Grazie ad una recensione radiofonica e al periodo feriale, ho avuto la possibilità di leggere un delizioso libretto edito da Sellerio: Il manoscritto di Shakespeare, ultimo romanzo di Domenico Seminerio. La lettura è stata godibilissima, il libro (340 pagine) si legge d’un fiato, la storia è molto intrigante e plausibile. Lo stile è originale con narrazione in prima persona e tantissimi dialoghi resi in costruzione indiretta, arricchiti da un sapiente e non ossessivo (alla Camilleri, per intenderci) utilizzo di neologismi a matrice dialettale e dall’utilizzo di nomi di fantasia o espedienti bizzarri (la nuova compagna del narratore viene sempre e solo indicata come Lei e la moglie come la Prima); i nomi dei personaggi e dei luoghi sono fantasiosi e ricordano un po’ l’atmosfera di Macondo: Borgodico, Grandocchio, Guardabella, Castelgrotta sono i luoghi immaginari, dove si muovono personaggi come lo scrittore protagonista e voce narrante Agostino Elleffe (che un curioso refuso trasforma a pagina 226 in Efferre) e gli altri che rispondono ai nomi di Gregorio Perdepane, Rodrigo Pappina, Avvocato Dentifricio, don Giovannino, Angelo Pappalisca, Maresciallo Franco Sbirrone, Marialaura Pelorosso, Preside Scacciapulci; altri personaggi, non meno comprimari, vengono indicati solo con il nome di battesimo Concettina, Lina, Enzo, il tutto con una freschezza ed una scioltezza veramente mirabili. Sappiate che Seminerio, come peraltro Bufalino e Camilleri, é arrivato al successo oltrepassati i 60 anni; mi viene da pensare a quanti tesori nascondano ancora le scrivanie siciliane ed invidio gli editori che avranno la fortuna di intercettarli! Anni addietro ho partecipato a un dibattito tra editori a Roma, nell’ambito della Fiera Più libri più liberi; tra gli altri colleghi c’era un rampollo di casa Sellerio che andava sostenendo che l’enorme mole di manoscritti in arrivo presso la sua casa editrice costituiva un grosso problema, dopo aver così sapientemente pontificato andò via senza aspettare gli altri interventi; si perse la mia risposta, con l’invito a girare i manoscritti presso la sede della mia casa editrice che, contrariamente alla sua, considera gli stessi un patrimonio. Ma evidentemente si trattava di un pensiero in libertà, se ancora oggi la sua casa editrice sforna gioiellini come il libro in oggetto.
Prima di entrare nel merito della storia narrata, voglio segnalare all’autore una piccola incongruenza temporale: nelle ultime pagine del romanzo fa arrivare il Capodanno dopo l’Epifania descrivendo due incontri chiave del protagonista (vedi pagg. 309 e 318); al collega editore invece segnalo un editing non molto accurato, si sarebbe potuta evitare infatti qualche inutile ripetizione sulle rivelazioni di Perdipane (vedi pagg. 149 e 215), e la scarsa accuratezza della stampa, almeno per quanto riguarda la copia in mio possesso: alcuni trentaduesimi sono sottoesposti al limite della leggibilità, altri sono sovraesposti modello nerofumo, per non parlare delle odiose pieghe alla carta causate dal taglio a trentadue…
Veniamo ora alla storia, Domenico Seminerio, riprende e rielabora (con il grande merito quindi di divulgarla al di fuori dagli ambienti accademici) una vecchia querelle che vuole il grande William Shakespeare di origini siciliane. E’ risaputo che la biografia del Bardo è piuttosto scarna, si sa solo che era di umili origini, figlio di un macellaio elevatosi successivamente a guantaio, con una carriera studentesca che non spiega la grande cultura in materia classica, geografica e storica, che manifestano le sue opere. Il mistero permane fino a quando il prestigioso quotidiano londinese The Times in data 8 Aprile 2000 non riporta, riprendendo lo studio di alcuni coraggiosi ricercatori inglesi e del Prof. Martino Iuvara di Ispica (docente della cattedra di Letteratura Italiana a Palermo), un articolo secondo il quale William Shakespeare sarebbe nato a Messina. Secondo questa ricerca egli, infatti, sarebbe dovuto scappare dalla sua Messina alla volta di Londra a causa della Santa Inquisizione (in quel periodo Messina era sotto il giogo della dominazione spagnola) essendo i genitori di lui fervidi sostenitori e assertori del calvinismo. Arrivato in Inghilterra, nella cittadina di Stratford-Upon-Avon, avrebbe trasformato quindi il suo nome da Michelangelo Florio Crollalanza, nel suo equivalente (tradotto letteralmente Shake= Scrollare e Speare= Lancia) Shakespeare, mentre il nome William lo avrebbe derivato da un suo cugino da parte di madre, morto prematuramente a Stratford-Upon-Avon, cittadina dove già da tempo vivevano alcuni suoi parenti. Un'altra ipotesi è invece quella secondo cui il Bardo non fece altro, una volta giunto in terra britannica, che trasformare al maschile il nome e cognome della madre Guglielma Crollalanza nell'esatta traduzione inglese, ovvero: William Shakespeare. Inoltre il prof. Iuvara sostiene che i primi dubbi vennero colti proprio in Italia, nei primi anni '20, quando venne ritrovato un volume di proverbi, "I secondi frutti", scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista, tale Michelangelo Crollalanza. Molti di questi detti erano gli stessi che William Shakespeare avrebbe utilizzato successivamente ne L'Amleto.
The Times scriveva testualmente: “Il mistero di come e perché William Shakespeare sapeva così tanto dell'Italia ed ha messo tanto dell'Italia nelle sue opere è stato risolto da un accademico siciliano pensionato, la questione risiede nel fatto che non era affatto inglese, ma italiano. Le biografie del Bardo ammettono che ci sono moltissime lacune nella sua vita, ma attestano che Shakespeare era figlio di John Shakespeare e Mary Arden, che era nato a Stratford-Avon nel mese di aprile 1564, e che sia stato sepolto là nel mese di aprile del 1616. Il professor Martino Iuvara, 71 anni, un insegnante pensionato di letteratura, sostiene che Shakespeare era siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza e che fuggito a Londra a causa della Santa Inquisizione, perché appartenente al rito Calvinista, cambiò il suo nome nell'equivalente inglese. Crollalanza o Crollalancia si traduce letteralmente Shakespeare. In un'intervista al magazine Oggi , il professor Iuvara ha detto che la chiave del mistero era il 1564, l'anno in cui John Calvin è morto a Ginevra. Era l'anno in cui Michelangelo nacque a Messina da un medico, Giovanni Florio e una nobildonna chiamata Guglielma Crollalanza, entrambi seguaci di Calvino. L'inquisizione era sulle tracce del Dott. Florio a causa delle sue idee eretiche calviniste, allora la famiglia fuggì a Tresivio in Valtellina e comprò una casa denominata Cà d’Otello costruita da un mercenario veneziano chiamato Otello che, la leggenda locale diceva, anni prima, avere ucciso, per la sua mal risposta gelosia, la moglie. Michelangelo studiò a Venezia, Padova e Mantova ed viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna ed Austria. Diventò amico del filosofo Giordano Bruno, che sarebbe stato bruciato sul rogo per eresia nel 1600. Bruno, dice lo Iuvara, aveva forti collegamenti con William Herbert, Conte di Pembroke e con il Conte di Southampton. Nel 1588, a 24 anni, Michelangelo si recò in Inghilterra sotto il loro patronato. Sua madre, la Signora Crollalanza, aveva un cugino inglese a Stratford, che prese il ragazzo in casa. Il ramo di Stratford aveva già tradotto il loro cognome come Shakespeare ed aveva avuto un figlio chiamato William, che era morto prematuramente. Michelangelo, dice il professore, ha semplicemente preso questo nome per se stesso, diventando William Shakespeare.” Qui accanto troverete altri approfondimenti sulla questione, tratti dai copiosi materiali forniti da Google alla voce: “Shakespeare era siciliano.”
Nel romanzo di Seminerio questa storia viene proposta al protagonista Agostino Elleffe, affermato scrittore di provincia, da un anziano insegnante, Gregorio Perdipane, il quale un bel giorno lo va a trovare a casa con fare circospetto dando il via ad una avvincente sarabanda di situazioni e ad un groviglio di storie che si dipanano tra quadretti coloriti di vita paesana, improbabili agenti segreti inglesi piuttosto sprovveduti, capi-bastone famelici ed all’occorrenza assassini, un azzeccagarbugli dal sorriso smagliante (Avvocato Dentifricio, appunto) e dal fare melenso ed avvolgente; il tutto condito da gustosi aforismi, irresistibili duetti dal tono macchiettistico tra i personaggi, sapienti divagazioni socio-antropologiche sulla insularità e sulla sicilitudine. Quando, per esempio, descrive un’ordinaria situazione di degrado, chiosa: “E sullo sfondo quello che sembra essere una sorta di nichilismo morale in molti campi della vita sociale, che porta ad assumere atteggiamenti quotidiani mutuati dagli atteggiamenti malavitosi e una concezione del bene e del male più vicina all’utile che non all’onesto.” Ed ancora: “Mi è anche venuto il sospetto che a forza di parlare di sicilitudine, di sviscerare abitudini e comportamenti propri di noi isolani, si finirà col suggerire questi comportamenti, ottenendo l’effetto che molti smetteranno di essere siciliani e si accontenteranno di fare i siciliani, per rispondere meglio ai prototipi delineati dalla letteratura e soprattutto da cinema e televisione.” Non mancano mirabili descrizioni paesaggistiche; chiunque abbia mai avuto il piacere di percorrere la meravigliosa autostrada Catania-Palermo non potrà non emozionarsi nel leggere queste mirabili righe: “Ho attraversato tutta la Sicilia interna per giungere a Palermo. Quella Sicilia misteriosa e antica come il cielo e il mare, fatta di enormi distese di ristoppie e di calcari fratturati, di paesi che s’intravedono appena sulla cima di qualche collina, di pecore al pascolo tra ulivi stentati e agavi in bilico su costoni franosi. E poi i corvi, appollaiati in fila sulle spallette dei ponti, come note musicali su un aereo pentagramma, indifferenti al rombo dei motori e ai bolidi colorati che sfrecciano loro accanto.” Mozzafiato! E sentite ancora quando arriva a Palermo, a Monte Pellegrino: “E’ il regno della bellezza assoluta, lo strappo attraverso il quale ti sembra possibile andare al di là delle apparenze, del mondo stesso, e penetrare in una dimensione sconosciuta che ha la parvenza dell’eternità.” Il romanzo finisce in modo amaro, fra tentativi di redenzione ed ammissioni sconsolate: “Forse, come tanti, sono onesto per mancanza di occasioni e incapacità più che per precisa volontà.”
Domenico Seminerio è un maestro di artifici letterari, un funambolo del linguaggio capace di acrobatiche divagazioni al limite dell’inverosimile e creatore di pregnanti figure dal tono solo apparentemente macchiettistico che trascinano il lettore in un vortice di situazioni colorate ed intriganti.
Franco Arcidiaco
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