venerdì 21 settembre 2012

BASTEREBBE IMPARARE A VOTARE...

Conosco personalmente, anzi di molti sono amico fraterno, gran parte dei firmatari del manifesto "Reggio rivendica il suo ruolo". Mi sono pure chiesto come mai non mi abbiano chiesto di sottoscrivere il loro, invero tardivo, grido di dolore. Non sono un delinquente, non sono un incivile, non sono uno sfruttatore, non sono un nemico di Reggio, non sono un buffone, non sono un evasore fiscale, non sono un perdigiorno, quindi perché non dovrei avere il diritto di firmare quel manifesto? Ho riflettuto un po' e alla fine sono arrivato a una conclusione: vuoi vedere che non mi hanno interpellato perché mi considerano un pericoloso estremista di sinistra e quindi, automaticamente, mi annoverano tra i nemici della città? So che qualcuno di loro ha anche votato, probabilmente a sua insaputa, per il centrosinistra, ma agli altri suggerirei di chiedere agli amati politici di centrodestra di smetterla di inserire nelle liste (e quindi nelle Istituzioni) delinquenti di ogni risma. Perché qui si sta deliberatamente confondendo la causa con l'effetto e i carnefici con le vittime. Secondo questi quattrocento gloriosi paladini della riggitanità, la città non l'ha infangata chi ha dilapidato ingenti risorse gettando nel lastrico centinaia di famiglie, né chi ha consentito (per incapacità o connivenza) di deturparla orrendamente, né chi ha eletto o fatto eleggere professionisti del malaffare, ma chi ha alzato la testa per indicare i colpevoli e per denunziare le loro malefatte. Cosa avrebbero dovuto fare, per lorsignori, i giornalisti? Fingere di non vedere, negare l'evidenza, inneggiare alle grandi capacità di politici e burocrati buoni solo a riempire le tasche proprie e dei comparelli di turno? Cosa avrebbero dovuto fare i politici dell'opposizione, sedersi al tavolo a dividere la torta o andare, come hanno giustamente fatto, alla Procura della Repubblica a depositare le prove del disastro del cosiddetto "Modello Reggio"? Suvvia amici non scherziamo, molti di voi, usi ad adagiare le terga su comodi divani di accoglienti salotti, fingete di non vedere lo sfacelo che vi circonda, forse per quieto vivere; altri, chiusi da mane a sera nei vostri studi professionali, pensate solo a prestare la vostra valorosa opera (magari ogni tanto dimenticando di emettere qualche ricevuta fiscale); altri (pochi) siete dei veri e propri compagni di merenda di quelli che hanno affossato la città; alcuni siete invece i classici professionisti dell'antimafia di sciasciana memoria e la vostra unica preoccupazione è quella di non urtare la suscettibilità del potere dominante che vi foraggia strumentalmente. Non metto in dubbio la genuinità della vostra sofferenza, ma vi suggerisco di trovare conforto ricorrendo a una lapalissiana considerazione: se si dovesse giungere allo scioglimento del nostro Comune per mafia, l'onta non ricadrebbe certamente su di voi e sulle altre svariate migliaia di cittadini onesti, ma sui politici corrotti e incapaci (che però, non dimenticate, molti di voi hanno votato) che hanno consentito questo stato di cose. Vivete l'eventuale scioglimento come una catarsi e andate, appena la legge lo consentirà, alle urne a testa alta e questa volta, però, cercate di non votare di nuovo i candidati sbagliati!
Franco Arcidiaco


lunedì 3 settembre 2012

MINCHIA NON SI IAPRI STRILL...

Minchia non si iapri Strill, cu sapi chi succiriu a Rriggiu! Martedì mi trovavo in una splendida azienda agri-vinicola di Milo alle pendici dell'Etna (a proposito da quelle parti sono cent'anni avanti rispetto a noi, ma questa è un'altra storia...); tra un bicchiere e l'altro mi sono appartato con il mio Ipad e ho aperto Strill pi viriri chi ssi rici a Rriggiu e quella maledetta trottolina continuava a girare a vuoto. Minchia cu sapi a 'ccu 'ttaccaru... Il mio vecchio cuore giustizialista (ormai direi forcaiolo) ha cominciato a battere all'impazzata, ho continuato a fare il tip tap sullo schermo e poi mi sono rassegnato a telefonare a mio fratello a Reggio. Ho saputo così dell'arresto dell'ennesimo consigliere regionale. A parte la facile battuta che a questo punto sarebbe conveniente trasformare direttamente Palazzo Campanella in un supercarcere, risolvendo così anche l'annoso problema dell'edilizia carceraria, ho riflettuto sulla triste condizione della nostra città. Come al solito mi ha aiutato l'arguta analisi di Giusva Branca e la sua considerazione sull'incapacità di percezione del problema da parte della società cosiddetta civile e sull'abbassamento delle difese immunitarie di onestà di ciascuno. A riprova però della peculiarità della situazione reggina, vorrei sottolineare anche l'irrompere sulla scena dell'inedita figura del "politico giustiziere". Con buona pace, infatti, dei teorici dell'antipolitica e dei sostenitori dei savonarola mediatici, la politica ha dimostrato di possedere gli anticorpi che mancano alla società civile. Non mi sembra azzardato dichiarare che senza l'iniziativa di politici di lungo corso quali Demetrio Naccari, Seby Romeo e Aurelio Chizzoniti, oggi saremmo ancora qui a trastullarci con le magnifiche sorti e progressive del Modello Reggio imbevendoci del verbo del nostro amato Governatore. Certo qualcuno potrà pur sostenere che sono stati mossi da poco nobili interessi personali ma, a parte il fatto che tale discorso può valere solo per Chizzoniti che ha un interesse diretto verso le disgrazie di Rappoccio, i poveri Naccari e Romeo non mi pare che siano diventati i paladini del popolo reggino. Naccari anzi è finito sotto il fuoco incrociato di dossier e ricostruzioni giornalistiche prêt-à-porter.
La cosiddetta società civile e le sue folcloristiche propaggini salottiere buone solo ad accendere qualche fiaccola, non hanno saputo far altro che pendere dalle labbra della magistratura inquirente e dell'ex inquilino dei piani alti del Cedir della cui roboante attività ha coraggiosamente parlato l'avv. Chizzoniti dalle stesse pagine di Strill. Evito di produrmi in divagazioni su argomenti di cui non ho conoscenza diretta, ma mi hanno fatto riflettere le parole di Giovanni Falcone a proposito di Giuseppe Pignatone, riportate in più occasioni da un giornalista attento e credibile quale Paride Leporace (vedi il sito "www.cadoinpiedi.it" e il suo libro "Toghe rosso sangue"). Sulla vicenda di Rappoccio, invece, mi fa sorridere il suo ineffabile atteggiamento che lo ha portato a querelarmi assieme al collega Giuseppe Baldessaro; dalle pagine del Quotidiano avevamo ironizzato sulla sua presenza all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario e lui, poverino, si era sentito offeso, che sensibilità! Come si dice in questi caso? Aspettiamo sereni che la Magistratura svolga il suo lavoro. Ma io aggiungo di aspettare (non molto sereno) che i reggini imparino a scegliere i propri candidati e a smetterla di ritenere la politica come il cassetto dei propri bisogni personali.
Franco Arcidiaco

CARONTI STATTI AZZITTU E NON GRIRARI...

Sono certo che, una volta completata la lettura di questo libretto, il lettore non potrà far altro che manifestare un grande rammarico per l'incompiutezza dell'opera. Carmelo Lanucara, infatti, non è riuscito ad andare oltre la traduzione del terzo canto dell'Inferno, la malattia, provocata dagli stenti della detenzione nel carcere fascista, lo ha portato a morte prematura a soli quarant'anni. Con molta umiltà, nella sua breve prefazione, nega al suo lavoro alcuna qualità letteraria, salvo poi assumersi, con la sua proverbiale fierezza, ogni responsabilità filologica. La lettura di questi primi tre canti dell'Inferno dantesco è una vera goduria per i cultori del vernacolo, tanto più perché non ci troviamo al cospetto di una fredda traduzione letterale; Lanucara, infatti, procede ad una vera e propria nobilitazione del nostro dialetto adattandolo alla poetica musicalità del più grande poema di tutti i tempi. Suggerisco al lettore di procedere alla lettura dei tre Canti in dialetto affiancandola a quella degli originali. Si potrà così valutare l'estro fantastico con cui il nostro autore ha adattato i versi di Dante al dialetto reggino. Un esempio per tutti è costituito dalla lettura delle strofe del terzo canto che trattano di Caronte.
E il Duca a lui: Caron non ti crucciare, vuolsi così colá dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare diventa Mancu aviva finutu di parrari chi lu maestru meu ci' rispundiu: Caronti statti azzittu e non grirari pirchì cussì è la vuluntà di Diu.
Come vedete non si tratta di un semplice adattamento, Lanucara ha operato un vero intervento poetico con un risultato notevole sia dal punto di vista filologico che letterario; la sua ricerca della musicalità, però, non va a scapito del significato, notevole è infatti lo sforzo che egli produce per rendere comprensibile (e quindi popolare) il testo. In ciò Lanucara è memore della lezione di T. S. Eliot che nel 1942 (non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell'enfatizzazione della musicalità in poesia) scriveva: "La musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”.
Ma è evidente che dove il lavoro di Lanucara si rivela prezioso, è nella valorizzazione del dialetto, a cui operazioni come questa conferiscono indiscutibilmente lo status di lingua. E, parlando di dialetto, non si può non ricordare la lezione del grande Pier Paolo Pasolini il quale nel 1945 nell'atto costitutivo dell'Academiuta di lengua furlana così scriveva:
"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa lingua. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […] L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".
Se negli ultimi capoversi sostituiamo al termine "friulano" il termine "calabrese", oltre a renderci conto dell'immensità del pensiero pasoliniano, avremo una netta percezione dell'importanza del lavoro di Carmelo Lanucara. Alla sua memoria voglio dedicare questa splendida poesia del sommo poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta:

Un populu mentitilu a la catina,
spugghiatilu, attuppatici a vucca:
è ancora liberu.
Levatici u travagghiu, u passaportu,
a tavola undi mangia, u lettu undi dormi:
è ancora riccu.
Un populu diventa poveru e servu
quando 'nci arrobbanu a lingua addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poveru e servu
quandu i paroli non figghianu paroli
e si mangianu 'ntra iddi.
Mi 'nnaddugnu ora
mentri accordu a chitarra du dialettu
chi perdi na corda a lu jornu.
Ignazio Buttitta.

Franco Arcidiaco

martedì 7 agosto 2012

RENATO NICOLINI E QUELLA CAPACITA' ERETICA DI TROVARSI SEMPRE A SINISTRA


È come se fosse crollato il Colosseo. Per Roma e per la cultura italiana la scomparsa di Renato Nicolini è una perdita irreparabile. E purtroppo non riesco a stabilire quanto la sinistra italiana sia consapevole di questo. Che la notizia della sua morte sia stata data in anteprima, su Twitter, da Stefano Di Traglia, portavoce del segretario del PD Bersani, lo trovo decisamente beffardo. Ho frequentato intensamente Renato negli ultimi tre anni, tra di noi si era creato un rapporto che ci aveva messo poco a superare la dimensione autore-editore e si era esteso alle nostre famiglie. Era diventata una piacevole consuetudine ritrovarci a cena tutti i martedì sera, quando Renato e Marilù si trovavano a Reggio per impegni universitari o teatrali. Renato aveva idee molto chiare sulla situazione italiana, le soluzioni che lui proponeva passavano tutte invariabilmente dal ruolo della cultura e dal suo riscatto dai lacciuoli della politica; per lui la cultura era un elemento fondamentale dell’identità del nostro Paese. Per tutta risposta il mondo della politica, sinistra in testa, gli riservava un’indifferenza che lo faceva soffrire moltissimo. Quando lo scorso 8 dicembre abbiamo presentato a Roma, al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, la nuova edizione del suo libro Estate Romana, la sala era gremita di protagonisti della cultura di quegli anni (molti) e di oggi (pochi) ma non c’era l’ombra di un politico. In compenso era diventato popolarissimo su Facebook con il gruppo “Rivogliamo Nicolini assessore alla cultura” che ad oggi registra 4.150 membri. La sua ironia, la sua intelligenza, il suo sterminato bagaglio culturale, uniti ad una capacità, direi eretica, di ritrovarsi sempre e comunque “a sinistra”, avevano trovato una nuova attenzione nel mondo giovanile. La malattia lo aveva sfiancato fisicamente ma non aveva per nulla intaccato queste sue capacità. Nel nostro recente ultimo incontro si lamentava del fatto che la rievocazione degli anni dell’Estate Romana riportasse automaticamente sulla scena gli Anni di piombo, ma sapeva bene che questa associazione, per quelli della nostra generazione, equivale ad un riflesso condizionato.
I libri di storia non lo scriveranno mai, ma quella parte di popolazione italiana nata negli anni ’50 è stata letteralmente derubata della fase della spensieratezza e della serenità che normalmente contraddistingue l’età della giovinezza. La tragica fine di Unidad Popular di Salvador Allende in Cile, il golpe dei colonnelli in Grecia, le minacce di colpo di stato in Italia, le piazze insanguinate dalle bombe della Cia, le menzogne di stato sull’attivismo dei cosiddetti opposti estremismi (in realtà si trattava di fascisti manovrati dai servizi segreti occidentali) e per finire le maledette Brigate Rosse, che di rosso avevano solo il colore del sangue innocente che versavano, ma la cui unica funzione era quella di tenere fuori il PCI dalle stanze del potere. Era questo il tragico scenario di quegli anni tremendi e bui, le relazioni sociali e la vita culturale inevitabilmente risentirono di quel clima e, dopo i fasti del ’68, si registrò un ripiegamento nel privato, ben descritto dai versi di Lucio Dalla nella splendida L’anno che verrà.
La nomina di Renato Nicolini ad assessore alla cultura di Roma, nel 1976, ed il conseguente avvio della macchina dell’ Estate Romana l’anno dopo, svolsero la funzione essenziale di rimuovere i “sacchi di sabbia vicino alla finestra” e stanare la gente dalle “case rifugio” in cui pensavano di aver trovato riparo. L’Effimero lungo nove anni rivoluzionò la vita culturale dell’intera nazione, l’essenza stessa dell’arte effimera si fece sistema, sostituendo gli stabili canoni convenzionali con l’instabilità di atti, gesti e situazioni che non avevano pretese di durata e di consistenza materiale. Fu il trionfo della libertà di espressione che emanava da azioni affrancate dal giogo scolastico di metodi e contenuti ormai stantii, si affermò un modello culturale dalla netta impronta esistenziale destinato (paradossalmente, vista la sua genesi) a durare nel tempo. L’Effimero dell’Estate Romana allargò a dismisura il campo delle esperienze creative e comunicative, nessuna forma di espressione fu preclusa grazie all’utilizzo dei più eterogenei materiali e strumenti, nonché le più diverse forme di linguaggio. La fotografia, la musica, la rappresentazione scenica e la poesia recitata (si inaugurò allora la fortunata esperienza dei reading), funsero da fattore contaminante delle arti convenzionali e non avrebbero mai più abdicato a questa funzione.
Cos’è rimasto oggi di quella esperienza? La nemesi storica ha voluto che quella contaminazione positiva subisse a sua volta una contaminazione, questa volta fatale. Ed oggi c’è addirittura qualcuno che pensa che le notti bianche, le sagre e le kermesse commerciali siamo figlie di quella memorabile stagione; il berlusconismo ha purtroppo inciso pure su questo e, minando fatalmente le basi etiche del Paese, ne ha conseguentemente inquinato il tessuto culturale. La trasfigurazione de l’Estate Romana nell’orgia commerciale delle Notti Bianche ne è la tragica dimostrazione. Renato Nicolini ha vissuto la seconda parte della sua vita nella nostra città, è stato infatti professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura e direttore artistico del laboratorio teatrale Le Nozze. Reggio Calabria, nella sua perenne, apatica, indifferenza decadente, non si è lasciata coinvolgere più di tanto dal suo entusiasmo, ingrata dell’enorme impegno profuso nella formazione di tanti giovani studenti e nel tangibile risultato ottenuto dalla battaglia avviata da lui e dalla sua cara Marilù Prati, per la riapertura del Teatro Siracusa.
Franco Arcidiaco




domenica 29 luglio 2012

EMAIL A UN POETA CHE CREDE DI AVER PUBBLICATO CON FELTRINELLI

Caro sig. Z. ho ritardato un po' di tempo a risponderle poichè, facendolo d'impulso, avrei rischiato di risultare scortese. Veda, io opero nel mondo editoriale da 40 anni e, almeno in questo campo, non sopporto di ascoltare bugie e mistificazioni. Quando lei mi viene a dire che ha pubblicato (per giunta gratuitamente) con la Feltrinelli fa un'offesa alla mia intelligenza e alla mia professionalità. Lei ha pubblicato (a pagamento) con quella squallidissima e vergognosa operazione che si chiama "Il mio libro.it", messa in piedi da uno dei più grandi (e voraci) gruppi editoriali italiani (Repubblica-L'Espresso) per turlupinare gli autori e per mettere in difficoltà gli editori liberi e indipendenti come il sottoscritto. Le hanno pubblicato (ripeto: a pagamento) le sue poesie senza che nessuno di loro le abbia mai lette, lei avrebbe potuto fornire anche pagine bianche e loro gliele avrebbero pubblicate lo stesso, si rende conto? E questa me la chiama editoria? Le hanno fatto pure credere che il suo libro è stato pubblicato dalla Feltrinelli ed è in vendita nelle librerie Feltrinelli! E' una balla colossale! Come fa a non rendersene conto? Lei è sicuramente un poeta bravo e sensibile, ma questo non l'autorizza ad estraniarsi dalla realtà, diventando preda di mistificazioni e raggiri. La nostra proposta è onesta ed estremamente corretta. Noi le avremmo pubblicato il libro veramente e, soprattutto, l'avremmo fatto solo dopo averlo giudicato, letto, corretto e commentato; inoltre le avremmo fornito (realmente) 100 copie (pagate ad un prezzo irrisorio) ed avremmo messo in vendita il suo libro nelle librerie tramite un distributore nazionale e su tutte le librerie on-line. Le sembra la stessa cosa? Mi perdoni lo sfogo ma mi sembrava giusto che lei prendesse atto della realtà.
Un cordiale saluto, Franco Arcidiaco, Città del sole edizioni.


Il 20/07/12 17.50, XXXXXXX@virgilio.it ha scritto:
Preg.mo Direttore, La ringrazio per la sua proposta, ma ho già pubblicato con un altra casa editrice. L'obbligatorietà delle 100 copie costituisce un vincolo poco adatto alle mie esigenze. Ho già pubblicato è inutile nasconderlo con la Feltrinelli che non mi ha recato tali vincoli. Avrei voluto far conoscere la mia penna con voi e nella regione (cosa tra l'altro già fatta con il concorso Nosside a cui sto ultimamente partecipando). Per soddisfare la Sua curiosità, le invio in allegato una poesia già pubblicata basata su un tema estremamente e tristemente conosciuto. Se vuole, e mi farà immenso piacere, mi dia pure un parere, e se ha qualche idea per manifestare altri miei scritti inediti, anche con altra soluzione, sono a disposizione. Onorato di averla visionata.
Distinti Saluti B.Z.

sabato 30 giugno 2012

TOMMASO ROSSI E L’IMPEGNO TOTALIZZANTE DELLA POLITICA

“Se c’è una cosa che oggi, dopo una milizia così lunga ed un impegno così forte ed appassionato, rimetterei in discussione in modo problematico è se sia stato giusto vivere la politica in maniera così totalizzante. E’ un punto di fondo per chi ha fatto le scelte che ho fatto io… A tutti i momenti della mia quotidianità si è sempre sovrapposto il Partito, questa volta con la P maiuscola. Al partito era naturale sacrificare esigenze familiari e rapporti sociali.” Con questa riflessione, Tommaso Rossi, storico leader del PCI calabrese scomparso ieri a Reggio all’età di 85 anni, chiudeva la sua biografia Il lungo cammino. È una riflessione comune a molti esponenti politici della sua generazione ed a pochissimi di quelle successive e si riferisce al modo in cui quei militanti affrontavano il proprio presente storico. Paradossalmente negli ultimi anni il dibattito pubblico-privato è tornato in auge ma, molto più miseramente, in riferimento alle mirabolanti imprese sessuali dell’ex presidente del consiglio. Lo slogan “il privato è politico” era uno dei dogmi del ’68, un monito per i militanti che, anche nella vita privata, dovevano tener conto degli obblighi derivanti dalla delicatezza della missione che era stata loro assegnata. Tommaso Rossi era nato a Cardeto nel 1927 e aveva partecipato alla Resistenza come volontario nel Corpo Italiano di Liberazione quando ancora non aveva 17 anni. Iscritto al PCI dal 1944, è stato segretario della Federazione reggina e catanzarese e del Comitato regionale. Ha fatto parte del Comitato Centrale del PCI dal 1968 al 1984. Durante le occupazioni delle terre del 1950 è stato arrestato a Taurianova; stessa disavventura l’anno dopo in occasione di uno sciopero studentesco anti-Usa. È stato consigliere comunale a Reggio, Consigliere Regionale per quindici anni e, dal 1985 al 1989, parlamentare europeo. Anche da “pensionato” della politica non ha mancato di far sentire la sua voce, anche attraverso gli schermi di RTV, e con la partecipazione attiva a dibattiti e iniziative politiche e culturali. La vita di Tommaso Rossi non è stata una tranquilla passeggiata e, purtroppo, alle difficoltà e ai contrasti del lavoro politico ha dovuto sommare le vicissitudini della vita privata; dalla morte del giovanissimo fratello Ninetto (di tre anni più grande di lui), a quella, dolorosissima, della sua amata secondogenita Lidia. In questi ultimi anni, poi, ha vissuto il dramma della lunga malattia della moglie Anita e della cognata Silvana Croce, entrambe storiche militanti femministe del Pci, che ha assistito con amorevole dedizione. Il “privato” quindi ha presentato il suo conto al “politico” ed è stato un conto pesante che però non ha scalfito minimamente la rocciosa volontà di Tommaso e la passione francescana con la quale ha svolto il suo ruolo. Anche nei periodi in cui non esercitava alcuna funzione ufficiale, Rossi era percepito come “l’eminenza grigia” del PCI calabrese. Ho militato nella sua stessa sezione, la mitica “Nino Battaglia” di Tremulini, che era considerata il laboratorio della politica reggina; quando noi giovani militanti eravamo invitati a partecipare agli “attivi” con i dirigenti, passavamo notti insonni a preparare gli interventi, altro che esami universitari… Una dimensione della politica che ha forgiato una classe dirigente che ha saputo mantenere la barra dritta nei duri anni della strategia della tensione e delle piazze italiane insanguinate dai servizi segreti occidentali. Un patrimonio che è stato spazzato via dalla scellerata svolta della Bolognina, che ha cancellato con un colpo di spugna l’unico partito politico del quale la democrazia italiana non aveva alcun motivo di vergognarsi. Negli ultimi anni ho frequentato assiduamente Tommaso in occasione della pubblicazione della sua autobiografia presso la mia casa editrice. Mi ha consegnato il primo manoscritto con grande umiltà, dichiarandosi disponibile ad accettare le mie eventuali osservazioni; mi sono subito reso conto che il lavoro era scisso nettamente in due parti, la prima nella quale, dimostrando anche una grande vena letteraria, descriveva, con forza suggestiva, le condizioni delle popolazioni contadine aspromontane riassumendo i temi del pensiero meridionalista; la seconda nella quale ricostruiva la storia del PCI calabrese inquadrandola contestualmente agli eventi nazionali ed internazionali. Dopo un primo esame del testo gli ho detto che la parte politica mi sembrava condotta con un tono un po’ ecumenico, non mi sembrava infatti di ravvedere traccia delle tensioni e delle lotte, anche aspre, che avevano contrassegnato il partito soprattutto negli anni ’70. Non avevo fatto i conti con la quintessenza del Pci. Tommaso Rossi che incarnava, anche fisionomicamente, la figura del dirigente comunista integerrimo, aveva trascritto la storia alla luce del “centralismo democratico”, quella sana dottrina che consentiva al partito di far trapelare dalle stanze delle federazioni una politica unitaria, che era però figlia di un dibattito acceso e veemente del quale nulla doveva trapelare all’esterno. Emblematiche sono le pagine in cui Rossi parla della rivolta di Reggio; senza esitazione spazza via ogni tentativo di sdoganamento della rivolta da parte della Sinistra, la bolla come operazione eversiva e ne giustifica la dura depressione da parte dello stato. Una volta uscito il libro, Tommaso si è impegnato, in un gravoso tour di presentazioni per tutta la Calabria raccogliendo consensi unanimi ed entusiastici. Figure come quella di Tommaso Rossi sono l’emblema della buona politica, della quale purtroppo oggi non si intravede traccia. Con la scomparsa di personaggi come lui, la Sinistra non perde solo dei grandi dirigenti ma anche le proprie radici; quelle radici che gli attuali leader, che si definiscono di sinistra solo per distinguersi dall’altra parte politica, tendono ad ignorare fino a rinnegare il valore delle basi teoriche ed etiche dell’ideologia comunista. Voglio sperare che ai funerali di Tommaso, vecchi e giovani militanti, in uno scatto di dignità, non abbiano remore a sventolare le bandiere rosse ed intonare L’Internazionale e Bandiera Rossa.

domenica 10 giugno 2012

NON C'ERA BISOGNO DI SCOMODARE GUCCINI...

Se c'è ancora qualcuno che non crede al valore degli ebook, questo libro è fatto apposta per fargli cambiare idea. Parlo del "Dizionario delle cose perdute" di Francesco Guccini edito da Mondadori nella paracula collana denominata "libellule". Il libro ha una veste grafica eccezionalmente intrigante, riprende il logo di un pacchetto di sigarette in voga negli anni '60 (le "Nazionali Esportazioni") e sprigiona un fascino vintage irresistibile per quelli come me, che Camilleri definirebbe "sessantini". L'ho individuato subito in libreria e l'ho portato alla cassa come un automa, senza nemmeno sfogliarlo e/o annusarlo. Centoquaranta pagine di ricordi scritti con uno stile da "blogghista" di provincia, dove solo raramente s'intravede il magnifico estro gucciniano. Probabilmente il maestro ha tenuto troppo a lungo nel cassetto l'ideona e poi l'ha fatta pubblicare in fretta e furia quando si ė reso conto che, come minimo, gliela avevano già rubata un paio di migliaia di persone. A fine lettura ti ritrovi in mano un bell'oggetto che ti è costato dieci euro ma che fatichi a ritener degno di essere ospitato tra gli scaffali della tua biblioteca, avresti fatto meglio ad acquistarlo in formato ebook, spendendo la metà della cifra, te lo ritroveresti sempre sottomano pronto da spiluccare in caso di attacco di irrefrenabile nostalgia senile. Il libro, come dice lo stesso autore è fatto per quelli che "...oggi, non tanto più sereni ma, diciamo, distaccati, vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via." Nei vari capitoli, Guccini sciorina tutta una serie di episodi di vita vissuta, contrassegnati dalla presenza di oggetti ormai scomparsi e di modi di fare conseguenti al loro utilizzo che, inevitabilmente, finiscono per scatenare in chi legge (oltre a prevedibili tempeste emotive) cascate di frammenti mnemonici col rischio della deriva patetica sempre in agguato. Qual è il senso di un'operazione editoriale del genere? Diciamo subito che, fatta dal principale editore italiano, è paradigmatica dello stato in cui versa l'editoria nazionale. I bestseller di oggi sono confezionati in laboratorio dagli Editor delle principali case editrici. Fino a qualche anno addietro in Italia il grande bestseller appariva imprevedibile, contrariamente a quanto succedeva nel mondo anglosassone dove gli "ingegneri di storie" costruivano con grande abilità successi un po´ tutti uguali. Si pensi ai bestselleristi "seriali", come Wilbur Smith, Tom Clancy, Stephen King o, addirittura, a quelli "postumi", come Robert Ludlum, che, anche da morto, ogni anno piombava in classifica con un nuovo libro. In Italia, diciamo da Camilleri in poi, si è scoperto l'arcano e le squadre di ghostwriter italiane si sono via via sempre più infoltite e specializzate. Camilleri prima, Faletti poi e quindi, ciliegina sulla torta, Gomorra, hanno segnato il nuovo corso dell'editoria commerciale italiana. Oggi il prodotto-libro è un oggettino perfetto fatto apposta per non sfigurare negli scaffali di quei caotici bazar che sono diventate le grandi librerie italiane. Provate a entrare in una delle nuove Feltrinelli delle grandi stazioni e vi troverete nel punto di arrivo della parabola culturale della sinistra italiana: dal traliccio di Segrate, dove trovò la morte il rivoluzionario-romantico-sognatore Giangiacomo, il capostipite, al vortice consumistico in cui è precipitata la sua creatura per mano dei suoi avidi eredi. Oggi le Feltrinelli rifiutano i libri degli editori indipendenti italiani e non accettano più le riviste alternative, alle quali un tempo dedicavano un'intera sezione delle librerie; in compenso ospitano in prima fila, oltre a tutta la paccottiglia di cui sopra e a gadget di ogni tipo, i frutti di quella squallida operazione di onanismo editoriale inventata dal gruppo "Repubblica-L'Espresso" (a proposito di degenerazione della Sinistra...) che risponde al nome de "Il mio libro.it". Schiere di improbabili scrittori-poeti-saggisti si ritrovano tra gli scaffali delle Feltrinelli con libri auto pubblicati (e auto pagati) in un delirio narcisistico e non si rendono conto di essere vittime di una delle più squallide operazioni commerciali partorite da questo agonizzante scorcio di post capitalismo. Nel frattempo i piccoli e medi editori, che ancora si ostinano a pubblicare libri di qualità e a coltivare un rapporto corretto e paritario con gli autori, annaspano tra le maglie di una distribuzione soffocante e monopolista. Dispiace che in questo meccanismo sia rimasto incastrato anche un guru come Francesco Guccini. Il suo "Dizionario" è stato preceduto, qualche anno addietro, dal "Mi ricordo" di Matteo B. Bianchi (2004) che a sua volta aveva mutuato le idee dell'americano Joe Brainard ("I remember", 1970) e del francese Georges Perec ("Je me souvien",1978), libri che altro non sono che un elenco di ricordi, senza un ordine preciso, né logica. Tuffi nella memoria individuale di chi scrive, che offre al lettore uno specchio nel quale ritrovare abitudini, oggetti, personaggi e luoghi sepolti nel tempo. Io stesso ho nel cassetto, da oltre dieci anni, un lavoro del genere ma, non essendo Guccini, dubito di aver mai l'occasione di pubblicarlo, a meno che non decida di ricorrere prima o poi alla pratica onanistica suggerita dai compagni di "Repubblica" e alla quale ha ceduto di recente anche il vecchio amico Nando Minnella.

Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute
Mondadori 2012, Pagg. 144, euro 10,00

SANDRO, DEMI E LA "MEGLIO GIOVENTÙ" REGGINA

Andando avanti con gli anni ti ritrovi come in una trincea della prima guerra mondiale, un colpo improvviso e vedi scomparire l'amico che ti stava a fianco con il quale avevi appena condiviso un sorriso, una battuta, un pensiero, un gesto affettuoso, una bevuta... Gli anni t'induriscono e riesci in qualche modo a farti una ragione della scomparsa di persone con le quali non avevi una frequentazione costante, ma che sapevi li' pronte a ricambiare un saluto sorridente al primo incontro o a scambiare un'opinione quando se ne presentava l'occasione. Conoscevo Sandro Velardi dalla meta' degli anni '70, ai tempi della comune militanza nel PCI; un'amicizia nata tra le stanze della mitica sezione "Battaglia" di Tremulini, impregnate di fervore politico e fermento culturale che davano vita a interminabili serate di discussioni e dibattiti. Serate che finivano, immancabilmente, all'aria aperta, tra le strade del quartiere, alla ricerca di un bar o meglio di una "putìa" per una sana bevuta chiarificatrice. La nostra amicizia si era consolidata con il comune impegno nella conduzione del Circolo del cinema "Pier Paolo Pasolini", presso l'aula magna della Scuola Carducci. Circolo che aveva la peculiarità, e Demi Arena lo ricorderà, di coinvolgere giovani di varie appartenenze politiche; era questo un imperativo categorico e più di una volta noi giovani fondatori del circolo ci siamo opposti ai tentativi dei dirigenti della "Battaglia" di strumentalizzarlo politicamente. Gli anni sono passati vorticosi, gli impegni professionali e i giri della vita ci hanno allontanato, ma sapevamo reciprocamente di noi grazie agli innumerevoli amici comuni, e ci "leggevamo" vicendevolmente tra le pagine dei giornali ("Strill" in primis) che ospitavano i nostri interventi. Gli interventi di Sandro, pur nel rispetto del ruolo istituzionale che ricopriva, erano di una chiarezza e di una civiltà esemplari e non davano alcun adito a fraintendimenti circa le sue idee di uomo di "sinistra". Giustamente Demi Arena lo ha voluto ricordare così, come uomo coerentemente e civilmente schierato ma sempre al servizio della città. Mi ha molto colpito l'intervento del Sindaco, a cui mi lega una cara amicizia nata contemporaneamente a quella con Sandro. La nostra comune formazione, umana e civile, risale a quegli anni "formidabili", che giustamente Demi definisce "anni che ci avevano visti giovani speranzosi di poter incidere in maniera significativa nella nostra società... quando la militanza non portava a scontrarsi, bensì a ricercare lo scontro dialettico sempre ad alto livello intellettuale". Il clima era veramente questo, e bene ha fatto Demi a ricordarlo, sentirlo parlare di "eskimo" (quanti giovani di oggi sanno cos'è?) e della Via Pennsylvania (stradone del quartiere Tremulini, dove si affacciano i cortili che hanno assistito complici alla nostra crescita) mi ha provocato una forte emozione ed ha acuito il dolore per la scomparsa di Sandro, "uno di noi". A Demi Arena, che ancora una volta ha dato prova della sua grande signorilità, va il sincero augurio che gli anticorpi trasmessigli da quegli anni formidabili, lo aiutino ad attraversare indenne quel verminaio a cui è ormai purtroppo ridotta la politica cittadina.  

domenica 4 marzo 2012

UNA CLASS-ACTION PER SMASCHERARE I VERI NEMICI DI REGGIO

L’ordine del giorno sulla “Difesa di Reggio”, approvato dalla maggioranza martedì scorso in Consiglio Comunale, è un atto eversivo e come tale deve essere oggetto di discussione in Parlamento e nelle sedi istituzionali preposte, a livello nazionale. L’isteria di pura marca fascista di cui è permeato, consente di individuare chiaramente i soggetti che l’hanno ispirato; tra questi ho ragione di ritenere che non si debba comprendere il sindaco Demetrio Arena, del quale, ancora una volta, è stata carpita la signorile buona fede. Il farneticante e, per certi versi, demenziale documento, apre con una premessa che è di per sé rivelatrice della malafede dei suoi estensori; si parla, infatti, di una presunta condizione d’instabilità governativa che sarebbe conseguita alle regionali del 2010 e alle successive comunali. E’ risaputo invece che entrambe quelle elezioni furono vinte trionfalmente dal Centrodestra, dalle urne scaturirono, infatti, percentuali che avrebbero dovuto consentire ai vincitori di navigare col vento in poppa. I loro guai non furono determinati, come il documento ineffabilmente recita, da “una forte contrapposizione tra le diverse coalizioni”, ma dall’esplodere degli scandali di natura finanziaria e amministrativa, che fecero crollare come un castello di carte il tanto decantato “Modello Reggio”, su cui Scopelliti aveva edificato le sue fortune politiche. E’ evidente la rabbia e il livore (altro che amore per la città e senso civico!) di chi è stato colto con le mani nel sacco, grazie al lavoro di due avversari politici che hanno consegnato alla Procura della Repubblica le prove del perverso sistema che dominava a Palazzo San Giorgio. Perdonatemi l’ingenuità ma, leggendo le dichiarazioni di Scopelliti ai giudici sul caso Fallara, ritengo che il Governatore dovrebbe essere grato a Demetrio Naccari e Seby Romeo che hanno consentito a lui, povero ignaro, di scoprire la vera natura delle persone che lo avevano tradito “carpendo la sua fiducia e tradendo i suoi valori”. Ma la parte del documento veramente degna di un comizio di Cetto Laqualunque, è quella in cui si arriva a sostenere che sia stata l’azione dell’opposizione (e dei “nemici di Reggio”) a “creare uno stato di sfiducia nella cittadinanza, che ha prodotto ripercussioni negative sull’economia cittadina”. Siamo al paradosso da manuale, un classico tentativo di manipolazione dell’opinione pubblica, che ricorda quelli messi in atto da alcuni regimi autoritari degli anni ’70 in Sudamerica.
Per questi figuri (che chiudono il documento impegnando il Sindaco ad adottare iniziative giudiziarie civili e penali), la società civile, le imprese, la stampa, i politici dell’opposizione e i semplici cittadini, che quotidianamente vivono sulla propria pelle le nefaste conseguenze di una politica scellerata, incapace e truffaldina, non devono avere nemmeno il diritto di manifestare il proprio disappunto. La misura è colma! E’ necessario che la città di Reggio, che ancora una volta è stata costretta a toccare il fondo, trovi la forza di alzare la testa. La città è stata completamente sfregiata da bande di selvaggi speculatori, dal centro alla periferia il degrado rende Reggio sempre più simile a una bidonville, sporcizia, incuria e abbandono hanno irrimediabilmente deturpato il volto di una delle più belle città del Mediterraneo. Tutto questo il sottoscritto, assieme al collega Gianluca Del Gaiso e con l’ausilio delle telecamere di Telereggio, lo ha ampiamente documentato in oltre otto ore di riprese televisive ( ben visibili tramite il banner “Quante Reggio” nel sito dell’emittente). Sono stato accusato di essere un “nemico di Reggio” e sospettato di “avere ambizioni politiche”. Sono solo un imprenditore, figlio di imprenditore, che si vergogna di vivere in queste condizioni; le mie imprese mi portano ad avere contatti frequenti con persone italiane e straniere, alle quali non riesco più a fornire spiegazioni credibili per una situazione che ormai mi provoca solo disagio e dolore. Sciolto ogni indugio, rivolgo pertanto un appello a tutte le persone di buona volontà, che vivono il mio stesso disagio ed amano veramente la nostra città, invitandole ad avviare una class-action (sul modello del diritto anglosassone) al fine di denunziare per “grave danno esistenziale” i responsabili di questo scempio. Per dirla con Eduardo Galeano: “Il futuro del mondo si gioca tra indignados e indegnos”. E’ una battaglia da intraprendere subito e da portare avanti indipendentemente dal risultato che verrà fuori dal lavoro che stanno svolgendo i commissari a Palazzo San Giorgio. Non dimentichiamo, infatti, che da un giorno all’altro potrebbe arrivare anche la sentenza di scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose; vedrete che, anche in questo malaugurato caso, tenteranno di attribuire la colpa alla stampa e all’opposizione.

sabato 4 febbraio 2012

IL CUBANO VILLAR MENDOZA ERA UN DELINQUENTE COMUNE E NON FACEVA LO SCIOPERO DELLA FAME

Il 19 gennaio 2012 è morto a Santiago di Cuba il recluso comune Wilman Villar Mendoza, nella sala di terapia intensiva dell’ospedale Clinico Chirurgico “Dottor Juan Bruno Zayas”, per problemi multi-organici conseguenti a un processo respiratorio settico severo che ha portato il paziente a uno shock per sepsi.
Questa persona era stata trasportata con urgenza lo scorso 13 gennaio dal centro penitenziario “Aguadores”, all’ospedale provinciale “Saturnino Lora”, perchè presentava sintomi di una polmonite grave del polmone sinistro, ed ha ricevuto tutta l’assistenza per questo tipo di malattia, con ventilazione e nutrimento artificiale, fluido terapia, emoderivati, appoggio con droghe vaso attive ed antibiotici ad ampio spettro dell’ultima generazione.
L’ospedale clinico chirurgico “Juan Bruno Zayas”, dov’è morto, è uno dei centri ospedalieri di maggior livello nella regione orientale e la sua sala di terapia intensiva ha una grande esperienza nell’attenzione al paziente grave. Villar Mendoza risiedeva nel municipio di Contramaestre, in provincia di Santiago di Cuba ed era recluso dal 25 novembre del 2011, per i delitti di Oltraggio, Attentato e Resistenza.
Il motivo della sua reclusione era stato uno scandalo pubblico durante il quale aveva aggredito sua moglie, provocandole lesioni al viso, tanto che la suocera aveva chiamato le autorità e all’arrivo degli agenti della PNR aveva resistito e li aveva aggrediti. I suoi familiari hanno seguito da vicino tutti i procedimenti utilizzati dai sanitari ed hanno riconosciuto lo sforzo del gruppo di specialisti che lo hanno seguito.
In relazione con questo fatto, da vari giorni agenzie di stampa straniere, in particolare di Miami, stanno promuovendo un’intensa campagna internazionale diffamatoria, in complicità con controrivoluzionari interni, che presentano Villar Mendoza come un presunto “dissidente”, che è morto dopo un sciopero della fame in prigione. Esistono abbondanti prove e testimoni che dimostrano che non era un “dissidente” né tanto meno faceva lo sciopero della fame. Wilman Villar, dopo aver commesso il delitto per il quale era stato processato in libertà, aveva cominciato a vincolarsi a elementi controrivoluzionari a Santiago di Cuba, che gli avevano fatto credere che la sua presunta appartenenza a gruppuscoli mercenari gli avrebbe permesso di evitare l’azione della giustizia. Cuba lamenta la morte di qualsiasi essere umano, condanna energicamente le sporche manipolazioni dei nostri nemici e saprà smontare questa nuova pressione con la verità e la fermezza che caratterizzano il nostro popolo.
Agenzia di Stampa Cubana GRANMA INT.

domenica 29 gennaio 2012

UN FRATE FRANCESCANO IN UN HAREM DI SPLENDIDE QUARANTENNI

Il motto di Stephen Vizinczey è “Confesso di conoscere una sola regola di scrittura: essere chiaro”. Complice la perfetta traduzione di Maria Giulia Castagnone, il libro risulta godibilissimo e coinvolgente. Siamo al cospetto di un grandissimo narratore che seduce il lettore con uno stile scorrevole e divertente, che sa essere sapientemente distaccato anche nel descrivere le scene più erotiche, di cui peraltro il libro è costellato. Nato in Ungheria, si è trasferito in Canada per intraprendere la carriera universitaria; Elogio delle donne mature uscì nel 1965, Vizinczey lo scrisse in lingua inglese, imponendosi da subito sulla scena letteraria come un maestro della prosa inglese, al punto che Anthony Burgess arrivò a ringraziarlo “per aver insegnato agli inglesi a scrivere in inglese”. Il libro ha avuto un successo planetario ed è ancora oggi ristampato continuamente marciando con il passo del grande classico. Non si capisce per quale motivo la Marsilio abbia deciso di relegarlo nell’esangue collana dei Tascabili tra l’altro dotandolo di una copertina orrenda. L’infanzia trascorsa in un istituto religioso retto da frati francescani è stata naturalmente la fonte del suo pensiero successivo. “E’ sebbene io ora sia ateo, ricordo e conservo ancora quella sensazione di estasi, e le quattro candele nel freddo silenzio marmoreo, pieno di echi. Fu lì che imparai a percepire e amare il mistero elusivo, una propensione che le donne hanno fin dalla nascita, e agli uomini è concesso acquisire, se sono fortunati. (…) Spero che i francescani mi perdonino se dico che non sarei mai stato capace di comprendere e amare tanto le donne, se la Chiesa non mi avesse insegnato l’estasi e il rispetto della sacralità.”
Il suo mondo si divideva tra il salotto della madre, ricco di amiche allegre e procacemente gioiose, e il monastero francescano: “…ancor oggi sono convinto che il miglior modo di vivere, sarebbe quello di farsi frate francescano e avere un harem di donne quarantenni.”
Orfano di padre, per mano nazista, fu colto all’ingresso nell’adolescenza dal dramma della guerra e dai disagi del dopoguerra. Le scene vissute in un campo militare americano, nei pressi di Salisburgo, sono un affascinante (direi felliniano) miscuglio di realismo onirico, umorismo ed erotismo. Qualcuno ha richiamato Balzac, lo condivido pienamente; a me ha richiamato anche le atmosfere di Victor Hugo e, fatte le debite proporzioni con i primi due, di Anne e Serge Golon. Il suo compito nel campo, quando era appena dodicenne, era di fare il sensale delle donne ungheresi, che si prostituivano ai militari per la necessità dettata dalla povertà. La pagina in cui descrive l’angoscia “leggermente artefatta” di una contessa, del marito e della giovane figlia, quando lui arrivava nella loro baracca con l’allettante offerta da parte di un ufficiale americano, è esemplare per la chiarezza descrittiva e per la levità con cui descrive una situazione a dir poco scabrosa. Alla fine sarà proprio la contessa ad aiutare il suo “ragazzo immorale” a varcare la linea d’ombra e a completare la sua educazione sentimentale: “…improvvisamente aprì le labbra, si chinò e mi prese in bocca. Fui subito privo di peso e avevo l’impressione che non avrei mai più voluto muovermi, per tutta la vita.” Da quel momento la sua vita amorosa è il susseguirsi di un turbinio di incontri spesso travolgenti ma mai troppo duraturi. Manco a dirlo i più soddisfacenti sono quelli intrecciati con donne mature e “saldamente sposate”. Spesso arrivava a frequentare i mariti per sedurne le mogli. Sentite la descrizione dell’avvio della relazione con la splendida Maya: “…cominciai ad andare nel loro appartamento per farmi prestare i libri sempre più frequentemente… la preferivo in gonna e camicetta… mettevano meglio in risalto la sua figura a un tempo fragile e rigogliosa. Pensavo che fosse la donna più sensuale del mondo. Era sempre amichevole ma distaccata, e questo suo modo di fare (che ritrovai poi in molte donne ben educate) mi gettava in un mare tempestoso di speranza e di disperazione. … Ma quel lampo nei suoi occhi era il mio faro. Sebbene sembrasse non avvicinarsi mai, mi permetteva di andare alla deriva lungo le coste del suo corpo.” Con Maya ha il primo amplesso importante e lo descrive genialmente così: “Si dice che prima di morire uno riveda in un lampo tutta la sua vita” e lui, steso nel letto al fianco di Maya, ripercorre tutte le immagini e le sensazioni erotiche che hanno costellato la sua infanzia e la sua adolescenza, componendo un mosaico delizioso e stuzzicante. “(…)Maya mi insegnava tutto quello che c’era da sapere. Ma forse insegnare è la parola sbagliata: si dava semplicemente del piacere e ne dava anche a me, e io non mi rendevo conto di lasciarmi alle spalle la mia ignoranza mentre scoprivo le vie dei suoi sorprendenti territori. Godeva di ogni movimento, semplicemente toccando le mie ossa e la mia carne. Maya non era una di quelle donne che dipendono dall’orgasmo come unica ricompensa di un’attività fastidiosa: fare l’amore con lei era una sorta di comunione, e non la masturbazione interiore di due estranei nello stesso letto. ‘Guardami adesso -mi raccomandò prima di venire- ti piacerà’ ”.
Da Maya riceverà un’altra lezione fondamentale: “Imparerai che l’amore raramente dura e che è possibile amare più di una persona alla volta.”
Le uniche pagine inutili e direi fastidiose del libro sono quelle in cui Vizinczey si abbandona, forse per compiacere il suo editor e la critica occidentale, a un anticomunismo di maniera che non è assolutamente funzionale alla narrazione anzi stride apertamente con il contesto narrativo. L’Ungheria in cui vive le sue avventure risulta, dalle sue stesse pagine, libera e disinibita, gioiosa, colta e scanzonata, non si intravede alcuna traccia del presunto “terrore staliniano”. Si nota chiaramente che Vizinczey inserisce alcuni episodi “per dovere” e sono le poche pagine in cui la sua potenza narrativa assume un suono innaturale e artefatto. Viceversa, e non a caso, le sue grandissime doti di narratore vengono fuori senza esitazione quando si tratta di narrare, in una sola paginetta tremenda e essenziale, la deportazione di un gruppo di ebrei da parte delle SS e dei collaborazionisti ungheresi. Le pagine riguardanti il cosiddetto esilio a Roma dei cosiddetti profughi della cosiddetta rivoluzione del ‘56, pur essendo al solito scritte in modo mirabile risultano artificiose e improbabili. I trecento cosiddetti rifugiati ungheresi a Roma vivono una condizione di esilio dorato a spese della CIA e del Vaticano e non dimostrano affatto di subire la triste condizione classica dei veri rifugiati politici di ogni epoca. Ancora la vera Storia non ha inteso far luce sulle nefandezze della Guerra Fredda e sull’aggressione e l’accerchiamento (fatto di calunniosa propaganda e provocazioni dei servizi segreti), a cui furono sottoposti i Paesi del blocco Sovietico da parte di un mondo occidentale che, nell’affermazione del Comunismo, vedeva lo spettro del fallimento della sua spietata ideologia basata su quel Capitalismo i cui frutti nefasti stiamo assaporando in questi anni.
Per non far torto, con queste mie riflessioni critiche, a un libro che considero comunque un capolavoro assoluto, vi trascrivo alcune preziose chicche, invitandovi, tra l’altro, a far vostro il Sermone per un incontro di Onanisti Anonimi, un mirabile intreccio di ironia ed erotismo che dovrebbe essere recitato ogni mattina nelle scuole all’inizio delle lezioni.
“Ora che avevo la mano infilata sotto le sue mutandine, le mie dita tastavano quel terreno umido come esploratori mandati in ricognizione prima del passaggio dell’esercito regolare.”
“ Prendemmo l’autobus fino al Danubio e percorremmo il ponte a piedi, mano nella mano. Il fiume emanava un odore fresco, simile a quello di un torrente di montagna. C’era una luna pallida, e la soffice massa scura dell’isola si profilava davanti a noi simile a un enorme letto, che aveva come cuscino le vaporose collinette nere degli alberi.”
“Quando entrava nella hall vestita con un abito aderente di seta o di maglia, straordinariamente elegante, si aveva l’impressione che il suo corpo fosse stato modellato nella sua forma perfetta da una lunga serie di amanti focosi.”
“Stare con lei era come vivere su un altopiano. L’aria era chiara ma rarefatta, bisognava reagire più lentamente, respirare piano, essere calmi e prudenti ed evitare le emozioni.”
“Manifestò il suo rifiuto con un rimpianto così affettuoso che solo in seguito mi accorsi che mi aveva respinto”.
Stephen Vizinczey
Elogio delle donne mature
Tascabili Marsilio, 2011
pagg. 210, € 7,00

venerdì 27 gennaio 2012

CONTROREPLICA A GALULLO SUL SUO BLOG

Buonasera Galullo non le ho risposto subito perchè pensavo che le controrepliche non fossero gradite, ma poi ho visto che lei le accetta di buon grado e quindi desidero dirle che mi ha lasciato veramente basito il suo odioso distinguo tra pubblicisti e professionisti; ma cosa intende dire? Ma ha idea di quanti bravi ragazzi lavorano nelle redazioni dei giornali di tutt'italia (e non solo della Calabria) supersfruttati per pochi centesimi a pezzo? Ma lei quando ha cominciato a scrivere è partito da professionista? Per quanto mi riguarda sono rimasto pubblicista perchè sono sempre stato dipendente solo di me stesso. Collaboro (gratuitamente per mia scelta) con Il Quotidiano della Calabria e TeleReggio in piena libertà e autonomia e vivo con il mio lavoro di editore. Si informi che cosa ha significato per un decennio in questa città il mio giornale Laltrareggio! Veda Galullo lei si vanta (giustamente) dei numeri prodotti dal suo blog e del valore delle sue denunce e delle sue inchieste (tra l'altro contrariamente a quello che lei pensa io la seguo da un pezzo sia sul giornale che a Radio 24); ma tra di noi c'è una differenza: io dipendo solo da me stesso e sono libero di scrivere e di pubblicare quello che voglio, lei è un dipendente (sia pure prestigioso e di prima fila) di un'istituzione quale la Confindustria che non si può certo considerare un'isola felice di trasparenza, correttezza e legalità. Se un giorno dovesse mettere le mani su qualche affare scottante riguardante un dirigente di Confindustria (e non mi venga a dire che in questi anni non gliene saranno capitati) come si comporterebbe? Nessuno mette in discussione il suo valore, ma un bagno di umiltà forse le gioverebbe.
Ad ogni buon conto, mi creda, questa polemica mi disturba, come mi disturbano tutte le polemiche e le diatribe tra persone che stanno dalla stessa parte della barricata.
Franco Arcidiaco

domenica 22 gennaio 2012

COMMENTO SUL BLOG DI ROBERTO GALULLO

Caro Galullo ho 59 anni e vivo a Reggio Calabria sono giornalista e editore,da una vita scrivo, sia su giornaletti miei che su organi di stampa che mi ospitano, più o meno le cose che hai scritto tu. Da dicembre ho realizzato una trasmissione settimanale (Quante Reggio) a Telereggio, giro la città con un collega (Gianluca Del Gaiso) ed un operatore e segnaliamo passo per passo tutto quello che non va: che pena e che disastro! Tengo anche un corsivo giornaliero su un quotidiano, insomma non le mando a dire! Sono purtroppo convinto quanto te che la situazione in Calabria sia ormai irrecuperabile, i danni inferti all'ambiente e al paesaggio sono il frutto dell'attività di una popolazione in larga parte incivile che ha operato in regime di impunità. Anni addietro un coraggioso magistrato, Roberto Pennisi ebbe a dire (parlando di Reggio):“Sino a quando questa città avrà l’aspetto esteriore di un centro abitato appena sottoposto a bombardamento, e non si capirà che ciò è stato voluto ed è voluto dalla ‘ndrangheta proprio perché anche guardandosi intorno il cittadino non avesse la sensazione di essere tale, né sentisse alcuno stimolo per diventarlo, ancora una volta dovremo ripetere di aver fallito”. Non ti nascondo che ho avuto più volte l'opportunità di andar via (e talvolta l'ho fatto), ma non sono mai riuscito a staccarmi definitivamente da questa terra che è la mia terra; ed è proprio questa la differenza caro Galullo, tu parli con rabbia e con ragione ma il tuo cuore non sanguina come sanguina il mio. Quando io sferzo i miei concittadini e maledico la mia terra ho diritto di farlo, tu no! Quando tu, dall'alto della tua tribuna dorata, descrivi la mia terra come fai abitualmente distruggi la reputazione di tutti quelli che come me (e siamo migliaia) operiamo giornalmente con competenza e con passione. I miei clienti e i miei fornitori del resto d'Italia, come vuoi che diano credito a un'azienda che lavora in mezzo alla merda? Eppure sai, io credo che la mia casa editrice non abbia niente da invidiare alle migliori case editrici d'Italia; i miei collaboratori sono bravissimi e lavorano con un entusiasmo che tu nemmeno immagini! E allora caro mio continua pure a denunciare le schifezze ma limitati alla cronaca giudiziaria, sferza il malcostume e la corruzione ma limitati al commento politico, la sociologia mettila da parte non serve al tuo scopo. Per quanto riguarda la politica poi, ti continua a sfuggire un elemento che invece è assolutamente degno di nota. Si tratta della cura omeopatica, somministrata da due esponenti del PD (Demetrio Naccari e Seby Romeo), che hanno portato alla luce la cloaca maxima nella quale è annegato il Modello Reggio di Scopelliti. Senza di loro non sarebbe mai esploso il caso Fallara con tutto il suo incredibile contorno. Hanno fatto una cosa semplicissima (ma sicuramente inedita nell'ambito politico): hanno raccolto documenti inoppugnabili e li hanno portati alla Procura delle Repubblica. Perchè taci su questa storia? Non è forse questo un segnale positivo? Non costituisce una speranza il delinearsi di una classe politica onesta e capace? Lo sai che dal 1993 al 2001 questa città aveva avviato un processo di rinascita, con un sindaco (Italo Falcomatà) carismatico, appassionato e capace che aveva cominciato a rivoltare Reggio come un calzino? Un maledetto destino lo ha fermato, quello stesso maledetto destino che ci rende bersaglio degli strali di bravi giornalisti come te.
Franco Arcidiaco, Reggio Calabria