mercoledì 17 novembre 2010

IL LIBRO VERDE DI MARIO CALIGIURI

L’Assessore regionale alla cultura Mario Caligiuri, intervenendo alla Fiera del Libro di Lamezia Terme, ha annunciato che il 22 novembre i vertici della Regione Calabria presenteranno “Il libro verde sulla lettura” in presenza di Tullio De Mauro, il più grande linguista italiano vivente. L’assessore Caligiuri, con grande gentilezza, ci ha fatto pervenire il testo, tecnicamente denominato: “Interventi per favorire la lettura in Calabria”. Di tale testo pubblichiamo qui di seguito la premessa che fotografa la realtà calabrese. Quando il Governatore Giuseppe Scopelliti ha nominato il prof. Mario Caligiuri assessore alla cultura non ho esitato a definirlo “L’uomo giusto al posto giusto”; in questi primi mesi di governo Caligiuri non ha deluso le aspettative, da oggi la sua azione entra nella fase strutturale in un momento quanto mai opportuno visto lo stato in cui versa la filiera editoriale calabrese.

In Calabria si legge poco. Troppo poco per una regione moderna che vorrebbe/dovrebbe essere già pronta e capace di affrontare, con strumenti culturali adeguati, le grandi ineludibili sfide sociali ed economiche del presente e del futuro. Questo deficit è certificato nei dati dell’ISTAT, dell’AIE (Associazione Italiana Editori) e di tutte le agenzie che si sono occupate di questo tipo di ricerche.
Si legge poco, quindi c’è poca informazione e a questo si aggiunge - come causa e conseguenza - uno dei più bassi livelli di consumo culturale dell’intero paese.
In Calabria sono poco utilizzati anche i nuovi media, strumenti di straordinario supporto alla ricerca e alla conoscenza che ormai veicolano gran parte della cultura e dell’informazione contemporanea.
I calabresi sono più vittime di altri del digital divide che colpisce soprattutto le generazioni adulte, ma anche molti giovani che hanno meno competenze informatiche dei loro coetanei italiani e sono lontanissimi da quelle dei giovani di altri paesi europei.
Sono dati drammatici che frenano la volontà di cambiamento e di modernizzazione della società calabrese che la Giunta Regionale, guidata da Giuseppe Scopelliti, vuole realizzare, mossa com’è dalla consapevolezza che per affrontare i numerosi e gravi problemi del presente è necessario che si affermi un paradigma culturale moderno, basato su una nuova idea di cittadinanza e di identità regionale.
Il ritardo culturale penalizza il sistema economico calabrese e le sue prospettive; una forza lavoro poco qualificata è, infatti, condannata a ruoli marginali all’interno del mercato del lavoro; non vi può essere, infatti, reale possibilità di sviluppo sociale ed economico per il territorio e la società calabrese senza la partecipazione attiva, consapevole e qualificata di tutti i suoi abitanti. Inoltre poiché una quota sempre maggiore della ricchezza è legata allo sviluppo dell’economia della creatività e della cultura, il permanere di un forte cultural divide esclude la Calabria dai rilevanti benefici di questo specifico sviluppo.
I dati statistici confermano che la percentuale dei lettori calabresi è di circa 7-8 punti in meno rispetto alla media nazionale, la quale già si colloca molto indietro rispetto ai paesi occidentali più progrediti.
Le cause di tutto questo ritardo culturale sono numerose e complesse; gli studiosi sostengono che la non lettura è una conseguenza diretta del basso livello economico e di scolarità delle famiglie, dell’esistenza o meno di piccole biblioteche domestiche e di tanti altri fattori collegati alla dimensione soggettiva e sociale di ciascun cittadino.
Altre indagini, condotte con regolarità da un organismo internazionale quale l’OCSE, testimoniano anche di una diffusa mancanza di competenza alla lettura tra gli studenti delle scuole superiori: un allievo su tre pur riconoscendo i segni dell’alfabeto non è in grado di comprendere i contenuti di un breve e semplice testo scritto.
Le strategie per affrontare il problema dell’incremento dei lettori e in particolare di formare lettori critici, capaci cioè di divenire soggetti sociali attivi protagonisti del proprio tempo, sono purtroppo lunghe e complesse e dipendono da cambiamenti di lungo periodo della Calabria, ma esiste anche un ambito circostanziato nel quale la Regione può fare molto e subito.
È il settore dell’infrastrutturazione culturale delle città e dei paesi della regione, la possibilità cioè di intervenire per qualificare o creare nuovi servizi che possano favorire la lettura e la partecipazione più diretta alla vita culturale.
Ed è proprio su questo terreno che si evidenzia la distanza tra la Calabria e il resto dell’Italia e dell’Europa; quasi ovunque, anche in presenza della grave crisi economica e finanziaria, si registrano adeguati investimenti per realizzare nuove e moderne biblioteche, mediateche, luoghi di aggregazione e formazione, mentre in Calabria si continuano a registrare ampi ritardi e in qualche caso addirittura si arretra rispetto alla realizzazione di questi stessi obiettivi.
Ritardi e arretratezze che si riflettono sull’intera società regionale, che pesano sulle sue strategie di sviluppo anche economico, che confliggono con la necessità di affermare una nuova identità di Calabria fondata sui valori condivisi di democrazia, legalità e senso di responsabilità collettivo rispetto alle mete da raggiungere.
Lo scopo di questo documento è di indicare concretamente quegli interventi che possono essere realizzati da subito e per i prossimi anni della legislatura regionale, per supportare tutte le strutture che elaborano e diffondono cultura e informazione, tenendo conto delle risorse economiche ordinarie e straordinarie che intorno a questi obiettivi è possibile indirizzare.
Si tratta di un obiettivo di straordinaria rilevanza sociale prima ancora che culturale, un atto dovuto nei confronti di tutti i calabresi, per consentire loro di esprimere anche nel futuro quel grande patrimonio di cultura e di civiltà che hanno saputo esprimere nel passato e di cui tutti siamo fieri e orgogliosi.

domenica 14 novembre 2010

NON VI E’ COSA PIU’ INTATTA DI UN CUORE SPEZZATO

Il mio amico Tonino Nocera, fine e appassionato studioso della cultura ebraica, si è assunto l’ingrato compito di ripristinare il mio rapporto con il mondo yiddish, fortemente compromesso dalla politica imperialista dello stato di Israele e dalla persecuzione inflitta al popolo Palestinese. Sappiamo tutti quanto sia subdola la tendenza a confondere l’antisionismo con l’antisemitismo, al fine di bollare con quest’ultimo infamante epiteto tutti coloro che non condividono la politica estera israeliana. Io ho sempre rivendicato la mia posizione antisionista ma non mi ha mai minimamente sfiorato alcun sentimento antisemita. Anzi sono fortemente attratto dalla cultura ebraica e non perdo occasione di accostarmisi, con tutto il rispetto e l’umiltà che richiede lo studio di un patrimonio così immenso e variegato. Quando Tonino mi ha fatto dono dello splendido libriccino “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz, ero appena rientrato da Roma dove, durante una cena in uno dei miei ristoranti preferiti della capitale, La taverna del Ghetto, ero stato letteralmente ghermito dal dipinto presente in una delle sale, raffigurante un rabbino che studia la Torah; il quadro, dal tono caravaggesco (richiama infatti in un certo senso il “San Gerolamo”), emana una spiritualità che ha turbato in modo insolito e direi imbarazzante il mio animo materialista. Non ho perso un attimo quindi a divorare le trenta serratissime pagine del testo e le sessanta dei due saggi a corredo; c’è da dire subito che il testo è un falso, Yossl Rakover non è mai esistito, siamo al cospetto pertanto di “Un testo bello e vero come solo la finzione può esserlo” per dirla con Emmanuel Levinas autore del bellissimo saggio che chiude il libro. Il documento sarebbe stato scritto durante le ultime ore della Resistenza nel ghetto di Varsavia, il narratore sarebbe stato testimone di ogni sorta di orrori e avrebbe perso in circostanze atroci tutti i suoi cari, compresi i piccoli figli. Negli ultimi istanti di vita raccoglie, a mo’ di testamento spirituale, i suoi ultimi pensieri e li trascrive su alcuni fogli che sigilla con cura in una piccola bottiglia, che sarebbe stata ritrovata dopo qualche tempo “tra cumuli di pietre carbonizzate e ossa umane”. Ci troviamo in sostanza al cospetto di “un testo che supera l’autore”, come scrive Paul Badde nell’altro saggio che dovrebbe servire a raccontare la storia del testo e del suo vero autore, ma risulta mal scritto (o mal tradotto), confusionario e finisce coll’appesantire l’edizione (complimenti alla mitica Adelphi ed ai suoi editor…); chiunque l’abbia scritto , quando, dove e perché conta poco o nulla, si tratta di un testo straordinario che meritava un prefatore molto più serio di questo Paul Badde, che non riesce a frenare il suo anticomunismo viscerale, arrivando addirittura a mettere sullo stesso piano il presunto antisemitismo di Stalin e quello tragicamente reale di Hitler. Sentite invece le parole che usa il grande Levinas per commentare il passaggio in cui Yossl dichiara di amare la Legge delle sacre scritture più dello stesso Dio (ecco il fascino della Torah…): “Il testo dimostra come l’etica e l’ordine dei princìpi instaurino un rapporto personale degno di questo nome. Amare la Torah ancora più che Dio è per l’appunto accedere a un Dio personale contro il quale ci si può rivoltare, per il quale, cioè si può morire”. Questo straordinario concetto svela la grande modernità del pensiero ebraico e mi consegna una chiave di lettura (o un alibi, fate voi) per giustificare l’attrazione fatale che questa religione esercita su un ateo incallito e convinto come me. Sentite questo passaggio dell’invettiva di Yossl: “Non vi è cosa più intatta di un cuore spezzato, ha detto una volta un grande rabbino. E non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito… Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui… Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga che mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale”.
Sarà anche la fame di etica indotta dai tempi bui che stiamo vivendo, ma a me tutto ciò appare sublime!
Franco Arcidiaco
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio
Adelphi, 1997 Pagine 98 Euro 7,50

mercoledì 13 ottobre 2010

LA PRIMA SEDE DI GOOGLE ERA IN CAFFE’ VIENNESE DEI PRIMI DEL ‘900

Stefan Zweig, scrittore austriaco (1881-1942), è uno dei protagonisti della vita culturale di Vienna nei primi anni del Novecento, accanto a Freud, Klimt, Schiele e Schnitzler. Ed è proprio a quest’ultimo, autore di “Girotondo”, “La signorina Else” e “Doppio sogno”, che Zweig viene spesso accostato, per l’attenzione data nelle sue opere alla psiche umana, indagata sotto la lente della psicoanalisi che nasceva e si diffondeva proprio in quegli anni. In questo delizioso libriccino pubblicato nel 2008 da Adelphi nella Biblioteca Minima, Zweig ci offre, in appena quarantaquattro mirabili paginette, il ritratto di un personaggio affascinante e surreale come pochi altri. “Mendel dei libri” è la storia di Jakob Mendel, un vero e proprio antesignano di Google, che aveva installato nel tavolo di un classico caffè viennese, la sua attività di “rivendugliolo” di libri preziosi, rari e introvabili. Probabilmente non aveva letto ogni volume ma era a conoscenza dell’esistenza di tutti e sapeva dove trovarli. Seduto dalle sette e trenta del mattino fino alla chiusura serale al Caffè Gluck, a Vienna, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non si occupava della politica, delle relazioni internazionali o di chi gli stava attorno. Era sempre immerso nella lettura di qualche libro o catalogo e alzava la testa solo se qualcuno gli chiedeva di trovare un’opera per lui.
“Lì a quel tavolo, e solo a quel tavolo, leggeva i suoi cataloghi e i suoi libri, così come gli avevano insegnato a leggere nella scuola talmudica, salmodiando e dondolandosi, nera culla che beccheggia. Perché, come un bambino cade addormentato e scivola via dal mondo al ritmo ipnotico di quel su e giù, allo stesso modo -secondo l’opinione di quegli uomini devoti- lo spirito si cala più facilmente nello stato di grazia della contemplazione quando il corpo inattivo si culla e si dondola. E in effetti Jakob Mendel non vedeva e non sentiva niente di ciò che gli accadeva attorno”. Quello che rendeva Mendel assolutamente unico era “la sua capacità di concentrazione assoluta” e la ferrea memoria che gli consentiva di immagazzinare qualsiasi informazione relativa a saggi, trattati, romanzi, insomma ogni cosa che avesse una forma cartacea. Studiosi e ricercatori si recavano al Caffè Gluck per consultare Mendel certi di ottenere una risposta esauriente. E che questa capacità di concentrazione in situazioni comunemente ritenute non ideali, sia tipica della cultura del popolo ebraico (anche se in parte ascrivibile ad abitudini contratte in età scolare) me lo dimostrano altri due esempi; uno riguarda il grande Joseph Roth (ammiratissimo da Zweig) che scrisse molte delle sue opere al tavolo di un affollato caffè parigino, l’altro niente meno che il Mossad (il famigerato o celebre, lascio a voi la scelta dell’aggettivo, servizio segreto israeliano), un amico appassionato d’intelligence mi ha parlato di severi addestramenti degli agenti, tendenti a perfezionare la capacità di concentrazione in situazioni di estremo caos ambientale.
La grande lezione che Zweig trae dall’incontro con Mendel è fulminante: “Grazie a lui mi ero avvicinato per la prima volta al grande mistero, ovvero al fatto che, se mai nella nostra esistenza riusciamo ad attingere qualcosa di speciale, qualcosa di più elevato, ciò accade solo al prezzo di una particolare concentrazione interiore, di una paranoia sublime e, nella sua sacralità, affine alla follia”. Destino volle che Mendel, proprio lui che sublimando la sua astrazione non si era mai interessato di alcuna vicenda umana, venisse travolto dall’odio disseminato in Europa dalla Prima Guerra Mondiale. La sua memoria si perse quasi subito, una legge del contrappasso beffarda cancellò repentinamente la storia di un uomo che aveva dedicato la sua vita al simbolo della lotta degli uomini contro la caducità: il libro.
“Mendel dei libri” si chiude proprio con il rammarico di Zweig circa la fragilità della memoria: “Proprio io che avrei dovuto sapere che i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.
Franco Arcidiaco
Stefan Zweig, MENDEL DEI LIBRI, Adelphi 2008, pagg. 56 Euro 5,50

venerdì 8 ottobre 2010

LE FAVOLE ALLEGORICHE DI JOSEPH ROTH

HO LETTO... UN SOGNO di VANIA D'ANGELO

La presenza a Reggio Calabria del giornalista ed editore Franco Arcidiaco è una di quella certezze che quotidianamente vivifica l’amore per la lettura e l’acculturazione. “Passeggiare per i boschi” della sua scrittura, come in un’immagine echiana, è esperienza di cammino verso un orizzonte di luce. Il saggio “Le favole allegoriche di Joseph Roth” pubblicato a luglio 2010, è uno scrigno di suggestioni e bagliori dall’eleganza sempre discreta e algida di un osservatore raffinato con levità.
Interessantissimo per gli appassionati e studiosi di germanistica. Non meno accattivante per i critici letterari impegnati nello studio dei topoi di matrice ebraica. Incredibilmente fascinoso per i lettori amanti del bello scritturale.
Vania D'Angelo
http://www.cdse.it/libro.php?id=408

martedì 28 settembre 2010

LETTERA A STRILL.IT

Bravi, bravissimi ragazzi era ora di liberare il giornalismo dagli squallidi orpelli imposti dalla consuetudine e dal servilismo nei confronti dei potenti. Condivido pienamente la vostra decisione e le vostre argomentazioni; si respira un'atmosfera surreale, sembriamo immersi in una infinita messinscena delle migliori commedie di Dario Fo. Date sempre più spazio alle voci giovani e libere della città e chiudete le porte a vecchi tromboni, ipocriti parrucconi conformisti e sepolcri imbiancati. Ma avete visto la prima pagina di ieri della Gazzetta del Sud? Era semplicemente allucinante, un paradigma di quello che è diventata l'informazione nell'era berlusconiana; speculare sulla presunta malasanità significa rendere sempre più insicura la classe medica ed incentivare irresponsabilmente i viaggi della speranza. Siamo al Truman Show de 'noantri, qui c'è gente che non vede l'ora che gli scompaia un familiare per andare a "Chi l'ha visto"! Qui ci sono la stragrande maggioranza delle imprese con l'acqua alla gola, stritolate dal pizzo della 'ndrangheta e delle banche, e fior di investigatori si perdono dietro la vicenda di un improbabile commercialista afflitto da crisi maniaco-depressive che giocava a fare l'agente segreto. La vicenda di Lamberti è da seguire con la massima attenzione perchè è emblematica della situazione in cui versa la città; gli imprenditori che lavorano con professionalità e serietà (l'istituto De Blasi e gli studi di RTV sembrano un'oasi scandinava in mezzo al deserto) devono addirittura subire l'onta di sentirsi rimbrottare da politicanti di terza fila, voltagabbana figli della più classica malapolitica clientelare. Oggi tutti i giornali sono lì a stracciarsi le vesti per la vicenda del banchiere Profumo; grandi editorialisti non esitano a parlare di "dramma", e parlano del dramma di un uomo costretto a lasciare il suo lavoro con una liquidazione di 50 milioni di Euro!!! Sarebbe ridicolo e grottesco se non risultasse offensivo per le legioni di disoccupati create da questo scellerato sistema post-capitalistico; ma siccome al peggio non c'è mai fine ecco la notizia dell'ultima ora: Profumo potrebbe diventare il nuovo leader del centrosinistra, il cosiddetto "papa straniero" evocato da quel "genio" di Veltroni. Respinto dai popoli africani per manifesta incapacità è tornato in Italia per affossare le poche speranze di rialzare la testa che erano rimaste al popolo della sinistra; tenetevi pronti che se non gli riesce con Profumo finirà per teorizzare l'alleanza con Berlusconi.
Franco Arcidiaco

domenica 1 agosto 2010

UN QUADERNO DI CITAZIONI IN FORMA DI ROMANZO

Sono vari i motivi che possono indurti a comprare un libro, nel caso de “Il canapé rosso” galeotto fu un viaggio a Parigi lo scorso dicembre. Il mio amico Federico è un fantastico catalizzatore di suggestioni, legge libri e giornali, armato di matita e calepino, e annota diligentemente tutte le indicazioni che possano servire a rendere ancora più affascinanti i nostri viaggi. Meta delle nostre vacanze di fine anno 2009 era dunque Parigi, ed una delle suggestioni del magico calepino di Federico indicava perentoriamente: quai de Bourbon, ponte Louis-Philippe, palazzo sul lungosenna; a questo punto il calepino riportava la seguente citazione da “Il canapé rosso”: “Sapevo che là, sul lungofiume, una targa commemorativa riportava una frase scritta da Camille Claudel in una lettera a Rodin, C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” Obbligatorio dunque cercare il palazzo e leggere la targa sulla facciata, altrettanto obbligatoria la visita al meraviglioso museo Rodin; le suggestioni sono come le ciliegie, una tira l’altra e tutte assieme compongono i nostri viaggi “diversi”. Al ritorno da Parigi mi sono affrettato dunque ad acquistare il libro di Michèle Lesbre, edito da Sellerio nell’assurda collana-marmellata “La memoria”. Michèle vive a Parigi ed è una furbastra di tre cotte, scrive benissimo e si capisce senz’altro che ha buone letture e grandi viaggi alle spalle; ha escogitato un furbo artificio narrativo che le consente di sciorinare il suo bagaglio culturale senza annoiare il lettore. Il libro si rivela, quindi, un quaderno di citazioni in forma di romanzo; Anne, la protagonista, intreccia la sua storia di amante-pellegrina con quella dell’anziana modista Clémence, che abita nel suo palazzo e che lei va a trovare due volte alla settimana per conversare, appunto, sul suo canapé rosso. Clémence ama farsi raccontare da Anne storie di donne dal tragico destino, che hanno tracciato la storia con il loro coraggio, l’anticonformismo e la spregiudicatezza.
Nel passato di Clémence c’è la storia di un amore travolto dalle vicende seguite all’occupazione nazista di Parigi, nel presente di Anne c’è il desiderio incontrollato di ritrovare un vecchio amore perso tra le immense distese della lontana Siberia.
Il viaggio e la memoria sono i temi conduttori del romanzo, “Mi smemoravo, o meglio ero catturata, stordita e inebriata da quella parvenza di solitudine che si genera nel viaggio, oblio momentaneo delle abitudini e dei punti di riferimento”. Ci sono passaggi veramente notevoli, come questa paginetta che descrive l’arrivo di Anne nella casa della nuova famiglia del suo vecchio amante Gyl, in uno sperduto villaggio della Siberia: “La madre (dei figli di Gyl, ndr) mi aveva invitato a entrare per bere un tè. I bambini erano venuti con noi. Avevo parlato del treno, dei giorni e delle notti, delle foreste, e poi avevo detto che venivo dalla Francia. Leggevo negli sguardi che per loro quella parola non significava niente. Per loro probabilmente venivo dal nulla… In fondo questo non contava veramente, l’importante era l’incontro, l’istante fugace, la felice occasione che nasce dal viaggio. Le parole non hanno più lo stesso valore e perfino la loro assenza genera salutari mutamenti di prospettiva. … Fu una notte insonne, una di quelle notti che trascinano nel centro più segreto di quello che ci fa muovere e ci ossessiona. Avevo dovuto fare tutta quella strada per capire che cercavo di ritrovare l’energia ormai sparita, il passato che niente poteva resuscitare, nemmeno Gyl. Ma lui aveva deciso di avere un figlio. Non sentivo tristezza, solo misuravo la distanza fra noi e il tempo che era trascorso, un tempo al quale troppo a lungo avevo tentato di sfuggire”. Tra le tante citazioni che, come dicevo, impreziosiscono il libro, sentite questa, fulminante, di Milena Jesenskà (giornalista cecoslovacca amica di Kafka): “Vedere dei paesaggi dal finestrino significa conoscerli due volte, con lo sguardo e col desiderio”.
Il libro scorre leggero e gradevole sin quando la Lesbre non pretende di ammannirci le sue lezioncine politiche; le sue considerazioni sull’Unione Sovietica e su Stalin sono banali e qualunquiste ed intrise di livore anticomunista assolutamente fuori luogo.
La Sellerio, al solito, brilla per superficialità sia nella traduzione che nell’editing.
Franco Arcidiaco
Michèle Lesbre
Il canapé rosso
Sellerio, 2009
Pagg. 134, € 11,00

martedì 29 giugno 2010

LA MEMORIA E’ L’UNICA COSA CHE CONTA NELLA VITA

Non vi nascondo che ho sempre invidiato la rapidità, o meglio la tempestività avvoltoiesca, con cui l’editoriale “La Repubblica - L’Espresso” riesce a immettere sul mercato prodotti editoriali o multimediali di autori appena scomparsi. Di recente è toccato al povero Edmondo Berselli, grande giornalista e scrittore morto prematuramente l’11 aprile scorso; appena sette giorni dopo è arrivato in edicola uno dei suoi libri più straordinari, il pirotecnico “Il più mancino dei tiri”. Il libro, scritto nel 1995, è una miniera di aneddoti e citazioni sciorinati a memoria, senza l’ausilio dei testi di riferimento e soprattutto senza internet (non dimentichiamo che Google nascerà nel 1998). Con il pretesto della ricostruzione della mitica azione offensiva di Mariolino Corso, ala sinistra della grande Inter di Helenio Herrera, Berselli affresca 126 pagine di colte e intriganti divagazioni (il “guazzabuglio erratico” secondo la definizione dello stesso autore) che nulla hanno da invidiare alle migliori farneticazioni di Gianni Brera.
Il metodo seguito da Berselli è audace e rischioso, la possibilità di prendere cantonate è dietro l’angolo, ma è lo stesso rischio che si corre quando si avvia una conversazione tra amici davanti a un buon bicchiere; se padroneggi l’arte affabulatoria nessuno andrà tanto per il sottile. Pensate che, con sommo snobismo, Berselli non si preoccupa nemmeno di contestualizzare fedelmente la scena che vide la magia tecnica di Corso (e a cui dedica il titolo del libro) e parla di “un’imprecisata partita all’estero”; con un po’ di pazienza e l’imprenscindibile Google, sono certo di avere individuato quel momento: non siamo affatto all’estero, ci troviamo a San Siro il giorno prima della partenza della nazionale azzurra per i mondiali in Cile del 1962, si gioca l’amichevole tra l’Inter e la nazionale della Cecoslovacchia (che si prepara ai mondiali), quando Mariolino Corso col suo sinistro magico inventa un gol fantastico, un tiro splendido dopo una serie di dribbling in un fazzoletto d’erba che strappano l’applauso anche agli avversari. In quell’occasione Corso si gioca definitivamente la maglia azzurra; in tribuna c’è, infatti, il C.T. della nazionale Giovanni Ferrara, che lo ha appena escluso dalla lista dei 22 convocati, Corso non resiste e, dopo il gol capolavoro, lo cerca con gli occhi in tribuna e gli spara in faccia il gesto dell’ombrello, ponendosi definitivamente fuori dal giro azzurro.
Berselli si preserva furbamente da ogni critica con questa dichiarazione d’intenti sciorinata nelle prime pagine: “…detto sommessamente, questo libro una sua tesi ce l’ha. Tanto vale che la esponga subito, per evitare equivoci o, peggio, accuse di debolezza o insussistenza di tesi. Sostengo che la memoria è l’unica cosa che conta nella vita. Memoria nel senso di vita partecipata e vissuta, sentimento di un passato condiviso; ma anche sforzo mnemonico, gioco di società, ricostruzione individuale e collettiva dei nomi, degli avvenimenti, delle durate, delle filastrocche, delle canzoni, delle squadre, dei campionati; e infine massimo criterio organizzativo che sia possibile e consigliabile applicare in hac lacrimarum valle.”
Dal canto mio se dovessi creare uno slogan per pubblicizzare questo libro, sceglierei: “Se non sai di cosa stiamo parlando, significa che in questi ultimi 40 anni non hai vissuto”. Dalla prima all’ultima pagina, infatti, è tutto un succedersi caotico di aneddoti ed avvenimenti che Berselli sciorina con la stessa tecnica con cui da piccoli giocavamo alla “catena di parole”; un ricordo tira l’altro, una vicenda ne richiama un’altra, un personaggio ne evoca un altro. E vengono fuori storie incredibili che hanno segnato la vita politica e sociale della cosiddetta “Prima repubblica”: dalla “politica dei due forni” di andreottiana memoria, che ha consentito alla Dc di governare per decenni “comprando il pane” alternativamente nei “forni” degli alleati meno esigenti, agli autogol del mitico Comunardo Niccolai, stopper del Cagliari che incappava spesso nel più grave errore difensivo, tanto da essere invocato dai tifosi delle squadre avversarie quando queste non riuscivano a segnare, per arrivare all’ente inutile “Pietro Maroncelli”, che aveva come compito istituzionale di inviare folte delegazioni ogni anno in America per depositare una rosa sulla tomba del compagno di prigionia di Silvio Pellico allo Spielberg; con l’esilarante considerazione di Berselli che “l’Ente Maroncelli ha fatto più danni all’Italia che cento battaglie perdute”. Non poteva mancare un rimpianto elegiaco del nozionismo, sentite ancora Berselli: “Se è vero che la cultura è ciò che ci rimane quando si è dimenticato tutto, le nozioni, queste nozioni che ci restano avvinte alla memoria come l’edera, sono importanti. (…) Sapere che Napoleone Bonaparte, ricevendo la corona ferrea di Re d’Italia, disse Dio me l’ha data guai a chi me la tocca, è decisivo. La frase di Amatore Sciesa Tiremm innanz! riassume sostanzialmente il Risorgimento e la successiva storia d’Italia fino al divo Giulio. Tutta la Grande Guerra non servirebbe a niente se non ci fosse la certificazione che le armate austroungariche risalgono in disordine le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza: Firmato Diaz”. E’ presente infine una vasta campionatura dell’aneddotica di respiro, diciamo così, internazionale. Dalle citazioni in spagnolo maccheronico di HH1 e HH2 (se non sapete chi sono, sospendete la lettura e non comprate il libro), al grande economista Keynes che a una domanda sullo sviluppo dell’Economia nel lungo periodo, rispose: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”, al generale De Gaulle che amava ricordare che “I cimiteri sono pieni di gente insostituibile”. Ma non commettete l’errore di pensare di trovarvi di fronte ad una delle ennesime edizioni delle “Formiche” di Gino e Michele; “Il più mancino dei tiri” non è un repertorio di citazioni, ma una coltissima, godibile ed arguta galoppata nella storia del novecento. Ci mancherà Edmondo Berselli, così come ci sono mancati, in questi lunghi anni sospesi tra il tragico e il ridicolo, Beppe Viola e Gianni Brera. Un formidabile triangolo che ha costituito la cabina di regia dell’ideale centrocampo del giornalismo italiano.
Franco Arcidiaco

Edmondo Berselli
Il più mancino dei tiri
La biblioteca di Repubblica-L’Espresso
Pagg. 128 Euro 6,90 in abbinamento.

lunedì 28 giugno 2010

UNO SPETTRO SI AGGIRA PER LE PAGINE DEL QUOTIDIANO

Dalle pagine del Quotidiano di lunedì apprendiamo che i comunisti, oltre a mangiare i bambini, hanno anche provveduto a trucidare “preti operai”. La corrispondenza da Varsavia di Fausto Gasparroni , traboccante di anticomunismo da manuale, modello “guerra fredda”, sposa in pieno la tesi del Vaticano ed esulta per la beatificazione di Popieluszko, il cappellano di Solidarnosc ucciso in circostanze mai chiarite nel 1984 da non meglio identificati “agenti segreti”. L’attacco decisivo all’ Unione Sovietica ed ai Paesi del socialismo reale da parte del blocco capitalista, trovò nella Polonia e nelle presunte “rivolte operaie” guidate dal movimento di Lech Walesa, la sua arma decisiva. Ma la Storia dice che dietro queste rivolte c’era la longa manus di Karol Wojtila, con gli ingenti finanziamenti (ne ha parlato candidamente anche nella sua autobiografia) messi a disposizione dagli sporchi affari dello Ior del cardinale Marcinkus, e gli USA che con la CIA avevano appena finito di insanguinare le piazze italiane e greche per impedire l’ascesa dei partiti comunisti. E’ evidente che oggi Ratzinger ha tutto l’interesse a continuare l’opera di Wojtila, lo spettro immaginario del comunismo è ancora utile per tenere lontani ben altri spettri che hanno irrimediabilmente macchiato la chiesa cattolica; i colossali intrighi finanziari (Marcinkus, Calvi, Sindona, etc.), il caso Emanuela Orlandi e la pedofilia hanno contrassegnato i due ultimi papati e solo storici e cronisti in malafede possono ignorarne la reale portata. Oggi, con la scomparsa dei Paesi del socialismo reale, il Vaticano si trova scoperto davanti ai suoi enormi problemi, non ci sono più frontiere della fede da difendere da atee ideologie e non ci sono più servizi segreti compiacenti pronti a versare sangue sulle piazze europee. La Russia e gli altri paesi dell’ex blocco sovietico sono tornati alla cosiddetta libertà, anche se l’unica libertà che, trascorsi più di vent’anni, s’intravede è quella di delinquere. Le conquiste sociali, la pace, la prosperità, la civiltà che decenni di Comunismo avevano assicurato, sono stati spazzati via dall’invasione del capitalismo. Volgarità, violenza e prostituzione sono le cifre stilistiche dei nuovi governi dei paesi dell’Est, è questa l’evangelizzazione che auspicava Wojtila?
Franco Arcidiaco

PROF. CERSOSIMO, NON ERA MEGLIO LA TORRE D'AVORIO?

E così c’è cascato anche il prof. Cersosimo, il castigamatti che avrebbe dovuto dare una svolta alla politica calabrese tutta clientela e malaffare, in questo malinconico scorcio di fine impero si è comportato come il più classico politicante democristiano: una pioggia di denaro (149.437 euro per l’esattezza) per svuotare i magazzini editoriali dei soliti noti, più qualcuno tirato dentro l’ultima settimana con l’evidente ruolo di “foglia di fico”. L’ineffabile prof. Cersosimo per tutta la legislatura si è distinto per l’irrefrenabile impegno… nel volersi distinguere; non è mancata occasione pubblica nella quale non abbia tenuto a ricordare le sue umili origini, la ferrea volontà che lo ha portato a primeggiare negli studi e le nobili motivazioni che lo hanno indotto alla fatidica “scesa in campo”. Visti i risultati, avrebbe fatto meglio a rimanere nella proverbiale “Torre d’avorio”, dalla quale, a memoria d’uomo, ogniqualvolta un intellettuale ha provato ad uscire non ha fatto altro che causare disastri. Questi 5 TIR che partiranno da Milano con un carico di 20.000 volumi di favole (ecco che torna la politica delle favole…) destinati ai bambini di quarta elementare, seppelliranno definitivamente nel ridicolo l’avventura amministrativa del prof. Cersosimo. Il direttore commerciale della Rubbettino Antonio Cavallaro, nella trionfale conferenza stampa che ha illustrato l’iniziativa, ha parlato della stessa come un passo verso la sprovincializzazione della Calabria, e ciò sarebbe dimostrato dal fatto che “sono state coinvolte sia case editrici calabresi, sia nazionali”. Di pari passo con il tuo sillogismo, caro Antonio, c’è da augurarsi che il futuro governatore decida di arruolare il prossimo assessore alla cultura in Canton Ticino, per far sì che tutti i calabresi comincino a sentirsi un po’ meno provinciali; senza dire che non si capisce perché, sempre in tema di sprovincializzazione, debbano essere sempre i calabresi a doversi sprovincializzare, perché non proponete agli amministratori di qualunque altra regione di comprare i libri degli editori calabresi, sentirete le pernacchie! Per quanto riguarda poi la selezione dei titoli e degli editori, pare si sia fatto ricorso ad un’associazione milanese denominata “Forum del libro” la quale “con l’aiuto di un pedagogista e di figure esperte del settore” (sic) ha compiuto l’impresa. Trattandosi di denaro pubblico, pretenderemmo di conoscere:
1)Il costo della consulenza di questi cervelloni
2)Il costo per far convergere tutti i volumi nella loro sede di Milano
3)Il costo per assemblare i volumi e preparare le spedizioni
4)Il costo del trasporto dei volumi in Calabria con 5 TIR
5)Quale criterio è stato seguito per selezionare titoli ed editori
6)Perché sono stati scelti solo tre editori calabresi (Donzelli, infatti, opera su
Roma e scopriamo che è calabrese solo in queste circostanze)
7)L’elenco dei titoli acquistati, il numero di copie ed il prezzo di ognuno.
Pensiamo che questo sia un atto dovuto da parte di un professore prestato alla politica che, proprio nel nome della trasparenza, ha bloccato da due anni l’acquisto dei libri dalle case editrici tramite la legge regionale n. 17, per evitarne l’utilizzo clientelare che l’aveva contraddistinta. E’ stata la classica operazione tanto cara alla mia Sinistra (vedi Bolognina), quella, cioè di “buttare il bambino con l’acqua sporca”; la legge n. 17 non era affatto cattiva, permetteva infatti alla Regione di approvvigionare le biblioteche, sempre afflitte da cronica carenza di risorse, acquistando i libri direttamente dagli editori. Si trattava semplicemente di impedire che l’apparato burocratico utilizzasse le risorse nel modo osceno con cui l’aveva fatto negli anni precedenti; ad oggi non sappiamo bene che fine abbiano fatto i fondi di tale legge ed anche di questo chiediamo pubblicamente conto. Il nostro auspicio è, che in occasione della prossima Fiera di Torino, finalmente spogliatosi dalle inadeguate vesti di politico, il prof. Cersosimo abbia il tempo e la voglia di visitare gli stand di tutti gli editori calabresi e non solo quelli degli “editori di regime”, come ha fatto in questi anni.
Franco Arcidiaco, Città del sole edizioni

domenica 27 giugno 2010

IL 2043 E’ ANCORA LONTANO

Vittorio Sabadin nel saggio L'ultima copia del “New York Times”: il futuro dei giornali di carta, pubblicato da Donzelli nel 2007, ha fissato nel 2043 l’anno in cui dovrebbero scomparire i giornali. Abbiamo dunque ancora un bel mucchio di anni a disposizione e con Lettere Meridiane intendiamo viverli pienamente. Ci siamo presi una forzata pausa di riflessione che è stata più lunga del previsto a causa di problemi sopraggiunti alla tipografia che ci stampava, oggi ci ripresentiamo a voi con nuova veste grafica, nuova impaginazione, nuova carta e, dulcis in fundo, con una nuova periodicità; Lettere Meridiane passa infatti da trimestrale a bimestrale, con l’obiettivo di arrivare entro un anno a mensile. Non avendo vinto al Superenalotto siamo stati costretti ad aumentare il prezzo, fissandolo a 2 euro ci siamo allineati al costo medio di un periodico. Abbiamo rafforzato la redazione con l’arrivo di Alessandro Crupi, mentre l’elenco dei collaboratori si arricchirà presto di altri nomi prestigiosi. Lo scorso settembre, nell’editoriale del numero 19, parlavamo di “Un’altra estate da dimenticare”, da allora è passata un’intera stagione e francamente motivi di ottimismo non se ne sono registrati; violenza, degrado e disservizi sono stati ancora una volta la cifra dominante della vita sociale del Mezzogiorno d’Italia. La violenza e i disservizi gravano sulle spalle di imprenditori e cittadini, il degrado è sotto gli occhi di tutti; provate a mettervi su un treno in direzione Roma - Reggio Calabria e guardate dal finestrino, una volta superato il Lazio noterete un brusco cambiamento del paesaggio: cemento, sporcizia, disordine, incuria e abbandono vi accompagneranno in un doloroso crescendo fino a Reggio. Paradossalmente gli amministratori delle regioni del Sud continuano a parlare di turismo come salvifica prospettiva di sviluppo, ma non riusciamo proprio a immaginare tour operator ed imprenditori alberghieri di un certo livello, alle prese con un contesto ambientale che è lontano anni luce da quello delle vere capitali del turismo. Il futuro delle regioni meridionali deve passare preliminarmente da una bonifica del territorio e, conseguentemente, del paesaggio; per raggiungere questo risultato nel breve periodo, sono necessarie precise volontà politiche che inevitabilmente debbono essere sostenute da un apparato legislativo che rivesta i caratteri dell’eccezionalità. La famosa “Legge Obiettivo” che è stata studiata per portare a compimento le grandi opere pubbliche, tra i tanti difetti ha l’unico grande pregio di semplificare le “espropriazioni per pubblica utilità”; quello di cui ha veramente bisogno il Mezzogiorno è di una “Legge Obiettivo” che disciplini non più le edificazioni, bensì le demolizioni, bisogna espropriare tutte le orribili costruzioni che deturpano il nostro territorio e, semplicemente, demolirle. L’unica variante di cui hanno bisogni i piani regolatori delle nostre province è la Variante Caterpillar!
Nel frattempo invece è in stato avanzato il progetto di realizzazione di ben 81 centri commerciali (nella sola Sicilia) per un totale di 842.000 metri quadrati, una valanga di calcestruzzo, milioni di metri cubi di cemento per realizzare altre abbacinanti isole di alienante consumismo. Il procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Roberto Scarpinato, coordina le inchieste sulle attività economiche, diciamo così “pulite”, della mafia; a proposito del fenomeno dei centri commerciali dice: “Le regioni del Sud sono la Singapore del Mediterraneo dove i centri per la grande distribuzione sono diventati lavatrici del denaro sporco dei mafiosi”.
Se qualcuno dovesse pensare che io sia “uscito fuori tema” e che tutto ciò non c’entri nulla con la cultura, è pregato di smettere subito di leggere Lettere Meridiane.
Franco Arcidiaco

SESSO, DOLCI E CAMILLERI. COME TI COSTRUISCO UN BEST SELLER

IL CONTO DELLE MINNE di Giuseppina Torregrossa, Mondadori 2009
Gli ingredienti per fare un bestseller ci sono tutti e sono distribuiti sapientemente nelle 316 pagine; un’operazione editoriale paracula a cominciare dal titolo e dalla copertina, per non parlare dei neologismi dialettali alla Camilleri (di cui francamente non se ne può più) sparsi a profusione nel testo. Un carosello di luoghi comuni, un bignamesco copia-incolla dalle pagine della sterminata letteratura isolana. Qualche sprazzo di buona scrittura che alimenta il sospetto, considerato il contesto, di scarsa originalità; ma non è un libro da buttare, tra incongruenze narrative e gratuite banalità si scorgono vari passaggi coinvolgenti e suggestivi di grande tono letterario. Tutto ciò non fa che aumentare la sensazione di trovarsi davanti ad un lavoro posticcio, a una creatura letteraria da laboratorio. Sono anni ormai, esattamente dall’esplosione della bomba Camilleri, che gli editori italiani di prima fila hanno deciso di seguire la lezione dei colleghi americani, arruolando un esercito di ghost writer che sforna su misura quei dieci/quindici libri di successo l’anno necessari a mantenere il fatturato; e pensare che ci sono ancora imbecilli che spendono una fortuna per spedire i loro manoscritti alle grandi case editrici, tonnellate di carta sul cui destino c’è solo da sperare che non vada a finire in discarica ma venga almeno riciclata. Prendiamo i vari Grisham, Smith, King e Cornwell; in America si sforna con i loro nomi almeno un bestseller l’anno, e parliamo di tomi da 4/500 pagine minimo, per non parlare di Michael Crichton, morto prematuramente due anni fa, del quale è già stato confezionato il primo postumo (naturalmente ritrovato nel suo computer già bell’e pronto), L’isola dei pirati, 332 pagine di avventure mirabolanti, come se Emilio Salgari non fosse mai esistito. In Italia invece continua il fenomeno Camilleri, che, alla tenera età di 85 anni, sforna un bestseller dietro l’altro per la felicità della Mondadori di quel Berlusconi che poi, dalle pagine di Micromega, si diverte pure a sputtanare. Magari un’ideuzza, questi campioni delle vendite, la tireranno pure fuori autonomamente, ma agli ingredienti giusti per il successo state pur certi che ci pensano gli editor con le loro squadre di redattori-fantasma e i responsabili del marketing con le note ai giornali e le comparsate televisive. Ma torniamo al nostro libro, come vi dicevo questo Conto delle minne ha un andamento schizofrenico, dal passo classico-diaristico della prima parte si arriva a bollentissime pagine hard che potrebbero entrare a pieno titolo nel catalogo della benemerita (quella si!) casa editrice Olympia press, storico editore di libri porno di cui ogni porcellone che si rispetti ha almeno una decina di titoli negli scaffali più irraggiungibili della sua biblioteca. “Santino c’è un modo perché tu possa essere il primo. Vieni domani da me.” Così risponde la protagonista quando l’amante (il mitico Santino Abbasta) confessa il rammarico per non essere stato il suo primo uomo, e lei non si perde d’animo, sentite: “Mi tolgo la gonna e la camicetta, rimango con una sottoveste corta di seta rossa; da sotto spuntano un reggicalze e il bordo delle calze. Ho le cosce in carne, quanto gli piacciono a Santino…”, passa quindi a descrivere con dovizia di particolari la concessione del lato b e conclude sapiente: “Il dolore è un secondo di sospensione tra l’attesa che il rito si compia e il piacere che sale violento sotto la pelle, una corrente elettrica tra i muscoli e le ossa, una gioia che scioglie la distanza, sento perché lui sente, godo perché lui gode, esisto perché è lui che mi fa esistere.” Viene fatta così definitivamente giustizia di due secoli di letteratura femminile virginiawolfeggiante , e l’uomo torna trionfante al suo ruolo di dominatore di docili schiave che non hanno altro desiderio se non quello di far godere con ogni mezzo il maschio che le ha scelte. A tutte le mie amiche tardo femministe, compresa la mia cara compagna di pagina, domando come avrebbero reagito se queste pagine le avesse scritto un uomo; da parte mia vi assicuro che per molto, ma molto, meno mi sono ritrovato, negli anni 70, con la foto segnaletica in tutti i circoli femministi della città, sede dell’Udi compresa.
Franco Arcidiaco

UN MARZIANO TRA I BANCHI DI SCUOLA

L’anno scolastico 1970/71 fu, per gli studenti reggini, un anno “virtuale”; imperversava in città la rivolta, e il Boia chi molla copriva di un tetro colore nero genuini movimenti di contestazione che in tutte le altre parti del mondo erano ammantati di ben altro colore vermiglio. Le scuole di Reggio erano state trasformate in caserme per i celerini e le poche funzionanti erano disertate dalla stragrande maggioranza degli studenti che aderivano allo sciopero per il capoluogo. I pochi studenti di sinistra, tra cui il sottoscritto, dovevamo sfidare lo scherno e le aggressioni per frequentare le lezioni, ed il solo andar in giro con i libri sottobraccio (non era ancora il tempo degli zaini, i libri si portavano a mano stretti da un elastico) metteva a repentaglio la nostra incolumità. Frequentavo il neonato Liceo Volta, sorto da una costola del già all’epoca affollato Vinci, ed era l’anno della maturità; il liceo sorgeva nella sede dell’ex Istituto S.Prospero e la quasi totalità del corpo insegnante era di matrice cattolico-oltranzista, l’insegnante di Lettere, la famigerata signorina Aricò, era preda quotidiana di deliri mistici e le sue lezioni non andavano oltre la declamazione trasfigurata dei primi canti del Paradiso di Dante. La mia buona stella fece sì che arrivasse in classe uno studente milanese, Gino Messineo, che nei due anni precedenti aveva militato nel Movimento Studentesco e per questo era stato espulso dalle scuole lombarde, era arrivato a Reggio grazie a due vecchie zie zitelle che si erano assunte l’onere di redimerlo; inutile dire che il suo inserimento in classe fu provvidenziale sia dal punto di vista teorico che…fisico (era un valente rugbista). Il prof. di Storia e Filosofia si chiamava Giuseppe Quattrone ed era l’unico tra i docenti che manifestava apertamente idee di sinistra, fu così che un giorno ci ritrovammo tra i banchi un prof. di Inglese del Vinci che veniva a parlarci di cinema; il mio primo contatto con Sebastiano Di Marco avvenne così: a bocca aperta ad ascoltare un marziano che parlava di cinema come cultura e di scuola come tempio della politica, che andava avanti e indietro per la classe con la borsa di Tolfa (la mitica Catana) a tracolla e l’aria da asceta laico. Il Chaplin era nato pochi anni prima (fu praticamente l’unico atto concreto dell’asfittico sessantotto reggino) e Sebastiano, da vero grande militante culturale, andava tra gli studenti per illustrare l’attività del Circolo nel tentativo di avvicinare almeno le nuove generazioni ad un modello di cinema ben lontano da quello che imperversava nelle sale reggine. Chi ha provveduto in questi ultimi anni, soprattutto dall’interno, a demolire il mito del PCI, ha diffuso leggende pretestuose sulla presunta rigidità ideologica degli intellettuali militanti comunisti, fingendo di non sapere nulla dello spirito irregolare, della curiosità per il nuovo e del parallelo pessimismo dell’intelligenza, del gusto per il lavoro (quel Lavoro Culturale, così bene messo alla berlina da Luciano Bianciardi) che li spingeva ad operare, impiegando con abnegazione e senza alcun tornaconto personale tutto il loro tempo libero. Sebastiano era un intellettuale con un forte senso critico e non si può certo definire un intellettuale organico (nel senso gramsciano di organico a una classe), era un borghese illuminato (come tanti a quei tempi) che aveva abbracciato l’idea comunista ed aveva trovato un sicuro approdo in quello che in quel periodo era il Partito per antonomasia, il PCI appunto. Negli anni successivi ho militato a lungo affianco di Sebastiano nella stessa sezione, la storica Nino Battaglia del quartiere San Brunello, e tante sono state le volte in cui ho dovuto registrare e contrastare i mugugni dei compagni chiaramente frastornati dall’inorganicità di Sebastiano. La stessa candidatura a Consigliere comunale, nacque per meri motivi di facciata e posso tranquillamente testimoniare dell’assenza del suo nome nei fac-simile che venivano distribuiti durante la campagna elettorale; alle mie rimostranze, e non certo a quelle di Sebastiano che aveva accettato la candidatura per puro spirito di militanza, i dirigenti mi risposero candidamente che “Di Marco doveva portare i voti dagli ambienti intellettuali e borghesi progressisti”, sottraendogli così i voti dello zoccolo duro della base che erano l’unica garanzia di elezione. Altri valorosi intellettuali, della sua stessa estrazione, quali Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, avrebbero subito più o meno la stessa sorte costretti a dolorose dimissioni da consiglieri comunali di Palermo, proprio per contrasti con il Partito. Il rapporto tra gli intellettuali e il PCI fu sempre problematico, e fiumi di inchiostro sono stati versati sull’argomento ma oggi, nonostante tutto, non possiamo far altro, di fronte allo sfacelo della società civile e politica, che rimpiangere quei tempi in cui le dispute avvenivano su un terreno squisitamente ideologico. I presunti neocomunisti, che inopinatamente hanno ereditato il patrimonio del PCI, sono andati giustamente alla deriva e inorridiscono (io stesso ho subito il rimbrotto di Paolo Ferrero in un dibattito) quando si parla di nostalgia; poveretti, non sanno che paura della nostalgia significa paura del proprio passato, vivesse ancora oggi Sebastiano glielo spiegherebbe probabilmente con un riferimento cinematografico, scomodando il regista tedesco Edgar Reitz che, nel suo capolavoro Heimat, teorizza il sentimento del heimweh (letteralmente il dolore della casa): vale la pena vivere se non hai un posto in cui ti senti a casa? Sebastiano posti dove si sentiva a casa, come tutte le persone in regola con la propria coscienza, ne aveva più d’uno e tra questi c’era la sua città acquisita, quella Reggio Calabria che viveva gli anni terribili del degrado e della guerra di mafia. Alla nostra città dedicò quel crudo testamento spirituale che è Psulla, Sebastiano viveva drammaticamente sulla propria carne il degrado urbanistico e morale (circostanze che non a caso vanno sempre a braccetto) che lo circondava; quando andavamo in giro per i quartieri, era sempre col naso in su ad indicare le superfetazioni che sfregiavano i bei palazzi di quella che era stata la Reggio bella e gentile del post-terremoto e si dannava per la facciate non rifinite e per la volgarità che lo circondava. La cattiva sorte gli ha almeno risparmiato di vivere questi tempi assurdi, in cui il degrado e la volgarità si sono istituzionalizzati e si annidano nei palazzi del potere.
Con questa impegnativa operazione editoriale abbiamo voluto, con la fattiva collaborazione dei familiari e degli amici e con l’impegno dei dirigenti (passati e presenti) dei circoli Chaplin e Zavattini, raccogliere, conservare e divulgare l’opera omnia di Sebastiano Di Marco; siamo certi che il suo inestimabile valore possa essere di grande ausilio alle nuove generazioni così come il suo lavoro diretto lo fu alla nostra. Un mio ringraziamento personale va al maestro editore Giuseppe Gangemi che, con la sua abituale signorilità, ha concesso la riproduzione di Psulla e della raccolta poetica in questa edizione.
Franco Arcidiaco

LETTERA APERTA AL GOVERNATORE SCOPELLITI

Caro Presidente,
come saprà (ci conosciamo da molti anni ed entrambi abbiamo avuto rispetto reciproco delle diverse posizioni politiche) io non la ho votata.
Sono un uomo di sinistra e credo che così sarò sino alla fine. Ma, al di là delle divergenti convinzioni politiche, avendo sempre riconosciuto in lei notevoli capacità decisionali e sensibilità culturale, le chiedo di intervenire, in questa fase di “vacatio”, per evitare l’assenza della Regione Calabria e degli editori calabresi al “Salone Internazionale del libro” di Torino.
Come analogamente saprà – lo premetto doverosamente – dal punto di vista personale e della mia casa editrice, “Città del Sole edizioni”, potrei non essere particolarmente interessato a tale presenza. Già da numerosi anni, difatti, la mia casa editrice è presente autonomamente con uno stand a questa manifestazione (come, peraltro, anche alla “Fiera della piccola e media editoria” di Roma). Ed anche quest’anno presso la Fiera torinese ci sarà, con analogo stand.
Soprattutto negli ultimi anni, tuttavia, ho fortemente apprezzato lo stand regionale che, dando una mano a tutti gli editori della Calabria, ha realizzato un grande e positivo impatto della cultura regionale presso il più prestigioso proscenio culturale nazionale.
Mi permetto di rivolgermi a lei in quanto, a quel che pare, la precedente gestione non ha lasciato alcuna indicazione chiara circa la continuazione di questa pluriennale esperienza di promozione culturale. E pare che l’apparato amministrativo della Regione non può assumersi una tale responsabilità. Le mie notizie sono indirette, la mia conoscenza del diritto amministrativo è relativa: potrei dunque essere in errore. Ma certamente, fra una cosa e l’altra, il rischio che quest’anno lo stand regionale sia assente al Salone di Torino lo vedo molto presente concreto. Anche e soprattutto perché i termini per l’iscrizione scadono proprio in questi prossimi giorni!
Ne verrebbero danneggiati in primis quella trentina di piccoli editori che, evidentemente non avendo le capacità strutturali per una partecipazione autonoma, non potranno più basarsi sullo stand regionale per l’esposizione (e/o la vendita) dei propri libri. Non potrebbero effettuare più le presentazioni delle proprie pubblicazioni. Non potrebbero più avere una base efficace per i propri contatti con nuovi potenziali autori, distributori, librerie, ecc.
Si tratta, come avrà compreso, di servizi che ha utilizzato anche “Città del Sole edizioni” in quanto, grazie allo stand regionale, anche noi abbiamo potuto usufruire di un servizio più ampio di quello che avremmo potuto organizzare tramite il nostro stand aziendale.
Ma, alla fin fine, la mia casa editrice, grazie al proprio stand, potrebbe anche ovviare alla mancanza regionale. Ad essere fortemente danneggiati sarebbero invece gli altri editori più piccoli ma, anche e soprattutto, la stessa immagine culturale della Regione Calabria.
Anche se dunque interessato solo in parte, intendo offrire una testimonianza quanto più possibile oggettiva del valore positivo che tale partecipazione alle precedenti edizioni della Fiera ha rappresentato, in primis per l’immagine della regione, ma anche per la cultura e l’imprenditoria regionale, come impulso allo sviluppo e come momento di confronto con il panorama nazionale e internazionale del settore editoriale.
La presenza della Regione Calabria, che ha visto il numero di editori partecipanti salire anno dopo anno (oltre 30 nel 2010), è stata un’iniziativa positiva sotto molteplici aspetti, perché:
- ha consentito alla migliore espressione intellettuale calabrese, rappresentata – attraverso le piccole case editrici – nella capillarità del tessuto culturale del territorio, di “uscire dal ghetto” e rendersi visibile in una vetrina variegata e di ampia risonanza;
- è riuscita a produrre – sotto l’egida dell’ente regionale – un’unità di sforzi e di intenti tra le diverse realtà imprenditoriali della regione, superando personalismi e contrapposizioni: un’importante esperienza di sinergia che può portare a più significativi esempi e alla formazione di una coscienza civile e collettiva nella regione;
- ha potuto aprire le porte a momenti di dibattito e di confronto su importanti tematiche di attualità e non solo, attraverso le presentazioni di libri e gli incontri culturali ospitati nello stand regionale: si è parlato di ’ndrangheta, ma anche di archeologia, di arte, di storia e di tradizioni;
- non da ultimo, è stata di stimolo e di impulso alla crescita economica della regione offrendo alle iniziative imprenditoriali una vetrina illustre e la possibilità di venire a contatto con un’amplissima fascia di pubblico nazionale e internazionale;
- infine, proprio perché ubicata in una città industriale come Torino – ed è facile rendersene conto “in diretta” partecipando alla Fiera – ha contribuito a rafforzare una coscienza identitaria regionale nelle (ahinoi) molte persone che, avendo dovuto lasciare la propria terra in cerca di lavoro, hanno potuto ritrovare l’eco (e l’orgoglio) delle proprie radici appunto visitando lo stand.
Ma prima di tutto e soprattutto, essere presenti al Salone di Torino con uno stand della Regione Calabria ha voluto dire contribuire a costruire e promuovere nella percezione collettiva nazionale ed internazionale un’immagine concreta, fattiva e positiva della nostra regione.
Ecco perché, dopo tanti anni di partecipazione, non esserci sarebbe una “grande” e grave assenza.
Le persone che hanno visitato la Fiera di Torino l’anno passato sono state più di 300.000. Vi sono stati più di 1.000 convegni e dibattiti, circa 2.800 tra giornalisti, fotografi e video-operatori accreditati e oltre 3.000 articoli e servizi giornalistici hanno coperto l’evento, dalla presentazione del tema annuale nel mese di dicembre. Un successo che si rinnova e si moltiplica di anno in anno. È poco poter dire che “anche noi c’eravamo”?
Sarebbe un vero peccato pensare che tali visitatori, che non è esagerato considerare in buona parte come gli “opinion maker” nazionali, non possano più vedere e sfogliare (e, magari, anche acquistare) i libri sulla storia e sulla cultura calabrese, i romanzi ed i saggi di autori calabresi, le guide turistico-culturali della nostra regione. Come sarebbe un peccato non poter mostrare a tali visitatori come spesso gli editori calabresi siano in grado di inserirsi a pieno titolo nel mondo culturale nazionale (e talvolta anche internazionale) tramite autori e/o temi italiani ed esteri.
La Calabria, e noi lo sappiamo bene, non è solo Duisburg.
E non c’è modo migliore di uno stand di libri per far vedere che nella nostra regione si produce anche cultura, dibattito, coscienza civile, letteratura, imprenditoria e, soprattutto, un’eccellenza dell’intervento pubblico. La invitiamo a dimostrarlo.

Franco Arcidiaco (editore di “Città del Sole edizioni”)