martedì 11 settembre 2018

FESTIMARONNA

Quando il direttore mi ha chiesto un punto di vista “da non credente” su “Festaimaronna”, ho un po’ esitato poiché vivo con fastidio l’atteggiamento intollerante e gli sguardi compatitori, che amici e conoscenti cattolici mi riservano ogni qualvolta non esito a manifestare il mio ateismo. Alla fine, però, ha prevalso l’approccio di don Davide Imeneo, certamente diverso, fondato com’è su reciproca stima e forte vena dialettica. Il grande antropologo e storico delle religioni Ernesto de Martino ci ha insegnato che “le religioni, se sono davvero religioni e non soltanto vita morale o conoscenza o poesia dispiegate e fatte autonome nella coscienza, racchiudono sempre un nucleo mitico-rituale, una ‘esteriorità’ o ‘vistosità’ pubbliche, una tecnica magica in atto, per quanto affinata e sublimata”. Ed è pertanto di questo aspetto che desidero parlare, sperando di evitare gli strali dei Torquemada di turno. La festa patronale è un momento topico che riguarda strettamente la sfera identitaria di una comunità, ma deve essere anche lo strumento che consente alle autorità religiose di riaffermare un nucleo di valori elevati, che trascende gli egoismi individuali e al quale il cittadino, “homo civicus”, deve sottomettersi; è il momento del riconoscimento che il negativo può, sì, essere riassorbito dal piano metastorico mitico-rituale, ma non senza una condotta umana moralmente orientata. Il corpus di questa magia cerimoniale diventa fattore aggregante e identitario e produce un elevatissimo livello di condivisione di sentimenti e valori. Inevitabile il ricorso ai ricordi più personali: mia madre non voleva seguire la processione, aveva un carattere pigro, con la sua bonaria e sorniona indolenza chiedeva a turno a uno di noi figli di essere accompagnata al Duomo “mi salutu a Maronna”, diceva; quando ero ancora in età scolare l’occasione era ghiotta, poiché all’uscita dalla chiesa mi spettavano le bancarelle di giocattoli e dolciumi. Sette anni fa, alla vigilia del suo trasferimento al Nord, sono andato con mio figlio a “salutare la Madonna”, mia madre non usciva più e questo rituale in qualche modo mi mancava. Ho trovato anche opportuno che mio figlio, nel momento del distacco dalla sua città e del passaggio della “linea d’ombra”, andasse a salutare, oltre a parenti e amici, il simbolo indiscusso della nostra comunità. Sono anni ormai che con mia moglie non manchiamo alla festa di Sant’Agata a Catania; pulsioni strane, le nostre, forse riconducibili a una forma di metareligione che riguarda da vicino il trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson e la setta americana UU (Unitariani Universalisti) da lui ispirata, che professa una libera e responsabile ricerca della verità e del significato e mira a creare una fede umanistica universale. Sarà, ma a me di Sant’Agata piace il sorridente visino arguto e lo spirito coraggioso e ribelle e della sua festa mi piace il calore della gente con indosso il pigiama tradizionale, l’odore dei ceri e della segatura, il sapore ineguagliabile delle olivette e delle “minnuzze” e il profumo del cibo di strada, mentre di “Festimaronna” mi piace il piglio e lo sguardo dei portatori, la vetusta sobrietà del quadro, la tarantelle e il panino “cu satizzu”.