domenica 30 ottobre 2022

UNA STRAORDINARIA SERATA CON ADELMO CERVI A LOCRI

I compagni dell’ANPI, sezione Locri-Gerace, mi hanno dato l’onore di presentare il libro "I miei sette padri" di Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei Sette fratelli Cervi. Adelmo è un giovanotto di 79 anni assolutamente incontenibile, mi ha dato appena l’opportunità di porgergli qualche domanda e di leggere qualche pagina del libro (quelle che sceglieva lui, però…), non sarò stato un bravo presentatore ma ho avuto l’opportunità di condividere con il numeroso pubblico presente al Palazzo della Cultura di Locri una serata veramente straordinaria e coinvolgente. La testimonianza di Adelmo è stata viva e palpitante, sia nella ricostruzione storica della vicenda della sua grande famiglia, sia nel rammarico per l’inconcludenza politica della Sinistra dei nostri tempi, rammarico che ha racchiuso in una clamorosa invettiva che ha fatto spellare le mani del pubblico con un interminabile applauso. Ecco una breve nota sul libro scritta da Aldo Rotolo. “Si è voltato” dice a un certo punto Genoeffa Cocconi coniugata Cervi, a proposito del suo figliolo Aldo. E Aldo, Cervi, è il padre dell’ Adelmo che scrive. Dolente di non averlo potuto conoscere davvero, era davvero troppo piccolo, va alla sua ricerca non solo storica, tutt’altro che agiografica – contro l’agiografia si scaglia più volte e con energia, quando dice “sono figlio di un mito” tra polemica e tristezza. Si tratta di storia familiare ma anche di una ricerca più intima dell’identità e anche della carnalità di un padre sempre presente, nella sua assenza, nella sua invincibile mancanza. Ma oltre a questo “I miei sette padri” è un affresco, anche linguisticamente significativo nella sua genuinità mai ingenua, di un tempo e di una civiltà contadina ormai scomparsa, nei suoi caratteri di ingiustizia e miseria, e di solidarietà e voglia di riscatto. Aldo è uno serio, che quando fa una cosa la fa sul serio e fino in fondo: quando era cattolico praticante era il primo in chiesa e nelle attività della parrocchia, quando si “volta”, dopo tre anni di galera militare sofferti solo per aver adempiuto alla consegna durante il servizio di guardia, sarà altrettanto serio. Nello studio a cui lo inizia l’università della galera, come nell’attività politica e poi nell’azione della Resistenza. La Famiglia Cervi, quasi una tribù, nella migliore tradizione della civiltà contadina è fatta da Papà Alcide, Mamma Genoeffa e 7 figli 7, per l’elenco rimando alla lettura coinvolgente, ricca e commovente a tratti del libro. Oltre a loro tutto un arcipelago di parenti e vicini e poi compagni di lotta, ma soprattutto di lavoro, ché di lavoro ce n’è tanto ma tanto da scoppiare, per far progredire, come poi sarà tutta la baracca nei suoi vari spostamenti da mezzadri fino ai Campi Rossi dove, finalmente affittuari, potranno dar corso e applicazione in campo a tutto ciò che Aldo ha studiato nei libri e nei corsi di agricoltura. E il successo a caro prezzo di sudore arriva, con uno dei primi trattori della provincia per sostituire il valoroso toro nel traino degli attrezzi per livellare il terreno e renderlo così più produttivo perché meglio irrigabile. Ma il fascio è sempre lì, quando non danneggia direttamente, ostacola con la sua ignoranza e prepotenza, anche alimentando la diceria che i “Ruban”, il soprannome di famiglia – senza un soprannome non sei nessuno, son tutti matti! E poi la guerra, spartiacque storico, che lo vediamo anche oggi, chiarisce e confonde insieme. Ma Aldo e i suoi, familiari e non solo, sanno bene da che parte stare. E’ una scelta da un lato spontaneo portato di una cultura dedicata alla vita: cos’è altro lavorare per arare, piantare e far crescere le messi e allevare gli animali? Dall’altro è il risultato di una cultura maturata negli studi da autodidatta e nella pratica politica di un “dirigente nato”, ma senza nessuna spocchia o pretesa. Poi i primi passi necessariamente incerti di una banda partigiana fatta in casa e senza troppi collegamenti, anzi anche spesso osteggiata da una parte del Partito, la più vicina, da cui ci si aspettava aiuto e consiglio, che si vanno a cercare nel territorio a fianco, dove si trova più apertura e solidarietà umana e politica. Ma se la memoria storica e antropologica sono preziose e di prima mano, in questo bel libro, la cosa che più attrae e obbliga a continuare a leggere senza interrompere, è il flusso di coscienza che Adelmo, figlio e anche un po’ padre e fratello di Aldo suo padre, esprime e lascia andare senza soluzione di continuità per tutte le quasi 400 pagine. E forse per chiudere non c’è niente di meglio della citazione dal testo in cui l’Adelmo si rivolge direttamente ad Aldo: “Grazie per ‘Avermi voltato’, insieme a tanti compagni di ieri e di oggi. Grazie per quelli che ‘volterai’ domani. C’è ancora tanto per cui lottare, in questo mondo”. E poi la foto all’inizio pagina 10, quella stessa di cui l’Adelmo parla così alla fine: “Ma al momento di metter via tutto… mi accorgo che la foto - quella coi vestiti belli, che insieme all’altra mi fa da santino – è stampata all’incontrario, all’inizio del catalogo del museo. (…) Vorrà dire che poter (!) raccontare - la mia storia – all’incontrario? Forse sì. (…) Ma anche così sarei arrivato qui, da te”. Aldo Rotolo aldored@gmail.com

C’È UNA QUESTIONE MERIDIONALE ANCHE NEL PNRR

«La questione meridionale» è un tema caro a noi della Riviera ed ai nostri lettori, Pasquino Crupi ci ha istruito su questa dottrina e, seguendo una linea di pensiero che risale dritta dritta ad Antonio Gramsci, ci ha spiegato che l’emigrazione era la causa che stava alla radice del problema: «Gli emigranti e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie del Nord» (A. Gramsci, La questione meridionale). La genesi del fenomeno risale al 1861, all’atto dell’Unità il reddito pro capite nel Mezzogiorno era di un quarto inferiore a quello del settentrione. I motivi erano molti, in primis gli effetti della dominazione borbonica e l’instabilità politica. L’Unità d’Italia peggiorò la situazione del meridione, poiché venne esteso all’intero territorio nazionale il regime liberistico del Piemonte sabaudo senza tener conto delle enormi differenze in campo amministrativo, legislativo e sociale. La pressione fiscale stroncò l’economia del Mezzogiorno che non era in grado di sostenerla, il tutto a scapito di un fragile sistema manufatturiero che finì per crollare miseramente. Da allora fu esodo, che non si è mai interrotto fino a raggiungere nel decennio 1951-60 la quota di oltre due milioni di persone che abbandonarono il Mezzogiorno per trasferirsi nelle città del Nord o all’estero. Gli abitanti del Sud si trasformarono in un bacino di manodopera che serve ancora oggi ad alimentare l’impetuoso sviluppo industriale del Nord. Il dato da analizzare è quello demografico che continua a rimanere di stretta attualità. Nel primo ventennio del Duemila il Sud ha perso due milioni di residenti, di cui la metà giovani tra i 15 e i 34 anni, per un quinto laureati. La parte pregiata degli abitanti, quella più giovane e istruita, se n’è andata. Secondo le previsioni dell’Istat, se questa tendenza non dovesse invertirsi, entro il 2056 le regioni meridionali perderebbero oltre 5 milioni di persone: un abitante su quattro. Non è necessario essere grandi economisti per capire che se non c’è forza lavoro, la popolazione attiva che rimane non produce più ricchezza per sostenere il welfare, accrescendo così la dipendenza dal Nord. Sempre l’Istat ci dice che tra il 1996 e il 2019, mentre la popolazione del Nord è cresciuta del 9,3 per cento, quella del Sud è diminuita del 2 per cento. Francesca Mariotti, direttore generale di Confindustria, sottolinea che ogni anno le regioni del Mezzogiorno perdono 130 mila abitanti: «È come se scomparisse, ogni dieci anni, una città come Napoli o Palermo». Per rendere meglio l’idea, leggiamo altri dati forniti dal Rapporto Svimez. Nel 2022 il Pil pro capite al Sud è quasi la metà di quello del Nord: 20.900 euro contro 38.600. Il tasso di disoccupazione nel primo trimestre 2022 è stato del 5,7 per cento al Nord e del 15,2 per cento al Sud. Per tassi di occupazione nella Ue, Sicilia, Campania, Calabria e Puglia sono in fondo alla graduatoria, negli ultimi dieci posti su 300, insieme alla Guyana francese. Quanto alle donne, nel Mezzogiorno lavora una donna su tre. Due esempi, per capirsi meglio: a Bolzano il tasso di occupazione femminile è al 63,7 per cento, in Sicilia al 29,1. Arriviamo al disastro della sanità: ogni anno due miliardi di euro vengono trasferiti dalle regioni del Centro-Sud a quelle del Nord per fornire ai meridionali le cure che non riescono ad avere nei loro ospedali. Il motivo è semplice: ogni anno la regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino. E così accade che la sanità calabrese nel 2020 abbia versato nelle casse della Lombardia 230 milioni di euro. Nel 2023, sempre secondo lo Svimez, il Pil dovrebbe crescere dell’1,7% nelle regioni centro-settentrionali, e dello 0,9% in quelle del Sud. Nel 2024, il divario di crescita a sfavore del Sud dovrebbe peggiorare ulteriormente di circa 6 decimi di punto, attestandosi a +1,3% di fronte al +1,9% al Centro-Nord. In campo energetico la Calabria non dovrebbe avere problemi essendo grande produttrice nel comparto idroelettrico, ma non si capisce per quale motivo la popolazione non riesca a trarne beneficio. Se a tutto questo aggiungiamo le croniche deficienze burocratiche degli Enti di ogni ordine e grado il quadro diventa ancora più scoraggiante e getta un’ombra sinistra sulla possibilità che il PNRR possa aiutare a ridurre il divario. Pensate che i Comuni del Sud impiegano mediamente circa 450 giorni in più rispetto a quelli del Nord per completare la realizzazione delle infrastrutture e che non si contano i cantieri di opere pubbliche fermi o abbandonati. Se andiamo nel campo della giustizia vediamo che un procedimento civile nel Centro-Nord richiede 695 giorni e al Sud 1.101. Per carità di patria sorvoliamo sul disastro della giustizia penale e sui clamorosi flop delle mirabolanti imprese dei “magistar” allignati nelle Procure meridionali che costano all’erario cifre iperboliche e incidono pesantemente sul tessuto sociale e civile delle regioni meridionali sempre più connotate quali capitali del crimine. Reggio è stata la città in cui nel 2020 sono stati elargiti più fondi per risarcire chi aveva subito un’ingiusta detenzione con quasi 8 milioni, a seguire Catanzaro con 4 milioni e mezzo. E il Pnrr, direte voi? Molti analisti sono scettici e non ritengono che possa aiutare a ribaltare questo stato di cose, d’altra parte lo stesso meccanismo di assegnazione non alimenta molte speranze. Il metodo di ripartizione dei finanziamenti europei è, infatti, basato sulla competizione territoriale, che avvantaggia di fatto le più efficienti amministrazioni del Centro-Nord. Un buon segnale di reazione e consapevolezza è giunto dalla rete Recovery Sud che vede 323 sindaci dei comuni meridionali riuniti a cercare soluzioni adeguate a contrastare il sempre più probabile rischio di una iniqua ripartizione dei fondi; ma la notizia di questi giorni che l’economista Fabio Panetta abbia respinto l’offerta del dicastero dell’Economia mettendo in guardia la Meloni sui ritardi del processo di attuazione del Pnrr, getta un’ombra sinistra sul nostro futuro.

martedì 4 ottobre 2022

IL BRIGANTE VLADIMIR, IL BUON SAMARITANO JOE E LA WONDER WOMAN URSULA Parte 1^

Ricordate la storia del rischio imminente di carestia e dei paesi africani costretti alla fame da quel cattivone di Putin? L’avete già scordata anime belle che non siete altro, ora state pensando solo a dove trovare i soldi per pagare la bolletta della luce e vi cullate nella segreta speranza che ve la paghi SuperMario o la sua ancella SuperGiorgia. Ma una domanda ve la voglio fare lo stesso: se c'era il rischio di carestia mondiale come mai le navi cariche di cereali ucraini partite dal porto di Odessa non sono affatto andate verso i paesi del terzo mondo a rischio carestia ma solo da chi poteva pagar bene? Semplice: perché non c'è e non c'era nessuna carestia mondiale in corso, e neppure la si rischiava. Il grano era aumentato di prezzo già a dicembre 2020, e i paesi del terzo mondo avevano già difficoltà a pagarlo, ma allora l'Occidente era in tutt’altre faccende affaccendato. Così alla fine il grano ucraino che sarebbe dovuto servire ad alleviare la fame nel mondo, ce lo siamo dovuti comprare noi per darlo da mangiare al bestiame. Quando gli americani e la Nato hanno provocato Putin al punto di costringerlo ad intraprendere la sciagurata e folle avventura dell’“Operazione speciale” hanno ovviamente costretto l'Unione Europea a entrare in questa storia, prospettando una rapida vittoria, grazie all'annuncio di sanzioni "mai viste". Nessuno si aspettava di pagarne le conseguenze, perché era stato fatto credere che i russi sarebbero capitolati immediatamente. Tutti fingono di ignorare, compresi ahimè i giornalisti italiani, che la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen è sotto totale controllo degli americani tramite il marito Heiko Echter von der Leyen, medico tedesco e membro della nobile famiglia von der Leyen. Da dicembre 2020, Heiko è direttore medico della società biotech statunitense Orgenesis, specializzata in terapie cellulari e geniche, che possiede la tecnologia mRNA e di conseguenza manovra il business da 36 miliardi di dollari della Pfizer. Avete bisogno di sapere altro? Dal canto suo la Nato che ha un apparato tecnologico fantasmagorico ma è carente di truppe (gli antichi la chiamavano “carne da cannone”) ha svolto la sua classica funzione di “stoke masked fire” armando gli ucraini e svuotando i magazzini delle fabbriche di armi americane la cui lobby notoriamente tiene in pugno tutti i presidenti americani, democratici o repubblicani che siano. Tenetevi stretta la favoletta di Biden buon samaritano e di Putin brigante se vi star tranquilli e via a braccetto verso l’apocalisse prossima ventura.

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE ROBERTO OCCHIUTO

UN’ALTRA ESTATE SPRECATA Caro Presidente, un’altra estate è passata e non possiamo nasconderci che, nonostante la sua buona volontà, siamo costretti a rubricarla come l’ennesima occasione mancata per lo sviluppo turistico della nostra regione. D’altra parte, miracoli non se ne possono fare e le premesse erano quelle che erano: i danni che abbiamo inferto al paesaggio in decenni di politiche scellerate non sono recuperabili con attività ordinarie e la povertà di infrastrutture non si può certo colmare con un anno di lavoro virtuoso. Se poi a tutto questo aggiungiamo una cronica incapacità di comunicare in modo virtuoso la bellezza del nostro territorio, il quadro è completo. L’ultimo claim pubblicitario efficace sulla Calabria, l’ha prodotto nel 1353 nientemeno che Giovanni Boccaccio (toscano di nascita e cultura) che, nella seconda giornata della quarta novella del Decameron, declamò testualmente: “Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia”. Da allora, purtroppo, è stato tutto un continuo degradare fino ad arrivare, quasi 600 anni dopo, all’amara definizione di Giustino Fortunato che nel 1904 bollò la Calabria come uno “sfasciume pendulo sul mare”, al grido di dolore di Umberto Zanotti Bianco negli anni Venti del secolo scorso “Tra la perduta gente” e alla drammatica e lapidaria constatazione di Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” del 1944. Dopo di allora è stato un continuo susseguirsi di iniziative sprovvedute, improvvisate e superficiali (se non vogliamo metter in dubbio la buona fede) che via via sono solo servite a riempire le tasche di personaggi improbabili e guitti alla ribalta. Veda caro Presidente, io mi sono iscritto al PCI nel 1971, comunista ero e comunista sono rimasto anche oggi che del Comunismo è rimasta solo un’idea appannata e distorta; le devo dire però che della Destra (quella democratica, intendo) ho sempre invidiato il pragmatismo e la capacità dei suoi uomini migliori di svincolarsi dai dogmi dottrinari nell’affrontare i problemi del quotidiano. Per dirla con Woody Allen, “ammiro la Destra perchè ha sempre pronte risposte facili a domande difficili”. Ecco quello che mi aspetto da lei caro Presidente, risposte facili e interventi conseguenti. Ad oggi debbo registrare proficui risultati in campo culturale, grazie anche all’impegno e alla capacità della Vicepresidente Giusi Princi, ed anche nel campo minato della sanità dove lei sta svolgendo a tutti gli effetti il ruolo dello sminatore. Ho apprezzato molto che, dimostrando grande apertura mentale, abbia voluto ascoltare i consigli di uomini della “parte avversa” quali Rubens Curia di “Comunità Competente” in materia di Sanità e di Tonino Perna in materia di prevenzione degli incendi. Certo non posso pretendere che nell’arco di una legislatura riesca a demolire tutti gli ecomostri e i palazzi non finiti che deturpano il nostro paesaggio, ma un intervento in questa direzione va fatto, la rimando per questo al prezioso saggio di Piero Lo Sardo e Renato Nicolini: “Rottamare il degrado” (Laruffa edizioni). Le uniche sirene a sinistra che le chiedo di non ascoltare sono quelle di un certo ambientalismo dilettantesco, scellerato e irresponsabile che fino ad oggi ha solo contribuito a bloccare lo sviluppo della Calabria e a perpetuare il degrado del territorio. Un intervento urgente che le chiedo di attuare riguarda la rete stradale (Traversale delle Serre, Sibari-A2 e SS 106 in primis) e la manutenzione delle strade provinciali ridotte in modo pietoso da buche e assenza di segnaletica orizzontale; a questo proposito la informo che la nostra Regione è l’unico posto al mondo dove Google Maps non riesce a raccapezzarsi in alcun modo, provi ad usarlo utilizzando strade che conosce e ne sentirà delle belle! Per finire, le pongo una domanda solo apparentemente capziosa: perchè il problema della raccolta e smaltimento dei rifiuti è enormemente più grave nella provincia di Reggio rispetto alle altre? Buon lavoro, suo Franco Arcidiaco

venerdì 9 settembre 2022

ROSATELLUM O CERVELLOTICUM?

Sappiamo bene che nell’italiano medio non c’è una gran voglia di andare a votare, se poi aggiungiamo le difficoltà di capire i meccanismi farraginosi della legge elettorale, le prospettive di una larga astensione si allargano a dismisura. Come bene illustra il nostro vignettista Domenico Loddo, il famigerato Rosatellum (che prende il nome dal senatore Ettore Rosato, eletto con il Pd e poi approdato a Italia Viva) diventa un’accetta che taglia la mano dell’elettore. Il 25 settembre andremo a votare con una legge che assegna i seggi in Parlamento secondo un sistema misto: un terzo con meccanismo maggioritario, due terzi con proporzionale. Ma ci sono una serie di anomalie cervellotiche che molti non conoscono e francamente risultano difficili da capire. Ricapitoliamo: un terzo dei seggi viene assegnato col maggioritario: nei collegi uninominali il candidato che prende più voti vince. Nei collegi plurinominali (che riguardano i restanti due terzi dei seggi) invece i candidati sono divisi tra le forze politiche in modo proporzionale, in base ai voti ottenuti. È prevista una soglia di sbarramento al 3% per i singoli partiti e del 10% per le coalizioni. I seggi assegnati con il sistema maggioritario saranno 147 alla Camera (su un totale di 400) e 74 in Senato (su in totale di 200). Infine, 8 seggi alla Camera e 4 al Senato vengono assegnati secondo il voto degli italiani all’estero. I seggi distribuiti con sistema proporzionale sono la maggior parte, 245 alla Camera e 122 al Senato. Nei collegi plurinominali i parlamentari vengono eletti in base ai voti ottenuti a livello nazionale da ogni lista, proporzionalmente ai consensi ricevuti. Ogni listino può essere composto da almeno due e fino a quattro nomi. È prevista una quota di genere: nessun sesso, infatti, può rappresentare oltre il 60% dei candidati rappresentati. Nei collegi plurinominali i seggi vengono assegnati secondo il cosiddetto top-down, dal nazionale al territorio. A livello nazionale vengono cioè designate le liste e a quelle che superano le soglie di sbarramento vengono poi distribuiti i seggi secondo un particolare calcolo di quozienti e resti. Un partito potrebbe vedersi assegnare un tot di seggi in una circoscrizione per dei voti ottenuti in un’altra. Gli elettori di Milano, ad esempio, potrebbero con il loro voto procurare un seggio a Napoli al partito che hanno inteso votare. Chiaro? Per schiarirmi le idee sono andato nel sito dei fidati amici di Kulturiam.it e ho trovato questa sorprendente spiegazione degli esiti pratici del Rosatellum a cura di Jan Datranich: “Chi pensa di votare Civati nel listino plurinominale, in realtà potendo solo barrare la lista che contiene i nomi senza poter votare per lui pena annullamento del voto, vota anche Casini nell’uninominale connesso e così chi pensa di votare Cucchi vota anche per Lorenzin; chi pensa di votare Soumahoro vota anche Cottarelli; chi pensa di votare Schlein vota anche nell’uninominale Marcucci. E viceversa chi vota solo il candidato dell’uninominale vedrà il suo voto ripartito in proporzione tra tutti i partiti o liste collegate nei listini plurinominali. Per di più se nella parte plurinominale del collegio il partito di Civati o degli altri non supera il quorum, per effetto del riparto nazionale dei resti si vedrebbe in parlamento un soggetto a lui ignoto, candidato in un altro collegio. È solo un esempio delle storture del sistema italiano che ha abiurato la democrazia parlamentare rappresentativa. Chi dopo aver concorso a produrre questo sconcio, da ultimo nel silenzio generale e all’unanimità approvando dopo il referendum del taglio dei parlamentari una normativa che ha ridisegnato i collegi rendendoli compatibili e con il taglio e con il Rosatellum, così dimostrando di volerlo tener ben caro, meriterebbe l’ostracismo se vivessimo nella Grecia periclea”. Morale della favola, ci troviamo al cospetto di un sistema che non agevola certo gli elettori scettici o svogliati e che favorisce certamente i grossi partiti e/o le grosse coalizioni. Se poi aggiungete che in avanzata era digitale, ancora utilizziamo il sistema obsoleto della scheda e della matita (bloccando l’attività scolastica per 15 giorni) e non consentendo di votare a lavoratori e studenti fuori sede, vi renderete conto che ancora una volta le regioni più penalizzate sono quelle del Sud… a proposito di Questione Meridionale!

giovedì 18 agosto 2022

PALMA DEL TRASH PER GIANNI RIOTTA

Deriva scatologica per il giornalismo italiano. Gianni Riotta conquista la palma del trash con un incredibile articolo dedicato all'intasamento del water della Casa Bianca. Se veramente ambisce al premio Pulitzer, Riotta non si può dire che non le stia provando tutte. Ispiratore delle liste di proscrizione dei "filo-putiniani", guerrafondaio, atlantista schierato con i Dem americani evidentemente ritiene di avere tutte le carte in regola. Trump è sempre stata la sua magnifica ossessione, lungi da me prendere le difese dell'ex-presidente USA, ma onestamente oggi sarebbe forse il caso di accendere meglio i riflettori sulle epiche gesta del suo successore Biden. Riotta invece non trova di meglio che approfondire le indagini su dei documenti compromettenti che Trump avrebbe strappato e buttato nel water nell'intento di eliminarli. Se Riotta ha pensato di ripercorrere le orme di Bob Woodward e Carl Bernstein, creando questa versione trash del “Watergate”, più che al Pulitzer potrà ambire al Premio Ignobel, ha realizzato infatti la sceneggiatura di un B-movie che nemmeno Lino Banfi e Alvaro Vitali accetterebbero mai di interpetrare. Della vicenda ne avrete già sentito parlare, il tutto nasce da due foto diffuse da Maggie Haberman giornalista del New York Times e della CNN, verosimilmente per promuovere l’imminente uscita del suo libro “Confidence Man”. La prima mostrerebbe il water di Trump alla Casa Bianca con dentro un fogliettino non risucchiato dallo sciacquone; l’altra è il frammento di uno scritto di Trump che sarebbe finito nella toilette dell’aereo presidenziale. A qualunque persona di buon senso non può che apparire inverosimile sia la violabilità delle toilette di un presidente USA, che la circostanza di un personaggio come Trump che non abbia sempre a portata di mano un trita-documenti. Sui social, che naturalmente si sono scatenati visto il tema pecoreccio, molti hanno fatto notare che la qualità del battiscopa, la sporcizia nel pavimento e la vicinanza del muro al water suggerirebbero una foto scattata in un angusto e povero ambiente mentre la seconda foto contraddirebbe l’iniziale dichiarazione della Haberman secondo la quale le foto le sarebbero state consegnate da “alcuni collaboratori di Trump (costretti a) chiamare gli idraulici per riparare gli igienici intasati”. Gianni Riotta (già membro italiano del “Gruppo alto livello dell’Unione Europea per la lotta alle fake news”) sulle pagine di Repubblica si lancia in un panegirico della “formidabile Maggie Haberman” con una chiosa surreale: “Le foto del bagno occluso da documenti ufficiali e il tentativo di Trump di cancellare la Storia entrano con prepotenza nella memoria”, rivelando che, secondo lui, la memoria di questa fase storica che stiamo vivendo troverà il massimo della sua rappresentazione in due foto di cessi intasati da minuscoli “pizzini”. Per carità di patria, e per spirito di corpo della categoria alla quale appartengo, non vado oltre e lascio a voi la riflessione sullo stato del giornalismo globale.

domenica 7 agosto 2022

AI LETTORI DE LA RIVIERA

Rosario Condarcuri mi ha proposto la direzione ir-responsabile de La Riviera un paio di sere fa a Bova Marina, eravamo attorno al tavolo di un bar famoso per le granite ma, soprattutto, ci trovavamo nella piazza della chiesa dell’ultimo saluto a Pasquino Crupi. A Rosario mi accomunano tante cose, ma penso che il principale punto di congiunzione sia l’ostinazione con la quale continuiamo a credere al ruolo fondamentale dell’editoria e della comunicazione in questa sgangherata società. Facciamo parte della categoria “editore puro” che, beninteso, non si riferisce a una condizione spirituale di innocenza o candore, ma semplicemente alla pervicacia con la quale assolviamo alla nostra missione di produrre una comunicazione scevra da asservimenti di qualsiasi natura. La follia consiste nella caparbietà con la quale da decenni continuiamo a considerare questa attività una possibile fonte di reddito per le nostre famiglie. Quando, nell’agosto del 1990, ho fondato Laltrareggio mio padre, sul punto di diseredarmi, mi disse: “È arrivato il comandante del vascello pirata!”, miglior complimento non avrebbe potuto farmi, ma probabilmente non era questa la sua intenzione… Per lui, i giornali erano delle istituzioni a sé stanti e non concepiva nemmeno lontanamente l’idea della fanzine libera e fuori dagli schemi. Sono passati tanti anni, quel vascello, ormai ormeggiato, osserva sornione l’evoluzione networkiana della sua attività, e io, nel frattempo, prendo al volo l’occasione che mi viene offerta di agguantare il timone di un altro vascello pirata o, per usare un’espressione di Pasquino, di una “goletta anarchica”. Rosario mi ha ricordato di quando qualcuno chiese al neo direttore de La Riviera, Pasquino Crupi, quale linea politica intendesse dare al giornale e lui rispose: “La Riviera è un giornale anarchico meridionalista e tale resterà!”. Prima e dopo Pasquino Crupi tante mani si sono avvicendate al timone de La Riviera, ricordo per esempio Nicola Zitara e Pietro Melia, tutti direttori di straordinario livello compreso l’attuale Ilario Ammendolia che mi ha accettato fraternamente al suo fianco, lo ringrazio con orgoglio. Rosario Condarcuri, sapientemente, ha fatto della sua Riviera un “giornale grandi firme” e a breve sarà capace di stupirci ancora con una straordinaria nuova iniziativa in cantiere. Insomma, mi ritrovo circondato da tanti valorosi amici e colleghi e da un gruppo di giovani seri e volenterosi, meglio di così non potevo aspettarmi. C’è una bellissima frase dello scrittore Haruki Murakami che mi piace ricordare e che credo racchiuda il senso più profondo dell’ormai lunga storia che lega La Riviera alla provincia reggina: “Ognuno lascia la sua impronta nel luogo che sente appartenergli di più”. Ho sempre creduto nel ruolo importante, imprescindibile dell’informazione locale, come strumento per avere sempre il polso della situazione. Sono tanti quelli che guardano con sufficienza i magazine locali, sappiano che grande non è sinonimo di qualità. In un Paese come il nostro che ha fatto della piccola impresa artigianale una cifra distintiva universalmente apprezzata, anche un organo di informazione locale può racchiudere un concentrato di qualità e innovazione esemplare. Essere vicini al proprio territorio, interpretarne e spiegarne il vissuto quotidiano, non è roba da dilettanti o improvvisatori, richiede competenza, sensibilità e abnegazione. La Riviera continuerà ad essere un giornale meridionalista ma non campanilista, attivo, vivo e curioso ma alieno da derive gossipare e da attacchi proditori; non rinunceremo mai alla nostra identità ma non abbiamo alcuna intenzione di farla prevalere con metodi prevaricatori. Buon viaggio, dunque, a tutti noi e alla nostra Calabria.