame per ottenere dallo Stato la ripresa del programma di protezione (il cui diritto, peraltro gli è stato riconosciuto anche dal Tar del Lazio), ha riacceso drammaticamente i riflettori sulla gravità delle condizioni dell’imprenditoria calabrese. Come se non bastassero, infatti, i problemi contingenti legati alla crisi economica, gli imprenditori devono fare i conti con una criminalità sempre più agguerrita e famelica. Il problema delle estorsioni, e solo per certi aspetti quello dell’usura, non è stato mai focalizzato nella sua vera essenza; gli esperti continuano a fornire i dati sempre più iperbolici del fatturato criminale, parlano di un potere mafioso sempre più ricco e solido costruito sul traffico della droga, sugli investimenti nell’edilizia, sulla Grande Distribuzione e sulle operazioni finanziarie, ma nessuno spiega quale motivo abbia questo potere a mantenere in piedi il sistema, che appare ormai arcaico, della mazzetta. La mazzetta (o pizzo che dir si voglia) è il sistema che utilizzano i delinquenti per far fronte alle spese derivanti dagli attacchi della giustizia; ogni commerciante sa che, al primo approccio, gli estorsori parlano di esigenze legate al mantenimento delle famiglie dei carcerati e del far fronte alle spese legali. La situazione ormai è talmente incancrenita e ramificata, da non renderne possibile la risoluzione con le leggi tradizionali; il fenomeno criminalità organizzata richiede una legislazione specifica, che non abbia il timore di prevedere una netta limitazione delle garanzie costituzionali (incluse quelle riguardanti il diritto alla difesa) per tutti coloro che abbiano subito una condanna, anche di un solo grado di giudizio, per associazione mafiosa; via, pertanto, patteggiamenti, riti abbreviati con conseguenti sconti di pena e soprattutto grandi penalisti di fiducia; un avvocato d’ufficio, magari estratto a sorte dall’albo, basta e avanza per gente che non ha alcuna esitazione ad aggredire la società civile ed a rovinare la vita di cittadini e imprenditori.
Franco Arcidiaco

RIPARTIRE DALL’AMBIENTE RITROVANDO IL GUSTO DEL BELLO

Non vi nascondo che andare in giro per le strade della Calabria mi provoca sempre una pena indicibile. Il territorio disseminato di ecomostri è la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio. E dietro tutto questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ stato calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà alla Calabria per recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti ed in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento ricopre e minaccia l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Torrente Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Questa tragica situazione contrasta con il trionfalismo dei vari assessori regionali competenti per materia che, negando la più elementare evidenza, non si rassegnano ad ammettere che quattro anni fa hanno preso in consegna una Regione dal territorio pesantemente devastato e tra un anno, alla fine della legislatura, ce la riconsegneranno, né più né meno, che nelle stesse condizioni. In tutto questo sfacelo non si potrà mai affrontare seriamente un discorso di sviluppo turistico senza prima avere avviato una seria, determinata e risolutiva politica ambientale. Quello che ci ostiniamo a non capire, e su questo voglio sollecitare gli amici ambientalisti, è che la nostra regione è assolutamente la più disastrata tra tutte le pur disastrate regione del Sud, e questo per un semplice motivo che è sotto gli occhi di tutti: IL PAESAGGIO DEVASTATO. Le miriadi di costruzioni non finite che sorgono dappertutto e deturpano coste e colline hanno irrimediabilmente frantumato il sogno dello sviluppo turistico. Ma chi volete che venga ad impiantare un Club Mediterranée, un Valtur, un Hilton od uno Sheraton nel bel mezzo di quelle bidonville alla cui stregua abbiamo ridotto le nostre città ed i nostri paesi? Vogliamo capire una volta per tutte che, come disse con lungimiranza anni addietro il giudice Roberto Pennisi, la ‘ndrangheta infettando di illegalità tutti gli strati della società ha fatto sì che i cittadini, vivendo in un contesto ambientale disastrato, perdessero definitivamente il senso del vivere civile? Monsignor GianCarlo Bregantini, che ha capito la nostra terra molto meglio di quanto non l’abbiano capita tutti i nostri politici messi assieme, ha scritto: “Il gusto del bello è la migliore forma di antimafia”. Ecco, noi il gusto del bello l’abbiamo definitivamente perduto, quindi le nostre speranze di sviluppo, almeno in direzione turistica, sono eguali a zero! L’estate scorsa si è tenuto a Copanello un convegno dei giovani industriali italiani, il tema era: “La bellezza salverà il Mezzogiorno?”. Il presidente dei Giovani industriali calabresi, l’editore Florindo Rubbettino è stato chiaro e diretto: “Nessuna società che si rispetti può rinunciare alla bellezza. Le nostre città tendono a diventare sempre più brutte. La politica non solo deve preservare, ma anche cercare il bello, educare al bello”; dello stesso avviso l’economista Massimo Lo Cicero: “Nel Mezzogiorno la bellezza è sciupata prima di essere colta” per finire con Santo Versace secondo cui: “Quello che ci manca è la bellezza della legalità”. Ed allora di cosa vogliamo parlare? Di vocazione turistica? Con questi presupposti lo sviluppo turistico rimarrà una mera illusione. Ci vorrebbe una rivoluzione, ma il tempo delle rivoluzioni, si sa, è definitivamente tramontato.
Franco Arcidiaco

IL FUTURO E' NELLE VOSTRE MANI

“Ho aspettato questo momento da molto tempo perchè il mio viaggio fin qui, improbabile all’inizio e a cui nessuno dava chance, è andato avanti grazie a voi, giovani di tutt’America”
“Voi mi avete dato la spinta ad andare avanti per costruire un mondo così come lo immaginate, un mondo diverso, che dove c’è guerra immagina pace, dove c’è fame immagina gente che possa sfamarsi, dove c’è malattia un sistema sanitario a disposizione di tutti. Il futuro è nelle vostre mani”
“Io vi prometto che l’America sarà più forte e voi farete in modo che ciò accada.”
Questo numero del nostro giornale dedicato ai giovani, non poteva assolutamente ignorare quello che è stato certamente l’avvenimento storico più significativo della nostra era; l’elezione di Barack Obama è stato probabilmente l’unico grande sogno realizzato del XX secolo, e se questo sogno, il grande sogno di Martin Luther King (“I have a dream”), si è realizzato, gran parte del merito va attribuito al determinante apporto del voto dei giovani.
Il riconoscimento del neo presidente è arrivato puntuale a Washington il 20 gennaio 2009, durante lo “Youth Inaugural Ball”, con le parole che abbiamo riportato all’inizio.
In Italia purtroppo, fino ad oggi, la politica non è riuscita ad inviare ai giovani il segnale giusto, sin dagli anni ottanta si è assistito ad un rapido "riflusso", che ha portato all’allontanamento dei giovani dalla politica, dopo l’infuocata stagione degli anni ‘60 e ‘70. L’attenzione si è spostata sulla vita privata: studiare, lavorare, far carriera. Motivo principale d’insofferenza è stata la lentezza dei tempi della politica. Ad ogni elezione è via via aumentato il numero degli astenuti, e la distanza tra giovani e politica continua a crescere ancora oggi in modo inarrestabile.
Si nota un accentuato disagio tra i giovani, causato dalla mancanza di una classe politica dirigente capace ed affidabile. Le istituzioni appaiono ai giovani distanti ed incapaci di soddisfare le loro esigenze, e ciò li porta ad adottare un atteggiamento distaccato nei confronti della vita politica quotidiana. I giovani sembrano non avere fiducia nella politica e nelle istituzioni, hanno rinunciato a credere negli ideali che hanno accompagnato le generazioni precedenti, si sono ormai abituati a vedere la politica come un’entità che non appartiene loro e che va osservata a distanza. La politica giovanile è praticamente inesistente, e i pochi giovani che hanno degli ideali politici non vengono incoraggiati a portare avanti le proprie idee.
Le promesse non mantenute, gli scandali, l’opportunismo, i giochi di potere, sono le ragioni che provocano lo scetticismo tra le nuove generazioni che sono diventate il soggetto escluso dalla politica. E’ necessario, invece, un tipo d’educazione completamente diverso, che abitui i giovani, fin dall’infanzia, a porsi in relazione con gli altri. Questo è certamente un primo passo per far comprendere, in seguito, l’importanza della politica come strumento di aiuto alla collettività. Non è più concepibile che politica e società debbano star lontani. C’è oggi un bisogno impellente di realizzare una sintonia nuova tra il Paese e la politica. Una sintonia che chiede alla politica la ricerca di sobrietà e spirito di servizio.
Da qui anche la necessità della riduzione reale dei costi della politica, che appaiono spesso come frutto di privilegi ingiustificati, e di una profonda riforma della politica che accompagni quella delle istituzioni. In Calabria il rischio che i giovani abbiano una percezione negativa della politica è purtroppo più concreto che altrove, se ne verrà fuori solo quando i signori dei partiti decideranno che è giunto il tempo di aprire veramente le liste elettorali a nuove leve che abbiano come caratteristica professionalità, preparazione ed entusiasmo. Solo così si potrà realizzare il miracolo che siano i giovani a cambiare la politica, e non la politica a cambiare i giovani.
Franco Arcidiaco

CAMBIARE LA POLITICA PER CAMBIARE LA CALABRIA

La grande stagione di riforme che sembra essere alle porte, è l’ultimo autobus a disposizione per la nostra regione. Certo, la legislatura che sta per arrivare al capolinea, partita non dimentichiamolo nel tragico segno dell’omicidio Fortugno, non é stata sicuramente peggiore delle precedenti, ma non è riuscita comunque a dare un segnale chiaro di inversione di tendenza. Le prove che ha dovuto affrontare il governo Loiero avrebbero fatto tremare le vene ai polsi anche al mitico Sansone, ha fatto anche la sua parte un rigido e inclemente inverno come non si vedeva da anni a queste latitudini. Un inverno nevoso e fortemente piovoso, senza dubbio, ma il territorio è smottato a valle perché era già ampiamente dissestato e franoso, oltre che sismico. “Uno sfasciume pendulo sul mare”, così il grande meridionalista Giustino Fortunato definiva la Calabria un secolo fa. Purtroppo poco o nulla è cambiato da allora. Anzi peggio perché il cemento, per lo più abusivo, ha investito montagne e colline dissestandole fino alla costa, irriconoscibile ed esposta a diffuse erosioni. Nel 2006 si segnalavano in Calabria oltre 9.400 movimenti franosi, estesi per 822 Kmq. Quando le poche arterie strategiche sono bloccate dalle frane tutta la regione si ferma. Il paesaggio devastato è diventato il tragico segno distintivo della nostra regione, altro che vocazione turistica, altro che Oliviero Toscani, altro che Rino Gattuso! Non parliamo poi della questione morale, il Consiglio regionale della Calabria registra un numero di parlamentari inquisiti che non ha eguali in alcuna democrazia moderna e tutto il marciume affaristico gira attorno ai palazzi regionali attratto dal profumo dei lauti finanziamenti europei. Riusciranno le riforme, federalismo in primis, a segnare un’inversione di tendenza? Permettetemi di nutrire qualche dubbio, si tratta certamente della questione centrale senza la cui risoluzione non si potrà mai giungere al riscatto della Calabria. Lo diceva bene il grande Enrico Berlinguer, vera vox clamantis in deserto della politica italiana: «La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.» Lo dicevamo nel numero scorso, ma vale la pena ripetersi, il futuro è nelle mani dei giovani; la grande, efficace arma che la democrazia mette a loro disposizione è quella del voto, ma è necessario imparare ad usarla e soprattutto aver voglia di usarla. Rinnovare il personale politico è l’imperativo categorico, una nuova leva di politici giovani, preparati e onesti, deve prendere in mano le redini del potere e trascinare la Calabria fuori dal tunnel, spazzando via definitivamente la classe politica incapace e corrotta che ha governato fino ad oggi. Utopistico? Forse, ma, a pensarci bene, è stato proprio il tramonto dell’utopia la causa del progressivo degrado che ha segnato l’ultimo ventennio. Anche l’utopia è roba da giovani e un grande entusiasmo, unito a un pizzico di incoscienza, è l’ingrediente indispensabile per farne maturare i benefici effetti. La Calabria più di ogni altro posto “non è un paese per vecchi”, ma non nel senso del bellissimo film dei fratelli Coen, bensì in direzione di un indispensabile ed assolutamente necessario bisogno di rinnovamento.
Franco Arcidiaco

domenica 8 marzo 2009

UN FUTURO SOTTO IL PONTE?

L’ultima balla di Berlusconi & C. prefigura per reggini e messinesi un futuro da barboni, centinaia di migliaia di persone costrette a passare il resto della propria vita sotto un ponte; con la prospettiva, come ha autorevolmente ammonito il geologo del CNR Mario Tozzi, di godere della meravigliosa struttura (sicuramente antisismica) dall’interno di due immense aree cimiteriali (tali sono destinate a diventare Reggio e Messina senza un seria programmazione antisismica).
Ponte o case antisisma? La domanda non è peregrina se rivolta agli amministratori di due città che hanno sicuramente problemi più urgenti. Non è necessario essere dei grandi strateghi per capire che il rapporto costi-benefici è largamente sfavorevole e che il ponte potrebbe essere deleterio in caso di sisma, anche in considerazione del fatto che si distoglierebbero fondi ingenti per la sua costruzione e ciò costituirebbe una grave colpa in caso di catastrofi naturali. A ciò si aggiunga la preoccupazione per l'ambiente, che è il capitale più prezioso e deperibile del nostro Paese: nessuna valutazione d’impatto ambientale è stata allegata al progetto (i progettisti ne hanno presentata una ma poi l´hanno ritirata a causa della sua inadeguatezza). Tralasciando l'aspetto economico (su cui molti hanno già scritto mettendo in luce che l'opera non sarà mai in grado di remunerare il capitale investito) e quello politico (la schiacciante maggioranza di cui dispone Berlusconi si traduce, inevitabilmente, in consenso verso il Ponte), da un punto di vista geologico i dubbi sono parecchi. Alcuni geologi temono che il rischio di costruire una struttura del genere nella zona a più elevata sismicità del Mediterraneo sia sufficientemente alto. Reggerà al terremoto prossimo venturo un ponte che è stato commisurato a magnitudo 7,1 Richter sulla base del sisma di Messina e Reggio del 1908, visto che - non essendoci al tempo rilevamenti strumentali adatti - si può trattare di una stima approssimativa e che, quindi, quello futuro potrebbe essere di magnitudo più elevata? Va inoltre ricordato che il ponte risulta efficacemente difeso da un terremoto 7,1 Richter solo una volta interamente realizzato: nulla è assicurato per le fasi costruttive, durante le quali le strutture sarebbero assolutamente vulnerabili. Ma a cosa servirebbe un ponte che rimane in piedi se il terremoto è veramente "solo" 7,1 Richter? Invece di unire due future aree cimiteriali non sarebbe meglio spendere prima quelli e altri fondi (pubblici e privati, occupazione e profitti, sarebbero comparabili) nella ristrutturazione di città che hanno solo il 20 per cento di costruzioni antisismiche? La Sicilia nord-orientale e la Calabria meridionale sono notoriamente le regioni a più alto rischio dell'intero Mediterraneo.
Ma prima di scampare al prossimo terremoto, il ponte va costruito e per farlo bisogna prima di tutto impiantare, a oltre 50 metri di profondità, due piloni alti quasi 400 metri (più dell'Empire State Building) per un totale di oltre 500.000 metri cubi di cemento. Per fabbricare tutto quel cemento è necessario l'approvvigionamento di calcari, ciò significa aprire decine di nuove cave nell'area dello stretto con sfregio ambientale irreversibile di colline e versanti, fino allo stravolgimento vero e proprio del rilievo esistente. Nello scavare le due fosse si tirerebbero fuori oltre 8 milioni di metri cubi di terra, sabbia, ghiaia e detriti rocciosi che andrebbero comunque trattati. Lo scavo altererebbe completamente ogni equilibrio idrogeologico delle aree di appoggio, ivi compreso il prosciugamento del lago Ganzirri (nel Messinese) e la Costa Viola (nel Reggino), aree già normalmente interessate da frane. In questi casi è lecito domandarsi se la messa in sicurezza (naturalistica) del territorio non dovrebbe venire prima della costruzione di qualsiasi opera.
Ci sono infine i dati geodinamici recentemente messi in luce dall' ENEA (ma da altri contestati), che indicano un allontanamento tra le sponde di un centimetro all´anno e un sollevamento verticale differenziale della costa calabrese rispetto a quella sicula: problemi che, come minimo, comporteranno un incremento di spesa.
Insomma, non esiste oggi una persona di buon senso e in buona fede (non parliamo evidentemente di Ciucci, nomen omen…) che possa ancora credere alla favoletta del Ponte, figuratevi che finanche quello che è stato per anni il coordinatore del comitato tecnico-scientifico del progetto Ponte, il prof. Remo Calzona ha finito con l’esprimere di recente grandissimi dubbi sulla costruibilità. Ma se ancora dovesse esservi rimasto qualche dubbio, cari amici strilloni, eccovi la ciliegina sulla torta, sotto forma di ingenua domanda: ma, prima di costruire, non bisogna espropriare le aree interessate? Bene, ascoltate in proposito cosa dice il prof. Alberto Ziparo, nostro concittadino docente dell’Università di Firenze e coordinatore degli studi sull’impatto ambientale del Ponte sullo Stretto: “ Gli espropri di cui si parla nella delibera con cui il CIPE ha dato il via libera al manufatto, non riguardano le opere del Ponte ma interventi, definiti collaterali, che in realtà interessano opere di sistemazione stradale e ferroviaria nei comuni di Villa San Giovanni e Messina, già decise e da realizzare a prescindere dal Ponte. Gli espropri delle strutture relative al manufatto, infatti, non possono essere eseguiti prima dell’approvazione del progetto definitivo.”
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma chi credono di prendere in giro? Ma lo sanno che nell’area di Ganzirri e Torre Faro sorgono, oltre a migliaia di abitazioni ed esercizi commerciali, un paio di centinaia di ville megagalattiche di proprietà di tutto il notabilato messinese? E tra Villa e Cannitello, avete idea di quello che significa espropriare e traslocare centinaia di famiglie? Ma vi rendete conto che basta il minimo ricorso del proprietario di un pollaio per bloccare l’esproprio per anni? Qualcuno ricorda la vicenda dell’abbaino che ha bloccato per decenni lo sviluppo dell’aeroporto di Reggio?
E per finire, perché nessuno tira fuori quello studio commissionato un paio di anni fa dal Comune di Messina (e subito secretato), che stabiliva che un buon 50% del territorio comunale sarebbe interessato permanentemente dalla proiezione dell’ombra del manufatto rimanendo perennemente in penombra?
Ci sarebbe poi ancora da parlare dell’effettiva utilità per i pendolari reggini e messinesi, vi dico solo che, pedaggio a parte, dal centro di Reggio per raggiungere il centro di Messina ci saranno da percorrere una cinquantina di km, a meno che qualcuno non pensi di raggiungere la quota di 180 metri con una rampa unica.
Comunque, conoscendo il soggetto, non ho alcun dubbio che il Caimano a breve si rechi tra le nostre povere sponde a posare la prima pietra, stia pur certo che quel giorno saremo in tanti disposti a ritirargliela in testa!
Franco Arcidiaco

lunedì 2 marzo 2009

TUTTO A POSTO

Non so quante volte al giorno vi capita di usare questa frase, penso che sia una delle espressioni più usate nelle conversazioni tra reggini; può essere in forma interrogativa ed in questo caso diventa un saluto vero e proprio (tuttuapostucumpari?), viene usata altresì per rispondere alla classica domanda: come va? In ogni caso dalle nostre parti è quasi sempre tutto a posto. Se devo essere sincero non mi ricordo più dove volevo andare a parare con questo incipit filologico, ma in ogni caso, siccome mi sembra venuto bene, cerchiamo di andare avanti lo stesso. In realtà sono un po’ in confusione, il mio strizzacervelli ha rinunciato miseramente al suo incarico; glielo avevo conferito l’indomani della caduta del Muro di Berlino, ma già qualche mese dopo, al crollo dell’ Unione Sovietica, mi aveva, con molta onestà, dichiarato incurabile (è ‘nutili mi ti futtu i sordi, ccà non ncunchiurimu nenti…). Oggi, poiché alla politica non riesco proprio a rinunciare, mi ritrovo su una, mi dicono bizzarra, posizione stalinista-naccariana (di rito brezneviano), ne ho parlato l’altra sera a Demetrio davanti a una buona bottiglia di vino e, dopo qualche bicchiere, mi è sembrato benedire la mia tesi. Il problema è, miei cari strilloni, che trovo veramente ridicoli quelli che, dopo aver buttato il bambino assieme all’acqua sporca, pretendono ancora di aggregare la gente attorno a concetti come: antifascismo, classe operaia, lotte sindacali, rispetto dei valori costituzionali e via discorrendo. La storia della Sinistra in Italia è finita il 12 novembre 1989, quando un politico fallito e screditato di nome Achille Occhetto, dettò la cosiddetta “svolta della Bolognina” che da lì a poco avrebbe portato allo scioglimento del PCI, ovvero dell’unico partito che era uscito a testa alta dalla cosiddetta prima repubblica e, a tutti i livelli, aveva dato sempre dimostrazione di serietà, onestà, capacità di governo e fedeltà alle istituzioni. Con un colpo di spugna si azzerò non solo un partito che era arrivato al 30% di suffragi, ma si spazzò via un’intera classe politica che, da quel giorno in poi, si sarebbe dispersa tra i vari rivoli contrassegnati da sigle improbabili (Pds, Ds, Rc, Pdci) che, nemmeno messe tutte assieme, sarebbero mai riuscite ad arrivare al livello dei consensi del vecchio PCI. Oggi, per tornare al nostro incipit, tutto è a posto: i comunisti non ci sono più, il partito degli affari è al governo a tutti i livelli, la chiesa spadroneggia con un papa al cui cospetto l’ayatollah Ali Khamenei sembra un laico gaudente e Berlusconi continua a sputtanarci a livello planetario con le sue incredibili gaffes. Si ritorna a parlare di ponte sullo Stretto, nel mezzo di una crisi economica micidiale (ma nessuno parla di crisi del capitalismo…), ed anche le opere d’arte rischiano la cartolarizzazione sull’altare del rapporto deficit/Pil. Nel frattempo quel che rimane dei partitini cosiddetti comunisti continua ad accapigliarsi pateticamente su ipotesi di nuove sigle e nuovi schieramenti usando frasi trite e ritrite mutuate da un frusto bagaglio di polverosa tradizione politichese. Tutto è a posto dunque, così ha voluto il popolo italiano, così vuole il popolo reggino, salvo poi lamentarsi delle strade che franano, dei treni che non funzionano, della sanità che va in pezzi, del lavoro che manca, della criminalità dilagante; non importa nulla, cari strilloni, il vero problema era il comunismo, ora abbiamo la democrazia e il capitalismo trionfanti e tanto basta per dichiararci soddisfatti. Tanto, Berlusconi garantisce anche il diritto di lamentarci: a Palazzo Chigi governa e a Mediaset fa l’opposizione con Striscia la notizia e Le Iene, e gli italiani continuano a votarlo. Malanova o suffraggiu universali…
Franco Arcidiaco

IL GRANDE BLUFF POLITICA, CREDITO E FINANZA

Nello scorso mese di ottobre ho pubblicato alcuni articoli (su "il Manifesto" e "Carta") in cui denunciavo l'anomalia del caso italiano in merito al default del sistema bancario. Infatti, mentre tutti gli altri paesi europei scoprivano le carte e annunciavano le misure governative necessarie per impedire il crollo del sistema creditizio, il governo Berlusconi, coadiuvato dal silenzio del governatore Draghi, rassicurava gli italiani con messaggi del tipo: le nostre banche sono state più prudenti, il nostro sistema è il più solido di tutti, ecc. E così gli italiani non si sono fatti prendere dal panico, non hanno ritirato i propri risparmi dalle grandi banche, non si sono messi in fila, com’è accaduto in Inghilterra con il fallimento della Northen Rock ( poi nazionalizzata). Insomma, nell'immagine che abbiamo di noi stessi, nello specchio su cui ci fanno riflettere i mass media, ci siamo sentiti gratificati dal fatto di vivere nell'unico paese al mondo dove i grandi istituti bancari (Intesa S. Paolo, Unicredit, MpS, ecc.) sono governati da saggi manager che non hanno inseguito gli extraprofitti generati per anni dai famigerati hedge fund, ma si sono accontentati dello spread che si realizza tra acquisto -dalla BCE- e vendita al pubblico del denaro.
Niente di più falso, ma il bluff fino ad oggi ha funzionato. Grazie ad un'altra, decisiva, anomalia italiana: la privatizzazione della Banca d'Italia. Questo fatto, conosciuto solo dagli addetti ai lavori, è di una gravità inaudita. Come volete che operi il Governatore Draghi che, a parte il nome che incute timore, deve dare conto ad un consiglio di amministrazione in cui le quote di maggioranza sono in mano alle tre più importanti banche italiane? Controllori e controllati si scambiano le parti, un vizio non solo italico, ma a cui questo paese è molto affezionato.
Ma adesso che usciranno allo scoperto i bilanci del 2008, che qualcuno farà notare che negli attivi ci sono ancora montagne di crediti inesigibili e titoli spazzatura, allora che cosa succederà? Sicuramente il nostro governo non dispone dei 500 miliardi messi sul tavolo dalla Merkel per sostenere il sistema creditizio teutonico, o dei 320 miliardi che ha tirato fuori il governo Sarkozy, e neanche dei 150 miliardi di euro che Zapatero ha dovuto mettere a disposizione del sistema creditizio spagnolo.
Con il rapporto Debito/Pil più alto della UE, con un rapporto Deficit/Pil che ha già sfondato abbondantemente la soglia del 3%, l’unica cosa che può fare il governo è quella di fare l’assuntore del fallimento delle banche che falliranno. In questo modo potrà pagare i crediti con tagli del 60-70%, ridurre drasticamente il personale, senza naturalmente parlare di nazionalizzazione delle banche, fenomeno che sta investendo tutti i paesi occidentali. No, ha ragione il governo Berlusconi, in Italia nessuna nazionalizzazione di banche, solo sciacallaggio e distribuzione delle spoglie ai soliti amici del presidente “asso pigliatutto”. Di fronte a questo scenario inquietante è mancata totalmente una voce dell’opposizione, un pensiero di Sinistra, chiaro e lucido, che spiegasse ai lavoratori, ai piccoli imprenditori che ormai faticano a trovare due spiccioli di credito, quale fosse la realtà e quale fosse l’inganno. La questione del credito e della finanza è diventata una questione di primaria importanza sul piano politico. La SE dovrebbe presentare una sua posizione unitaria sul sistema del credito e della finanza, affinché si eviti di rattoppare il sistema, di drenare ricchezza monetaria ai lavoratori ed alle piccole e medie imprese, e si ripensi su altre basi la gestione sociale e politica del denaro. In Italia, poi, la questione politica più urgente, l’emergenza negata è lo scandalo della privatizzazione della Banca d’Italia. Un disastro per la gestione del risparmio di milioni di persone. Stiamo cominciando a capire che da questa Crisi Globale non si esce con la politica dei piccoli passi, con un po’ più di interventi pubblici, con qualche nazionalizzazione di banche o grandi imprese. E non basta nemmeno la sacrosanta redistribuzione del reddito nazionale, né dare un po’ più di soldi ai lavoratori ed ai pensionati, come propone Die Linke. Pur essendo necessario è insufficiente. Ci vuole un cambiamento nel modo con cui usiamo il denaro, e quindi il credito, nella gestione sociale e politica di questo strumento che da mezzo, utile all’umanità, è diventato un fine che distrugge la società.
Tonino Perna, Liberazione 25 febbraio 2009

domenica 15 febbraio 2009

GUIDO CRUCITTI "HOMO CIVICUS"

La storia di Guido Crucitti attiene alla sfera della passione civile e del senso civico come ragione di vita. Il giornalista Bruno Gemelli, nel suo bel libro “Calabria una regione normale”, con un azzeccato calembour lo definisce: Il Barbiere della sera, ed auspica che la sua produzione di migliaia di lettere al direttore “valga una tessera di pubblicista honoris causa”.
In realtà Crucitti è stato a tutti gli effetti un giornalista freelance ante litteram e per anni ha alimentato le spesso asfittiche pagine dei quotidiani e periodici locali, con le sue denunce pertinenti, puntuali e circostanziate. Per oltre un decennio, la vicenda di Guido Crucitti si è strettamente intrecciata con quella del mio giornale laltrareggio, nel quale i suoi articoli occupavano due intere pagine in una rubrica intitolata “Occhio al degrado”. Le sue buste gialle, contenenti la lettera dattiloscritta e due o tre foto a colori, apparivano misteriosamente nella buca delle lettere di primo mattino; era lui stesso che la mattina, prima di aprire bottega, faceva il giro delle redazioni cittadine per recapitare le sue denunce. Ancora oggi conserviamo in redazione due interi schedari stipati delle sue foto, preziosa e tragica testimonianza di una città che ha avuto sempre nel degrado il suo segno distintivo. Il lavoro di Guido Crucitti, duole dirlo, andava a colmare il vuoto che nelle pagine dei giornali era, ed è ancora, costituito dall’assenza della figura del reporter; di quella figura, cioè, che in special modo nel giornalismo anglosassone, aveva il compito di perlustrare la città angolo per angolo al fine di raccogliere le lamentele dei cittadini e riportarle, documentate, sulle pagine del giornale. Oggi, sappiamo bene, che le redazioni dei giornali girano attorno al famigerato desk e a un telefono cellulare; gli articoli vengono confezionati attingendo copiosamente al mare magnum di internet ed i giornalisti escono solo per seguire le conferenze stampa ed i convegni di maggior rilievo. Pensate che addirittura lo storico giornale della capitale, Il Messaggero, è arrivato a istituire una rubrica in prima pagina, alimentata esclusivamente dagli sms inviati dai lettori, denominata “Dillo al Messaggero”.
Guido Crucitti era un maestro di quella che Enrico Deaglio, nel suo “Diario”, definisce “L’inchiesta vecchio stile”: focalizzare un problema, documentarlo fotograficamente e con testimonianze, scavare le cause che lo hanno determinato, denunciarlo senza esitazione all’opinione pubblica e alle autorità. Ma lui si spingeva oltre: indicava anche le soluzioni dei problemi che, a volta, potevano anche apparire ingenue ma sortivano comunque l’effetto di attirare l’attenzione dei politici disattenti o indolenti. Sempre Bruno Gemelli, nel suo libro sopra citato, riporta un’intervista concessa da Crucitti a Il Domani il 18 giugno del 2003, nella quale racconta testualmente: “Sono diventato cittadino di questa città nel 1976 in occasione di un fatto che da banale è diventato ragione della mia vita. Un giorno ero davanti alla porta del salone quando ho notato di fronte un muro lesionato che poteva rappresentare un pericolo per i passanti. Ho commentato ad alta voce imprecando contro i responsabili di quella situazione e chiamandoli stronzi. Un signore che mi era accanto mi fece notare che eravamo tutti stronzi, dal momento che ci lamentavamo a parole senza poi fare nulla. Ho riflettuto molto e da quel momento sono diventato un cittadino che si cura delle cose che lo circondano. ...Per prima cosa ho pensato che chi vuole interessarsi della collettività deve documentarsi, conoscere, informarsi. …Se ognuno di noi facesse la sua parte… chi si cura solo del proprio orticello e ignora il sociale, quello che ci circonda, è una persona mutilata.”
La grande lezione di Guido Crucitti, vero reporter civico, sta tutta nell’incipit di questa intervista, Guido sostiene di essere diventato cittadino di questa città solo nel 1976, quando cioè ha preso coscienza del ruolo primario che la civiltà ha assegnato all’ “homo civicus”, quella di rivestire i panni di Don Chisciotte del bene comune (vien da chiedersi quanti cittadini annoveri la nostra città…)
L’"homo civicus" è l'uomo libero e impegnato nella ragionevole follia della difesa dei beni comuni, di cui parla Franco Cassano in un saggio pubblicato dalla casa editrice Dedalo. "L'homo civicus - ci dice Cassano - è un'idea più alta di responsabilità, e la sua critica non muove da banali semplificazioni, sa bene che è molto difficile costruire l'autogoverno degli uomini, ma ha deciso di provarci, di provare ad associare le persone aristocratiche ai più deboli, evitando che si facciano cooptare dai più forti. La cittadinanza è un gioco sottile e complesso, un gioco in salita, che tematizza continuamente la propria imperfezione, il più alto tra quelli prodotti dall'Occidente. Un gioco che si può custodire solo praticandolo, rinunciando a sottrarsi alla fatica che esso richiede".
Di contro, "l'homo emptor (l'uomo compratore, corruttore) è l'infrastruttura su cui oggi si regge il regno trionfante dell'individualismo radicale, del cosmopolitismo utilitarista, dei diritti senza doveri. A questo individualismo rattrappito ed eterodiretto l'homo civicus costituisce l'unica risposta non oppressiva, l'unica risposta che permette di ritrovare la comunità senza perdere la libertà. Tale risposta, infatti, non può venire dallo Stato etico, dall'imposizione autoritaria del bene comune, né dal ritorno di una comunità che rinchiude l'individuo nel muro levigato e senza sporgenze di un'identità collettiva, ma solo dall'homo civicus, che costituisce la forma più alta in cui la comunità può vivere nella società democratica".
Franco Cassano molto probabilmente non ha mai conosciuto Guido Crucitti, ma il suo “homo civicus” calza a pennello sulla figura del nostro “Barbiere della sera”.
Franco Arcidiaco

venerdì 30 gennaio 2009

CALABRIA, DEGRADO DA ROTTAMARE

Scartabellando nel mio archivio mi sono imbattuto in un articolo di Renato Nicolini sul Quotidiano del 20 marzo 2005, il titolo era quello che ho preso in prestito per questo mio intervento. Sapete bene che il tema della bellezza, unitamente a quello della lotta al degrado e al disordine edilizio, è la mia grande ossessione ed ho sempre registrato con stupore la circostanza paradossale che una delle città urbanisticamente più degradate del mondo, qual è Reggio, si trovi ad ospitare una qualificatissima università dalla quale sono passati i migliori architetti ed urbanisti d’Italia. Ma evidentemente la sapienza e la buona volontà degli studiosi nulla possono contro l’insipienza e la voracità dei politici. Vale la pena riprendere alcuni passi dell’articolo di Nicolini (si consideri che eravamo a ridosso delle regionali); dopo un ampio excursus sulla situazione della città e sulle sue aspirazioni, Nicolini entra nel merito della presunta vocazione turistica e scrive testualmente: “Soprattutto bisogna che questa offerta (turistica, ndr.) sia finalmente in armonia con la grande bellezza del luogo, con lo Stretto, con i ricordi omerici che suscita, con la visione dell’Etna. Occorre anche restituire alla città la forma che il piano De Nava le assicurava e che incontrollate crescite in altezza le hanno tolto.” E qui Nicolini affronta il tema spinoso degli espropri e delle demolizioni, proprio quell’argomento che i politici (tutti, nessuno escluso) hanno sempre evitato di affrontare, forse per il timore di sfidare l’impopolarità o di intaccare interessi mafiosi; oppure, se si vuole riconoscere la buona fede, semplicemente per l’incapacità di reperire le risorse finanziarie necessarie. Anche su questo aspetto Nicolini ha l’idea giusta: “Da tempo lavoro su un’idea, concepita assieme al mio compianto collega Piero Lo Sardo (nel 2006 è uscito per i tipi di Laruffa editore il libro “Rottamare il degrado, Calabria da rigenerare”, ndr.); quella di sperimentare un nuovo approccio contro il degrado, per rigenerare la bellezza perduta: la rottamazione. Penso a qualcosa di simile alla rottamazione per le auto. Ci sono situazioni di degrado che ormai non producono più risorse economiche neppure per il proprietario privato. La Regione può dare vita a un diverso sistema di convenienze, che si traduca nella trasformazione volontaria e concordata delle situazioni di degrado. Nella rinuncia a una cubatura, ad esempio, per ottenere una destinazione d’uso più vantaggiosa. Introducendo decisamente, nel calcolo economico dei valori, il parametro della qualità.” Sono passati da allora tre anni e mezzo, si è insediata una giunta di belle speranze che ha fatto tanto in direzione dell’impiego delle risorse europee derivanti dall’ “Obiettivo 1” con il quale sono indicate le “Regioni in ritardo di sviluppo”; tra POR, PIN, PON ed altri bizzarri acronimi è stata dispersa una cifra iperbolica, dilapidata tra i mille rivoli clientelari messi in pista dai vari partiti che ha prodotto esclusivamente arricchimenti personali senza nemmeno l’ombra di alcun intervento strutturale degno di questo nome. Sul campo, poi, della lotta al degrado, è stato registrato un grande attivismo da parte dell’assessorato regionale competente che ha prodotto un numero spropositato di convegni, supportati da svariate tonnellate di carta patinata, ma nulla di più; e non mi si venga a dire che l’idea di Nicolini e Lo Sardo non avesse i crismi della scientificità, era il classico uovo di Colombo offerto su un piatto d’argento da due intellettuali che una volta tanto avevano rinunciato al comodo rifugio della torre d’avorio. C’è ancora tempo per riaprire il discorso? Attendiamo adeguate risposte dagli addetti ai lavori.
Franco Arcidiaco

IL PAESAGGIO DEVASTATO E LE INTEMERATE DEL CARO LEADER

Non ti nascondo che andare in giro per le strade della Calabria mi provoca sempre una pena indicibile. Il territorio disseminato di ecomostri è la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio. E dietro tutto questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ stato calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà alla Calabria per recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti ed in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento ricopre e minaccia l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Torrente Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Questa tragica situazione contrasta con il borioso e tracotante trionfalismo dell’assessore regionale all’Urbanistica Michelangelo Tripodi che, negando la più elementare evidenza, non si rassegna ad ammettere che quattro anni fa ha preso in consegna una Regione dal territorio pesantemente devastato e tra un anno, alla fine della legislatura, ce la riconsegnerà, né più né meno, che nelle stesse condizioni. Certo il nostro Caro Leader ha lavorato tanto, è stato bravissimo a monitorare il territorio ed a legiferare, affidando il suo assessorato a mani professionalmente capaci e soprattutto oneste, ma alla resa dei conti è rimasta solo qualche misera demolizione ed una marea di pubblicazioni patinate (roba da editoria di regime…per intenderci), lastricate di buone intenzioni e tante promesse. L’on. Tripodi dovrebbe capire che un conto è dirigere un partito-famiglia come il suo, dove si può permettere di fare il bello e il cattivo tempo, scegliendo ministri e deputati per poi buttarli a mare non appena manifestano il minimo tentativo di iniziative autonome, un conto è maltrattare giornalisti (vedi la penosa intemerata contro Riccardo Iacona di Viva l’Italia che si era macchiato del delitto di lesa-maestà, o la replica al Quotidiano sulla vicenda di Bova Marina) e imprenditori considerati non più allineati, ponendo ridicoli e surreali veti a partecipazioni a convegni e riunioni pubbliche. Anche il valoroso compagno Michelangelo Tripodi è rimasto purtroppo vittima della scellerata “svolta della Bolognina” ed ha dimenticato che nel glorioso PCI, dal quale tutti proveniamo, le regole auree erano la severità, il rispetto, la solidarietà e l’umiltà nella gestione del Partito ed il dialogo, l’efficienza e la trasparenza nella gestione della cosa pubblica. Cosa rimanga di tutto questo nel suo partito sarà materia di discussione per gli storici, purché non pretenda di scegliere anche questi tra l’elenco dei suoi amici.
Franco Arcidiaco

TORNELLI A GO GO OVVERO: ‘NA FILERATA I TORNELLI...

Caro Quotidiano non ci puoi credere ma in Sicilia hanno risolto il problema degli sbarchi clandestini! Zitti, zitti, senza proclami in pompa magna, e senza clamori buddhacieschi a Messina, nella rada San Francesco presso gli approdi della Caronte, hanno montato una serie di tornelli elettronici che permettono di entrare in città solo a chi si è munito preventivamente di biglietto; è un’idea fantastica e sono certo che sarà estesa presto a tutto il perimetro dell’Isola alla faccia di Gheddafi e Berlusconi e dei loro accordi fasulli. Le ditte costruttrici di tornelli stanno gongolando e c’è da immaginare che i soliti noti saranno già pronti a rastrellarne le azioni con effetti benefici anche sulle Borse. Ho apprezzato anche tantissimo la politica filantropica della Società che gestisce il traghettamento sullo Stretto, pensa, caro Quotidiano, che la Caronte risponde personalmente dell’identità dei suoi passeggeri, pertanto tutti quelli che scendono dalle navi e non hanno gettato il biglietto possono usarlo per aprire i tornelli ed entrare così a Messina; ma ti rendi conto, nell’era del liberismo sfrenato una grossa Spa si fa carico di un problema sociale di queste dimensioni! Hanno pensato pure a quelli che hanno smarrito o non hanno acquistato il biglietto a Villa, affianco ai tornelli c’è una comoda biglietteria: con due Euro compri il ticket e sei a Messina, fantastico! L’unica cosa che non mi quadra, e chiedo lumi a te caro Quotidiano, che ne sai una più del diavolo, è che per tornare in Calabria bisogna di nuovo passare per i tornelli usando il biglietto; francamente non capisco, io penso che semmai i tornelli dovrebbero essere montati anche a Villa San Giovanni ed in tutto il perimetro delle coste calabresi, come mai Franza & C. non ci hanno ancora pensato? Cos’ha la Calabria meno della Sicilia? L’altra cosa che non capisco è perché dai tornelli ci debbano passare pure i pendolari dello Stretto, pensa che giovedì scorso a Messina la nave delle venti è partita con tre minuti di anticipo ignorando i poveretti che armeggiavano con i tornelli, e poi tutti quelli che non sono riusciti ad imbarcarsi hanno dovuto aspettare 40 minuti all’aperto, perché una sala d’aspetto è un lusso che evidentemente la Caronte non si può permettere; c’è stato qualcuno che ha anche pensato di ingannare il tempo passeggiando per Messina, ma un solerte impiegato gli ha detto che per passare dai tornelli bisognava comprare un altro biglietto di andata e ritorno. Mi è venuto un dubbio, caro Quotidiano, ma per caso i tornelli sono riservati ai passeggeri della Caronte? E in tal caso, è normale che una società concessionaria di un suolo demaniale, d’importanza strategica come un’area costiera, imponga delle gabelle di passaggio? Se tutto il problema consiste nel controllare il pagamento del biglietto, non credi che forse i tornelli andrebbero impiantati sulle navi? Sono francamente un po’ disorientato, aspetto pertanto che, tuo tramite, qualcuno mi chiarisca la situazione.
Franco Arcidiaco

domenica 25 gennaio 2009

TANTU SCRUSCIU PI NENTI

Grazie ad una recensione radiofonica e al periodo feriale, ho avuto la possibilità di leggere un delizioso libretto edito da Sellerio: Il manoscritto di Shakespeare, ultimo romanzo di Domenico Seminerio. La lettura è stata godibilissima, il libro (340 pagine) si legge d’un fiato, la storia è molto intrigante e plausibile. Lo stile è originale con narrazione in prima persona e tantissimi dialoghi resi in costruzione indiretta, arricchiti da un sapiente e non ossessivo (alla Camilleri, per intenderci) utilizzo di neologismi a matrice dialettale e dall’utilizzo di nomi di fantasia o espedienti bizzarri (la nuova compagna del narratore viene sempre e solo indicata come Lei e la moglie come la Prima); i nomi dei personaggi e dei luoghi sono fantasiosi e ricordano un po’ l’atmosfera di Macondo: Borgodico, Grandocchio, Guardabella, Castelgrotta sono i luoghi immaginari, dove si muovono personaggi come lo scrittore protagonista e voce narrante Agostino Elleffe (che un curioso refuso trasforma a pagina 226 in Efferre) e gli altri che rispondono ai nomi di Gregorio Perdepane, Rodrigo Pappina, Avvocato Dentifricio, don Giovannino, Angelo Pappalisca, Maresciallo Franco Sbirrone, Marialaura Pelorosso, Preside Scacciapulci; altri personaggi, non meno comprimari, vengono indicati solo con il nome di battesimo Concettina, Lina, Enzo, il tutto con una freschezza ed una scioltezza veramente mirabili. Sappiate che Seminerio, come peraltro Bufalino e Camilleri, é arrivato al successo oltrepassati i 60 anni; mi viene da pensare a quanti tesori nascondano ancora le scrivanie siciliane ed invidio gli editori che avranno la fortuna di intercettarli! Anni addietro ho partecipato a un dibattito tra editori a Roma, nell’ambito della Fiera Più libri più liberi; tra gli altri colleghi c’era un rampollo di casa Sellerio che andava sostenendo che l’enorme mole di manoscritti in arrivo presso la sua casa editrice costituiva un grosso problema, dopo aver così sapientemente pontificato andò via senza aspettare gli altri interventi; si perse la mia risposta, con l’invito a girare i manoscritti presso la sede della mia casa editrice che, contrariamente alla sua, considera gli stessi un patrimonio. Ma evidentemente si trattava di un pensiero in libertà, se ancora oggi la sua casa editrice sforna gioiellini come il libro in oggetto.
Prima di entrare nel merito della storia narrata, voglio segnalare all’autore una piccola incongruenza temporale: nelle ultime pagine del romanzo fa arrivare il Capodanno dopo l’Epifania descrivendo due incontri chiave del protagonista (vedi pagg. 309 e 318); al collega editore invece segnalo un editing non molto accurato, si sarebbe potuta evitare infatti qualche inutile ripetizione sulle rivelazioni di Perdipane (vedi pagg. 149 e 215), e la scarsa accuratezza della stampa, almeno per quanto riguarda la copia in mio possesso: alcuni trentaduesimi sono sottoesposti al limite della leggibilità, altri sono sovraesposti modello nerofumo, per non parlare delle odiose pieghe alla carta causate dal taglio a trentadue…
Veniamo ora alla storia, Domenico Seminerio, riprende e rielabora (con il grande merito quindi di divulgarla al di fuori dagli ambienti accademici) una vecchia querelle che vuole il grande William Shakespeare di origini siciliane. E’ risaputo che la biografia del Bardo è piuttosto scarna, si sa solo che era di umili origini, figlio di un macellaio elevatosi successivamente a guantaio, con una carriera studentesca che non spiega la grande cultura in materia classica, geografica e storica, che manifestano le sue opere. Il mistero permane fino a quando il prestigioso quotidiano londinese The Times in data 8 Aprile 2000 non riporta, riprendendo lo studio di alcuni coraggiosi ricercatori inglesi e del Prof. Martino Iuvara di Ispica (docente della cattedra di Letteratura Italiana a Palermo), un articolo secondo il quale William Shakespeare sarebbe nato a Messina. Secondo questa ricerca egli, infatti, sarebbe dovuto scappare dalla sua Messina alla volta di Londra a causa della Santa Inquisizione (in quel periodo Messina era sotto il giogo della dominazione spagnola) essendo i genitori di lui fervidi sostenitori e assertori del calvinismo. Arrivato in Inghilterra, nella cittadina di Stratford-Upon-Avon, avrebbe trasformato quindi il suo nome da Michelangelo Florio Crollalanza, nel suo equivalente (tradotto letteralmente Shake= Scrollare e Speare= Lancia) Shakespeare, mentre il nome William lo avrebbe derivato da un suo cugino da parte di madre, morto prematuramente a Stratford-Upon-Avon, cittadina dove già da tempo vivevano alcuni suoi parenti. Un'altra ipotesi è invece quella secondo cui il Bardo non fece altro, una volta giunto in terra britannica, che trasformare al maschile il nome e cognome della madre Guglielma Crollalanza nell'esatta traduzione inglese, ovvero: William Shakespeare. Inoltre il prof. Iuvara sostiene che i primi dubbi vennero colti proprio in Italia, nei primi anni '20, quando venne ritrovato un volume di proverbi, "I secondi frutti", scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista, tale Michelangelo Crollalanza. Molti di questi detti erano gli stessi che William Shakespeare avrebbe utilizzato successivamente ne L'Amleto.
The Times scriveva testualmente: “Il mistero di come e perché William Shakespeare sapeva così tanto dell'Italia ed ha messo tanto dell'Italia nelle sue opere è stato risolto da un accademico siciliano pensionato, la questione risiede nel fatto che non era affatto inglese, ma italiano. Le biografie del Bardo ammettono che ci sono moltissime lacune nella sua vita, ma attestano che Shakespeare era figlio di John Shakespeare e Mary Arden, che era nato a Stratford-Avon nel mese di aprile 1564, e che sia stato sepolto là nel mese di aprile del 1616. Il professor Martino Iuvara, 71 anni, un insegnante pensionato di letteratura, sostiene che Shakespeare era siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza e che fuggito a Londra a causa della Santa Inquisizione, perché appartenente al rito Calvinista, cambiò il suo nome nell'equivalente inglese. Crollalanza o Crollalancia si traduce letteralmente Shakespeare. In un'intervista al magazine Oggi , il professor Iuvara ha detto che la chiave del mistero era il 1564, l'anno in cui John Calvin è morto a Ginevra. Era l'anno in cui Michelangelo nacque a Messina da un medico, Giovanni Florio e una nobildonna chiamata Guglielma Crollalanza, entrambi seguaci di Calvino. L'inquisizione era sulle tracce del Dott. Florio a causa delle sue idee eretiche calviniste, allora la famiglia fuggì a Tresivio in Valtellina e comprò una casa denominata Cà d’Otello costruita da un mercenario veneziano chiamato Otello che, la leggenda locale diceva, anni prima, avere ucciso, per la sua mal risposta gelosia, la moglie. Michelangelo studiò a Venezia, Padova e Mantova ed viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna ed Austria. Diventò amico del filosofo Giordano Bruno, che sarebbe stato bruciato sul rogo per eresia nel 1600. Bruno, dice lo Iuvara, aveva forti collegamenti con William Herbert, Conte di Pembroke e con il Conte di Southampton. Nel 1588, a 24 anni, Michelangelo si recò in Inghilterra sotto il loro patronato. Sua madre, la Signora Crollalanza, aveva un cugino inglese a Stratford, che prese il ragazzo in casa. Il ramo di Stratford aveva già tradotto il loro cognome come Shakespeare ed aveva avuto un figlio chiamato William, che era morto prematuramente. Michelangelo, dice il professore, ha semplicemente preso questo nome per se stesso, diventando William Shakespeare.” Qui accanto troverete altri approfondimenti sulla questione, tratti dai copiosi materiali forniti da Google alla voce: “Shakespeare era siciliano.”
Nel romanzo di Seminerio questa storia viene proposta al protagonista Agostino Elleffe, affermato scrittore di provincia, da un anziano insegnante, Gregorio Perdipane, il quale un bel giorno lo va a trovare a casa con fare circospetto dando il via ad una avvincente sarabanda di situazioni e ad un groviglio di storie che si dipanano tra quadretti coloriti di vita paesana, improbabili agenti segreti inglesi piuttosto sprovveduti, capi-bastone famelici ed all’occorrenza assassini, un azzeccagarbugli dal sorriso smagliante (Avvocato Dentifricio, appunto) e dal fare melenso ed avvolgente; il tutto condito da gustosi aforismi, irresistibili duetti dal tono macchiettistico tra i personaggi, sapienti divagazioni socio-antropologiche sulla insularità e sulla sicilitudine. Quando, per esempio, descrive un’ordinaria situazione di degrado, chiosa: “E sullo sfondo quello che sembra essere una sorta di nichilismo morale in molti campi della vita sociale, che porta ad assumere atteggiamenti quotidiani mutuati dagli atteggiamenti malavitosi e una concezione del bene e del male più vicina all’utile che non all’onesto.” Ed ancora: “Mi è anche venuto il sospetto che a forza di parlare di sicilitudine, di sviscerare abitudini e comportamenti propri di noi isolani, si finirà col suggerire questi comportamenti, ottenendo l’effetto che molti smetteranno di essere siciliani e si accontenteranno di fare i siciliani, per rispondere meglio ai prototipi delineati dalla letteratura e soprattutto da cinema e televisione.” Non mancano mirabili descrizioni paesaggistiche; chiunque abbia mai avuto il piacere di percorrere la meravigliosa autostrada Catania-Palermo non potrà non emozionarsi nel leggere queste mirabili righe: “Ho attraversato tutta la Sicilia interna per giungere a Palermo. Quella Sicilia misteriosa e antica come il cielo e il mare, fatta di enormi distese di ristoppie e di calcari fratturati, di paesi che s’intravedono appena sulla cima di qualche collina, di pecore al pascolo tra ulivi stentati e agavi in bilico su costoni franosi. E poi i corvi, appollaiati in fila sulle spallette dei ponti, come note musicali su un aereo pentagramma, indifferenti al rombo dei motori e ai bolidi colorati che sfrecciano loro accanto.” Mozzafiato! E sentite ancora quando arriva a Palermo, a Monte Pellegrino: “E’ il regno della bellezza assoluta, lo strappo attraverso il quale ti sembra possibile andare al di là delle apparenze, del mondo stesso, e penetrare in una dimensione sconosciuta che ha la parvenza dell’eternità.” Il romanzo finisce in modo amaro, fra tentativi di redenzione ed ammissioni sconsolate: “Forse, come tanti, sono onesto per mancanza di occasioni e incapacità più che per precisa volontà.”
Domenico Seminerio è un maestro di artifici letterari, un funambolo del linguaggio capace di acrobatiche divagazioni al limite dell’inverosimile e creatore di pregnanti figure dal tono solo apparentemente macchiettistico che trascinano il lettore in un vortice di situazioni colorate ed intriganti.
Franco Arcidiaco

QUANDO GLI EDITORI ERANO “PURI”

E’ in libreria, edita da Avagliano, la biografia di Erich Linder, Il dio di carta, realizzata dal giornalista culturale della Rai di Milano Dario Biagi. Linder, scomparso nel 1983 all’età di 59 anni, è stato per oltre un trentennio il deus ex machina dell’editoria italiana, svolgendo il ruolo di agente letterario per conto della quasi totalità degli scrittori italiani e stranieri del secondo novecento. Un personaggio straordinario, dalla vita incredibile, che ha dominato la scena dell’editoria italiana ed anche internazionale. Con passione e competenza, Dario Biagi ha messo a disposizione di tutti gli appassionati di editoria e quindi dei bibliofili, degli intellettuali e degli operatori del settore, un libro destinato a diventare un oggetto di culto. Si tratta di una fantastica galoppata nell’affascinante mondo dell’editoria italiana del secondo dopoguerra, quando operavano in prima persona personaggi del calibro di Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli (senior, per carità…), Giangiacomo Feltrinelli, Livio Garzanti; scrive Biagi:” Gli anni Cinquanta sono ancora una fase artigianale per l’editoria italiana. Pochi grandi editori dalla straripante personalità dominano la scena e i rapporti sono ancora personali: tra agente e editore e tra editore e autore. A volte fin troppo personalizzati, Linder sintetizza efficacemente le attitudini tra il mecenatesco e il dispotico nella categoria dell’editore-Don Giovanni: ’Vuole sedurre l’autore. E quanto più quello gli resiste, tanto più si sente attratto, invogliato. Non gli importa nulla d’averlo. L’importante è sedurlo; dopo, non gliene importa più’.” Ma Linder amava gli autori più d’ogni altra cosa, al punto di arrivare anche a sostenerli economicamente quando si trovavano in difficoltà, avvenne tra gli altri con Bacchelli e con Soldati; certo, sapeva bene che uno scrittore non si può fabbricare ma teorizzava: “Quello che si può fare (lo può fare un editore, in certi casi lo posso fare anch’io) è di tirar fuori da una persona un libro che la persona ha dentro di sé e di cui non si è resa conto…”. Al sorgere degli anni ’70 Linder si rende conto che i tempi stanno cambiando, le grandi famiglie editoriali saranno destinate a una fine miserevole, fagocitate da gruppi di industriali e mercanti senza scrupoli e senza passione culturale. Lancia un monito contro la tendenza a far scomparire i libri dalle librerie in breve tempo per sostituirli con titoli nuovi, scrive acutamente Biagi: “Qui la posizione del rappresentante degli autori coincide totalmente con quella dell’uomo di cultura…La salvaguardia dell’autore non passa solo per la riscossione della giusta mercede, ma per una vita meno breve in libreria. La battaglia per i cosiddetti libri di catalogo, cioè i titoli che si continuano a vendere anche un bel po’ dopo che sono usciti, diverrà nel tempo uno dei suoi principali argomenti polemici nei confronti dell’industria culturale. Un vero grido di dolore al principio degli anni Ottanta, quando il settantacinque per cento delle vendite dei due maggiori editori italiani, Mondadori e Rizzoli, arriverà a essere costituito da novità e la permanenza dei titoli sugli scaffali si ridurrà a un mese o due in un turnover sempre più frenetico.” Linder vive con gran rammarico la tragedia che travolge la Rizzoli a metà degli anni ’70, quando gli imbelli eredi di Angelo Rizzoli sr raggirati dal direttore finanziario Bruno Tassan Din, faranno risucchiare la gloriosa azienda dal vortice criminale della vicenda P2, Ior e Banco Ambrosiano. E si capisce che altrettanto critico è nei confronti dell’operazione Mondadori-Berlusconi, tant’è vero che quando il cavaliere lo convoca ad Arcore per affidargli in Fininvest il ruolo che sarà poi di Fedele Confalonieri, Linder rifiuterà sdegnato; scrive Biagi: “Dal colloquio Linder uscirà orripilato, schifato dalla pacchiana ostentazione di lusso…”. Il suo declino fisico andrà di pari passo con il declino professionale, qualche anno prima della morte …“…guai economici, bilanci in rosso zavorrano il suo passo. Ma incide anche il disgusto crescente per il contesto, per quel marketing sempre più pervasivo, per la dimensione sempre meno umanistica del gioco, per il degrado del sistema Paese”. Il “Dio di carta” scompare e con lui scompare la figura dell’agente letterario che dirige il sistema editoriale con lo stesso piglio del direttore d’orchestra, con lui scompare, in verità era scomparso oltre un decennio prima di lui, l’editore “puro” cioè quella figura d’imprenditore che traeva i suoi proventi direttamente ed esclusivamente dall’attività editoriale (di cui vari esemplari sopravvivono solo nella fascia della piccola e media editoria), oggi le aziende editoriali sono branche di attività di grandi imprese industriali che operano in tutt’altri settori e paradigmatica è la vicenda della Mondadori che, a causa di intrecci finanziari di dubbia natura, è finita nelle mani di un personaggio come Silvio Berlusconi. Per non parlare della situazione in cui versa il fronte delle librerie, le città sono ormai infestate dai punti di vendita delle grandi catene (Mondadori, Feltrinelli, Messaggerie etc.), che trattano il libro come una scatoletta di tonno, hanno fatto scomparire dagli scaffali i libri di qualità (piccola e media editoria in primis) e sono gestite da personale la cui professionalità è lontana anni luce da quella del libraio-intellettuale che ha fatto la storia e la fortuna dell’editoria italiana; si sta inoltre diffondendo il vezzo di creare, da parte delle grandi aziende, marchi civetta che costituiscono delle vere e proprie foglie di fico per occultare la vergogna dell’allontanamento dei piccoli editori da questi supermercati del libro, sono nate tante nuove sigle che di tanto in tanto sfornano best seller preconfezionati, che sono linee minori delle major che dominano il mercato. A questo stato di cose si oppongono ancora eroicamente le centinaia di piccoli editori che, mutuando lo spirito dei grandi padri, ancora oggi producono editoria di qualità, intercettando autori di valore che, senza il loro aiuto, mai avrebbero la possibilità di veder pubblicate le loro opere; nuovi sistemi di vendita (internet sopra tutti, ma anche la vendita diretta durante le presentazioni o il “porta a porta” degli autori stessi), consentono a questa “editoria pura” di sopravvivere e proliferare mantenendo acceso il lumicino della speranza per una società che di speranze ne lascia intravedere ben poche. Se proprio vogliamo trovare un limite al bellissimo lavoro di Dario Biagi è proprio quello di dare l’impressione al lettore che con Erich Linder sia scomparsa tutta l’editoria di qualità, disconoscendo la raccolta del testimone avvenuta da parte dell’editoria cosiddetta minore.
Franco Arcidiaco
Dario Biagi, Il dio di carta vita di Erich Linder, Avagliano editore
Pagg. 204 Euro 14,50 isbn 978 88 8309 243 5

IL COMUNISMO ED IL GERME DELL’AUTODISTRUZIONE

Il grido di dolore in difesa del Comunismo, lanciato dal compagno Gioffrè sulle pagine del Quotidiano, è straziante ed accorato e non ci può lasciare indifferenti.
Egli ha analizzato lucidamente e con vena amaramente ironica le cause della disfatta ma, colto dalla sindrome della sconfitta, ha omesso di parlare dei grandi risultati che l’idea e l’azione comunista hanno prodotto a beneficio di tutta l’umanità: il riscatto delle mosse diseredate l’affermazione della dignità dei lavoratori e del principio di uguaglianza, la fine delle discriminazioni sociali di ogni tipo e dello sfruttamento come sistema.
Oggi sembrano tutti dei diritti acquisiti e sacrosanti, chiunque ne beneficia con la massima naturalezza, nessuno osa metterli in discussione e non c’è parte politica che non li includa nei propri programmi e non ne proclami la difesa.
Appena un secolo fa tutto ciò era utopia ed il Manifesto del Partito Comunista sembrava l’immaginifico delirio di un sognatore pazzo.
E’ naturale che la dirompente idea Comunista abbia suscitato una reazione di forte intensità nei poteri interessati a mantenere i loro privilegi; tale lotta è stata titanica ed ha imperversato per tutto il XX° secolo e indubbiamente ha visto la sconfitta del Comunismo, ma nessuno si è mai sognato di mettere in discussione o di considerare azzerati i risultati ottenuti dal lavoro e dall’azione dei Comunisti in tutto il mondo.
E’ questo il punto: ci siamo avviati verso il nuovo secolo forti dei successi ottenuti da una grande idea (la più grande mai prodotta da una mente umana), ma la rinneghiamo in ossequio alle nuove tendenze post-ideologiche e globalizzanti.
Le stesse tanto vituperate esperienze del cosiddetto “Socialismo reale” che hanno traghettato direttamente i Paesi in cui hanno operato dal medioevo al XX secolo, hanno dimostrato la forza dell’idea Comunista: la capacità di realizzare in meno di 50 anni quello che le grandi democrazie Europee avevano impiegato 5 secoli a raggiungere. Oggi tutti i Paesi dell’Est giunti alla cosiddetta “democrazia” rimpiangono i successi ed il prestigio che i regimi Comunisti avevano loro conferito e ad ogni tornata elettorale nonostante le provocazioni ed i condizionamenti della NATO si riafferma chiaro il desiderio delle popolazioni di riaffidare i governi alle forze comuniste.
Ed in tutto questo scenario cosa fanno i Comunisti rimasti? Continuano a praticare masochisticamente lo sport che hanno sempre preferito: autodistruggersi alimentando conflitti intestini.
La grande tragedia del Comunismo sta proprio in questo, il percorso è tracciato nettamente nel suo DNA, ogni nuovo leader deve affermarsi annientando quello che l’ha preceduto; in Unione Sovietica dalla grandezza di LENIN alla tragica incoscienza di GORBACIOV; in Italia fatte le debite proporzioni, dalla lucidità di Gramsci alla follia tragicomica di Occhetto e Veltroni, è stato tutto un susseguirsi di assurde delegittimazioni che hanno prodotto l’autoannientamento dell’idea Comunista.
Nessuna idea antagonista ha avuto la forza di distruggere l’idea Comunista: essa si è semplicemente estinta per l’incapacità e l’umana debolezza dei propri leader.
Al compagno Gioffrè, recente protagonista di un’avventura del genere, desidero dedicare questa citazione da La caduta di Friedrich Durrenmatt: "Il loro istinto di conservazione li costringeva a spiarsi a vicenda, le simpatie e le antipatie che provavano l’uno per l’altro influenzavano le loro decisioni assai più che i conflitti politici".

IL DITTATORE CONOSCEVA I SUOI POLLI

“Il mio popolo si divideva tra piazze in cui aspettava che cascassero dal cielo macchine lussuose e benessere per tutti, e altre piazze, meno belle, in cui cercava dentro sacchi di plastica nera vestiti che odoravano di Occidente…” “…Tirana era invasa da bar e discoteche. Discoteche che non chiudevano mai, ventiquattrore non stop, ventiquattrore di svago musica alcol. L’Albania doveva recuperare in fretta le sue rinunce giovanili. In quegli anni vidi un Paese a me sconosciuto. Vissi con un popolo estraneo. Il mio pensiero più ricorrente era: il dittatore conosceva i suoi polli.”
“Rosso come una sposa” di Anilda Ibrahimi è un libro scomodo per gli anticomunisti, per la prima volta si pubblica un romanzo (che per fortuna l’autrice ha scritto direttamente in italiano…) in cui si parla della vita durante un regime Comunista senza preoccuparsi di compiacere la pubblicistica corrente che vuol sentir parlare di Comunismo solo in termini negativi. La Ibrahimi non esita a rimpiangere quanto di buono ci potesse essere in un regime Comunista chiuso come quello di Enver Hoxha guardando ad esso con oggettività storica, con un senso critico scanzonato e libero, senza livore preconcetto. Proprio in questi giorni è scomparso l’alfiere della letteratura anticomunista falsa e menzognera, quel Solgeniztkin di cui parliamo in altra parte del giornale, che non si fece scrupoli di mettere la sua penna al soldo della Cia e di quel Capitalismo di cui negli ultimi tempi, in un patetico tentativo di riscatto, avrebbe finto di deplorarne gli eccessi. Anilda Ibrahimi, come si evince dall’asciutta intervista che pubblichiamo in questa pagina (presa in prestito dal sito internet www.ilsottoscritto.it a cura di Marisa Cecchetti, che si dispera a cercare tracce di anticomunismo dove non ce n’è nemmeno l’ombra), è una donna libera e serena che ha scritto un meraviglioso romanzo che rende pienamente la magia e l’epica dei Balcani; nelle sue pagine si respira la grande letteratura con uno stile chiaro e personale che richiama le più belle atmosfere alla Marquez ed i grandi intrecci narrativi di un John Irving. L’Albania, ma la storia è comune a tutta l’area Balcanica, è stata nel Novecento un luogo magico ed arcaicamente misterioso in cui convivevano caoticamente religioni e tradizioni risalenti alla notte dei tempi. Una società fortemente matriarcale in cui le donne anziane scandivano con consigli e ammonimenti i ritmi della vita e della morte. Quando Meliha, la capostipite della saga, si vanta con la suocera di avere conquistato il cuore del marito, si sente puntualizzare: “Solo col cuore di tuo marito non saresti andata da nessuna parte. Gli uomini a casa non sono che ospiti.” In realtà la società matriarcale (in tutte le epoche e a tutte le latitudini), paradossalmente, non svolge altro ruolo che quello di assicurare il perpetuarsi del potere reale del maschio, vigilando che niente stravolga questa regola: “Il marito ti picchia, il marito ti onora…”, “…lo sposo è sempre a posto…si lava con una brocca d’acqua e torna pulito, per la sposa non basterebbero tutti i fiumi del mondo.” Violenza, raki (bevanda alcolica tradizionale), umiliazioni, gravidanze forzate, faide, conflitti tribali, gli ingredienti classici dello strapotere maschile, vengono notevolmente contenuti negli anni Cinquanta dall’arrivo del Comunismo; “Domani vado a fare due chiacchiere con il segretario del partito diceva Saba. E suo marito diventava un agnellino…”; le donne cominciano a lavorare: “Mai si era visto prima da quelle parti che una donna toccasse il denaro con le proprie mani. Saba con le sue amiche oltre che toccarlo poteva anche spenderlo…E nessuno poteva più rispedire la donna dal padre senza i figli perché non aveva obbedito al marito: era il marito che rischiava di finire male se tentava di cacciarla…Saba andava alla scuola serale con le amiche. Spesso portava pure i piccoletti, che si addormentavano intorno a lei mentre leggeva da sola sulla lavagna: La donna, forza della rivoluzione”. Con l’avvento del Comunismo, la donna diventa praticamente padrona della sua vita: “Questo governo mi piace…sono una donna libera in questo sistema, libera anche se non ricca. Prima non ero né ricca né libera”, dice Saba alla sorella Bedena durante una discussione familiare.
La prima parte della saga si svolge nel paesino di Kaltra che la Ibrahimi descrive magistralmente all’inizio del terzo capitolo: “Il paese si trovava nascosto tra alte montagne. Sembrava non essere in contatto con niente e con nessuno, tranne che con il tempo. Se non ti si fermava il cuore passando per la gola di quelle montagne eri fortunato, o almeno così diceva una vecchia canzone. Ma questo pericolo non esisteva perché raramente capitava che qualcuno passasse per Kaltra. Kaltra: azzurra. Azzurra come l’acqua che sgorgava dalle viscere della terra al centro del paese. Kaltra era anche il nome del fiume che scendeva dalla montagna e correva verso il mare. Correva sotto i monti arcuati fatti di sassi bianchi, correva lungo il destino fermo dei fieri montanari. Le montagne si alzavano verso il cielo come coltelli ben affilati. Come se volessero tagliare fuori dal mondo queste esistenze. Non è che il mondo avesse offerto loro granché, nemmeno le cose di cui avevano veramente bisogno. Eppure nessuno a Kaltra si sentiva isolato. Si sentivano potenti come le pietre delle tombe che godono l’eternità inconsapevoli. Il passato era l’unica certezza e aggrapparsi ad esso assicurava la sopravvivenza.” Anche in quest’angolo di mondo isolato e arcaico arriverà la brutalità della guerra, prima con il volto bonario dei soldati italiani (i peppini) e subito dopo con la ferocia dei nazisti che coprirà di sangue anche quelle terre incontaminate, la famiglia protagonista pagherà un pesante tributo di sangue che poi le varrà onori, riconoscimenti e privilegi sotto il governo di Hoxha. La narrazione alterna pagine d’incisiva valenza storica e antropologica a pagine di pura narrativa “romantica” nel senso più ampio del termine, tenere e struggenti sono le descrizioni degli addii (siano essi partenze o morti) e dei rimpianti; fin quando nella seconda parte del romanzo la narrazione cambia registro, passa in prima persona e la scena viene occupata da Dora (alter ego di Anilda Ibrahimi) che, saltando la generazione di mezzo quella della mamma Klementina, la cui figura rimane opaca e sfumata, raccoglie il testimone dalla nonna Saba; Dora, tipica figlia dei nostri giorni, sintetizza l’essenza del mondo ancestrale che non è mai stato suo e dal quale è intimamente imperniata, lo stile diventa ironico e scanzonato, i toni epici vengono accantonati ed il racconto scorre con accenti quasi cronachistici con sfumature surreali: “Da piccola sono stata molto felice, ma poi ho smesso. Ho smesso così, di colpo, come i fumatori che decidono da un giorno all’altro. Ma non come quelli che poi ci ricadono; io non sono più ricaduta. Solo una volta, all’inizio.” Esilaranti sono le pagine in cui si descrivono i tentativi del padre di aggirare le rigide regole del governo Comunista per migliorare la propria posizione lavorativa o quelle in cui parla dei metodi sbrigativi usati da Enver Hoxha per risolvere gli ancestrali problemi dell’Albania soprattutto in campo religioso: “Lui, nel dubbio aveva eliminato tutte le religioni…Nel 1967 Hoxha aveva proposto che i luoghi di culto e di preghiera venissero concretamente eliminati. O semplicemente trasformati. Potevano diventare centri culturali. O anche magazzini per i cereali, ad esempio…”. Per non parlare poi delle pagine in cui si descrivono i cambiamenti derivanti al Paese dal passaggio dall’orbita Sovietica (dopo la scellerata svolta revisionista di Kruscev) all’orbita Maoista, i rapporti della popolazione con i “fratelli cinesi” non saranno mai idilliaci ed evidente sarà la dimensione forzata di una relazione “contro natura” considerata l’abissale distanza tra gli usi e i costumi dei due popoli. Dora-Anilda accompagna così con levità il suo Paese fino al tragico epilogo del 1991 quando le armate capitalistiche e consumistiche polverizzeranno, dopo anni di logoramento tramite la Guerra Fredda, i Paesi Comunisti consegnandoli alla democrazia del mercato e del consumismo che ne distruggerà l’identità e la dignità; gravissime sono le responsabilità della stampa occidentale (quella italiana cosiddetta di “sinistra” in primis) che non dà voce a quanti nei paesi dell’Est rimpiangono i passati governi Comunisti che avevano sempre garantito loro eguaglianza, sobrio benessere e servizi pubblici efficienti e civili. Sentite come Dora-Anilda conclude, nel filo dell’amara ironia, l’argomento del post-comunismo: “…nel 1991 bruciammo perfino gli uliveti coltivati durante il comunismo. Distruggemmo fabbriche, macchinari, raffinerie, miniere, scuole, e tutto ciò che avevamo costruito durante il comunismo. Avevamo detto morte al comunismo e volevamo andare fino in fondo. Per ricostruire non bisogna prima distruggere? Tutto era contaminato dall’ideologia comunista. Prendiamo ad esempio gli uliveti: ci saremmo sentiti tranquilli a mangiare una bruschetta condita con olio comunista?... L’America ci avrebbe fatto mangiare con cucchiai d’oro…”
Grande romanzo dunque, grande libertà di pensiero e soprattutto grande coraggio di andare contro il pensiero dominante, che non varranno sicuramente riconoscimenti, vendite e premi letterari, ma servono sicuramente a dare un segnale d’incoraggiamento a quanti sono stufi di sentirsi raccontare le balle del “ritorno alla democrazia”, dell’ “uscita dal buio dei regimi comunisti”, della “libertà riconquistata” e vorrebbero aprire un serio dibattito su cosa, per esempio, sarebbero potuti essere i governi comunisti senza l’infame accerchiamento planetario della “Guerra Fredda”.
Ci complimentiamo con la direzione editoriale della storica “Einaudi” e ci auguriamo (prima che se ne accorgano i rampolli di Silvio dalla casa-madre Mondadori) che faccia arrivare sulla scena editoriale italiana altri tesori come questo che sono confinati nei circoli culturali controcorrente di tutti i paesi dell’Est.
Franco Arcidiaco
Anilda Ibrahimi
Rosso come una sposa
Einaudi 2008
pagg. 264 Euro 16,00
ISBN 978 88 06 19237 2