sabato 15 agosto 2009

LETTERA APERTA ALL'ON.LE GIUSEPPE BOVA

Caro Presidente, l’ennesima querelle in corso tra te e l’assessore Naccari, lungi dall’essere frutto della normale dialettica tra forze di varia estrazione che si ritrovano giocoforza all’interno dello stesso schieramento nascente, rischia di apparire all’opinione pubblica come paradigmatica dell’innaturalità dell’unione tra una coppia agonizzante di partiti dal passato splendore, non fosse altro perché, nell’immaginario collettivo, la tua figura viene identificata con la tradizione Comunista (spero che il termine non ti faccia orrore…) e quella di Naccari con la Democristiana.
Per quanto riguarda la nostra parte, due fatali errori politici stanno alla base delle difficoltà odierne e si chiamano Bolognina e maggioritario, oggi paghiamo le conseguenze di quelle scellerate decisioni mentre gli autori di quelle scelte continuano a gettare fango su un partito come il PCI che era il solo del quale la democrazia italiana non aveva alcun motivo di vergognarsi. Oggi quelli come me e te che, sia pur tra posizioni e responsabilità molto diverse, si ritrovano a fare il bilancio di una vita dedicata ad un’idea ed a un impegno politico totalizzante, devono fare i conti con la difficoltà di ritrovarsi in un contesto che non corrisponde certamente a quello che avevano sognato quando, adolescenti, avevano abbracciato un magnifico ideale. Le tue scelte sono sotto gli occhi di tutti, da politico abile e navigato quale sei, hai impugnato con mano ferma il timone e solchi con coraggio ed onestà i procellosi mari dell’Istituzione calabrese; hai messo da parte (ritengo a malincuore) la tua vecchia fede e guidi i tuoi centurioni nella missione impossibile di creare un contenitore capace di contenere l’incontenibile. Io, non avendo intrapreso la carriera politica, sono stato un po’ più libero nella scelta ed ho vagato per qualche hanno nella disperata ricerca di qualche traccia di Comunismo nelle sigle (ma appunto solo di questo si trattava) sorte dopo la sventurata diaspora. Il sospetto che la parte migliore della classe politica del PCI fosse rimasta all’interno delle magmatiche mutazioni seguite alla Bolognina, è diventato certezza al cospetto dell’incosciente azione Bertinottiana che di fatto ha consegnato il Paese nelle mani di Berlusconi; mi sono ritrovato quindi a riapprodare sulle antiche sponde che, nel frattempo, mutazione dopo mutazione, avevano prodotto l’immane creatura. Dopo qualche esitazione mi è sembrato che il Partito Democratico potesse rappresentare il naturale sbocco di una situazione che, ormai irreversibilmente, non indicava vie alternative alla drastica divisione in blocchi del sistema politico; sono andato indietro con la mente a quando, negli anni 70, ero riuscito a farmi una ragione della permanenza nel Partito Democratico americano dei segregazionisti del senatore George Wallace e degli afroamericani guidati da Jesse Jackson ed ho ritenuto (a torto?) che la democrazia italiana avesse (con il solito ritardo di 30 anni) raggiunto il livello di maturità di quella americana. Mi sono avvicinato pertanto al PD ed ho trovato nell’azione e nella persona di Demetrio Naccari, che avevo apprezzato nel ruolo di vicesindaco del mai troppo rimpianto Italo Falcomatà, la figura di politico che più si confaceva al nuovo grande progetto che mira ad unire le varie anime delle sinistra. A conferma di questa mia convinzione ho registrato con piacere la comune scelta di campo, tra te e Naccari, dello schieramento che fa capo a Bersani. La violenta polemica scoppiata in questi giorni tra il tuo portavoce, nonché segretario provinciale del PD, e Naccari risulta assolutamente incomprensibile a una lettura squisitamente politica; è legittimo pertanto chiederti quali siano i veri motivi che l’hanno determinata, così come pure ritengo legittimo chiederti, così come ha già fatto Giuseppe Falcomatà, di rispettare la memoria di Italo suggerendo ai tuoi uomini, e soprattutto a quel Mimmo Penna che, inopinatamente, dirige ancora una sezione a lui intestata, di evitare di strumentalizzare la sua figura per biechi motivi di parte. Italo ha sofferto molto, e qualcuno dice in modo fatale, gli ostracismi provenienti dal suo stesso partito, tutti noi siamo stati testimoni delle insane manovre che persone a te ben note tessevano contro la sua azione, ti chiedo pertanto, in nome della passata comune militanza, di porre fine a questo disgustoso spettacolo e di riportare il dibattito politico sul piano di una normale dialettica interna consona ad un moderno grande partito.
Franco Arcidiaco

LA VITA LETTERATURIZZATA DI UN LIBRAIO PENSANTE

Quando penso alla figura del libraio ideale, la mia mente torna agli anni 60/70 quando a Reggio, come in tutte le altre città d’Italia, esistevano ancora le librerie “vere”; quei negozi dalle pareti interamente ricoperte di scaffali di legno stracolmi di libri, il cui proprietario, prima di essere un commerciante, era soprattutto un colto e appassionato feticista che aveva nel libro il suo oggetto del desiderio; un desiderio che raggiungeva il suo acme all’atto della condivisione dell’amato-bene con il cliente-lettore. Era quello il momento in cui il libraio, spesso dopo averlo voluttuosamente annusato, porgeva il libro al lettore, felice di riporre la sua creatura in mani altrettanto anelanti di feticistico godimento. In quegli anni a Reggio operavano parecchi librai di questo genere, ma quelli che ricordo particolarmente erano dislocati sulla parte di Corso che percorrevo tutti i giorni a piedi per tornare da scuola verso casa, nei pressi del ponte Calopinace; incontravo la libreria Ave, oggi Nuova Ave gestita ancora da uno dei fondatori, il mitico Tullio Tralongo, ed altre tre librerie che purtroppo non esistono più: Carmelo Franco, Gangemi (quella vicino al Duomo e non “La Casa del Libro” di Peppino Gangemi che arrivò un po’ dopo) e Vadalà che si trovava a due passi da Piazza Garibaldi. Quest’ultima era la libreria che frequentavo di più, essendo la più vicina a casa mia, e mi capitava spesso di trovare il sig. Vadalà sulla porta che mi aspettava per segnalarmi l’arrivo di qualche novità; Le stelle fredde di Piovene, Una relazione di Cassola, Poema a fumetti di Buzzati, Io e lui di Moravia, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, freschi di stampa unitamente a tanti classici italiani e stranieri, passarono dalle sue mani alle mie in un misto di gioia e trepidazione. Oggi per fortuna in città resiste ancora un manipolo di librerie, oltre alla già citata Nuova Ave come non ricordare la storica Ambrosiano che continua nella sana tradizione della casa di accogliere amorevolmente tra i suoi vetusti ma solidi scaffali l’editoria locale, la libreria Amaddeo che, pur avendo nella “scolastica” il suo core-business, svolge il suo ruolo con professionalità e impegno e la piccola ma molto ben fornita Eden dal pubblico affezionato e fedele. Un discorso a parte merita la libreria di Enzo Caccamo. In posizione straordinaria, locali belli e accoglienti fanno della libreria Culture il luogo d’incontro preferito di giornalisti, politici ed intellettuali di varia estrazione. Enzo è un libraio sui generis, non sperate di trovare da lui al primo colpo il libro di cui avete appena letto una recensione, lui lo farà arrivare con calma solo una volta che si sarà convinto della sua bontà, se cercate un classico andate invece a colpo sicuro, troverete di tutto e di più, nelle varie collane e per tutte le tasche. Non si fa in quattro per l’editoria locale, probabilmente non coglie, tra le pagine dei libri prodotti in città, quell’ Odore indispensabile che gli consenta di entrarne in sintonia. Conosco Enzo da decenni ma fino ad oggi ho avuto con lui solo frequentazioni di tipo professionale, influenzate dagli alti e bassi della sua imprevedibile disponibilità; ai tempi di Via della Zecca, Enzo è stato di grande aiuto alla crescita della mia casa editrice mettendo a disposizione, gratuitamente, la sala conferenze per la presentazione dei miei primi libri. Il suo trasferimento nella nuova sede è coinciso con la fase di sviluppo della Città del sole ed i nostri rapporti sono stati condizionati inevitabilmente dai reciproci e sempre più assillanti impegni. Di recente ci siamo ritrovati per un Incontro in libreria con una mia autrice, ed Enzo mi ha fatto dono di un libro dall’intrigante titolo “L’odore dei libri” scritto ed edito da lui stesso con il raffinato marchio “Culture”. Leggerlo è stato un piacevole modo di trascorrere un uggioso pomeriggio domenicale dello scorso inverno ed il risultato è la conferma della straordinarietà del personaggio-libraio Enzo e del suo alter ego Elio, protagonista del racconto.
“Ogni mattina, appena apriva la libreria, Elio s’inchinava perché voleva salutare tutti i grandi maestri e, facendo il giro dei vari settori, nello stesso tempo controllava che tutto fosse sistemato. Ecco, infatti, che nella Filosofia un libro di Platone era stato inserito nella lettera P dei moderni. Così, rimettendolo nello scaffale giusto, Elio disse: ‘Buongiorno maestro! Li perdoni, non sanno che c’è un solo bene, il sapere! E un solo male, l’ignoranza!’ La signora delle pulizie, che ormai aveva capito che Elio normale non era, con la scopa gli fece intendere che ora doveva uscire. Lui allora accese Mozart e si mise con la panchina fuori…”. Questo è praticamente l’esilarante avvio del libro se si escludono le due paginette iniziali che riguardano il sogno di Elio e che, francamente, non assolvono il classico ruolo che dovrebbe avere un incipit che si rispetti (quello di intrigare il lettore) perché risultano confuse e incerte nell’intreccio e nello svolgimento. Sembra quasi di vederlo Enzo/Elio mentre s’inchina a rendere omaggio ai suoi amati classici, i suoi feticistici riti di apertura ricordano molto da vicino quelli del sottoscritto, quando ha la fortuna di arrivare la mattina in sede prima dei collaboratori e si abbandona a rituali molto simili, incurante del fatto che una cara amica li bolli come disturbi compulsivi. Proseguendo nella lettura il libro si rivela suggestivo e si dispiega in un’atmosfera surreale ed onirica. Un delirio colto, a tratti estremamente colto, un grido di dolore per la tragedia della condizione umana e professionale che trova nella lettura, nel sogno e nella filosofia, rifugio e catarsi. Una possibile via di fuga la indica uno dei personaggi più caratterizzati, il Professore poeta-drammaturgo, chiosando: “La letteraturizzazione della vita sarà la possibile terapia per sottrarsi alla vita veramente orrida”. E qui viene automatico il richiamo al grande Svevo che sosteneva la necessità che la vita si trasformi in letteratura, solo la vita non raccontata, infatti, viene considerata morta. Attraverso la letteraturizzazione ci si può sottrarre dalla vita vera e dalla realtà e rileggendo la vita raccontata possiamo invece far emergere gli eventi del passato. Secondo il pensiero di Svevo ogni persona deve “raccontare” se stessa, solo in questo modo la vita in ogni uomo acquisterà un senso. E a proposito dei protagonisti del libro, si rivela veramente un esercizio gustoso il cercare di riconoscere le figure reali che si nascondono dietro; d’altronde, chiunque sia mai passato dalla libreria Culture non faticherà ad associare i nomi corrispondenti a personaggi quali: il prof. Z, il filosofo-giornalista Gianni, il maestro-scultore (che si ritiene l’unica incarnazione di Michelangelo e non sopporta che altri presunti artisti trovino spazio in libreria), il Sognatore (che ama sentenziare: “Ciò che in letteratura è sublime, nella vita reale è nevrosi. Quindi non ci rimane che essere indifferenti senza cinismo e appassionati senza entusiasmo”), la Poetessa, Riccardo Meis segretario comunale in pensione, il Magistrato Santini Giustizia, il Direttore che esautora e sostituisce Elio/Enzo cercando di normalizzare la libreria che definisce “rifugio per esaltati”, il Professore poeta-drammaturgo dalla voce imperiosa e possente, il Professor psichiatra Savio Gentile. Altro esercizio gustoso, ma culturalmente molto impegnativo, è risalire alle letture che originano le innumerevoli suggestioni letterarie di cui il libro è letteralmente infarcito. Straordinario il carosello delle metamorfosi che generano l’insetto-scultore, e dei deliri più o meno onirici del Sognatore; vera e propria chicca finale l’inserimento (come non ricordare il mitico Lupo della steppa di Hesse?) del racconto scritto dal libraio Elio nel periodo della scomparsa, intitolato Secoli di Passione, introdotto da una prefazione stralunata del magistrato Santini Giustizia. Qui si parla di un Folletto che, arrivato per salvare il mondo dalla decadenza morale, fonda un circolo chiamato Il Circolo dei Disadattati che serve a “raggruppare le poche persone che si riconoscono nella profondità delle cose”. Il Folletto ci mette poco a rendersi conto che gli uomini illuminati sono merce rara e lo capisce dallo scarso interesse che dimostrano verso i classici della letteratura, gli uomini infatti rivolgono il loro interesse “ai libri moderni”; il Folletto non si da per vinto anzi alza la posta e, con i primi adepti del Circolo, fonda La Repubblica degli uomini. Uno dei primi iscritti, il giovane filosofo marxista, capisce che il Folletto è uno scienziato e lo convince a tentare degli esperimenti: intervenire sugli animali facendoli diventare uomini e viceversa. L’esperimento fallisce perché gli animali appena diventati uomini ne pretendono i diritti e gli uomini diventati animali non riescono a sopprimere l’istinto di divorare i propri figli. Per fortuna interviene un altro personaggio, il professore partigiano, che propone un grande convegno pubblico per diffondere il verbo de La necessità dell’uguaglianza fra gli uomini. Ognuno interviene per dire la sua e si parla di omologazione, fratellanza e amore universale, ma il problema è che pochi si rendono conto che l’amore di cui parla il Folletto è quello verso i libri e lui, per rendere più chiaro il suo pensiero, intensifica le manifestazioni e le conferenze approfittando della sala offerta gratuitamente dal direttore di una libreria. Il numero degli iscritti al Circolo comincia ad aumentare ed il Folletto, dopo aver subìto una scomunica dalla Chiesa, decide di diventare più diplomatico. Nel frattempo, però, il direttore della libreria scompare ed il nuovo proprietario, dopo aver trasformato la libreria in un supermercato del libro, chiede una cifra sproporzionata per ospitare le conferenze. Gli sforzi degli amici per trovare il libraio scomparso si rivelano vani mentre il Folletto prosegue nella sua attività di proselitismo. Alla fine di una conferenza clou, nella quale le più disparate opinioni si confrontano, il Folletto decide che è arrivato il momento di fare vedere agli amici la struttura ospedaliera dove opera con la sua équipe. La struttura ha il compito di favorire una metamorfosi positiva dei malati gravi, i cosiddetti vermi accademici rifatti, appagati, artificiosi, chiacchieroni, forbiti, meschini ed equilibristi, facendoli diventare colombe, simbolo della pace e della purezza. A questo punto la compattezza del Circolo si sfalda, i filosofi infatti sostengono che non si può interferire nell’ordine della cose, c’è chi propugna il ritorno alla vita in campagna ma anche questo si rivela una delusione: i gentiluomini di campagna si sono liberati delle biblioteche dei nonni…Ma il Folletto non finisce di stupire i suoi amici e li porta a visitare una megastruttura, frutto del risultato della sua opera, “essa era costituita da più piani, in ognuno dei quali erano specie diverse, accomunate da un unico intento: essere un punto di riferimento per le generazioni future attraverso la scrittura. Essi infatti dovevano creare opere in grado di trasmettere valori e ideali persi dall’uomo. Nei piani superiori, un’èlite di animali critici doveva valutare se questi testi esprimevano sentimenti onesti e non costruiti, profondi e non superficiali, umani e non animaleschi….questo luogo era una casa editrice animale, la quale doveva servire proprio per risvegliare l’istinto culturale perso da due secoli. I libri che venivano stampati andavano in giro per il mondo su navi a forma di librerie…”. Siamo alla fine del libro ed ecco riapparire, con una magia circolare (omaggio a “Il girotondo” di Schnitzler ed alla sua critica all’impossibilità umana di amare…, nel nostro caso, i libri?), il nostro libraio Elio. Torna Elio/Enzo ma solo per prendere atto che per lui, “che aveva una libreria di scaffali pieni di classici ma poche novità, non c’era motivo d’esistere più.” Chiude così Enzo Caccamo la sua cavalcata letteraria originale, brillante e, direi, inaspettata; una vera chicca intrigante e divertente che, con qualche necessario intervento di editing, può diventare un vero oggetto di culto. Mentre andiamo in stampa apprendiamo che “L’odore dei libri” ha ricevuto il premio speciale della giuria del Premio Palmi, complimenti ad Enzo e complimenti alla Giuria del Premio Palmi per il coraggio, assolutamente controcorrente, di premiare un libro edito da un editore-libraio indipendente, colto e ostinato sognatore.
Franco Arcidiaco

UN'ALTRA ESTATE DA DIMENTICARE

Radio due, trasmissione “Il cammello del mattino”, venerdì 10 luglio, la conduttrice Isabella Eleodori apre l’argomento “vacanze” ed elenca le mete preferite dagli italiani, secondo il solito sondaggio che ogni speaker radiofonico che si rispetti ha sempre a portata di microfono. Sciorina i nomi delle regioni italiane a vocazione turistica, esclusa la Calabria, istintivamente mi dolgo di non avere il mio mac a portata di mano per riempirla di male parole; ma come: con le centinaia di milioni investiti dalla giunta Loiero per promuovere il turismo nella nostra regione, è possibile che gli italiani non si sentano attratti dalle nostre bellezze? Il mio orgoglio di calabrese è ferito e m’impedisce, nell’immediatezza dell’offesa subita, di valutare oggettivamente la situazione. Mi trovo al mare, sulle coste del basso Jonio reggino, salgo in macchina per recarmi al lavoro in città e mi guardo attorno: bidoni della spazzatura semidistrutti traboccano di sacchetti maleodoranti, la strada piena di buche è attraversata da liquami sospetti, la spiaggia è invasa da relitti e detriti ricordo della grande mareggiata di gennaio, i proprietari dei lidi sono ancora al lavoro (il 10 luglio!!!) per montare le strutture, scheletri di enormi fabbricati non finiti ornano il lungomare, smarrito rivolgo lo sguardo speranzoso al mare azzurro, ma la schiuma che orla la risacca rivela subito la sua vera nauseante natura. Apro la radio, la trasmissione sta per finire, Isabella saluta gli ascoltatori ed io rimango con il dubbio se in fondo, escludendo la Calabria dalle mete turistiche, non abbia finito col renderci un gran favore. Che senso ha, infatti, attrarre i turisti sulle nostre coste, se poi abbiamo da offrire solo mare sporco, degrado, inciviltà e disorganizzazione? I lettori del nostro giornale, sfoderando il famoso orgoglio calabrese di cui sopra, lì per lì penseranno che magari il problema riguardi principalmente la provincia reggina; non ho alcuna difficoltà ad ammettere che quel territorio ha raggiunto un livello di degrado ormai irrecuperabile, ma conosco bene le condizioni in cui versa il resto della Calabria che non si differenziano di molto, con buona pace dei nostri politici che, minimizzando il problema, continuano a parlare di sviluppo turistico. Ma di cosa stiamo parlando? Ma quale turismo vogliamo attrarre con un territorio disseminato di ecomostri che sono la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio? E dietro questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà a recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti e in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento deturpa l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Ed allora tiriamolo pure fuori l’orgoglio, ma rendiamoci conto che le sue ferite non sono causate dai giudizi, sia pur impietosi, di chi ci osserva; alla base ci sono i comportamenti dei cittadini incivili e dei politici incapaci e/o corrotti e solo estirpando questo male potremo guarire le nostre ferite e andare fieri del nostro orgoglio, che solo allora sarà ben riposto.
Franco Arcidiaco

TOLLERANZA ZERO PER TORNARE ALLA LEGALITA’

Il problema della legalità in Calabria, e nel resto del Meridione, è strettamente correlato a quello del tasso di educazione civica della cittadinanza. E’ inutile girare attorno al problema: la stragrande maggioranza della popolazione meridionale non è assolutamente incline a rispettare le più elementari regole del vivere civile. Mettetevi in macchina o in treno da Roma in direzione Sud e guardatevi attorno: il paesaggio è completamente devastato; discariche abusive ad ogni angolo, ecomostri lungo le coste e sulle colline, facciate dei palazzi grigie e degradate, terrazze con i ferri arrugginiti che aspettano con pazienza la costruzione dell’ennesimo piano naturalmente abusivo, erbacce e vegetazione incolta come unico esempio di verde pubblico, automobili posteggiate in modo selvaggio, isole pedonali e piste ciclabili inesistenti e barriere architettoniche insormontabile incubo per i disabili. E’ evidente che questo stato di cose è il terreno di coltura ideale per il proliferare delle attività della criminalità organizzata; i brillanti successi degli investigatori, che sempre più frequentemente arricchiscono il loro palmarés con l’arresto di pericolosi latitanti, servono a ben poco se non vanno di pari passo con la lotta per l’affermazione della legalità quotidiana sul nostro territorio. Quando, un paio di decenni fa, l’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani decise di rendere vivibile e sicura la metropoli, in brevissimo tempo, attuando la famosa politica della “tolleranza zero”, riuscì brillantemente in quella che sembrava una missione impossibile.
Questa politica deriva dalla cosiddetta teoria “Delle finestre rotte” formulata nel 1982 dai criminologi James Q. Wilson e George Kelling, che prevede che se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre e a vivere in un ambiente devastato senza reagire: riparando la finestra ci si abitua al rispetto della legalità. Ecco oggi il meridione, e la nostra Calabria in particolar modo, hanno bisogno di una politica che abbia il coraggio di attuare la “tolleranza zero”, mettendo da parte quella pruderie di matrice liberal- cattolica che tanti danni ha provocato al nostro Paese nel dopoguerra. Nella nostra Regione tutte le notti vengono bruciate in media cinque autovetture; considerato che sono senz’altro da escludere fenomeni di autocombustione, significa che ormai in Calabria vengono risolte con questo simpatico ed innovativo sistema le piccole controversie della vita quotidiana; di questi duemila attentati incendiari annui, nessuno si preoccupa di venirne mai a capo, nessuno si rende conto che costituiscono la chiave di lettura socio-antropologica della realtà calabrese. E’ evidente, inoltre, che il ripristino della legalità deve passare obbligatoriamente, oltre che dall’apparato repressivo, dal lavoro educativo della famiglia e della scuola; ma qui entra in gioco l’altro grave problema che riguarda la preparazione e la sensibilità sull’argomento di genitori ed insegnanti; se un ragazzino vede i genitori buttare le carte dal finestrino della macchina e non sente parlare in casa della raccolta differenziata, non potrà mai diventare un buon cittadino; se la scuola non si fornisce degli strumenti per surrogare e/o integrare il ruolo della famiglia nell’educazione delle giovani generazioni e se i Comuni non si decidono ad attuare l’opportuna vigilanza sulle normali regole del vivere civile (dal parcheggio alla costruzione abusiva), il sistema della legalità quotidiana non si metterà mai in moto e la Calabria precipiterà, in modo sempre più irreversibile, in quel degrado che già oggi la contraddistingue drammaticamente dalle altre regioni d’Italia.
Franco Arcidiaco

LEGGI AD HOC PER COMBATTERE IL RACKET

La notizia che Pino Masciari, l’imprenditore calabrese divenuto testimone di giustizia dopo aver denunciato i suoi persecutori, è stato costretto a ricorrere allo sciopero della fame per ottenere dallo Stato la ripresa del programma di protezione (il cui diritto, peraltro gli è stato riconosciuto anche dal Tar del Lazio), ha riacceso drammaticamente i riflettori sulla gravità delle condizioni dell’imprenditoria calabrese. Come se non bastassero, infatti, i problemi contingenti legati alla crisi economica, gli imprenditori devono fare i conti con una criminalità sempre più agguerrita e famelica. Il problema delle estorsioni, e solo per certi aspetti quello dell’usura, non è stato mai focalizzato nella sua vera essenza; gli esperti continuano a fornire i dati sempre più iperbolici del fatturato criminale, parlano di un potere mafioso sempre più ricco e solido costruito sul traffico della droga, sugli investimenti nell’edilizia, sulla Grande Distribuzione e sulle operazioni finanziarie, ma nessuno spiega quale motivo abbia questo potere a mantenere in piedi il sistema, che appare ormai arcaico, della mazzetta. La mazzetta (o pizzo che dir si voglia) è il sistema che utilizzano i delinquenti per far fronte alle spese derivanti dagli attacchi della giustizia; ogni commerciante sa che, al primo approccio, gli estorsori parlano di esigenze legate al mantenimento delle famiglie dei carcerati e del far fronte alle spese legali. La situazione ormai è talmente incancrenita e ramificata, da non renderne possibile la risoluzione con le leggi tradizionali; il fenomeno criminalità organizzata richiede una legislazione specifica, che non abbia il timore di prevedere una netta limitazione delle garanzie costituzionali (incluse quelle riguardanti il diritto alla difesa) per tutti coloro che abbiano subito una condanna, anche di un solo grado di giudizio, per associazione mafiosa; via, pertanto, patteggiamenti, riti abbreviati con conseguenti sconti di pena e soprattutto grandi penalisti di fiducia; un avvocato d’ufficio, magari estratto a sorte dall’albo, basta e avanza per gente che non ha alcuna esitazione ad aggredire la società civile ed a rovinare la vita di cittadini e imprenditori.
Franco Arcidiaco

RIPARTIRE DALL’AMBIENTE RITROVANDO IL GUSTO DEL BELLO

Non vi nascondo che andare in giro per le strade della Calabria mi provoca sempre una pena indicibile. Il territorio disseminato di ecomostri è la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio. E dietro tutto questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ stato calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà alla Calabria per recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti ed in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento ricopre e minaccia l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Torrente Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Questa tragica situazione contrasta con il trionfalismo dei vari assessori regionali competenti per materia che, negando la più elementare evidenza, non si rassegnano ad ammettere che quattro anni fa hanno preso in consegna una Regione dal territorio pesantemente devastato e tra un anno, alla fine della legislatura, ce la riconsegneranno, né più né meno, che nelle stesse condizioni. In tutto questo sfacelo non si potrà mai affrontare seriamente un discorso di sviluppo turistico senza prima avere avviato una seria, determinata e risolutiva politica ambientale. Quello che ci ostiniamo a non capire, e su questo voglio sollecitare gli amici ambientalisti, è che la nostra regione è assolutamente la più disastrata tra tutte le pur disastrate regione del Sud, e questo per un semplice motivo che è sotto gli occhi di tutti: IL PAESAGGIO DEVASTATO. Le miriadi di costruzioni non finite che sorgono dappertutto e deturpano coste e colline hanno irrimediabilmente frantumato il sogno dello sviluppo turistico. Ma chi volete che venga ad impiantare un Club Mediterranée, un Valtur, un Hilton od uno Sheraton nel bel mezzo di quelle bidonville alla cui stregua abbiamo ridotto le nostre città ed i nostri paesi? Vogliamo capire una volta per tutte che, come disse con lungimiranza anni addietro il giudice Roberto Pennisi, la ‘ndrangheta infettando di illegalità tutti gli strati della società ha fatto sì che i cittadini, vivendo in un contesto ambientale disastrato, perdessero definitivamente il senso del vivere civile? Monsignor GianCarlo Bregantini, che ha capito la nostra terra molto meglio di quanto non l’abbiano capita tutti i nostri politici messi assieme, ha scritto: “Il gusto del bello è la migliore forma di antimafia”. Ecco, noi il gusto del bello l’abbiamo definitivamente perduto, quindi le nostre speranze di sviluppo, almeno in direzione turistica, sono eguali a zero! L’estate scorsa si è tenuto a Copanello un convegno dei giovani industriali italiani, il tema era: “La bellezza salverà il Mezzogiorno?”. Il presidente dei Giovani industriali calabresi, l’editore Florindo Rubbettino è stato chiaro e diretto: “Nessuna società che si rispetti può rinunciare alla bellezza. Le nostre città tendono a diventare sempre più brutte. La politica non solo deve preservare, ma anche cercare il bello, educare al bello”; dello stesso avviso l’economista Massimo Lo Cicero: “Nel Mezzogiorno la bellezza è sciupata prima di essere colta” per finire con Santo Versace secondo cui: “Quello che ci manca è la bellezza della legalità”. Ed allora di cosa vogliamo parlare? Di vocazione turistica? Con questi presupposti lo sviluppo turistico rimarrà una mera illusione. Ci vorrebbe una rivoluzione, ma il tempo delle rivoluzioni, si sa, è definitivamente tramontato.
Franco Arcidiaco

IL FUTURO E' NELLE VOSTRE MANI

“Ho aspettato questo momento da molto tempo perchè il mio viaggio fin qui, improbabile all’inizio e a cui nessuno dava chance, è andato avanti grazie a voi, giovani di tutt’America”
“Voi mi avete dato la spinta ad andare avanti per costruire un mondo così come lo immaginate, un mondo diverso, che dove c’è guerra immagina pace, dove c’è fame immagina gente che possa sfamarsi, dove c’è malattia un sistema sanitario a disposizione di tutti. Il futuro è nelle vostre mani”
“Io vi prometto che l’America sarà più forte e voi farete in modo che ciò accada.”
Questo numero del nostro giornale dedicato ai giovani, non poteva assolutamente ignorare quello che è stato certamente l’avvenimento storico più significativo della nostra era; l’elezione di Barack Obama è stato probabilmente l’unico grande sogno realizzato del XX secolo, e se questo sogno, il grande sogno di Martin Luther King (“I have a dream”), si è realizzato, gran parte del merito va attribuito al determinante apporto del voto dei giovani.
Il riconoscimento del neo presidente è arrivato puntuale a Washington il 20 gennaio 2009, durante lo “Youth Inaugural Ball”, con le parole che abbiamo riportato all’inizio.
In Italia purtroppo, fino ad oggi, la politica non è riuscita ad inviare ai giovani il segnale giusto, sin dagli anni ottanta si è assistito ad un rapido "riflusso", che ha portato all’allontanamento dei giovani dalla politica, dopo l’infuocata stagione degli anni ‘60 e ‘70. L’attenzione si è spostata sulla vita privata: studiare, lavorare, far carriera. Motivo principale d’insofferenza è stata la lentezza dei tempi della politica. Ad ogni elezione è via via aumentato il numero degli astenuti, e la distanza tra giovani e politica continua a crescere ancora oggi in modo inarrestabile.
Si nota un accentuato disagio tra i giovani, causato dalla mancanza di una classe politica dirigente capace ed affidabile. Le istituzioni appaiono ai giovani distanti ed incapaci di soddisfare le loro esigenze, e ciò li porta ad adottare un atteggiamento distaccato nei confronti della vita politica quotidiana. I giovani sembrano non avere fiducia nella politica e nelle istituzioni, hanno rinunciato a credere negli ideali che hanno accompagnato le generazioni precedenti, si sono ormai abituati a vedere la politica come un’entità che non appartiene loro e che va osservata a distanza. La politica giovanile è praticamente inesistente, e i pochi giovani che hanno degli ideali politici non vengono incoraggiati a portare avanti le proprie idee.
Le promesse non mantenute, gli scandali, l’opportunismo, i giochi di potere, sono le ragioni che provocano lo scetticismo tra le nuove generazioni che sono diventate il soggetto escluso dalla politica. E’ necessario, invece, un tipo d’educazione completamente diverso, che abitui i giovani, fin dall’infanzia, a porsi in relazione con gli altri. Questo è certamente un primo passo per far comprendere, in seguito, l’importanza della politica come strumento di aiuto alla collettività. Non è più concepibile che politica e società debbano star lontani. C’è oggi un bisogno impellente di realizzare una sintonia nuova tra il Paese e la politica. Una sintonia che chiede alla politica la ricerca di sobrietà e spirito di servizio.
Da qui anche la necessità della riduzione reale dei costi della politica, che appaiono spesso come frutto di privilegi ingiustificati, e di una profonda riforma della politica che accompagni quella delle istituzioni. In Calabria il rischio che i giovani abbiano una percezione negativa della politica è purtroppo più concreto che altrove, se ne verrà fuori solo quando i signori dei partiti decideranno che è giunto il tempo di aprire veramente le liste elettorali a nuove leve che abbiano come caratteristica professionalità, preparazione ed entusiasmo. Solo così si potrà realizzare il miracolo che siano i giovani a cambiare la politica, e non la politica a cambiare i giovani.
Franco Arcidiaco

CAMBIARE LA POLITICA PER CAMBIARE LA CALABRIA

La grande stagione di riforme che sembra essere alle porte, è l’ultimo autobus a disposizione per la nostra regione. Certo, la legislatura che sta per arrivare al capolinea, partita non dimentichiamolo nel tragico segno dell’omicidio Fortugno, non é stata sicuramente peggiore delle precedenti, ma non è riuscita comunque a dare un segnale chiaro di inversione di tendenza. Le prove che ha dovuto affrontare il governo Loiero avrebbero fatto tremare le vene ai polsi anche al mitico Sansone, ha fatto anche la sua parte un rigido e inclemente inverno come non si vedeva da anni a queste latitudini. Un inverno nevoso e fortemente piovoso, senza dubbio, ma il territorio è smottato a valle perché era già ampiamente dissestato e franoso, oltre che sismico. “Uno sfasciume pendulo sul mare”, così il grande meridionalista Giustino Fortunato definiva la Calabria un secolo fa. Purtroppo poco o nulla è cambiato da allora. Anzi peggio perché il cemento, per lo più abusivo, ha investito montagne e colline dissestandole fino alla costa, irriconoscibile ed esposta a diffuse erosioni. Nel 2006 si segnalavano in Calabria oltre 9.400 movimenti franosi, estesi per 822 Kmq. Quando le poche arterie strategiche sono bloccate dalle frane tutta la regione si ferma. Il paesaggio devastato è diventato il tragico segno distintivo della nostra regione, altro che vocazione turistica, altro che Oliviero Toscani, altro che Rino Gattuso! Non parliamo poi della questione morale, il Consiglio regionale della Calabria registra un numero di parlamentari inquisiti che non ha eguali in alcuna democrazia moderna e tutto il marciume affaristico gira attorno ai palazzi regionali attratto dal profumo dei lauti finanziamenti europei. Riusciranno le riforme, federalismo in primis, a segnare un’inversione di tendenza? Permettetemi di nutrire qualche dubbio, si tratta certamente della questione centrale senza la cui risoluzione non si potrà mai giungere al riscatto della Calabria. Lo diceva bene il grande Enrico Berlinguer, vera vox clamantis in deserto della politica italiana: «La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.» Lo dicevamo nel numero scorso, ma vale la pena ripetersi, il futuro è nelle mani dei giovani; la grande, efficace arma che la democrazia mette a loro disposizione è quella del voto, ma è necessario imparare ad usarla e soprattutto aver voglia di usarla. Rinnovare il personale politico è l’imperativo categorico, una nuova leva di politici giovani, preparati e onesti, deve prendere in mano le redini del potere e trascinare la Calabria fuori dal tunnel, spazzando via definitivamente la classe politica incapace e corrotta che ha governato fino ad oggi. Utopistico? Forse, ma, a pensarci bene, è stato proprio il tramonto dell’utopia la causa del progressivo degrado che ha segnato l’ultimo ventennio. Anche l’utopia è roba da giovani e un grande entusiasmo, unito a un pizzico di incoscienza, è l’ingrediente indispensabile per farne maturare i benefici effetti. La Calabria più di ogni altro posto “non è un paese per vecchi”, ma non nel senso del bellissimo film dei fratelli Coen, bensì in direzione di un indispensabile ed assolutamente necessario bisogno di rinnovamento.
Franco Arcidiaco