venerdì 21 settembre 2012

BASTEREBBE IMPARARE A VOTARE...

Conosco personalmente, anzi di molti sono amico fraterno, gran parte dei firmatari del manifesto "Reggio rivendica il suo ruolo". Mi sono pure chiesto come mai non mi abbiano chiesto di sottoscrivere il loro, invero tardivo, grido di dolore. Non sono un delinquente, non sono un incivile, non sono uno sfruttatore, non sono un nemico di Reggio, non sono un buffone, non sono un evasore fiscale, non sono un perdigiorno, quindi perché non dovrei avere il diritto di firmare quel manifesto? Ho riflettuto un po' e alla fine sono arrivato a una conclusione: vuoi vedere che non mi hanno interpellato perché mi considerano un pericoloso estremista di sinistra e quindi, automaticamente, mi annoverano tra i nemici della città? So che qualcuno di loro ha anche votato, probabilmente a sua insaputa, per il centrosinistra, ma agli altri suggerirei di chiedere agli amati politici di centrodestra di smetterla di inserire nelle liste (e quindi nelle Istituzioni) delinquenti di ogni risma. Perché qui si sta deliberatamente confondendo la causa con l'effetto e i carnefici con le vittime. Secondo questi quattrocento gloriosi paladini della riggitanità, la città non l'ha infangata chi ha dilapidato ingenti risorse gettando nel lastrico centinaia di famiglie, né chi ha consentito (per incapacità o connivenza) di deturparla orrendamente, né chi ha eletto o fatto eleggere professionisti del malaffare, ma chi ha alzato la testa per indicare i colpevoli e per denunziare le loro malefatte. Cosa avrebbero dovuto fare, per lorsignori, i giornalisti? Fingere di non vedere, negare l'evidenza, inneggiare alle grandi capacità di politici e burocrati buoni solo a riempire le tasche proprie e dei comparelli di turno? Cosa avrebbero dovuto fare i politici dell'opposizione, sedersi al tavolo a dividere la torta o andare, come hanno giustamente fatto, alla Procura della Repubblica a depositare le prove del disastro del cosiddetto "Modello Reggio"? Suvvia amici non scherziamo, molti di voi, usi ad adagiare le terga su comodi divani di accoglienti salotti, fingete di non vedere lo sfacelo che vi circonda, forse per quieto vivere; altri, chiusi da mane a sera nei vostri studi professionali, pensate solo a prestare la vostra valorosa opera (magari ogni tanto dimenticando di emettere qualche ricevuta fiscale); altri (pochi) siete dei veri e propri compagni di merenda di quelli che hanno affossato la città; alcuni siete invece i classici professionisti dell'antimafia di sciasciana memoria e la vostra unica preoccupazione è quella di non urtare la suscettibilità del potere dominante che vi foraggia strumentalmente. Non metto in dubbio la genuinità della vostra sofferenza, ma vi suggerisco di trovare conforto ricorrendo a una lapalissiana considerazione: se si dovesse giungere allo scioglimento del nostro Comune per mafia, l'onta non ricadrebbe certamente su di voi e sulle altre svariate migliaia di cittadini onesti, ma sui politici corrotti e incapaci (che però, non dimenticate, molti di voi hanno votato) che hanno consentito questo stato di cose. Vivete l'eventuale scioglimento come una catarsi e andate, appena la legge lo consentirà, alle urne a testa alta e questa volta, però, cercate di non votare di nuovo i candidati sbagliati!
Franco Arcidiaco


lunedì 3 settembre 2012

MINCHIA NON SI IAPRI STRILL...

Minchia non si iapri Strill, cu sapi chi succiriu a Rriggiu! Martedì mi trovavo in una splendida azienda agri-vinicola di Milo alle pendici dell'Etna (a proposito da quelle parti sono cent'anni avanti rispetto a noi, ma questa è un'altra storia...); tra un bicchiere e l'altro mi sono appartato con il mio Ipad e ho aperto Strill pi viriri chi ssi rici a Rriggiu e quella maledetta trottolina continuava a girare a vuoto. Minchia cu sapi a 'ccu 'ttaccaru... Il mio vecchio cuore giustizialista (ormai direi forcaiolo) ha cominciato a battere all'impazzata, ho continuato a fare il tip tap sullo schermo e poi mi sono rassegnato a telefonare a mio fratello a Reggio. Ho saputo così dell'arresto dell'ennesimo consigliere regionale. A parte la facile battuta che a questo punto sarebbe conveniente trasformare direttamente Palazzo Campanella in un supercarcere, risolvendo così anche l'annoso problema dell'edilizia carceraria, ho riflettuto sulla triste condizione della nostra città. Come al solito mi ha aiutato l'arguta analisi di Giusva Branca e la sua considerazione sull'incapacità di percezione del problema da parte della società cosiddetta civile e sull'abbassamento delle difese immunitarie di onestà di ciascuno. A riprova però della peculiarità della situazione reggina, vorrei sottolineare anche l'irrompere sulla scena dell'inedita figura del "politico giustiziere". Con buona pace, infatti, dei teorici dell'antipolitica e dei sostenitori dei savonarola mediatici, la politica ha dimostrato di possedere gli anticorpi che mancano alla società civile. Non mi sembra azzardato dichiarare che senza l'iniziativa di politici di lungo corso quali Demetrio Naccari, Seby Romeo e Aurelio Chizzoniti, oggi saremmo ancora qui a trastullarci con le magnifiche sorti e progressive del Modello Reggio imbevendoci del verbo del nostro amato Governatore. Certo qualcuno potrà pur sostenere che sono stati mossi da poco nobili interessi personali ma, a parte il fatto che tale discorso può valere solo per Chizzoniti che ha un interesse diretto verso le disgrazie di Rappoccio, i poveri Naccari e Romeo non mi pare che siano diventati i paladini del popolo reggino. Naccari anzi è finito sotto il fuoco incrociato di dossier e ricostruzioni giornalistiche prêt-à-porter.
La cosiddetta società civile e le sue folcloristiche propaggini salottiere buone solo ad accendere qualche fiaccola, non hanno saputo far altro che pendere dalle labbra della magistratura inquirente e dell'ex inquilino dei piani alti del Cedir della cui roboante attività ha coraggiosamente parlato l'avv. Chizzoniti dalle stesse pagine di Strill. Evito di produrmi in divagazioni su argomenti di cui non ho conoscenza diretta, ma mi hanno fatto riflettere le parole di Giovanni Falcone a proposito di Giuseppe Pignatone, riportate in più occasioni da un giornalista attento e credibile quale Paride Leporace (vedi il sito "www.cadoinpiedi.it" e il suo libro "Toghe rosso sangue"). Sulla vicenda di Rappoccio, invece, mi fa sorridere il suo ineffabile atteggiamento che lo ha portato a querelarmi assieme al collega Giuseppe Baldessaro; dalle pagine del Quotidiano avevamo ironizzato sulla sua presenza all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario e lui, poverino, si era sentito offeso, che sensibilità! Come si dice in questi caso? Aspettiamo sereni che la Magistratura svolga il suo lavoro. Ma io aggiungo di aspettare (non molto sereno) che i reggini imparino a scegliere i propri candidati e a smetterla di ritenere la politica come il cassetto dei propri bisogni personali.
Franco Arcidiaco

CARONTI STATTI AZZITTU E NON GRIRARI...

Sono certo che, una volta completata la lettura di questo libretto, il lettore non potrà far altro che manifestare un grande rammarico per l'incompiutezza dell'opera. Carmelo Lanucara, infatti, non è riuscito ad andare oltre la traduzione del terzo canto dell'Inferno, la malattia, provocata dagli stenti della detenzione nel carcere fascista, lo ha portato a morte prematura a soli quarant'anni. Con molta umiltà, nella sua breve prefazione, nega al suo lavoro alcuna qualità letteraria, salvo poi assumersi, con la sua proverbiale fierezza, ogni responsabilità filologica. La lettura di questi primi tre canti dell'Inferno dantesco è una vera goduria per i cultori del vernacolo, tanto più perché non ci troviamo al cospetto di una fredda traduzione letterale; Lanucara, infatti, procede ad una vera e propria nobilitazione del nostro dialetto adattandolo alla poetica musicalità del più grande poema di tutti i tempi. Suggerisco al lettore di procedere alla lettura dei tre Canti in dialetto affiancandola a quella degli originali. Si potrà così valutare l'estro fantastico con cui il nostro autore ha adattato i versi di Dante al dialetto reggino. Un esempio per tutti è costituito dalla lettura delle strofe del terzo canto che trattano di Caronte.
E il Duca a lui: Caron non ti crucciare, vuolsi così colá dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare diventa Mancu aviva finutu di parrari chi lu maestru meu ci' rispundiu: Caronti statti azzittu e non grirari pirchì cussì è la vuluntà di Diu.
Come vedete non si tratta di un semplice adattamento, Lanucara ha operato un vero intervento poetico con un risultato notevole sia dal punto di vista filologico che letterario; la sua ricerca della musicalità, però, non va a scapito del significato, notevole è infatti lo sforzo che egli produce per rendere comprensibile (e quindi popolare) il testo. In ciò Lanucara è memore della lezione di T. S. Eliot che nel 1942 (non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell'enfatizzazione della musicalità in poesia) scriveva: "La musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”.
Ma è evidente che dove il lavoro di Lanucara si rivela prezioso, è nella valorizzazione del dialetto, a cui operazioni come questa conferiscono indiscutibilmente lo status di lingua. E, parlando di dialetto, non si può non ricordare la lezione del grande Pier Paolo Pasolini il quale nel 1945 nell'atto costitutivo dell'Academiuta di lengua furlana così scriveva:
"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa lingua. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […] L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".
Se negli ultimi capoversi sostituiamo al termine "friulano" il termine "calabrese", oltre a renderci conto dell'immensità del pensiero pasoliniano, avremo una netta percezione dell'importanza del lavoro di Carmelo Lanucara. Alla sua memoria voglio dedicare questa splendida poesia del sommo poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta:

Un populu mentitilu a la catina,
spugghiatilu, attuppatici a vucca:
è ancora liberu.
Levatici u travagghiu, u passaportu,
a tavola undi mangia, u lettu undi dormi:
è ancora riccu.
Un populu diventa poveru e servu
quando 'nci arrobbanu a lingua addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poveru e servu
quandu i paroli non figghianu paroli
e si mangianu 'ntra iddi.
Mi 'nnaddugnu ora
mentri accordu a chitarra du dialettu
chi perdi na corda a lu jornu.
Ignazio Buttitta.

Franco Arcidiaco