giovedì 30 ottobre 2014

CAMERA DI COMMERCIO, POLTRONIFICIO ED ENTE INUTILE

Il candidato sindaco Lucio Dattola, espressione degli ex dentisti e della burocrazia impiegatizia nostalgica del vecchio regime, sfodera nel suo pedigree (oltre ad altri incarichi tutti di chiara espressione politica) la grande e pluriennale capacità di gestire quello che lui ritiene un Ente d’importanza primaria. Si dà il caso, invece, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi vorrebbe eliminare le camere di commercio per accorparle agli uffici dei comuni e dei ministeri, oltre ad esentare le imprese dall'obbligo d’iscrizione che va dagli 88 euro per le piccole imprese, ai 40mila per le industrie. Una vera e propria decapitazione che interesserebbe 105 enti camerali in Italia e 70 sparsi all'estero.
La Camera di Commercio è un ente inutile e costoso; faccio un esempio: le mie due società pagano dal 1997, anno della loro fondazione, intorno ai 500 euro l'anno senza mai aver ottenuto nulla in cambio. Con l'aggravante che le poche volte che ho avuto bisogno di un certificato d’iscrizione o una visura ho dovuto pagare lauti diritti di segreteria. Chi difende le Camere di commercio, non difende uno strumento utile alle imprese ma un generoso poltronificio.
L’ente inutile, sulla cui poltrona è incollato saldamente il dr. Lucio Dattola, svolge esclusivamente attività di rappresentanza; l'attività istituzionale, intesa come promozione dello sviluppo, non esiste. Reggio è da anni priva di un sistema fieristico degno di questo nome e, per dirne una, non si registra alcun intervento della Camera di commercio sull'aeroporto come avviene invece in tutte le altre città d’Italia. Dattola è un ex dentista, non risulta infatti essere titolare di partita IVA, non si capisce come sia potuto diventare presidente visto che non rappresenta alcuna categoria commerciale.
Verificando il bilancio della Camera di Commercio di Reggio Calabria si rilevano alcuni spunti interessanti che determinano alcune considerazioni:
1) E’ un bilancio molto ridotto che non arriva neanche a 10 milioni di euro (9.631.111,00);
2) Per il 98% le entrate derivano da diritti fissi (quote associative e diritti di segreteria);
3) Il 40 % delle spese viene assorbito dal personale e dalle spese di funzionamento;
4) Solo il 25% delle spese viene dedicato agli interventi economici a favore degli associati;
5) La gestione corrente è in rosso oramai da anni (- € 1.744.720 per il 2012 e -€ 938.721 per il 2013);
6) Presenta una liquidità di oltre 14 milioni di euro e un patrimonio in BTP per quasi 5 milioni di euro.
Quindi questa tanto auto decantata capacità del presidente di gestire in modo mirabolante l’Ente, consiste precipuamente nell’attività di riscossione delle quote (98% dell’intero bilancio), nel pagamento del personale e dei collaboratori (alcuni provenienti addirittura da altre regioni) e nelle spese di funzionamento dell’Ente stesso (40% della spesa). L’ingente liquidità di cassa che presenta (oltre 14milioni di euro) è incompatibile con la corretta gestione di un ente pubblico, se si pensa che per gli interventi a favore degli associati viene dedicato solo il 25% del bilancio e che detiene BTP per quasi 5 milioni di Euro.
Pensate che un bilancio di queste dimensioni, è simile a quello di un istituto scolastico professionale di medie dimensioni che in genere viene affidato ad una sola persona, la figura dell’ex segretario scolastico.
Se pensiamo che una delle prime accuse mosse da Lucio Dattola a Giuseppe Falcomatà è stata quella di non essere in grado di leggere un bilancio, viene francamente da sorridere.
Franco Arcidiaco

mercoledì 17 settembre 2014

FORTEBRACCIO, MONTANELLI, PITOS O LA SUBLIME ARTE DEL CORSIVO

Il corsivo, tra le varie manifestazioni dell'arte giornalistica, è certamente la più raffinata ed è, secondo me, l'ideale punto d'incontro tra giornalismo e letteratura. Se vogliamo prendere per buona la definizione del grande filosofo Friedrich Hegel, che definisce la lettura del giornale "la laica preghiera del mattino dell'uomo moderno", ci possiamo spingere a ritenere il corsivo una sorta di sublimazione di questo rituale; uno degli aspetti più evidenti del corsivo è proprio la reiterazione quotidiana (o settimanale come nel caso del nostro Pitos) che produce una decisa fidelizzazione del lettore. Oggi i giornali abbondano di corsivi ed è ormai di prammatica per il lettore andare a cercare in fondo pagina gli epigoni di un genere che "L'Unità" aveva lanciato con il mitico Fortebraccio, al secolo Mario Melloni. Coltissimo, elegante, eppure semplice e limpidissimo, Melloni usava lo pseudonimo di Fortebraccio, il personaggio dell’Amleto che entra in scena quando tutti i protagonisti sono morti, a raccogliere le testimonianze del dramma e a ordinare che venga reso onore al principe danese. I bersagli della sua satira erano i protagonisti della politica italiana, e il suo corsivo era la prima lettura quotidiana anche per molti lettori di idee politiche diverse o addirittura opposte. Il genere non è nato, come molti ritengono, con Fortebraccio; i manuali di giornalismo lo fanno risalire addirittura ad Antonio Gramsci, a Palmiro Togliatti (che si firmava "Roderigo di Castiglia" su "Rinascita") e Giulio De Benedetti storico direttore de "La Stampa" che, dal 1948 al 1968, firmava in prima pagina gli editoriali per esteso e i corsivi con la sigla Gdb. Arrivò poi, con il suo "Il Giornale", un altro gigante del giornalismo italiano, Indro Montanelli che denominò la sua rubrica "Controcorrente". A seguire, Luigi Pintor e Valentino Parlato su "Il Manifesto". Oggi l'arte del corsivo prosegue gloriosamente il suo cammino: un grande giornale come "La Stampa" ospita ben due corsivisti popolarissimi, quali Massimo Gramellini e Jena (al secolo Riccardo Barenghi), quest'ultimo arrivato tra le colonne del giornale di casa Fiat proveniente dritto dritto da quelle del quotidiano comunista "Il Manifesto"; gli altrettanto celebri Michele Serra ("L'amaca") e Sebastiano Messina ("Bonsai") sono molto seguiti, entrambi, su "La Repubblica". Non includo volutamente nella schiera il bravissimo Marco Travaglio, perché, pur riecheggiando nella sua dotta e colorita scrittura temi propri dei due numi tutelari del genere, produce quotidianamente dei lunghi editoriali che nulla hanno a che vedere con il corsivo propriamente inteso, che deve essere lapidario, un cameo in forma di scrittura, dal tono polemico, tagliente e ironico. L’errore più diffuso consiste proprio nel ridurre il corsivo a “editoriale in miniatura”, ciò non rende giustizia a un genere giornalistico che ha invece una sua identità precipua e, come abbiamo visto, una tradizione di prestigio. I corsivi che Pitos ha voluto denominare "A prescindere", in omaggio al grande Totò (che nella stagione 1956-1957 aveva portato nei teatri di mezza Italia, una rivista con questo nome) corrispondono perfettamente a questo stereotipo e costituiscono, per i lettori de "La Gazzetta del Sud", una piacevolissima e sorprendente nota "anarchica" tra le colonne di un giornale che ha fatto dell'aplomb istituzionale il suo segno distintivo. Nel libro troverete una ricca selezione di quelli che Pitos, con signorile minimalismo, ha voluto definire "graffi"; quindici anni di vita reggina e calabrese riassunti sul filo dell'ironia, dallo stile magistrale, colto e coinvolgente allo stesso tempo. Esilaranti sono i ritratti di noti protagonisti della vita politica e sociale cittadina con il risultato, come succedeva per Fortebraccio, che gli unici che ritengono di aver un buon motivo per sentirsi offesi sono quelli che non appaiono nei corsivi di Pitos, annientati dalla vera arma letale del secolo della comunicazione e della rivoluzione mediatica: l'indifferenza.
Franco Arcidiaco



















mercoledì 25 giugno 2014

LETTERA NON PUBBLICATA DA "ZOOMSUD"

Caro Aldo, consapevole di correre il rischio di finire nella “colonna infame” del “riceviamo e pubblichiamo”, ti chiedo di pubblicare questa mia nota volta a chiarire al tuo collaboratore Massimo Acquaro alcuni aspetti della politica reggina che lui ama interpretare a suo piacimento. Seguendo il tuo illuminante metodo (salvo stabilire se sei stato tu o Eugenio Scalfari ad inventarlo) passo a schematizzare numericamente i vari passaggi.
PRIMO: La circostanza che la campagna elettorale si svolga d’estate, fa temere ad Acquaro che finisca con lo svuotarsi di contenuti o peggio si deteriori al punto tale di “puzzare di stantio”. Desidero tranquillizzarlo su questo aspetto, alle nostre latitudini il timore che il caldo possa bloccare o deteriorare l’attività politica mi sembra un’argomentazione francamente risibile. Basterebbe solo ricordare la data d’inizio della rivolta (luglio 1970) per capire come i reggini non sono certo un popolo che va in letargo d’estate.
SECONDO: Secondo Acquaro, bontà sua, il Csx “schiera persone autorevoli” subito dopo però le seppellisce sotto una caterva di “ex”, a questo proposito mi piacerebbe capire cosa intende quando parla di “ex-famiglie”. Non so dove abbia vissuto nel periodo del “Modello Scopelliti”, sono costretto pertanto a informarlo che i consiglieri comunali del Csx, unitamente a Demetrio Naccari Carlizzi, non solo hanno tamponato lo tsunami Scopelliti ma, dopo aver invano chiesto conto e ragione nel civico consesso, hanno raccolto documenti inoppugnabili e li hanno portati alla Procura della Repubblica. Sappiate cari amici di ZoomSud che senza quell’intervento, il “pignatone” non avrebbe mai iniziato a bollire e il sistema Scopelliti-Fallara si sarebbe perpetuato per chissà quanto tempo ancora. E quando dice che “nessuno disturbava il manovratore” parli per lui, ci sono state decine di militanti e giornalisti liberi, compreso il sottoscritto, che si sono guadagnati proprio per il loro attivismo l’infamante epiteto di “nemici di Reggio”.
TERZO: Fa bene Acquaro a dire che alla guida della città conta innanzitutto la leadership morale, così facendo tratteggia praticamente le figure di Mimmo Battaglia e Peppe Falcomatà.
QUARTO: In quanto alle idee lo informo che ne abbiamo da vendere, se mi fornisce un indirizzo email gliene rovescio una vagonata.
QUINTO: Apprendo che porzioni importanti dell’intellighenzia reggina si sarebbero compromesse col “sistema Scopelliti”; mi domando per quale motivo, essendo in possesso di informazioni così gravi e devastanti, non le abbiate esposte sulle colonne di “ZoomSud”. Nel frattempo suggerisco di dare una guardatina agli archivi di “Strill.it”, “Il Quotidiano” e “TeleReggio” per vedere cosa scriveva e denunciava il sottoscritto.
SESTO: Sull’ultimo capoverso stendo un velo pietoso, anche perché commentarlo significherebbe dover prendere atto tristemente della deriva grillina del mio amato “ZoomSud”.
Franco Arcidiaco, militante del PD, orgogliosamente di parte.

martedì 24 giugno 2014

IL PD REGGINO TRA OSSIMORI, PAPI NERI E GUASTATORI

L’incontro organizzato da Leo Pangallo, sotto le insegne dell’Associazione Nuova Polis della quale mi onoro di esser socio della prima ora, ha portato a compimento un percorso che era stato avviato con la messa in circolazione del famoso “Foglio Excel”; un documento che cittadini di buona volontà e di provato senso civico, avrebbero dovuto riempire di contenuti e di stimoli utili a posare i binari sui quali dovrebbe sfrecciare il treno della rinascita e della riscossa della città. Effettivamente nella calda sala dell’Università Mediterranea, appena colpita dal fatale disastroso bilancio del Sole 24 Ore che misura impietosamente le performance dei vari atenei, è convenuta buona parte dell’intellighenzia reggina schierata più o meno con il Centrosinistra, ma sicuramente ascrivibile al “cerchio magico” che ruota attorno a quel florido pensatoio che è diventato negli ultimi anni il sito “ZoomSud” diretto da Aldo Varano. Non ho il compito ingrato del cronista, pertanto mi astengo dal tracciare la sintesi dei vari interventi che mi limito a definire: appassionati, documentati, compilativi, argomentati, pertinenti, superflui, noiosi, lobbystici, scontati, stilisticamente sempre in bilico tra i “cahiers de doléances” e le cronache del day after. Questa è la Democrazia signori e bisogna farsene una ragione, d’altra parte proprio in nome di questa presunta (direi malintesa) democrazia, tra quindici giorni esatti si celebreranno in città le primarie del PD e del CSX per la scelta del candidato a sindaco. Sono in una fase di profonda riflessione, l’età che avanza e le innumerevoli ferite da leccare fanno vacillare le mie dogmatiche certezze. Mi crescono un sacco di scrupoli; scuola comunista sovietica ma di osservanza renziana, sono un ossimoro che cammina. Figuratevi se devo essere proprio io a parlarvi di elezioni e per giunta di un istituto, quello delle primarie italiane, adattato sull’esempio di altre culture politiche, che trasforma in burletta alcuni dei temi che sono la polpa di una democrazia. Trovo sorprendente, pertanto, che all'assise di Nuova Polis si sia voluto completamente ignorare questa fondamentale e ineludibile circostanza. Tutte le belle intenzioni scaricate sul "Foglio Excel" se ne andranno praticamente a ramengo, se il prossimo 6 luglio dalle urne delle primarie non dovesse uscire il candidato sindaco "giusto". "Madamina il catalogo è questo", avrebbe detto il buon Leporello, fedele servitore di Don Giovanni. E il catalogo sciorina 4 nomi, di cui due organici del PD nonché figli d'arte e due valenti e stimati medici, dal passato politico indecifrabile, che finiranno inevitabilmente col rivestire il ruolo di guastatori. Enzo Amodeo e Filippo Bova sono infatti emanazione di due politici a lunga conservazione, Pasquale Tripodi e Peppe Bova, che stanno al nuovo corso renziano come io alla superiora di un convento di Carmelitane scalze. Mimmo Battaglia e Giuseppe Falcomatà sono dunque i candidati ufficiali di un partito che ancora a Reggio non ha una forma definita, con l'aggravante che questo scetticismo disfattista alligna proprio tra le fila della parte nobile della sinistra reggina. E via dunque con sciocchi luoghi comuni: "Peppi Falcomatà è figghioleddhu e Mimmettu Battaglia non avi carisma"; il tutto condito da una sovrana indifferenza nei confronti di una campagna elettorale che i due stanno conducendo con ardore e passione. Mi domando a chi possa giovare questo atteggiamento che non ho alcuna esitazione a definire irresponsabile e deleterio e porta a delegittimare due validissimi candidati. Molto probabilmente qualcuno di questi cervelloni avrà in mente la carta del "Papa Nero", sappia allora che con uno di essi ho parlato spesso in questi giorni, ma più che nero l'ho trovato livido, livido di rabbia per questo modo di condurre il gioco che sta portando la coalizione a sbattere contro il muro di una nuova e drammatica sconfitta. Sto seguendo dall'inizio la campagna di Peppe Falcomatà, mi hanno molto colpito la disinvoltura con la quale si porge alla gente, la capacità oratoria e la competente semplicità delle argomentazioni. Da questo giovane, che sprezzatamente i professionisti del fuoco amico continuano a definire giovane e inesperto, sta arrivando in questi giorni una grande lezione di maturità e serietà: più di una volta ha ripetuto infatti che in caso di sconfitta alle primarie non esiterà a schierarsi a fianco del vincitore per sostenerlo in una battaglia che da quel momento in poi sarà comune. Mimmo Battaglia ha confermato la stessa intenzione, insomma il PD a Reggio ha finalmente trovato due leader, entrambi credibili, che vanno sostenuti con convinzione e soprattutto lealtà.
Franco Arcidiaco
PS La pubblicazione di questo articolo è stata rifiutata dal direttore di "ZoomSud" Aldo Varano ed è stata invece accettata da "Il Quotidiano".

IL TRIONFO DEL NIENTE

Sciorinare metafore sulla Calabria e i calabresi è come sparare sulla Croce Rossa; quella del “Caciocavallo di bronzo”, ideata da Peppe Voltarelli, è assolutamente geniale. Immaginate un paese della nostra regione la cui economia è basata essenzialmente sull’attività casearia e un comitato di volenterosi cittadini che decide di rendere omaggio e santificare il formaggio più famoso tra quelli prodotti: il caciocavallo appunto. “Una specie di obelisco di tre o quattro metri di altezza e sopra un Caciocavallo di bronzo. Santificare il formaggio più famoso della nostra terra, renderlo immortale…”, è questa la semplice idea che nel giro di poco tempo finisce con lo sconvolgere la vita dell’intero paese. Si creano subito due fazioni contrapposte; gli stessi politici, manco a dirlo, cavalcano strumentalmente la vicenda. Ben presto si scatenano tutte le dinamiche ben conosciute da chi decide di intraprendere una qualunque iniziativa a queste latitudini, “si stava materializzando uno dei punti fermi del pensiero calabro: se non ci sono io non ci deve essere niente e nessuno, risultato trionfo del niente…”. Alla fine la spuntano quelli che ritengono che il monumento sarebbe potuto diventare fonte di dileggio per la comunità, quindi dalle “Istituzioni” arriva il solenne comunicato: “In presenza di una effettiva e palese turbativa dell’ordine pubblico si fa divieto di costruire il monumento denominato Caciocavallo di Bronzo”. Le polemiche sono chiuse e, per usare la geniale chiosa di Voltarelli, “Il niente era salvo”. Peppe Voltarelli è certamente il più celebre “Bluesman” calabrese, d’altra parte ricevere la “Targa Tenco”equivale, per la musica popolare, al conseguimento di una laurea. Con questo libro, anzi con questo “Romanzo cantato e suonato” come lo definisce in copertina, la casa editrice “Stampa Alternativa” manda in libreria un autore degno di affiancare i migliori nomi della cultura popolare italiana. E badate bene ci troviamo al cospetto di un lavoro assolutamente originale nel quale Voltarelli intreccia i brani delle sue canzoni più belle, come in una tela pittorica solida ma al contempo delicata, con la sua trama ed il suo ordito, che coinvolgono il lettore con continui rimandi alla realtà della vita quotidiana nella nostra terra. Un grande cantautore, che non nomino per carità di patria, forse il più amato dalla mia generazione e sicuramente da me, in piena crisi artistica dovuta, pare, a astinenza da nicotina, spopola da un paio d’anni nelle librerie con una serie di volumetti che sono una via di mezzo tra gli sciocchezziari modello “Selezione dal Reader’s Digest” e i sussidiari “amarcord” buoni per le case di riposo per vecchi artisti; in questi giorni addirittura il suo editore ha prodotto una versione tascabile, non si sa mai scappi il bisogno di un ricordino pronto per l’uso. Niente di tutto questo troviamo nel lavoro di Voltarelli, qui siamo in una via di mezzo tra il trattato di sociologia e il canto di dolore di chi sa di aver dato tanto alla propria terra e si ritrova ripagato, nella migliore delle ipotesi, da sciatta indifferenza. Il dialetto è presente ma non in modo gigionesco (alla Camilleri per intenderci): “La mia lingua si difende dagli attacchi degli stupidi, io la proteggo dallo scempio del ridicolo, la incoraggio e la tolgo dal paniere dei prodotti seriali, è una lingua amara e forte e cammina per il mondo con la testa alta…”. E in realtà Peppe porta la sua lingua in giro per il mondo, quel mondo popolato da intere legioni di calabresi che ormai hanno metabolizzato il dolore del distacco e sanno gestire la nostalgia sfoderando una sorta di nobile saggezza, retaggio di antiche culture. Grande è il disincanto del nostro quando parla del suo rapporto con la Calabria “…non facevo mai il bagno davanti casa perché avere l’acqua così vicina mi sembrava una comodità troppo sfacciata…”. E se qualcuno vuole conoscere la fonte d’ispirazione, ecco l’equazione di Peppe Voltarelli: “Il mercato era il mio suono, la mia gente, era ciò che Woody Guthrie era stato per Bob Dylan”.
Franco Arcidiaco






venerdì 2 maggio 2014

DALLA DAMNATIO MEMORIAE AL METODO BOFFO

Caro Aldo per la prima volta mi trovo costretto a dissentire da una tua analisi politica. Permettimi però di cominciare con una citazione da Wikipedia: “Damnatio memoriae è una locuzione latina che significa letteralmente ‘condanna della memoria’. Nel diritto romano indicava una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandarla ai posteri. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata agli ‘hostes’, ossia ai nemici di Roma e del Senato”. La Damnatio memoriae mi è venuta in mente oggi leggendo il tuo, al solito, brillante editoriale sul “Fattore C” e il “Fattore S” di Scopelliti. La tua ricostruzione del “Caso Fallara” è sorprendentemente lacunosa e fuorviante, ed è allucinante la tua convinzione che il merito della demolizione del Modello Scopelliti sia da ascrivere a un manipolo di delatori manovrati da Raffa e Foti. Essendo certo della tua buona fede e conoscendo la tua grande capacità di analisi, debbo ritenere che anche tu sia cascato nella trappola della Damnatio memoriae che ha colpito l’unico grande artefice della disfatta di Scopelliti che ha un nome e ben due cognomi e si chiama Demetrio Naccari Carlizzi. Quel Centrosinistra reggino che tu bolli come “inchiodato a logiche minoritarie” (non è da te ricorrere a vieti luoghi comuni) non ha mai mancato di contestare in Consiglio Comunale l’operato del Sindaco Scopelliti; i verbali delle sedute testimoniano di quante volte sia stata chiesta invano l’esibizione degli atti riguardanti il bilancio e fa veramente sorridere la linea difensiva di Scopelliti e dei suoi principi del Foro basata tutta sulla circostanza che il Sindaco non era tenuto a sapere. Una sola domanda basterebbe a demolire questa tesi: perché non si è allarmato quando dai banchi delle opposizioni venivano mosse quelle gravi contestazioni? Perché non ha chiesto subito delucidazioni alla Fallara? Le carte e i documenti che Naccari, con il valido aiuto di Seby Romeo e degli altri consiglieri di csx, ha portato alla Procura della Repubblica non sono dossier segreti sapientemente confezionati ad hoc, ma documenti pubblici prodotti dall’amministrazione Scopelliti che chiunque avrebbe potuto consultare se solo avesse avuto la voglia e la capacità di leggerli. E’ questa la cosa sorprendente e direi inedita nel panorama politico italiano: un uomo politico preparato a capace come pochi (dote riconosciutagli anche dai più acerrimi nemici), di fronte all’impossibilità di ottenere le risposte ai suoi sospetti attraverso gli ordinari canali istituzionali, ha denunciato alla magistratura le irregolarità riscontrate, con il supporto di una notevole mole di documenti inoppugnabili. La Storia (anche perché la Cronaca non ha il coraggio di farlo) un giorno ci spiegherà il motivo per il quale la macchina della Giustizia abbia deciso di percorrere il tragitto che conduceva dall’indagine al processo, con un vecchio motore diesel piuttosto che con un turbo di ultima generazione…
Come saprai Aldo, due noti giornalisti reggini, Giuseppe Baldessarro e Gianluca Ursini, hanno ricostruito tutta la vicenda in un volume, “Il caso Fallara” appunto, che ha avuto un enorme successo ed è arrivato con anni di anticipo, e senza alcuna smentita o minaccia di querela, alle conclusioni della magistratura giudicante. Tantissimi altri giornalisti, te e il tuo “ZoomSud” compresi, proprio per aver scritto la verità sono stati bollati come “Nemici di Reggio”. E’ questa la situazione caro mio e non ci vuole molto a capire per quale motivo a un certo punto gli avversari di Naccari abbiano deciso di alzare il tiro e dalla Damnatio memoriae siano passati al “Metodo Boffo”; si sono adoprati a fabbricare dossier e hanno partorito la vicenda del tentativo di corruzione di Naccari a favore della moglie Valeria Falcomatà. Le indagini sono ancora in corso ma si stanno sfaldando giorno dopo giorno penosamente; ne vedremo presto delle belle e ne avremmo “sentito” anche delle belle se qualche “manina” non avesse provveduto a trascrivere la famosa telefonata della signora Naccari in modo distorto, ad uso e consumo della tesi accusatoria. Concludo con una ciliegina sulla torta fornitami dal collega Davide Varì su queste stesse colonne: tentare di manipolare la stampa non produce nulla di buono, se a Cosenza lo ha capito a sue spese il cinghialone, a Reggio dovrebbe cominciare a capirlo anche il nostro giraffone, le quinte colonne che ha disseminato all’interno delle varie redazioni sono ormai stremate, non sanno più cosa inventarsi e riescono a sfogarsi solo producendo delle locandine surreali. Concludo con una sommessa domanda ai miei cari "compagni" del PD: ormai è diventato un luogo comune descrivere il nostro Partito "inchiodato a logiche minoritarie" se non a pratiche tafazziane o, per dirla con Massimo Canale, carente di autorevolezza. Consapevole di correre il rischio di aggiudicarmi il lecchino d'oro per cinque anni consecutivi, io sostengo che il PD calabrese dispone già di un vero leader, che i galloni di generale se li è conquistati sul campo e si tratta proprio di quell'innominabile dai due cognomi di cui sopra.
Franco Arcidiaco



mercoledì 26 marzo 2014

LA PAGLIUZZA DI NACCARI E LA TRAVE DI SCOPELLITI

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: “...Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. (Dal Vangelo secondo Luca 6,39-42).
Non c'è cosa peggiore di quando metti il Vangelo nelle mani di un ateo comunista, ogni volta che mi capita di sfogliarlo, scatta un riflesso pavloviano che inevitabilmente porta a radicalizzare le mie posizioni. Stamattina, per esempio, leggendo le locandine dell'edizione di Reggio del Quotidiano, la mia mente è andata subito a quella parabola e, di riflesso, a quel "Modello Reggio" di scopellitiana memoria che, dopo aver annientato il tessuto sociale e civile della mia città, ha finito con l'infettare l'intera regione. La vicenda strillata dalla locandina, riguarda la storia della dottoressa Valeria Falcomatà in Naccari, accusata di aver brigato, assieme al marito, per vincere un concorso pubblico di dirigente medico. Partendo dal presupposto che i due coniugi non hanno certo bisogno di un giornalista dilettante quale il sottoscritto che si erga a loro avvocato difensore, quello che mi preme sottolineare è l'evidente disparità di trattamento che viene riservata da alcuni autorevoli organi di informazione, tra cui il Quotidiano, a due politici come Naccari e Scopelliti che, ormai da un decennio, sono i protagonisti indiscussi della politica reggina, per non dire calabrese. Tanta acqua è passata sotto i ponti da quando Naccari, con il valido sostegno dell'attuale segretario provinciale del PD Seby Romeo, ha demolito il "modello Scopelliti" consegnando le inoppugnabili prove dei suoi disastri alla Procura della Repubblica ed al Prefetto. Purtroppo tutto questo tempo non è ancora risultato sufficiente al sistema giudiziario per chiudere conseguentemente la vicenda; è indiscutibile, però, che i fatti succedutisi, dal suicidio della Fallara allo scioglimento del Comune, hanno parlato, per chi ha avuto voglia di ascoltare, più chiaramente di mille sentenze. Attenzione che qui non siamo al cospetto della solita schermaglia tra politici antagonisti, ci troviamo invece davanti ad un caso più unico che raro di un politico di opposizione che, stanti le difficoltà di ottenere le riposte ai suoi dubbi dagli organi politici istituzionali, ha raccolto documenti e prove e li ha consegnati alle autorità giudiziarie. Questa azione ha provocato un vero e proprio terremoto che, nonostante l'incredibile e sospetta prudenza investigativa, ha portato al crollo di un sistema che sembrava inattaccabile. Proviamo ora a mettere sul piatto destro della bilancia, magari quella simbolica della Giustizia, le tonnellate di spazzatura riversate sulle nostre strade, le disastrose condizioni in cui versa il sistema sanitario, il clamoroso dissesto del Comune di Reggio Calabria, il degrado civile e sociale che simboleggia ormai la Calabria in tutto il mondo e sul piatto sinistro la vicenda della moglie di Naccari; ma mi volete dire di cosa stiamo parlando? Pur non essendo avvezzo a ricorrere ai più vieti luoghi comuni, mi lascio andare anch'io al classico: "Ho fiducia nell'operato della Magistratura", aggiungendo, però, che spero si arrivi agli ultimi gradi di giudizio prima che la situazione sociale diventi irreparabile. Vedremo un domani se Scopelliti è una povera vittima delle macchinazioni di quel demonio di Naccari, e se quest'ultimo non ha i titoli per indossare i panni del moralizzatore o, invece, non è rimasto semplicemente bersaglio del "metodo Boffo" di berlusconiana memoria. Nel frattempo suggerirei agli amici del Quotidiano di stampare per le edicole di Reggio Calabria locandine "a due piazze", al fine di allontanare dai lettori reggini alcuni maligni sospetti.
Franco Arcidiaco

lunedì 17 marzo 2014

ROSARIO D'AGATA E L'ARTE DEL ROMANZO INCHIESTA. LA STORIA DI ENRICO MATTEI.

Il romanzo-inchiesta è un genere non troppo praticato in italia, anche se il successo di "Gomorra" di Roberto Saviano ha contribuito in qualche modo a riportarlo in auge. Rosario D'Agata è un grande maestro in questa materia e lo ha dimostrato quando, nel 2009 alla tenera età di 74 anni, ha deciso di dare alle stampe la sua poderosa e ponderosa (ben 474 pagine) ricostruzione della vicenda umana e professionale di Enrico Mattei, del suo "cane a sei zampe" e della "Supercortemaggiore, la potente benzina italiana". "Il prezzo del coraggio", questo è il titolo di quel suo primo romanzo, consegna su un piatto d'argento ai lettori quel periodo della storia d'Italia che va dalle speranze e gli entusiasmi del dopoguerra, all'avvio della tragica fase della "strategia della tensione" e dei cosiddetti "anni di piombo". E' sorprendente, anche per il lettore più avveduto, scoprire come l'attenta ricostruzione (sia pur romanzata) di una vicenda, possa contenere le giuste chiavi di lettura per interpretare le sconcertanti manovre internazionali che hanno segnato in modo indelebile la Storia contemporanea del nostro Paese. Rosario è ben consapevole di questo e l'incipit della sua prefazione parla chiaro: "Sembra impossibile che la vicenda narrata in questo romanzo possa riferirsi a fatti realmente accaduti nel nostro Paese non molti anni or sono e che solo in parte sono stati resi noti al grande pubblico...". La spiegazione ce la fornisce un po' più avanti lui stesso: "Viviamo in un periodo nel quale parlare di impresa pubblica può sembrare una bestemmia e quindi potrebbe apparire anacronistico, oltre che politicamente scorretto, raccontare la storia di un imprenditore di Stato che operò a vantaggio del Paese senza cercare il proprio profitto personale, suscitando sorrisi di compatimento da parte degli ammiratori dei nuovi capitani d'impresa tutti presi dall'obiettivo supremo di far soldi". Rosario D'Agata ha lavorato all'ENI dal 1968 (sei anni dopo la scomparsa di Mattei) al 1995, all'Ufficio studi, alla Direzione relazioni esterne e infine come responsabile dell'immagine dell'Agip; fervente ammiratore di Enrico Mattei, ha curato molte pubblicazioni sulla sua figura e sulla storia del Gruppo. Le sue sono, dunque, fonti di primissima mano che conferiscono un'intaccabile patente di credibilità all'impianto narrativo del suo "romanzo". La Storia della seconda metà del '900 è ancora tutta da scrivere; bisogna essere consapevoli che, fino ad oggi, quelli che sono stati spacciati come fatti storici, altro non sono che gli alibi precostituiti dalle potenze economiche occidentali per giustificare le loro nefande manovre di consolidamento delle posizioni di dominio conquistate dopo la Seconda Guerra Mondiale. Gli accordi internazionali siglati nel febbraio del 1945 durante la Conferenza di Yalta, segnarono sì ufficialmente la fine delle ostilità ma diedero, a tutti gli effetti, l'avvio ad una guerra ancora più spietata, poiché subdola e segreta, che ancora oggi determina i destini del mondo: la Guerra Fredda. Il gioco rimase saldamente nelle mani degli USA e le regole furono determinate dai canoni del più ferreo Capitalismo; d'altra parte gli americani non persero tempo a sfoderare il loro biglietto da visita. Erano passati appena sei mesi dagli accordi di Yalta, quando, il 6 agosto 1945, gli USA inaugurarono la lunga stagione del "Terrorismo di Stato" con il lancio della Bomba Atomica sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Da quel momento non ci fu un angolo del mondo (Italia compresa) che non si trovò costretto a fare i conti con la legge inumana e sanguinaria dettata dal potere economico sovranazionale, guidato con pugno di ferro dagli americani. La vicenda di Enrico Mattei e dell'ENI s'inquadra in questo incredibile e complicato scenario; grande è l'abilità con la quale Rosario D'Agata riesce a renderla fruibile anche a lettori non avvezzi ad argomenti di politica e economia. La narrazione, infatti, procede spigliata e fluente con un ritmo da Spy Story, per non dire da fiction. Mattei, anche se aveva partecipato alla Resistenza, non era un Comunista; il suo intendimento non era, dunque, sconvolgere la politica economica imperante. Alla base del suo operato c'era solo un grande amore per il nostro Paese e la voglia di dimostrare che anche da noi esisteva una sana classe di imprenditori e di manager e tante valide maestranze, in grado di fare dell'Italia una potenza economica indipendente dalle altre nazioni. Mattei era convinto che l'intervento dello Stato nell'economia fosse per l'Italia la sola strada per impedire che la debolezza politica di un Paese uscito sconfitto dalla guerra, praticamente alla mercé dei potenti vincitori, lo facesse diventare una vera e propria colonia da sfruttare. Non negava il valore dell'iniziativa privata ma era altrettanto convinto che taluni comparti essenziali per l'autonomia di un Paese dovessero essere gestiti direttamente o indirettamente dallo Stato. Nel libro l'Autore prefigura l'esistenza di un Direttorio sovranazionale che regge le sorti del Mondo: "Quelle persone, sette uomini e una donna, rappresentavano il Potere, il potere economico e finanziario che da sempre ha governato il mondo.(...) Presidenti, generali, dittatori, politici, statisti, grandi industriali, pensatori e tutti coloro che appaiono in possesso, pur non essendone, del potere di determinare i destini dell'umanità -o di influire su di essi-, sono sempre stati inconsapevolmente pedine di una specie di direttorio invisibile in grado di servirsi di volta in volta di eserciti, di tecnologie, di demagoghi, di movimenti, per finalità legate solo agli immensi interessi di coloro che ne fanno parte". Solo un artificio narrativo quello di D'Agata?, al lettore la risposta; quel che è certo, è che non sembra affatto fantascienza la risposta data da uno dei membri del fantomatico direttorio a chi gli chiedeva come mai non ritenesse semplice sottomettere l'Italia: "Non è così semplice, bisogna tener conto del peso politico dei comunisti italiani, della vicinanza con l'Est, della necessità, quindi, di non sbagliare misura." Sembra proprio l'avvio di quella barbara "strategia della tensione" che non avrebbe esitato a insanguinare le piazze italiane pur di tenere lontano il PCI dal governo del Paese. Il libro è disseminato di frasi, abilmente contrassegnate dai caratteri in corsivo, che riportano espressioni reali di vari funzionari americani reperite da D'Agata grazie ai suoi canali di informazione; fa tremare le vene ai polsi il seguente passaggio (occhio al corsivo): "Mr. Van Haas specificò innanzitutto che quell'ufficio, che si occupava ufficialmente di rapporti commerciali a latere dell'addetto commerciale dell'Ambasciata degli Stati Uniti, non era in realtà una emanazione diretta né del governo americano né di qualsiasi altro governo, ma che faceva capo a istanze decisionali dalle quali dipendeva la sopravvivenza e lo sviluppo del Sistema Occidentale." Scrive D'Agata: "Quello che importava era sempre e in ogni caso, la difesa e l'incremento di quel potere che il controllo dell'economia mondiale poteva dare. Era il loro un cartello assoluto, senza morale, senza sentimenti, ma teso solo a consolidare quel potere con ogni mezzo, al di fuori di qualsiasi remora e di qualsiasi regola." "E ora un piccolo italiano osava seminare in giro idee pericolose che, pur non potendo recare danni di qualche rilievo al meccanismo di potere del Direttorio, avrebbero potuto procurare dei fastidi alimentando qualche esaltato con sogni rivoluzionari e costringendo il Direttorio stesso a perdere tempo e soldi per tamponare qualche iniziativa di disturbo." Per fermare Mattei fu tentato di tutto, dalle pressioni politiche, alle campagne di stampa falsamente ambientaliste, alle lotte sindacali prezzolate, ai sabotaggi degli impianti, fino alla classica arma della diffamazione personale; la sua irriducibilità e la sua fermezza costrinsero il "direttorio" a fare ricorso alla soluzione finale: l'attentato al suo aereo, precipitato il 27 ottobre 1962 sui monti lombardi di Bascapé, di rientro da una missione in Sicilia. Quasi certamente la condanna a morte di Mattei fu decretata dopo la storica conferenza dei petrolieri mondiali, tenutasi al Grand Hotel di Roma, durante la quale fu lanciato un vero e proprio atto d'accusa verso quel petroliere senza petrolio "colpevole" scrive D'Agata "di pretendere di poter far parte di un monolitico e collaudato consorzio di operatori senza avere esperienze e risorse ma al contrario creando confusione e facendo il gioco del Comunismo internazionale con i suoi flirt con i paesi del cosiddetto Terzo Mondo e delle forze sovversive che vi fioriscono." Fu in quell'occasione che Mattei pronunciò quella che passò alla storia come "la parabola del gattino affamato": " C’era una volta un gattino gracile e smunto, che aveva fame. Vide dei cani grossi e ringhiosi che stavano mangiando e, timidamente, si avvicinò alla ciotola. Ma non fece nemmeno in tempo ad accostarsi che quelli, con una ‘zampata’, lo allontanarono. Noi italiani siamo come quel gattino: abbiamo fame e non sopportiamo più i cani grossi e ringhiosi, anche perché, in quella ciotola, c’è petrolio per tutti"; ma la ciliegina sulla torta doveva ancora arrivare: "Non passerà molto tempo che dovrete accorgervi, a vostre spese, che non potete fermare la storia. I Paesi che detengono le risorse petrolifere, e che oggi sfruttate, diventeranno loro stessi i gestori diretti delle loro risorse e voi dovrete adeguarvi, volenti o nolenti!" Da quel momento Enrico Mattei intensificò una campagna di sensibilizzazione, di sostegno e di affiliazione all'ENI dei Paesi del Terzo Mondo (Iran, Libia e Egitto in testa) che possedevano giacimenti petroliferi; era veramente troppo, la misura per il Direttorio era colma, quell'italiano fastidioso doveva essere fermato. E, con buona pace di chi veramente ha creduto alla favoletta dell'implosione e del fallimento dell'Unione Sovietica, e alla sua caratteristica di Impero del male, sentite come Mattei rispondeva a chi si meravigliava della sua decisione di acquistare petrolio dall'URSS: "Sì acquisteremo dall'Unione Sovietica, la cui realtà non deve essere intesa, come finora è accaduto, soltanto come una minaccia potenziale, ma anche come un fattore di equilibrio... un elemento in grado di bilanciare lo strapotere dell'economia americana. E vi dico di più... se un giorno l'URSS dovesse sfaldarsi, sarebbe l'inizio di una sciagura per il mondo, perché saremmo tutti alla mercé di una sola superpotenza che governerebbe il mondo a suo piacimento, facendone un unico grande mercato." Profetico, come tutti i grandi uomini, Enrico Mattei arrivò a delineare, con decenni di anticipo, la tragica situazione nella quale ci saremmo catastroficamente venuti a trovare dopo il crollo del Muro di Berlino. Oggi non è più tempo di eroi e di sognatori ma, come fa dire D'Agata a uno dei membri del Direttorio, la spietata Inez: "di figure nuove, uguali e contrarie (a gente come Mattei, ndr) persone da aiutare a diventare imprenditori pigliatutto, che sappiano muoversi con vivacità, disinvoltura e simpatia, che diventino un punto di riferimento, persone che possano essere considerate come esempio da emulare, capaci di crearsi un'immagine che sappia fare sognare tutti gli ingenui fino a trasformarsi in un mito intoccabile per le masse. Dobbiamo creare personaggi che siano anche convinti sostenitori e difensori del mercato e delle sue leggi, esempi irresistibili di imprenditori privati che si sono fatti da sé." Vi viene in mente qualcuno?
Franco Arcidiaco
Rosario D'Agata
Il prezzo del coraggio. Enrico Mattei e il cane a sei zampe tra mistero e realtà.
Edizioni Zines Agra, Roma, 2009
Pagine 476, € 18,00

lunedì 24 febbraio 2014

DUE EDITORI CALABRESI E UN TIPOGRAFO PARTNER PER UN EVENTO STORICO

Grazie al prof. Marcello Sestito e alla soprintendente Simonetta Bonomi, Roberto Laruffa ed io abbiamo avuto l'opportunità di unire i nostri marchi per produrre, in coedizione, il prestigioso catalogo che segnerà ufficialmente il rientro dei Bronzi di Riace nel Museo Archeologico di Reggio Calabria. E' importante sottolineare che il catalogo sarà prodotto senza alcun finanziamento pubblico ma esclusivamente con risorse delle nostre due case editrici e della tipografia Creative Artworks di Domenico Surace. Con questa iniziativa abbiamo voluto segnare un'inversione di tendenza nel comparto produttivo della nostra regione, storicamente considerato come incapace di "fare squadra". "Il Quotidiano della Calabria" è stato molto attento nel rilevare il valore dell'iniziativa.
Franco Arcidiaco

GIRASOLE, AMBIZIONI COMMERCIALI E CULTURALI TRADITE DALL'INCURIA di ELEONORA DELFINO

La brava e attenta collega Eleonora Delfino ha ripreso su "La Gazzetta del Sud" l'annosa questione della destinazione dell'immobile denominato "Il Girasole". La sua ricostruzione è attenta e accurata e tiene anche conto della proposta che avevo avanzato a suo tempo al sindaco Demetrio Arena.

"E' LA STAMPA, BELLEZZA! LA STAMPA! E TU NON CI PUOI FAR NIENTE! NIENTE!" (Neanche in Calabria)

"L'ultima minaccia" è un film del 1952 girato da Richard Brooks.
Il titolo originale "Deadline" è, al solito, molto più pertinente. In inglese vuol dire “scadenza” e nel gergo giornalistico indica il termine ultimo di chiusura del giornale che deve andare in stampa. Non è un film famosissimo, ma alzi la mano chi non ha mai sentito la battuta: “E’ la stampa, bellezza!”. A pronunciarla nell’ultima scena del film, mentre alle sue spalle gira trionfante e inarrestabile la rotativa, è un Humphrey Bogart 54enne, all’apice della carriera. Siamo infatti nel 1952 e il regista Richard Brooks, uno degli autori più liberal di Hollywood, affida al grande attore la parte di Ed Hutchinson, direttore del giornale “The day” di New York. La storia è quanto mai attuale: il giornale sta per essere venduto alla concorrenza dagli eredi del fondatore. Bogart si oppone con tutte le forze perché è chiaro che il giornale sarà snaturato. Allo stesso tempo, spinge un suo redattore a indagare su un boss della malavita che una commissione d'inchiesta ha appena assolto. Il gangster prima prova a corrompere Hutchinson e poi lo minaccia. Sempre invano. Bogart/Hutchinson è un uomo deluso dalla vita, perdutamente innamorato della ex moglie e del proprio mestiere, ma la sua vita privata è un disastro. Provvidenziale arriva il colpo di scena: la madre di una ragazza assassinata dal boss, consegna ad Hutchinson il diario contenente le prove che lo incastrano. E’ la scena più bella del film: l’anziana donna consegna il diario al giornale e non alla polizia, perché è leggendo il “Day” che ha imparato a essere una buona cittadina. È l’esaltazione del valore civile del giornalismo indipendente.
È l’ultimo giorno di vita del giornale. Che farà Bogart/Hutchinson? Pubblicherà o no il diario sull’ultimo numero del giornale? Assolverà il dovere di cronista o penserà a salvarsi la vita? Se avete capito lo spirito del film, avete già la risposta. Quella battuta: “E’ la stampa, bellezza. E non puoi farci niente!”, è diventata in tutto il mondo il simbolo del giornalismo inteso come contropotere, come “watchdog”, “cane da guardia”.
Bene, tutto questo in Calabria, tra la totale indifferenza dei media nazionali, ieri è stato completamente ribaltato. La rotativa è stata bloccata, un coraggioso e indipendente direttore, Luciano Regolo, ha avuto la sorpresa di non trovare in edicola il suo giornale "L'Ora della Calabria". Regolo durante la notte aveva sentito il suo editore pronunciare una frase altrettanto fatidica: "Il cinghiale quando viene ferito ammazza tutti". Il giornale bloccato riportava in esclusiva la notizia che il rampollo del senatore Tonino Gentile, uno degli uomini più in vista del centrodestra calabrese, era rimasto invischiato in una brutta storia di corruzione e di malaffare. La FNSI e il Sindacato giornalisti della Calabria hanno giustamente affermato che l'episodio "getta una luce sinistra sui processi dell'informazione nella regione". Con questo gravissimo, enorme episodio, la Calabria, se possibile, ha toccato ieri il punto più basso della sua storia millenaria. Sommersi dalla spazzatura, dal degrado sociale e civile, dalla malasanità, dalla peggiore politica affaristica e cinica e dalla criminalità più efficiente del mondo, assistiamo oggi all’attacco contro quella libertà di stampa che è il termometro del livello di democrazia di una società moderna.
Franco Arcidiaco