tag:blogger.com,1999:blog-68394450940195482532024-03-05T08:05:53.026+01:00Franco Arcidiaco SovieticoFranco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.comBlogger236125tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-6355512129332765632022-10-30T18:01:00.003+01:002022-10-30T18:01:19.725+01:00UNA STRAORDINARIA SERATA CON ADELMO CERVI A LOCRII compagni dell’ANPI, sezione Locri-Gerace, mi hanno dato l’onore di presentare il libro "I miei sette padri" di Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei Sette fratelli Cervi. Adelmo è un giovanotto di 79 anni assolutamente incontenibile, mi ha dato appena l’opportunità di porgergli qualche domanda e di leggere qualche pagina del libro (quelle che sceglieva lui, però…), non sarò stato un bravo presentatore ma ho avuto l’opportunità di condividere con il numeroso pubblico presente al Palazzo della Cultura di Locri una serata veramente straordinaria e coinvolgente. La testimonianza di Adelmo è stata viva e palpitante, sia nella ricostruzione storica della vicenda della sua grande famiglia, sia nel rammarico per l’inconcludenza politica della Sinistra dei nostri tempi, rammarico che ha racchiuso in una clamorosa invettiva che ha fatto spellare le mani del pubblico con un interminabile applauso.
Ecco una breve nota sul libro scritta da Aldo Rotolo.
“Si è voltato” dice a un certo punto Genoeffa Cocconi coniugata Cervi, a proposito del suo figliolo Aldo.
E Aldo, Cervi, è il padre dell’ Adelmo che scrive.
Dolente di non averlo potuto conoscere davvero, era davvero troppo piccolo, va alla sua ricerca non solo storica, tutt’altro che agiografica – contro l’agiografia si scaglia più volte e con energia, quando dice “sono figlio di un mito” tra polemica e tristezza.
Si tratta di storia familiare ma anche di una ricerca più intima dell’identità e anche della carnalità di un padre sempre presente, nella sua assenza, nella sua invincibile mancanza.
Ma oltre a questo “I miei sette padri” è un affresco, anche linguisticamente significativo nella sua genuinità mai ingenua, di un tempo e di una civiltà contadina ormai scomparsa, nei suoi caratteri di ingiustizia e miseria, e di solidarietà e voglia di riscatto.
Aldo è uno serio, che quando fa una cosa la fa sul serio e fino in fondo: quando era cattolico praticante era il primo in chiesa e nelle attività della parrocchia, quando si “volta”, dopo tre anni di galera militare sofferti solo per aver adempiuto alla consegna durante il servizio di guardia, sarà altrettanto serio. Nello studio a cui lo inizia l’università della galera, come nell’attività politica e poi nell’azione della Resistenza.
La Famiglia Cervi, quasi una tribù, nella migliore tradizione della civiltà contadina è fatta da Papà Alcide, Mamma Genoeffa e 7 figli 7, per l’elenco rimando alla lettura coinvolgente, ricca e commovente a tratti del libro. Oltre a loro tutto un arcipelago di parenti e vicini e poi compagni di lotta, ma soprattutto di lavoro, ché di lavoro ce n’è tanto ma tanto da scoppiare, per far progredire, come poi sarà tutta la baracca nei suoi vari spostamenti da mezzadri fino ai Campi Rossi dove, finalmente affittuari, potranno dar corso e applicazione in campo a tutto ciò che Aldo ha studiato nei libri e nei corsi di agricoltura.
E il successo a caro prezzo di sudore arriva, con uno dei primi trattori della provincia per sostituire il valoroso toro nel traino degli attrezzi per livellare il terreno e renderlo così più produttivo perché meglio irrigabile. Ma il fascio è sempre lì, quando non danneggia direttamente, ostacola con la sua ignoranza e prepotenza, anche alimentando la diceria che i “Ruban”, il soprannome di famiglia – senza un soprannome non sei nessuno, son tutti matti!
E poi la guerra, spartiacque storico, che lo vediamo anche oggi, chiarisce e confonde insieme. Ma Aldo e i suoi, familiari e non solo, sanno bene da che parte stare. E’ una scelta da un lato spontaneo portato di una cultura dedicata alla vita: cos’è altro lavorare per arare, piantare e far crescere le messi e allevare gli animali? Dall’altro è il risultato di una cultura maturata negli studi da autodidatta e nella pratica politica di un “dirigente nato”, ma senza nessuna spocchia o pretesa.
Poi i primi passi necessariamente incerti di una banda partigiana fatta in casa e senza troppi collegamenti, anzi anche spesso osteggiata da una parte del Partito, la più vicina, da cui ci si aspettava aiuto e consiglio, che si vanno a cercare nel territorio a fianco, dove si trova più apertura e solidarietà umana e politica.
Ma se la memoria storica e antropologica sono preziose e di prima mano, in questo bel libro, la cosa che più attrae e obbliga a continuare a leggere senza interrompere, è il flusso di coscienza che Adelmo, figlio e anche un po’ padre e fratello di Aldo suo padre, esprime e lascia andare senza soluzione di continuità per tutte le quasi 400 pagine.
E forse per chiudere non c’è niente di meglio della citazione dal testo in cui l’Adelmo si rivolge direttamente ad Aldo:
“Grazie per ‘Avermi voltato’, insieme a tanti compagni di ieri e di oggi.
Grazie per quelli che ‘volterai’ domani. C’è ancora tanto per cui lottare, in questo mondo”.
E poi la foto all’inizio pagina 10, quella stessa di cui l’Adelmo parla così alla fine:
“Ma al momento di metter via tutto… mi accorgo che la foto - quella coi vestiti belli, che insieme all’altra mi fa da santino – è stampata all’incontrario, all’inizio del catalogo del museo. (…) Vorrà dire che poter (!) raccontare - la mia storia – all’incontrario? Forse sì. (…) Ma anche così sarei arrivato qui, da te”.
Aldo Rotolo aldored@gmail.com
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5yf7m3AIEMwm_Ozbg8Cvg3rG8-7MVCxfQ7nALW7ymuPNCaE-CxQdcn1mdGE3mHwcPDDruamNGBrlWuGesGMhT13EhEvT0Sw7qVdopWmHXoDTGKtmkzDbwy2oFUHbVkv4oZwNJIOcUaiHBi97QFNuhBr-R9qfCeoTVbbks67rhAwJb5hK7FcQarJKT/s1600/Io%20e%20Adelmo%20Cervi%20a%20Locri%2013.10.22%201.JPG" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1200" data-original-width="1600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5yf7m3AIEMwm_Ozbg8Cvg3rG8-7MVCxfQ7nALW7ymuPNCaE-CxQdcn1mdGE3mHwcPDDruamNGBrlWuGesGMhT13EhEvT0Sw7qVdopWmHXoDTGKtmkzDbwy2oFUHbVkv4oZwNJIOcUaiHBi97QFNuhBr-R9qfCeoTVbbks67rhAwJb5hK7FcQarJKT/s320/Io%20e%20Adelmo%20Cervi%20a%20Locri%2013.10.22%201.JPG"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4ZPgKAqUnx1JUq7svdnUgGYThbgj9r37p4s_qfpfPbRUxEGQZ75gSMcXBO-m8tqkecBo3cXmsNJh2PnNS8EnnFoFvQ2Z1AZ2yl_XBehvSAMjk4K-sOmIwQnSOaJYfKPujAD4-umndpx1DVYEcqDLFoYN3o61_dOMdk_rsf0fSfr6T2_ESv5vs4V4d/s1600/Io%20e%20Adelmo%20Cervi%20a%20Locri%2013.10.22%202.JPG" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1200" data-original-width="1600" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4ZPgKAqUnx1JUq7svdnUgGYThbgj9r37p4s_qfpfPbRUxEGQZ75gSMcXBO-m8tqkecBo3cXmsNJh2PnNS8EnnFoFvQ2Z1AZ2yl_XBehvSAMjk4K-sOmIwQnSOaJYfKPujAD4-umndpx1DVYEcqDLFoYN3o61_dOMdk_rsf0fSfr6T2_ESv5vs4V4d/s320/Io%20e%20Adelmo%20Cervi%20a%20Locri%2013.10.22%202.JPG"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjepf1ds3IcjMH4TpoF3LTFlUSJKMQHGLYMRzswOrRZfUbEqxgkyxmsqm_jRva0PFubdk_y-irp0hAF9OCAnnio0X65ZsPB0qH4m233lF8pll05vrUE0XO7UptapyPxD4kDF80IlTUqeRWqPaAaAsQUpfya2RC9JK9CIfl1GzbJSeBFJVu8NDkA8aFs/s2048/Locandina%20I%20miei%20sette%20padri%20a%20Locri%20io%20e%20Adelmo%20Cervi.JPG" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="2048" data-original-width="1448" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjepf1ds3IcjMH4TpoF3LTFlUSJKMQHGLYMRzswOrRZfUbEqxgkyxmsqm_jRva0PFubdk_y-irp0hAF9OCAnnio0X65ZsPB0qH4m233lF8pll05vrUE0XO7UptapyPxD4kDF80IlTUqeRWqPaAaAsQUpfya2RC9JK9CIfl1GzbJSeBFJVu8NDkA8aFs/s320/Locandina%20I%20miei%20sette%20padri%20a%20Locri%20io%20e%20Adelmo%20Cervi.JPG"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-48400480196760577542022-10-30T10:54:00.002+01:002022-10-30T10:54:53.797+01:00C’È UNA QUESTIONE MERIDIONALE ANCHE NEL PNRR«La questione meridionale» è un tema caro a noi della Riviera ed ai nostri lettori, Pasquino Crupi ci ha istruito su questa dottrina e, seguendo una linea di pensiero che risale dritta dritta ad Antonio Gramsci, ci ha spiegato che l’emigrazione era la causa che stava alla radice del problema: «Gli emigranti e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari per sussidiare le industrie parassitarie del Nord» (A. Gramsci, La questione meridionale).
La genesi del fenomeno risale al 1861, all’atto dell’Unità il reddito pro capite nel Mezzogiorno era di un quarto inferiore a quello del settentrione. I motivi erano molti, in primis gli effetti della dominazione borbonica e l’instabilità politica. L’Unità d’Italia peggiorò la situazione del meridione, poiché venne esteso all’intero territorio nazionale il regime liberistico del Piemonte sabaudo senza tener conto delle enormi differenze in campo amministrativo, legislativo e sociale. La pressione fiscale stroncò l’economia del Mezzogiorno che non era in grado di sostenerla, il tutto a scapito di un fragile sistema manufatturiero che finì per crollare miseramente.
Da allora fu esodo, che non si è mai interrotto fino a raggiungere nel decennio 1951-60 la quota di
oltre due milioni di persone che abbandonarono il Mezzogiorno per trasferirsi nelle città del Nord o all’estero. Gli abitanti del Sud si trasformarono in un bacino di manodopera che serve ancora oggi ad alimentare l’impetuoso sviluppo industriale del Nord.
Il dato da analizzare è quello demografico che continua a rimanere di stretta attualità. Nel primo ventennio del Duemila il Sud ha perso due milioni di residenti, di cui la metà giovani tra i 15 e i 34 anni, per un quinto laureati. La parte pregiata degli abitanti, quella più giovane e istruita, se n’è andata. Secondo le previsioni dell’Istat, se questa tendenza non dovesse invertirsi, entro il 2056 le regioni meridionali perderebbero oltre 5 milioni di persone: un abitante su quattro.
Non è necessario essere grandi economisti per capire che se non c’è forza lavoro, la popolazione attiva che rimane non produce più ricchezza per sostenere il welfare, accrescendo così la dipendenza dal Nord.
Sempre l’Istat ci dice che tra il 1996 e il 2019, mentre la popolazione del Nord è cresciuta del 9,3 per cento, quella del Sud è diminuita del 2 per cento.
Francesca Mariotti, direttore generale di Confindustria, sottolinea che ogni anno le regioni del Mezzogiorno perdono 130 mila abitanti: «È come se scomparisse, ogni dieci anni, una città come Napoli o Palermo».
Per rendere meglio l’idea, leggiamo altri dati forniti dal Rapporto Svimez.
Nel 2022 il Pil pro capite al Sud è quasi la metà di quello del Nord: 20.900 euro contro 38.600. Il tasso di disoccupazione nel primo trimestre 2022 è stato del 5,7 per cento al Nord e del 15,2 per cento al Sud. Per tassi di occupazione nella Ue, Sicilia, Campania, Calabria e Puglia sono in fondo alla graduatoria, negli ultimi dieci posti su 300, insieme alla Guyana francese. Quanto alle donne, nel Mezzogiorno lavora una donna su tre. Due esempi, per capirsi meglio: a Bolzano il tasso di occupazione femminile è al 63,7 per cento, in Sicilia al 29,1.
Arriviamo al disastro della sanità: ogni anno due miliardi di euro vengono trasferiti dalle regioni del Centro-Sud a quelle del Nord per fornire ai meridionali le cure che non riescono ad avere nei loro ospedali. Il motivo è semplice: ogni anno la regione che eroga la prestazione viene rimborsata da quella di residenza del cittadino. E così accade che la sanità calabrese nel 2020 abbia versato nelle casse della Lombardia 230 milioni di euro.
Nel 2023, sempre secondo lo Svimez, il Pil dovrebbe crescere dell’1,7% nelle regioni centro-settentrionali, e dello 0,9% in quelle del Sud. Nel 2024, il divario di crescita a sfavore del Sud dovrebbe peggiorare ulteriormente di circa 6 decimi di punto, attestandosi a +1,3% di fronte al +1,9% al Centro-Nord.
In campo energetico la Calabria non dovrebbe avere problemi essendo grande produttrice nel comparto idroelettrico, ma non si capisce per quale motivo la popolazione non riesca a trarne beneficio.
Se a tutto questo aggiungiamo le croniche deficienze burocratiche degli Enti di ogni ordine e grado il quadro diventa ancora più scoraggiante e getta un’ombra sinistra sulla possibilità che il PNRR possa aiutare a ridurre il divario.
Pensate che i Comuni del Sud impiegano mediamente circa 450 giorni in più rispetto a quelli del Nord per completare la realizzazione delle infrastrutture e che non si contano i cantieri di opere pubbliche fermi o abbandonati.
Se andiamo nel campo della giustizia vediamo che un procedimento civile nel Centro-Nord richiede 695 giorni e al Sud 1.101.
Per carità di patria sorvoliamo sul disastro della giustizia penale e sui clamorosi flop delle mirabolanti imprese dei “magistar” allignati nelle Procure meridionali che costano all’erario cifre iperboliche e incidono pesantemente sul tessuto sociale e civile delle regioni meridionali sempre più connotate quali capitali del crimine. Reggio è stata la città in cui nel 2020 sono stati elargiti più fondi per risarcire chi aveva subito un’ingiusta detenzione con quasi 8 milioni, a seguire Catanzaro con 4 milioni e mezzo.
E il Pnrr, direte voi? Molti analisti sono scettici e non ritengono che possa aiutare a ribaltare questo stato di cose, d’altra parte lo stesso meccanismo di assegnazione non alimenta molte speranze. Il metodo di ripartizione dei finanziamenti europei è, infatti, basato sulla competizione territoriale, che avvantaggia di fatto le più efficienti amministrazioni del Centro-Nord. Un buon segnale di reazione e consapevolezza è giunto dalla rete Recovery Sud che vede 323 sindaci dei comuni meridionali riuniti a cercare soluzioni adeguate a contrastare il sempre più probabile rischio di una iniqua ripartizione dei fondi; ma la notizia di questi giorni che l’economista Fabio Panetta abbia respinto l’offerta del dicastero dell’Economia mettendo in guardia la Meloni sui ritardi del processo di attuazione del Pnrr, getta un’ombra sinistra sul nostro futuro.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_UaBXxjavJN-WTalY4ktdR-DS1pF1rWOyw_cGqACFve9oKd44kTPvI52kyUjJNemWaLQUzfc9RbG1rVbjLRyIOjiRYSj4CQToHBSpQPQJIew2eIIRNL65ZMDBIC37ia3tbPn5CfLKDGWZNgJL4MUnmOgpiZIUaz5-ByfUPN2Vct88Hc5hC0rk8Iwi/s1200/Questione-meridionale.webp" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="700" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_UaBXxjavJN-WTalY4ktdR-DS1pF1rWOyw_cGqACFve9oKd44kTPvI52kyUjJNemWaLQUzfc9RbG1rVbjLRyIOjiRYSj4CQToHBSpQPQJIew2eIIRNL65ZMDBIC37ia3tbPn5CfLKDGWZNgJL4MUnmOgpiZIUaz5-ByfUPN2Vct88Hc5hC0rk8Iwi/s320/Questione-meridionale.webp"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-66646187660412677892022-10-04T09:19:00.003+02:002022-10-04T09:19:39.299+02:00IL BRIGANTE VLADIMIR, IL BUON SAMARITANO JOE E LA WONDER WOMAN URSULA Parte 1^Ricordate la storia del rischio imminente di carestia e dei paesi africani costretti alla fame da quel cattivone di Putin? L’avete già scordata anime belle che non siete altro, ora state pensando solo a dove trovare i soldi per pagare la bolletta della luce e vi cullate nella segreta speranza che ve la paghi SuperMario o la sua ancella SuperGiorgia.
Ma una domanda ve la voglio fare lo stesso: se c'era il rischio di carestia mondiale come mai le navi cariche di cereali ucraini partite dal porto di Odessa non sono affatto andate verso i paesi del terzo mondo a rischio carestia ma solo da chi poteva pagar bene?
Semplice: perché non c'è e non c'era nessuna carestia mondiale in corso, e neppure la si rischiava.
Il grano era aumentato di prezzo già a dicembre 2020, e i paesi del terzo mondo avevano già difficoltà a pagarlo, ma allora l'Occidente era in tutt’altre faccende affaccendato.
Così alla fine il grano ucraino che sarebbe dovuto servire ad alleviare la fame nel mondo, ce lo siamo dovuti comprare noi per darlo da mangiare al bestiame.
Quando gli americani e la Nato hanno provocato Putin al punto di costringerlo ad intraprendere la sciagurata e folle avventura dell’“Operazione speciale” hanno ovviamente costretto l'Unione Europea a entrare in questa storia, prospettando una rapida vittoria, grazie all'annuncio di sanzioni "mai viste". Nessuno si aspettava di pagarne le conseguenze, perché era stato fatto credere che i russi sarebbero capitolati immediatamente.
Tutti fingono di ignorare, compresi ahimè i giornalisti italiani, che la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen è sotto totale controllo degli americani tramite il marito Heiko Echter von der Leyen, medico tedesco e membro della nobile famiglia von der Leyen. Da dicembre 2020, Heiko è direttore medico della società biotech statunitense Orgenesis, specializzata in terapie cellulari e geniche, che possiede la tecnologia mRNA e di conseguenza manovra il business da 36 miliardi di dollari della Pfizer.
Avete bisogno di sapere altro?
Dal canto suo la Nato che ha un apparato tecnologico fantasmagorico ma è carente di truppe (gli antichi la chiamavano “carne da cannone”) ha svolto la sua classica funzione di “stoke masked fire” armando gli ucraini e svuotando i magazzini delle fabbriche di armi americane la cui lobby notoriamente tiene in pugno tutti i presidenti americani, democratici o repubblicani che siano.
Tenetevi stretta la favoletta di Biden buon samaritano e di Putin brigante se vi star tranquilli e via a braccetto verso l’apocalisse prossima ventura.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-68596807262848150082022-10-04T09:11:00.003+02:002022-10-04T09:11:47.029+02:00LETTERA APERTA AL PRESIDENTE ROBERTO OCCHIUTOUN’ALTRA ESTATE SPRECATA
Caro Presidente, un’altra estate è passata e non possiamo nasconderci che, nonostante la sua buona volontà, siamo costretti a rubricarla come l’ennesima occasione mancata per lo sviluppo turistico della nostra regione. D’altra parte, miracoli non se ne possono fare e le premesse erano quelle che erano: i danni che abbiamo inferto al paesaggio in decenni di politiche scellerate non sono recuperabili con attività ordinarie e la povertà di infrastrutture non si può certo colmare con un anno di lavoro virtuoso. Se poi a tutto questo aggiungiamo una cronica incapacità di comunicare in modo virtuoso la bellezza del nostro territorio, il quadro è completo.
L’ultimo claim pubblicitario efficace sulla Calabria, l’ha prodotto nel 1353 nientemeno che Giovanni Boccaccio (toscano di nascita e cultura) che, nella seconda giornata della quarta novella del Decameron, declamò testualmente: “Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia”. Da allora, purtroppo, è stato tutto un continuo degradare fino ad arrivare, quasi 600 anni dopo, all’amara definizione di Giustino Fortunato che nel 1904 bollò la Calabria come uno “sfasciume pendulo sul mare”, al grido di dolore di Umberto Zanotti Bianco negli anni Venti del secolo scorso “Tra la perduta gente” e alla drammatica e lapidaria constatazione di Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” del 1944.
Dopo di allora è stato un continuo susseguirsi di iniziative sprovvedute, improvvisate e superficiali (se non vogliamo metter in dubbio la buona fede) che via via sono solo servite a riempire le tasche di personaggi improbabili e guitti alla ribalta.
Veda caro Presidente, io mi sono iscritto al PCI nel 1971, comunista ero e comunista sono rimasto anche oggi che del Comunismo è rimasta solo un’idea appannata e distorta; le devo dire però che della Destra (quella democratica, intendo) ho sempre invidiato il pragmatismo e la capacità dei suoi uomini migliori di svincolarsi dai dogmi dottrinari nell’affrontare i problemi del quotidiano. Per dirla con Woody Allen, “ammiro la Destra perchè ha sempre pronte risposte facili a domande difficili”. Ecco quello che mi aspetto da lei caro Presidente, risposte facili e interventi conseguenti.
Ad oggi debbo registrare proficui risultati in campo culturale, grazie anche all’impegno e alla capacità della Vicepresidente Giusi Princi, ed anche nel campo minato della sanità dove lei sta svolgendo a tutti gli effetti il ruolo dello sminatore. Ho apprezzato molto che, dimostrando grande apertura mentale, abbia voluto ascoltare i consigli di uomini della “parte avversa” quali Rubens Curia di “Comunità Competente” in materia di Sanità e di Tonino Perna in materia di prevenzione degli incendi. Certo non posso pretendere che nell’arco di una legislatura riesca a demolire tutti gli ecomostri e i palazzi non finiti che deturpano il nostro paesaggio, ma un intervento in questa direzione va fatto, la rimando per questo al prezioso saggio di Piero Lo Sardo e Renato Nicolini: “Rottamare il degrado” (Laruffa edizioni). Le uniche sirene a sinistra che le chiedo di non ascoltare sono quelle di un certo ambientalismo dilettantesco, scellerato e irresponsabile che fino ad oggi ha solo contribuito a bloccare lo sviluppo della Calabria e a perpetuare il degrado del territorio.
Un intervento urgente che le chiedo di attuare riguarda la rete stradale (Traversale delle Serre, Sibari-A2 e SS 106 in primis) e la manutenzione delle strade provinciali ridotte in modo pietoso da buche e assenza di segnaletica orizzontale; a questo proposito la informo che la nostra Regione è l’unico posto al mondo dove Google Maps non riesce a raccapezzarsi in alcun modo, provi ad usarlo utilizzando strade che conosce e ne sentirà delle belle!
Per finire, le pongo una domanda solo apparentemente capziosa: perchè il problema della raccolta e smaltimento dei rifiuti è enormemente più grave nella provincia di Reggio rispetto alle altre?
Buon lavoro, suo Franco Arcidiaco
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhEhZw4d7RUBfn3Y_K5k2Wv4C2rEK9bpGCwHgQA_JRuBlLXLgyPjRbXyGKlcmrRC2mskgqiVB4FcmS5fBqdbmaUiNlQ4dBb4Om-i6O0TJ_J7OoNrj4SNzcHjCgybY_JACUUPY5YUvrhpMNl24p5GG5CnrXON-STDM8AVe8BPhIUPuoM9-wEpnWxX753/s2080/roberto_occhiuto_ipa.webp" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1302" data-original-width="2080" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhEhZw4d7RUBfn3Y_K5k2Wv4C2rEK9bpGCwHgQA_JRuBlLXLgyPjRbXyGKlcmrRC2mskgqiVB4FcmS5fBqdbmaUiNlQ4dBb4Om-i6O0TJ_J7OoNrj4SNzcHjCgybY_JACUUPY5YUvrhpMNl24p5GG5CnrXON-STDM8AVe8BPhIUPuoM9-wEpnWxX753/s320/roberto_occhiuto_ipa.webp"/></a></div>Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-8753864672762342282022-09-09T15:44:00.001+02:002022-09-09T15:44:27.260+02:00ROSATELLUM O CERVELLOTICUM?Sappiamo bene che nell’italiano medio non c’è una gran voglia di andare a votare, se poi aggiungiamo le difficoltà di capire i meccanismi farraginosi della legge elettorale, le prospettive di una larga astensione si allargano a dismisura.
Come bene illustra il nostro vignettista Domenico Loddo, il famigerato Rosatellum (che prende il nome dal senatore Ettore Rosato, eletto con il Pd e poi approdato a Italia Viva) diventa un’accetta che taglia la mano dell’elettore.
Il 25 settembre andremo a votare con una legge che assegna i seggi in Parlamento secondo un sistema misto: un terzo con meccanismo maggioritario, due terzi con proporzionale. Ma ci sono una serie di anomalie cervellotiche che molti non conoscono e francamente risultano difficili da capire. Ricapitoliamo: un terzo dei seggi viene assegnato col maggioritario: nei collegi uninominali il candidato che prende più voti vince. Nei collegi plurinominali (che riguardano i restanti due terzi dei seggi) invece i candidati sono divisi tra le forze politiche in modo proporzionale, in base ai voti ottenuti. È prevista una soglia di sbarramento al 3% per i singoli partiti e del 10% per le coalizioni.
I seggi assegnati con il sistema maggioritario saranno 147 alla Camera (su un totale di 400) e 74 in Senato (su in totale di 200). Infine, 8 seggi alla Camera e 4 al Senato vengono assegnati secondo il voto degli italiani all’estero. I seggi distribuiti con sistema proporzionale sono la maggior parte, 245 alla Camera e 122 al Senato. Nei collegi plurinominali i parlamentari vengono eletti in base ai voti ottenuti a livello nazionale da ogni lista, proporzionalmente ai consensi ricevuti. Ogni listino può essere composto da almeno due e fino a quattro nomi. È prevista una quota di genere: nessun sesso, infatti, può rappresentare oltre il 60% dei candidati rappresentati. Nei collegi plurinominali i seggi vengono assegnati secondo il cosiddetto top-down, dal nazionale al territorio. A livello nazionale vengono cioè designate le liste e a quelle che superano le soglie di sbarramento vengono poi distribuiti i seggi secondo un particolare calcolo di quozienti e resti.
Un partito potrebbe vedersi assegnare un tot di seggi in una circoscrizione per dei voti ottenuti in un’altra. Gli elettori di Milano, ad esempio, potrebbero con il loro voto procurare un seggio a Napoli al partito che hanno inteso votare. Chiaro?
Per schiarirmi le idee sono andato nel sito dei fidati amici di Kulturiam.it e ho trovato questa sorprendente spiegazione degli esiti pratici del Rosatellum a cura di Jan Datranich:
“Chi pensa di votare Civati nel listino plurinominale, in realtà potendo solo barrare la lista che contiene i nomi senza poter votare per lui pena annullamento del voto, vota anche Casini nell’uninominale connesso e così chi pensa di votare Cucchi vota anche per Lorenzin; chi pensa di votare Soumahoro vota anche Cottarelli; chi pensa di votare Schlein vota anche nell’uninominale Marcucci. E viceversa chi vota solo il candidato dell’uninominale vedrà il suo voto ripartito in proporzione tra tutti i partiti o liste collegate nei listini plurinominali. Per di più se nella parte plurinominale del collegio il partito di Civati o degli altri non supera il quorum, per effetto del riparto nazionale dei resti si vedrebbe in parlamento un soggetto a lui ignoto, candidato in un altro collegio. È solo un esempio delle storture del sistema italiano che ha abiurato la democrazia parlamentare rappresentativa. Chi dopo aver concorso a produrre questo sconcio, da ultimo nel silenzio generale e all’unanimità approvando dopo il referendum del taglio dei parlamentari una normativa che ha ridisegnato i collegi rendendoli compatibili e con il taglio e con il Rosatellum, così dimostrando di volerlo tener ben caro, meriterebbe l’ostracismo se vivessimo nella Grecia periclea”.
Morale della favola, ci troviamo al cospetto di un sistema che non agevola certo gli elettori scettici o svogliati e che favorisce certamente i grossi partiti e/o le grosse coalizioni. Se poi aggiungete che in avanzata era digitale, ancora utilizziamo il sistema obsoleto della scheda e della matita (bloccando l’attività scolastica per 15 giorni) e non consentendo di votare a lavoratori e studenti fuori sede, vi renderete conto che ancora una volta le regioni più penalizzate sono quelle del Sud… a proposito di Questione Meridionale!
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgudjGQbJI6bNSXEK2SXkBqjRq59f9WciE7eERV8L0m1qhHd7F60Khxc_BH4fSR1y9Gy1GwpYt4bpor65rUyQ16MAryOlhpLJEVst6DCy4zHG1MSuGmTrLauNqEiNMu33SVGN3u-ChmrpdlHtDp-K0PDewWqCzDBYh-3S3gX1VoPwz0waw8r3GBoN1j/s1599/Accetta%20un%20consiglio,%20vota!%20di%20Domenico%20Loddo.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1163" data-original-width="1599" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgudjGQbJI6bNSXEK2SXkBqjRq59f9WciE7eERV8L0m1qhHd7F60Khxc_BH4fSR1y9Gy1GwpYt4bpor65rUyQ16MAryOlhpLJEVst6DCy4zHG1MSuGmTrLauNqEiNMu33SVGN3u-ChmrpdlHtDp-K0PDewWqCzDBYh-3S3gX1VoPwz0waw8r3GBoN1j/s320/Accetta%20un%20consiglio,%20vota!%20di%20Domenico%20Loddo.jpeg"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-5817382999530224042022-08-18T13:25:00.004+02:002022-08-18T13:25:51.512+02:00PALMA DEL TRASH PER GIANNI RIOTTADeriva scatologica per il giornalismo italiano. Gianni Riotta conquista la palma del trash con un incredibile articolo dedicato all'intasamento del water della Casa Bianca. Se veramente ambisce al premio Pulitzer, Riotta non si può dire che non le stia provando tutte. Ispiratore delle liste di proscrizione dei "filo-putiniani", guerrafondaio, atlantista schierato con i Dem americani evidentemente ritiene di avere tutte le carte in regola. Trump è sempre stata la sua magnifica ossessione, lungi da me prendere le difese dell'ex-presidente USA, ma onestamente oggi sarebbe forse il caso di accendere meglio i riflettori sulle epiche gesta del suo successore Biden.
Riotta invece non trova di meglio che approfondire le indagini su dei documenti compromettenti che Trump avrebbe strappato e buttato nel water nell'intento di eliminarli. Se Riotta ha pensato di ripercorrere le orme di Bob Woodward e Carl Bernstein, creando questa versione trash del “Watergate”, più che al Pulitzer potrà ambire al Premio Ignobel, ha realizzato infatti la sceneggiatura di un B-movie che nemmeno Lino Banfi e Alvaro Vitali accetterebbero mai di interpetrare.
Della vicenda ne avrete già sentito parlare, il tutto nasce da due foto diffuse da Maggie Haberman giornalista del New York Times e della CNN, verosimilmente per promuovere l’imminente uscita del suo libro “Confidence Man”. La prima mostrerebbe il water di Trump alla Casa Bianca con dentro un fogliettino non risucchiato dallo sciacquone; l’altra è il frammento di uno scritto di Trump che sarebbe finito nella toilette dell’aereo presidenziale.
A qualunque persona di buon senso non può che apparire inverosimile sia la violabilità delle toilette di un presidente USA, che la circostanza di un personaggio come Trump che non abbia sempre a portata di mano un trita-documenti.
Sui social, che naturalmente si sono scatenati visto il tema pecoreccio, molti hanno fatto notare
che la qualità del battiscopa, la sporcizia nel pavimento e la vicinanza del muro al water suggerirebbero una foto scattata in un angusto e povero ambiente mentre la seconda foto contraddirebbe l’iniziale dichiarazione della Haberman secondo la quale le foto le sarebbero state consegnate da “alcuni collaboratori di Trump (costretti a) chiamare gli idraulici per riparare gli igienici intasati”.
Gianni Riotta (già membro italiano del “Gruppo alto livello dell’Unione Europea per la lotta alle fake news”) sulle pagine di Repubblica si lancia in un panegirico della “formidabile Maggie Haberman” con una chiosa surreale: “Le foto del bagno occluso da documenti ufficiali e il tentativo di Trump di cancellare la Storia entrano con prepotenza nella memoria”, rivelando che, secondo lui, la memoria di questa fase storica che stiamo vivendo troverà il massimo della sua rappresentazione in due foto di cessi intasati da minuscoli “pizzini”.
Per carità di patria, e per spirito di corpo della categoria alla quale appartengo, non vado oltre e lascio a voi la riflessione sullo stato del giornalismo globale.
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A Rosario mi accomunano tante cose, ma penso che il principale punto di congiunzione sia l’ostinazione con la quale continuiamo a credere al ruolo fondamentale dell’editoria e della comunicazione in questa sgangherata società. Facciamo parte della categoria “editore puro” che, beninteso, non si riferisce a una condizione spirituale di innocenza o candore, ma semplicemente alla pervicacia con la quale assolviamo alla nostra missione di produrre una comunicazione scevra da asservimenti di qualsiasi natura. La follia consiste nella caparbietà con la quale da decenni continuiamo a considerare questa attività una possibile fonte di reddito per le nostre famiglie.
Quando, nell’agosto del 1990, ho fondato <i>Laltrareggio</i> mio padre, sul punto di diseredarmi, mi disse: “È arrivato il comandante del vascello pirata!”, miglior complimento non avrebbe potuto farmi, ma probabilmente non era questa la sua intenzione… Per lui, i giornali erano delle istituzioni a sé stanti e non concepiva nemmeno lontanamente l’idea della fanzine libera e fuori dagli schemi.
Sono passati tanti anni, quel vascello, ormai ormeggiato, osserva sornione l’evoluzione networkiana della sua attività, e io, nel frattempo, prendo al volo l’occasione che mi viene offerta di agguantare il timone di un altro vascello pirata o, per usare un’espressione di Pasquino, di una “goletta anarchica”. Rosario mi ha ricordato di quando qualcuno chiese al neo direttore de <i>La Riviera</i>, Pasquino Crupi, quale linea politica intendesse dare al giornale e lui rispose: “La Riviera è un giornale anarchico meridionalista e tale resterà!”.
Prima e dopo Pasquino Crupi tante mani si sono avvicendate al timone de <i>La Riviera</i>, ricordo per esempio Nicola Zitara e Pietro Melia, tutti direttori di straordinario livello compreso l’attuale Ilario Ammendolia che mi ha accettato fraternamente al suo fianco, lo ringrazio con orgoglio. Rosario Condarcuri, sapientemente, ha fatto della sua <i>Riviera</i> un “giornale grandi firme” e a breve sarà capace di stupirci ancora con una straordinaria nuova iniziativa in cantiere. Insomma, mi ritrovo circondato da tanti valorosi amici e colleghi e da un gruppo di giovani seri e volenterosi, meglio di così non potevo aspettarmi.
C’è una bellissima frase dello scrittore Haruki Murakami che mi piace ricordare e che credo racchiuda il senso più profondo dell’ormai lunga storia che lega La Riviera alla provincia reggina: “Ognuno lascia la sua impronta nel luogo che sente appartenergli di più”.
Ho sempre creduto nel ruolo importante, imprescindibile dell’informazione locale, come strumento per avere sempre il polso della situazione. Sono tanti quelli che guardano con sufficienza i magazine locali, sappiano che grande non è sinonimo di qualità.
In un Paese come il nostro che ha fatto della piccola impresa artigianale una cifra distintiva universalmente apprezzata, anche un organo di informazione locale può racchiudere un concentrato di qualità e innovazione esemplare.
Essere vicini al proprio territorio, interpretarne e spiegarne il vissuto quotidiano, non è roba da dilettanti o improvvisatori, richiede competenza, sensibilità e abnegazione.
La Riviera continuerà ad essere un giornale meridionalista ma non campanilista, attivo, vivo e curioso ma alieno da derive gossipare e da attacchi proditori; non rinunceremo mai alla nostra identità ma non abbiamo alcuna intenzione di farla prevalere con metodi prevaricatori.
Buon viaggio, dunque, a tutti noi e alla nostra Calabria.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-92075037718710780692022-08-07T12:07:00.001+02:002022-08-07T12:07:19.896+02:00PERCHÈ FU SCELTA HIROSHIMANell’indifferenza generale e nel silenzio ipocrita e imbarazzato degli atlantisti di ogni risma, in questi giorni ricorre il tragico anniversario (77°) del bombardamento atomico, da parte degli americani, delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Nelle anime belle che si stracciano le vesti per le minacce più o meno atomiche di quel cattivone di Putin, in prossimità di questo anniversario scatta regolarmente il processo di rimozione che tanto bene ha descritto Freud: “espellere o tenere lontano qualcosa di insopportabile dalla coscienza, evitando in tale modo il dispiacere”.
Nei giorni scorsi il <i>Corriere della Sera</i>, inopinatamente e forse con un sussulto di dignità, ha pubblicato un bellissimo articolo del fisico saggista Carlo Rovelli (<i>L'occidente e l'ipocrisia, serve un nuovo soggetto politico, l'umanità di Carlo Rovelli, Corriere della Sera, 31 luglio 2022</i>). Rovelli dice: “Mi unirei al coro contro il riconoscimento del Donbass che ha innescato la guerra ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava. O per i bombardamenti su Kiev, dove la scusa era che Kiev massacrava il Donbass, se la Nato si impegnasse a non fare più nulla di simile, come ha fatto bombardando Belgrado, dove la scusa era che Belgrado massacrava il Kosovo. Mi unirei al coro contro la Russia che cerca di cambiare il regime di Kiev, se l'Occidente si impegnasse a non fare più la stessa cosa, come ha fatto abbattendo e destabilizzato governi democraticamente eletti dal Medio Oriente al Sud America, dal Cile all'Algeria, dall'Egitto alla Palestina. Mi unirei al coro che si commuove per i profughi ucraini, se si commuovesse anche per yemeniti, siriani, afghani e altri con pelle di tonalità diverse.
Ipocrisia senza limiti. I giornali gridano sulle politiche «imperiali» di Cina e Russia. Il lupo e l'agnello. La Cina non ha quasi soldati fuori dei suoi confini, se non in missioni Onu. La Russia ne ha a pochi chilometri, in Siria e Transnistria. Gli americani hanno centomila soldati in Europa, basi militari in Centro e Sud America, Africa, Asia, Pacifico, Giappone, Corea ovunque, eccetto in Ucraina dove stavano insediandosi. Hanno portaerei nel mare della Cina. Dalle coste cinesi si vedono navi da guerra Usa, non si vedono navi da guerra cinesi da New York. Chi è l'impero? <b>Si paventa, non abbastanza, l'uso dell'atomica. L'Occidente è l'unico ad averla usata</b>. A guerra vinta, per affermare il dominio con la violenza; nessun altro lo ha fatto. Si scrive che la Cina è aggressiva; non ha fatto guerre dopo Corea e Vietnam; l'Occidente ne ha fatte in continuazione ovunque. Chi è l'impero?”.
Questo lucido e coraggioso intervento di Rovelli purtroppo, e direi naturalmente, non ha aperto nessun dibattito e non ha modificato di un millimetro la percezione dell’italiano medio delle dinamiche geopolitiche condizionate dagli interessi degli atlantisti.
Qualche anno fa Ben Rhodes, consigliere di politica estera, speechwriter e confidente di Barack Obama, nel suo memoriale riferì che Obama un giorno gli chiese: “Perché scegliemmo Hiroshima?”, “È venuto fuori nelle mie ricerche per il discorso”, dissi. “Decidemmo piuttosto in anticipo di risparmiare Hiroshima da ogni bombardamento convenzionale, in modo da poter poi dimostrare l’impatto della bomba atomica su una città intatta”. “Volevamo dimostrare ai giapponesi di che cosa eravamo capaci”, aggiunse Caroline (Kennedy, figlia di John, ambasciatrice in Giappone ai tempi di Obama). “I giapponesi erano così abituati alle sirene dei raid che non andarono nei bunker quando le sentirono -dissi- soprattutto perché gli aerei non erano tanti” …
Sono dichiarazioni da brivido che sono passate assolutamente inosservate soprattutto alle nostre latitudini, dove l’asservimento agli USA ha annichilito il libero pensiero; dichiarazioni che dimostrano la protervia e la crudeltà dell’impero dominante a livello globale. Tra l’altro trovo sconvolgente che Obama, la cui elezione aveva suscitato un’ondata di speranza per un auspicabile cambiamento di rotta, si sia rivelato un vero sepolcro imbiancato che ha proseguito, senza soluzione di continuità e con un’ipocrisia senza limiti, la politica imperiale dei suoi predecessori.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-77831663190447190072022-07-24T18:46:00.001+02:002022-07-24T18:46:16.650+02:00THE FINAL DRAGHI DAL DISCORSO DEL BIVACCO AL PRINCIPIO DI PETERNell’ultimo intervento in Senato il “Draghi calato dall’alto” ha dimostrato di non aver alcun senso della dialettica politica: si va avanti, voi parlamentari non siete nulla, dovete solo firmarmi una cambiale in bianco e poi scomparire, faccio tutto io.
Brandiva dei fogli con mani strette e tremolanti, un segno che quel fastidioso orpello del dover andare in Parlamento a chiedere qualcosa lo rendesse furente, come un Ad che ordina ai suoi sottoposti incolpevoli un resoconto dello scarso andamento in borsa dei titoli dell'azienda.
La prima parte del discorso è distopica, rivendica con orgoglio una fallimentare gestione della pandemia, una gestione disastrosa delle finanze, una gestione assurda della vicenda ucraina: fallimenti sbandierati come successi, senza pudore alcuno.
Lungi da me scadere nella demagogia populista, ma basterebbe solo quella proditoria rapina perpetrata sulle spalle di tutte le famiglie e tutte le aziende italiane con il raddoppio delle bollette dell’energia elettrica: “Il caro energia ha reso ricco lo Stato. Nei primi quattro mesi del 2022, tra Iva e accise sui prodotti energetici, l’Erario ha incassato circa 3,7 miliardi di euro in più rispetto allo stesso periodo del 2021.” (Quifinanza.it).
Se ricordate, super Mario ha reagito come un cittadino qualunque all’arrivo della bolletta, si è dimostrato stupito e si è riservato di intervenire in qualche modo, ha intascato il malloppo e ci ha fatto una carezzina sulle bollette successive, grande economista non c’è che dire!
Monti era stato più elegante quando, era il 2011, ha riscosso il pizzo sui conti corrente (depositi sopra i 5mila però) e poi ha aumentato l’imposta di bollo che ancora oggi grava in modo esagerato.
Sull’Ucraina poi, basta ricordare di quando, appena giunta a Washington l’eco di qualche tentennamento, si è fatto convocare alla Casa Bianca per sentirsi strapazzare come si fa con un maggiordomo neghittoso.
La seconda parte del discorso ha virato sul tono eversivo e ha rievocato a tratti il celeberrimo “Discorso del bivacco” del Duce; ricordate? “Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza…” “…Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costruire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.”
Certo Draghi si è limitato a dire: gli italiani sono con me (riferimento a quei quattro gatti che manifestavano a suo favore, devo supporre), se si deve andare avanti con questo governo si deve fare come dico io. Mettiamo che un discorso del genere l’avesse fatto all’epoca Berlusconi, avrebbe provocato manifestazioni di sdegno del PD e indagini della magistratura; lo ha fatto Draghi e il PD in aula ha applaudito e la magistratura si è limitata al battito di sopracciglio della Cartabia. D’altra parte, ormai da decenni il PD (e con lui quel che resta della Sinistra) dimostra di avere superato la fase psichica infantile del “principio di piacere” per avventurarsi in quella adulta del “principio di realtà” e, consapevole che al peggio non c’è mai fine, continua ad optare per il male minore…
A seguito di questa vicenda mi è venuto in mente un prezioso libretto pubblicato nel 1969: “Il principio di Peter” è una tesi solo all’apparenza paradossale, che riguarda le dinamiche di carriera su basi meritocratiche all'interno di organizzazioni gerarchiche. La teoria è nota anche come “Principio di incompetenza” e fu formulata dallo psicologo canadese Laurence J. Peter in collaborazione con l'umorista Raymond Hull. Il saggio ebbe una notevole fortuna letteraria e ha conosciuto numerose edizioni e traduzioni.
Il principio illustrato dal saggio descrive in termini satirici gli effetti dei meccanismi che governano la carriera aziendale dei dipendenti, evidenziandone i risultati paradossali.
«In una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza»
Il principio di Peter va inteso nel senso che, in una gerarchia, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione in cui sono collocati vengono promossi ad altre posizioni. Questa dinamica, di volta in volta, li porta a raggiungere nuovi livelli, in un processo che si arresta solo quando accedono a una posizione poco congeniale, per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità: tale posizione è ciò che gli autori intendono per «livello d'incompetenza», raggiunto il quale la carriera del soggetto si ferma definitivamente, dal momento che viene a mancare ogni ulteriore spinta per una nuova promozione.
Morale della favola: ognuno di noi ha un livello d’incompetenza e Draghi scalando scalando lo ha inesorabilmente raggiunto. Adieu!
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-48080456390754338822022-05-03T19:02:00.004+02:002022-05-03T19:02:55.579+02:00IL CORAGGIO DI PERTINI E IL PANICO DI BERLINGUERIn questi giorni molti esponenti del PD, per cercare di giustificare l’ingiustificabile, vale a dire l’adesione del più grande partito del Centrosinistra alla chiamata alle armi degli USA, si sono rifugiati nella famosa (quanto scellerata) sortita di Enrico Berlinguer che, in una Tribuna Politica di molti decenni fa, non aveva trovato di meglio che dichiarare di sentirsi più al sicuro “sotto l’ombrello protettivo della Nato”. Quel giorno Berlinguer decretò la condanna a morte del Partito Comunista Italiano ed avviò quella deriva atlantista che avrebbe trovato anni dopo il suo degno coronamento con il vile bombardamento di Belgrado da parte di Massimo D’Alema, presidente del Consiglio per una breve e sciagurata stagione.
Che differenza di stile tra questi due rinnegati demolitori della sinistra italiana e quel gigante di Sandro Pertini, che il 7 marzo del 1949 ebbe il coraggio di votare contro l’adesione dell’Italia alla Nato. Leggere il suo intervento al Senato di quel giorno, oltre a impressionare per i segnali premonitori che emana, aiuta a liberare la memoria (almeno di chi è in buona fede) dalle scorie venefiche seminate in questi decenni dalla Guerra fredda degli americani contro i Paesi comunisti.
<b>Sandro Pertini, Discorso al Senato del 7 marzo 1949 (in cui votò contro l'adesione dell'Italia alla Nato).</b>
"Noi siamo contro il Patto Atlantico, prima di tutto perché questo Patto è uno strumento di guerra. [...] Ma il nostro voto è ispirato anche ad un'altra ragione. Questo Patto Atlantico in funzione antisovietica varrà a dividere maggiormente l'Europa, scaverà sempre più profondo il solco che già separa questo nostro tormentato continente. [...] Una Santa Alleanza in funzione antisovietica, un'associazione di nazioni, quindi, che porterà in sé le premesse di una nuova guerra e non le premesse di una pace sicura e duratura. Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che esso è in funzione antisovietica.
Perché non dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri padroni di oltre Oceano, quello che l'Unione Sovietica ha fatto durante l'ultima guerra. Essa è la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue. Senza il suo sforzo eroico le Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l'Europa dalla dittatura nazifascista. [...]
E noi socialisti sentiamo che se domani per dannata ipotesi dovesse crollare l'Unione Sovietica sotto la prepotenza della nuova Santa Alleanza, con l'Unione Sovietica crollerebbe il movimento operaio e crolleremmo noi socialisti. [...]
Parecchi di voi si rallegrarono quando videro piegata sotto la dittatura fascista la classe operaia italiana e costoro non compresero che, quando in una Nazione crolla la classe operaia, o tosto o tardi con la classe operaia, finisce per crollare la Nazione intera. [...]
Oggi noi abbiamo sentito gridare "Viva l'Italia" quando voi avete posto il problema dell'indipendenza della Patria. Ma non so quanti di coloro che oggi hanno alzato questo grido, sarebbero pronti domani veramente ad impugnare le armi per difendere la Patria. Molti di costoro non le hanno sapute impugnare contro i nazisti. Le hanno impugnate invece contadini e operai, i quali si sono fatti ammazzare per l'indipendenza della Patria! Onorevole Presidente del Consiglio, domenica scorsa a Venezia, in piazza San Marco, sono convenuti migliaia di partigiani da tutta l'Italia ed hanno manifestata precisa la loro volontà contro la guerra, contro il Patto Atlantico e per la pace. Questi partigiani hanno manifestato la loro decisione di mettersi all'avanguardia della lotta per la pace, che è già iniziata in Italia, essi sono decisi a costituire con le donne, con tutti i lavoratori una barriera umana onde la guerra non passi. Questi partigiani anche un'altra volontà hanno manifestato, ed è questa: saranno pronti con la stessa tenacia, con la stessa passione con cui si sono battuti contro i nazisti, a battersi contro le forze imperialistiche straniere qualora domani queste tentassero di trasformare l'Italia in una base per le loro azioni criminali di guerra. Per tutte queste ragioni noi voteremo contro il Patto Atlantico".
<i>Sandro Pertini in Atti parlamentari. I Legislatura, Senato. Vol. V: Discussioni 1948-49,
Seduta CLXXXIII 27 marzo 1949.</i>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibicvBQixxdl6bkCt4Kp-WtiStv56gtNlF-DnEeRCzGlNB_M5SzcD1QZASXb91ABW0PSH_cYDDldWHt2Nya181Zs-7kZ3nu6YI7HD6bMpyuNfwKRSYElGtSRGMk8G7s3-fcEw-dPfVFMlLA7yXv1mixMxI7B-e28Go-Y2HXD776IQyc6EiHI9HyXR-/s2560/Sandro-Pertini-comizio-partigiani-genovesi-per-protestare-contro-il-congresso-M.S.I.-28.06.1960-Genova-scaled.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1830" data-original-width="2560" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEibicvBQixxdl6bkCt4Kp-WtiStv56gtNlF-DnEeRCzGlNB_M5SzcD1QZASXb91ABW0PSH_cYDDldWHt2Nya181Zs-7kZ3nu6YI7HD6bMpyuNfwKRSYElGtSRGMk8G7s3-fcEw-dPfVFMlLA7yXv1mixMxI7B-e28Go-Y2HXD776IQyc6EiHI9HyXR-/s320/Sandro-Pertini-comizio-partigiani-genovesi-per-protestare-contro-il-congresso-M.S.I.-28.06.1960-Genova-scaled.jpeg"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-51257557542313222352022-03-27T12:37:00.001+02:002022-03-27T12:37:06.753+02:00ALEXANDR DUGIN, MASSIMO FILOSOFO RUSSO CONTEMPORANEO, SULLA GUERRA IN UCRAINAAleksandr Dugin è un filosofo e politologo russo. La sua dottrina sviluppa il pensiero di Martin Heidegger e lo coniuga con il pensiero della scuola tradizionalista di René Guénon e Julius Evola. Dugin ha svolto un ruolo importante nella filosofia russa dopo il crollo dell’URSS, traducendo e contestualizzando i succitati autori.
Secondo Dugin le forze della civiltà occidentale liberale e capitalista rappresenterebbero quella che gli antichi greci chiamavano hybris, ovvero l'orgogliosa tracotanza che porta l'uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l'ordine costituito, sia divino che umano, immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina. Dugin la definisce "la forma essenziale del titanismo", dell'anti-misura emergente dalla Terra, che osteggia il Cielo. In altre parole, l'Occidente sintetizzerebbe "la rivolta della Terra contro il Cielo". Il pensiero dughiniano è caratterizzato da un approccio escatologico per cui, nelle sue parole, "una volta che il Cielo reagisce, gli dèi restaurano la misura". Dugin contrappone all’ “unipolarismo omologante” dell’Occidente, l’“Uno” platonico che egli traduce nell’idea di “Impero”.
Dugin ha stretti legami con il Cremlino e le forze armate russe ed è unanimemente riconosciuto come "il Rasputin del Cremlino" e "l'ideologo di Putin"; in effetti Dugin, pur criticando le passate collaborazioni di Putin con l’Occidente, si può considerare suo consigliere e ispiratore filosofico.
Dugin è inoltre noto per aver teorizzato la creazione di un "impero eurasiatico" fondato su principii di ordine spirituale in grado di combattere l'Occidente guidato dagli Stati Uniti d'America, visti come epicentro delle forze dissolutrici, occulte e antispirituali. Dugin è stato l'organizzatore assieme a Ėduard Limonov (l’agitatore politico reso celebre dalla biografia romanzata scritta da Emmanuel Carrère) del Partito Nazional Bolscevico, e successivamente del Fronte Nazionale Bolscevico e del Partito Eurasia, trasformatosi poi in associazione non governativa. L'ideologia eurasiatista di Dugin mira all'unificazione di tutti i popoli di lingua russa in un unico paese attraverso lo smembramento territoriale coatto delle ex–repubbliche sovietiche, concetto questo che sta chiaramente alla base di questa fase della politica putiniana.
Per questa sua caratteristica, Dugin ha seguaci su ogni sponda politica, anche se, a mio avviso pretestuosamente e superficialmente, viene perlopiù etichettato come fascista e reazionario.
In occasione della crisi Ucraina, alta si è levata la sua voce che, però, è stata una delle prime ad essere oscurata dai padroni del pensiero unico occidentale. Vale la pena, pertanto, leggere alcune sue dichiarazioni:
“…Questa non è una guerra con l’Ucraina. È un confronto con il globalismo come fenomeno planetario integrale. È un confronto a tutti i livelli – geopolitico e ideologico. La Russia rifiuta tutto del globalismo – unipolarismo, atlantismo, da un lato, e liberalismo, anti-tradizione, tecnocrazia, Grande Reset in una parola, dall’altro. È chiaro che tutti i leader europei fanno parte dell’élite liberale atlantista. E noi siamo in guerra esattamente con questo. Da qui la loro legittima reazione. La Russia viene ormai esclusa dalle reti globaliste. Non ha più una scelta: o costruire il suo mondo o scomparire. La Russia ha stabilito un percorso per costruire il suo mondo, la sua civiltà. E ora il primo passo è stato fatto. Ma sovrano di fronte al globalismo può essere solo un grande spazio, un continente-stato, una civiltà-stato. Nessun paese può resistere a lungo a una completa disconnessione. La Russia sta creando un campo di resistenza globale. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi.
Ma quando vinciamo, tutti ne approfittano. È così che deve essere. Stiamo creando i presupposti per una vera multipolarità. E quelli che sono pronti ad ucciderci ora saranno i primi ad approfittare della nostra impresa domani. Scrivo quasi sempre cose che poi si avverano. Anche questo si avvererà” …
E ancora: “Cosa significa per la Russia rompere con l’Occidente? È la salvezza. L’Occidente moderno, dove trionfano i Rothschild, Soros, Schwab, Bill Gates e Zuckerberg, è la cosa più disgustosa della storia del mondo. Non è più l’Occidente della cultura mediterranea greco-romana, né il Medioevo cristiano, e nemmeno il ventesimo secolo violento e contraddittorio. È un cimitero di rifiuti tossici della civiltà, è anti-civilizzazione. E quanto prima e più completamente la Russia se ne stacca, tanto prima ritorna alle sue radici. A cosa? Cristiano, greco-romano, mediterraneo-europeo… Cioè, alle radici comuni al vero Occidente. Queste radici – le loro! – l’Occidente moderno le ha tagliate fuori. E sono rimaste in Russia.
Solo ora l’Eurasia sta alzando la testa. Solo ora il liberalismo in Russia sta perdendo il terreno sotto i piedi. La Russia non è l’Europa occidentale. La Russia ha seguito i greci, Bisanzio e il cristianesimo orientale. E sta ancora seguendo questa strada. Sì, con zig-zag e deviazioni. A volte in vicoli ciechi. Ma si sta muovendo.
La Russia è sorta per difendere i valori della Tradizione contro il mondo moderno.
E l’Europa deve rompere con l’Occidente, e anche gli Stati Uniti devono seguire coloro che rifiutano il globalismo. E allora tutti capiranno il significato della moderna guerra in Ucraina.
Molte persone in Ucraina lo capivano. Ma la terribile propaganda rabbiosa liberal-nazista non ha lasciato nulla di intentato nella mente degli ucraini. Torneranno in sé e combatteranno insieme a noi per il regno della luce, per la tradizione e una vera identità cristiana europea. Gli ucraini sono nostri fratelli. Lo erano, lo sono e lo saranno.
La rottura con l’Occidente non è una rottura con l’Europa. È una rottura con la morte, la degenerazione e il suicidio. È la chiave del recupero. E l’Europa stessa – i popoli europei – dovrebbero seguire il nostro esempio: rovesciare la giunta globalista antinazionale. E costruire una vera casa europea, un palazzo europeo, una cattedrale europea”.
Nella penosa deriva ideologica che stiamo vivendo da oltre un trentennio, il pensiero di Dugin si erge come un faro che apre una relazione con la lontananza, simbolo di conoscenza; come un faro, il pensiero di Dugin illumina le cose e poi le restituisce al buio, una sentinella che si oppone al dilagare del nulla, allo smarrimento del vuoto, al disagio esistenziale, all’indifferenza del cielo.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrHiAEGUNdm4ATyzM2xGqhJ_56mSg2tad50SRhEXClrbfFQ8FUVTnsmiIsQ6NnU3UPfhPLfS1IJ0eFuQx3ynTcD7Y0ZQOfRBgmfPpT6m8o6nEjtWc8j_0fijigt5xQ8AxoAVM00BXI0ZrwipYgF0X2AAyI3jnueiPJO7wDpiJ_nnk73DsOJ9MR--KH/s1245/dugin3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="700" data-original-width="1245" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrHiAEGUNdm4ATyzM2xGqhJ_56mSg2tad50SRhEXClrbfFQ8FUVTnsmiIsQ6NnU3UPfhPLfS1IJ0eFuQx3ynTcD7Y0ZQOfRBgmfPpT6m8o6nEjtWc8j_0fijigt5xQ8AxoAVM00BXI0ZrwipYgF0X2AAyI3jnueiPJO7wDpiJ_nnk73DsOJ9MR--KH/s320/dugin3.jpg"/></a></div>Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-68735049830091827602022-03-06T14:55:00.007+01:002022-03-06T14:58:41.694+01:00BARBARA SPINELLI, FIGLIA DI ALTIERO, VOCE FUORI DAL CORO ANTI-PUTINNonostante i media europei, miseramente asserviti al mainstream atlantista, facciano di tutto per negarlo, in Italia e nel mondo è molto diffusa (sui social e sui blog) una contro narrazione della questione Ucraina, di chi sostiene che in fondo Vladimir Putin ha avuto le sue buone ragioni per attaccare, che la Nato abbia ulteriori mire espansionistiche, che la Ue ne è stata complice, che gli americani sono i soliti imperialisti, che gli ucraini sono un po’ nazisti e che, insomma, magari la reazione sarà un tantino sproporzionata, però la Russia è obbligata a salvaguardare il suo spazio vitale. Tra i giornali italiani una voce fuori dal coro è stata registrata dal <i>Fatto Quotidiano</i> con l’autorevole intervento di Barbara Spinelli (e scusate se è poco…) che ha meritato il plauso e il retweet dell’Ambasciata russa in Italia. Da notare che la Spinelli è figlia di Altiero, padre dell’Europa ed è unanimemente riconosciuta come una delle menti più lucide e delle penne più libere del giornalismo.
Tesi fondante della Spinelli è che «il disastro poteva forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria. È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’Est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda».
Barbara Spinelli sottolinea, inoltre, che né Washington né la Nato né l’Europa sono intenzionate a intervenire militarmente, che alcuni Paesi europei dipendono dal gas russo e che le sanzioni non impensieriranno più di tanto Putin. C’è da ricordare inoltre che l’Occidente aveva promesso, con un impegno non scritto ma verbale, di bloccare l’espansione della Nato a Est ma la promessa «finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti». In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri. E quindi «non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di impero della menzogna». L’Occidente non è stato in grado di costruire un «ordine multipolare». Americani e europei erano certi di aver vinto, di aver fatto diventare il mondo capitalista e gli Usa egemoni. «La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui». Ancora, la Spinelli ricorda come Putin non sia stato il primo a violare il rispetto dei confini e cita l’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo che lo violò per primo nel ’99.
Spinelli, inoltre, aggiunge: «Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’Ue – il maltrattamento delle minoranze russe». «Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica».
Per finire la Spinelli ricorda che la Storia dà torto solo agli sconfitti e che, se la guerra dovesse risolversi positivamente per lui, le ragioni di Putin sarebbero le ragioni della Storia.
La presa di posizione di Barbara Spinelli è per molti versi sorprendente; Gianni Riotta su Twitter sottolinea: «Durante la guerra in Jugoslavia, su <i>La Stampa</i>, Barbara Spinelli era così ferocemente filo Nato e Occidente da firmare appelli in stile Henry Levy e Glucksmann sui nostri valori. Adesso scrive sul Fatto e diventa anti Usa e Occidente. Peccato!».
Potremmo considerare la sua come una deriva situazionista, specchio dei nostri tempi, ma ciò non toglie che l’appiattimento dei media sulla condanna a Putin non stia scrivendo una grande pagina nella storia del giornalismo.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-64936628547678995112022-01-22T09:19:00.001+01:002022-01-22T09:19:06.752+01:00IL VACCINO CUBANO FUNZIONA MA L’OMS (NELLE MANI DEGLI USA) NE OSTACOLA LA DIFFUSIONEIl vaccino cubano funziona alla grande a Cuba dove si registra uno dei più alti tassi di vaccinazione al mondo e i preparati cubani sono in grado di aiutare molti Paesi a basso reddito nella prevenzione del Covid; ma non sono ancora stati autorizzati dall’Organizzazione mondiale della sanità per il timore (pretestuoso) che l’industria cubana non sia in grado di mantenere gli standard richiesti dall’Oms. In tutto questo c’è il solito zampino degli americani che continuano a imporre il criminale embargo a Cuba e condizionano l’operato dell’Oms.
«È un’impresa incredibile» ha dichiarato Helen Yaffe, un’esperta di Cuba e docente di storia economica e sociale all’Università di Glasgow, in Scozia. «È il risultato di una consapevole politica governativa di investimento statale nel settore, sia nella salute pubblica che nella scienza medica» ha aggiunto. La tecnologia cubana è a basso costo. Tutti e cinque vaccini sviluppati da Cuba (tra cui Abdala, Soberana 02 e plus) sono vaccini a sub unità proteica, cioè usano «composti proteici» del coronavirus. Un altro vaccino di questo tipo è lo statunitense Novavax, già approvato dall’Agenzia europea del farmaco. Questi vaccini oltre ad essere economici da produrre possono essere fabbricati su vasta scala e non richiedono il congelamento elevato. Distribuire e somministrare un vaccino che non richiede basse temperature è più facile rispetto a uno che deve essere conservato a meno 25 gradi e può resistere solo poche ore al decongelamento (è il caso del Pfizer). Cuba ha già iniziato a esportare Abdala per ora solo in Vietnam e tra qualche mese dovrebbe aggiungersi il Messico.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEj9JyJJ0EpLtBorBCOnl44zuWHVwJ9FZ8RpXzfpcXWIOZCnRoMKbgxGFouvULgxZADzKRNQ5P-btsUhBH0O4qinGZ6yNasRjzsxxY0VVkagPivsyw-KXovBXmsdBZHnos1btfhevdErbCBIRvPNuL3QVpP2dgvQW11DFOoQXMWQAbZndb0M6DUElgIW=s1500" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="938" data-original-width="1500" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEj9JyJJ0EpLtBorBCOnl44zuWHVwJ9FZ8RpXzfpcXWIOZCnRoMKbgxGFouvULgxZADzKRNQ5P-btsUhBH0O4qinGZ6yNasRjzsxxY0VVkagPivsyw-KXovBXmsdBZHnos1btfhevdErbCBIRvPNuL3QVpP2dgvQW11DFOoQXMWQAbZndb0M6DUElgIW=s320"/></a></div>Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-1862079482465770602022-01-22T09:13:00.004+01:002022-01-22T09:14:06.801+01:00BERLUSCA DISPERATO DISTOPICO POPDiavolo d’un cavaliere, è la mia ossessione, da quel dannato 26 gennaio 1994 in cui annunciò urbi et orbi la sua “discesa in campo”. Se ci pensate bene è una data che fa quasi il paio con quella (un tantinello più tragica) del 20 ottobre 1922 (a proposito quest’anno sono 100) che segnò la scesa in campo dell’altro cavaliere. Aldilà del giudizio politico, che non può essere che impietoso, non si può negare che la figura di Silvio Berlusconi sia ormai elevata sugli altari della cultura Pop al ruolo di irraggiungibile e impareggiabile Icona. La nomina a Presidente della Repubblica è vissuta dal Cav e dai suoi adoranti come il giusto compimento del percorso miracoloso intrapreso ben 28 anni orsono e c’è da giurare che l’acme sarebbe il posizionamento del suo ritratto dietro le scrivanie di tutti i capi delle Procure d’Italia. Sono pronto a scommettere che non esiste al mondo uno scrittore distopico capace di immaginare un momento del genere.
Oggi mi piace celebrare questo disperato tentativo del Cav con le pagine dei primi due numeri di una delle mie follie editoriali: IL BERLUSCONIERE un mensile a diffusione nazionale, ideato e realizzato con la mia indimenticabile e geniale amica Daniela Pellicanò, nel 2004.
Di seguito l’editoriale del primo numero datato Giugno 2004:
PAR CONDICIO… MA NON È
Un giornale di parte? Un giornale che viola la par condicio? Un giornale fazioso? Si!
Il Berlusconiere è tutto questo e anche di più; è il grido di dolore di chi non si rassegna a morire berlusconiano e spera in un ravvedimento, magari in zona Cesarini, del popolo-bue stregato dall’incredibile tycoon di Arcore. Ci vorranno decenni per recuperare la credibilità e il decoro della nostra nazione, distrutte dalle performance, al limite tra il guittesco e il demenziale, del nostro cosiddetto premier. Non so se avete notato, ma Berlusconi il meglio (quindi il peggio) di sé stesso lo da quando si trova all’estero, oppure in Italia ma al cospetto di leader stranieri. Questo la dice lunga sul provincialismo e sul complesso d’inferiorità che permeano tutte le sue azioni. Una politica estera fatta di pacche sulle spalle, abbracci, battute e barzellette cretine, esibizioni da guitto di terz’ordine, ostentazione di presunti rapporti confidenziali, è diventata la favola delle cancellerie di tutto il mondo. Sulle linee del fax e lungo le fibre ottiche della rete c’è un frenetico scambio di aneddoti e storielle che narrano le gesta, al limite della leggenda metropolitana, del capo del governo italiano. In Italia il modo di fare di Berlusconi scandalizza un po’ meno e anzi una congrua parte dell’elettorato del centrodestra manifesta una sorta di preoccupante (per le sorti della nazione) compiacimento. La famosa predizione di Indro Montanelli circa il dissolvimento del fenomeno Berlusconi, grazie a un meccanismo di autoannientamento, provocato dal diffondersi di una sorta di rimedio omeopatico (“lasciamolo operare con i suoi metodi, si distruggerà con le sue mani…”) si è rivelata infondata; anche il guru del giornalismo aveva peccato di ottimismo nel giudicare le capacità di ravvedimento dell’elettorato italiano.
Questo nostro giornalino è un donchisciottesco tentativo di affrontare mulini a vento che si chiamano Mondadori, Mediaset, Rai 1, Rai 2 e… quanto è lunga ‘sta lista! Siamo ansiosi di scoprire se qualcuno avrà la spudoratezza di accusarci di aver violato la par condicio: i Bondi, gli Schifano, i Tajani, i Vito sono sempre all’erta pronti a ringhiare in difesa del proprio padrone, loro non hanno il senso del ridicolo, quindi, rimarranno stupiti come cherubini ebeti, quando una risata li seppellirà.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-89568888006240477772021-11-11T10:54:00.000+01:002021-11-11T10:54:01.100+01:00PER LA CALABRIA L’IMPRESA ECCEZIONALE È ESSERE NORMALE“Ma l'impresa eccezionale, dammi retta è essere normale” diceva bene Lucio Dalla nella magnifica “Disperato erotico stomp”.
Il neopresidente Roberto Occhiuto promette cambiamento a piene mani e, dai primi passi compiuti, pare stia andando nella giusta direzione. Auguri quindi, a lui e a noi. Diciamocelo chiaramente: non ne possiamo più di essere eccezionali, il nostro desiderio è la normalità.
Fino ad oggi abbiamo avuto una delinquenza eccezionale, una magistratura inquirente fantasmagorica, una malasanità straordinaria, un inquinamento mostruoso, una malapolitica da manuale. Ora basta! Riportateci alla normalità e ve ne saremo grati.
Occhiuto si è imbarcato in un’impresa improba ma, consapevole com’è di operare in un contesto da ultima spiaggia, c’è da credere che ce la metterà tutta. Da subito dovrà mettere mano alla demolizione dei “mulini a vento”, in primis quegli <b>apparati burocratici mefistofelici</b> che hanno distrutto la politica facendola apparire peggio di quello che in realtà è. A seguire deve stanare le false lobby ambientaliste che hanno condizionato cinquant’anni di regionalismo, condannando la Calabria al degrado e al sottosviluppo.
Per risolvere il problema dei <b>rifiuti</b> è sufficiente un termovalorizzatore di nuova generazione in ogni provincia e il problema sarà risolto radicalmente.
In una regione con settecento kilometri di coste non si può concepire l’assenza di un’efficiente rete di <b>depurazione</b>.
Per la <b>sanità</b>, è sufficiente pianificare un programma di spese delle risorse già disponibili come bene hanno spiegato Rubens Curia e Francesco Costantino nel libro “Per una sanità partecipata” (Città del Sole edizioni, 2021).
Altro intervento cruciale deve essere operato nel campo della <b>viabilità</b>, è inconcepibile che tra i capoluoghi di provincia i tempi di percorrenza superino l’ora e mezza e che strade d’importanza strategica quali la 106 e la trasversale delle Serre siano ancora incomplete.
Depurazione, gestione rifiuti, sanità e viabilità che funzionano, sono le quattro ricette indispensabili per riportare nell’alveo della normalità una regione che, ripeto, non ne può più di essere eccezionale.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-8224101567028582972021-10-17T19:31:00.002+02:002021-10-17T19:31:14.775+02:00FASCISTI O VIOLENTI SELVAGGI?In questi giorni si è abusato del termine “fascista”, anche sull’onda emotiva conseguente gli scontri di Roma e l’assalto alla sede della CGIL. Si è abusato al punto tale da far apparire ragionevole finanche Giorgia Meloni, che in parlamento ha spiegato chiaramente cosa può accadere nel momento in cui gli addetti all’ordine pubblico perdono (volontariamente, come lei sostiene con malizia, o meno) il controllo della piazza. Chi si aspettava una replica del celebre “discorso del bivacco” all’interno “dell’aula sorda e grigia” di memoria mussoliniana, è rimasto deluso. La Giorgia nazionale ha avuto buon gioco a mettere alle spalle al muro la ministra dell’interno Lamorgese, apparsa chiaramente indifendibile. La Meloni sa bene che non si può togliere per legge dalla testa a chi si crede fascista di fare il fascista, ma sa altrettanto bene che non è questo oggi il problema principale della società italiana.
La parola-chiave “fascista” viene spesso tirata fuori dalla Storia e gettata nell’agone della cronaca ma, come ha chiarito più volte lo storico Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice: «La qualificazione di fascista nei modi in cui ora è adoperata, rischia di diventare un semplice e generico detto di contumelia, buono per ogni occorrenza, se non si tiene fermo il proprio suo significato storico e logico». Gentile è il più grande storico del fascismo da decenni e non si può prescindere dai suoi classici (due su tutti: “Le origini dell’ideologia fascista” del 1975 e “Storia del Partito fascista” del 1989 riedito nel 2021) se si vuole studiare a fondo il ventennio. Molto opportunamente due anni fa, Gentile, rendendosi conto della necessità di mettere un po’ d’ordine nell’interpretazione degli eventi, ha pubblicato con Laterza un agile pamphlet denominato “Chi è fascista”. Dalla sinossi del libro leggiamo: «A 100 anni dalla nascita del movimento fascista, a oltre 70 dalla fine del regime, 'il fascismo è tornato'. In rete e nei media l'allarme è al massimo livello. Caratteristiche del nuovo fascismo sarebbero: la sublimazione del popolo come collettività virtuosa contrapposta a politicanti corrotti, il disprezzo della democrazia parlamentare, l'appello alla piazza, l'esigenza dell'uomo forte, il primato della sovranità nazionale, l'ostilità verso i migranti. Fra i nuovi fascisti sono annoverati Trump, Erdoğan, Orbán, Bolsonaro, Di Maio, Salvini. Insomma, all'inizio del XXI secolo, trapassato il comunismo, disperso il socialismo, rarefatto il liberalismo, il fascismo avrebbe oggi una straordinaria rivincita sui nemici che lo avevano sconfitto nel 1945. Ma cos'è stato il fascismo? È stato un fenomeno internazionale, che si ripete aggiornato e mascherato? Oppure il 'pericolo fascista' distrae dalle cause vere della crisi democratica?». Gentile mette in guardia da una narrazione «che mescola fatti, invenzioni, miti, superstizioni, profezie, paure e illusioni. Una narrazione che inevitabilmente provoca l’anchilosi della mente critica e ci impedisce di comprendere il presente».
In un’intervista a Carmelo Caruso de <i>Il Foglio</i> è stato ancora più tranchant: «Non credo che abbia alcun senso, né storico né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo».
Spiega ancora il professore: «Cerco periodicamente di liberarmi da questa domanda (“sta tornando il fascismo?”) offrendo sempre la stessa risposta. Fascismo non significa più nulla quando diventa una parola che si può applicare a tutto. È come la mafia. Se tutto è mafia, niente è mafia. È ormai una delle quattro parole italiane entrate nel lessico internazionale insieme a spaghetti, pizza e appunto mafia. Non sappiamo neppure inventarci una nuova parola… è un’onda lessicale che si alza e si abbassa. Anche quello di oggi non è un effettivo ritorno del fascismo ma un uso sempre più elastico della parola».
La lucidità dello storico ci deve indurre a raddrizzare lo sguardo e focalizzare la nostra attenzione sulla realtà che ci sta davanti, che registra l’abbattersi di un’ondata di selvaggia violenza che non risparmia più, ormai, alcun angolo del globo.
Gentile è chiarissimo e non da spazio a interpretazioni diverse: «È l’età selvaggia. È l’età dei selvaggi. Un’età di ignoranza, di angoscia e di ostilità. Nasce da mezzi di informazione irrazionali e dalla stupidità. Come si può chiedere di essere ragionevoli quando in televisione si dà libero sfogo a tesi antiscientifiche? Non è più informazione ma qualcosa che ha a che fare con l’oroscopo» e ancora: «La pandemia ha colpito i miei familiari. Ho visto con i miei occhi gli effetti. Propongo visite guidate nei reparti di terapia intensiva. Non saremo mai cattivi. Ai selvaggi non augureremo mai quel dolore».
Alla stampa e ai media il compito di sfuggire alle codificazioni stereotipate dei fatti magari ricorrendo all’aiutino, come in questo caso, degli studiosi.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-88240531952113687442021-10-11T07:23:00.003+02:002021-10-11T07:23:26.513+02:00IL POLITICALLY CORRECT CHE INQUINA LA LETTERATURAAssegnato il premio Nobel 2021 per la Letteratura, la vittoria è andata a Abdulrazak Gurnah, tanzaniano, “per la capacità di raccontare a fondo gli effetti del colonialismo senza compromessi ma con compassione (sic!)”. Ora, a parte il fatto che avrei voluto vedere uno che racconta gli effetti del colonialismo scendendo a compromessi e pretenda di essere premiato, mi domando quando giungerà infine il tempo che l’alloro di Stoccolma sarà assegnato a seguito della valutazione della qualità letteraria e non esclusivamente in base all’impegno civile dello scrittore. Il virus micidiale del politically correct imperversa e non si intravede ombra d’immunità di gregge tra le pecorelle smarrite della letteratura.
Luigi Mascheroni su <i>Il Giornale</i> si chiede giustamente: «Perché non duplicare il premio Nobel e, ogni anno, assegnare due diversi riconoscimenti? Uno per l’impegno civile dello scrittore (anche se in parte esiste già: è il Nobel per la Pace) e uno per il valore letterario dell’opera. Così si potrebbe premiare sia un autore che si batte contro i grandi mali dei nostri tempi (e di quelli passati) come il colonialismo, il razzismo, il sessismo, il maschilismo, il White Power, i fascismi imperanti, viva i transgender, i diritti dei Maori, quelli degli Inuit, e la tutela dell’ambiente..., sia un grande autore che se ne frega degli stessi temi ma racconta storie, scritte bene, che hanno la pretesa di riempire la vita (cambiarla sarebbe troppo) a più persone possibili».
Il panorama della letteratura è ormai ammorbato da libri ibridi, saggi romanzati, romanzi storici o politici, centoni, zibaldoni, canovacci per sceneggiature di serie televisive, obiettivo quest’ultimo che costituisce il massimo dell’aspirazione per gli scrittori di ogni latitudine.
C’è da rimanere sgomenti alla domanda: a che punto è il romanzo contemporaneo?
Sembra finita inesorabilmente l’era del “romanzo puro”, i libri non appartengono più a un genere preciso e sono ridotti alla stregua di oggetti inclassificabili. La parola d’ordine è contaminazione e scrittura ibrida, il risultato sono libri noiosi, superficiali e piatti.
La tanto celebrata Annie Ernaux nel suo “Una donna” tiene, per esempio, a precisare: “questa non è una biografia né ovviamente un romanzo”. Per non parlare di Sandro Veronesi e del suo caotico (ma ben scritto, per carità!) “Il colibrì”, che l’editore, nell’aletta di copertina, arriva a definire: “Un romanzo potentissimo, che incanta e commuove, sulla forza struggente della vita” mettendo a dura prova la tenuta statica della tomba di Dostoevskij.
Certo non si può non amare Emmanuel Carrère, gran sacerdote dell’ibrido e maestro dell’azzeramento di confine tra verità e finzione, anche se il suo ultimo “Yoga” terrorizza sin dal primo claim pubblicitario: “libro per appassionati di complessità”.
Non è un caso che un grande affabulatore nostrano quale Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021, passi con disinvoltura dalla classifica di vendite della “saggistica” a quella della “narrativa”.
Torneremo al romanzo tradizionale d’impianto classico? I nostalgici dell’io narrante possono nutrire qualche speranza o saranno costretti a tirar giù dagli scaffali i classici dell’Ottocento?
In Italia una flebile luce l’ha accesa Giulia Caminito con il bel “L’acqua del lago non è mai dolce” e molte speranze le ripongo nell’ultimo di Alessandro Piperno “Di chi è la colpa”, ma di quest’ultimo mi riservo il giudizio dopo averlo letto.
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La condanna, secondo Travaglio, riguarda quindi non gli aiuti ai migranti, ma una serie impressionante di “pasticci finanziari con denaro pubblico”. Dall’associazione a delinquere, alla truffa aggravata allo Stato, al peculato, alla concussione, alla turbativa d’asta, fino all’immancabile e, direi, famigerato abuso d’ufficio, vera e propria spada di Damocle che pende inesorabilmente sul capo di tutti quelli che hanno a che fare con la pubblica amministrazione. Da bravo e, in questo caso, paterno questurino, Travaglio vuol dimostrarsi clemente nei confronti di Lucano, ammettendo che il severo giudizio di primo grado possa essere rivisto in sede d’Appello. La chiosa dell’articolo è in linea col nuovo corso grillino: “Sul piano politico e morale, a parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi. È possibile che agisse con le migliori intenzioni. Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole. L’impressione è che la nobile missione del ‘modello Riace’ gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni”.
Il nostro Marco è un po’ meno Travaglio del solito ma, naturalmente, si guarda bene dall’indagare sulle vere cause dei “pasticci” di Lucano e non pensa nemmeno lontanamente che magari possano risiedere tra le ovattate mura di qualche Prefettura o del Viminale, autorità che quando non sapevano dove sbattere la testa gli mandavano migranti “da gestire” con tanto di ringraziamenti ed elogi.
Tutt’altra musica da parte dell’ultragarantista <b>Adriano Sofri</b> che, su <b><i>Il Foglio</i></b> del 30 settembre, non esita a definire la condanna di Mimmo Lucano come “un totale ripudio del buon senso”, liquidando come uno sciocco luogo comune la convinzione generale che “le sentenze non si commentano”, sarebbe come levare il sale alla democrazia, aggiungo io.
Sofri sembra voler accendere i riflettori sulla strana e a dir poco avventurosa nomina del giudice Fulvio Accurso a presidente del Tribunale di Locri, quando improvvisamente frena, lasciando sospese nell’aria le pesanti illazioni che sembrava pronto ad imbastire. Severo è comunque il suo giudizio sulla sentenza: “…la condanna pressoché raddoppiata non è solo il ripudio del buon senso confrontato con la lettera della legge, né la severità feroce che respinge come intrusa umanità e buon senso: è una bravata. Per far riuscire il calcolo, ha dovuto negare agli imputati, incensurati, le stesse attenuanti generiche, e negare la ovvia continuazione del reato. Perché? Bisognerà che lo spieghi lui, il giudice, e immagino che vorrà tenere per sé la stesura delle motivazioni, dopotutto è la gran festa della sua vita. Ma le motivazioni non basteranno. Dev’esserci qualcosa d’altro in una simile messinscena della giustizia, in una simile rivalsa sul suo pubblico tramonto. Sapete che cos’è una sentenza suicida. È una sentenza deliberatamente assurda, e assurdamente motivata, per garantirsi l’annullamento nei gradi successivi. Un inganno vergognoso, di solito perpetrato per rivalersi da giudici togati e soprattutto dai giudici popolari dell’assise che abbiano imposto un’assoluzione non voluta dal presidente. Qui, dove tutto sembra ribaltato, la sentenza sfida l’assurdità a vantaggio dell’oltranza. Fama del piccolo sindaco, popolarità nazionale, classifiche internazionali che lo mettono al secondo posto fra i sindaci del pianeta, al quarantesimo dei cento personaggi più influenti, alla candidatura al Nobel: una carriera che va schiacciata col doppio della tracotanza. Ha creduto di ‘dominare’ Riace (così l’accusa) rendendola extraterritoriale, facendosi la sua propria legge, procurando matrimoni di donne straniere e facendo ripulire il paese coi somari, fottendosene dello stato”. Implacabile, quindi, la sentenza di Sofri nei confronti della Giustizia italiana, inguaribilmente sfregiata da deleteri e macchinosi bizantinismi.
Bisogna infine giungere alle pagine de <b><i>Il Manifesto</i></b> del 2 ottobre e alla penna di <b>Carmine Fotia</b>, per ottenere una chiave di lettura opportunamente “meridionalista” e squisitamente politica della vicenda. Fotia definisce agghiacciante “la sentenza che ha condannato Mimmo Lucano a una pena esorbitante, 13 anni e due mesi, come quelle che prima i tribunali sabaudi e poi quelli fascisti comminavano ai ribelli calabresi che trattavano alla stregua di briganti”. E ancora: “Il problema non è la fisiologica differenza di giudizio sull’interpretazione dei fatti tra giudici, bensì il rovesciamento del significato delle azioni commesse: per inserire persone svantaggiate secondo la Cassazione, per ottenere consenso e potere secondo il tribunale di Locri. E anche l’entità della pena che addirittura raddoppia la richiesta dell’accusa va al di là di possibili errori e violazioni di norme di legge: la condanna è degna del capo di una vera e propria organizzazione criminale”. Carmine Fotia sottolinea come si sia fatta strada “una cultura giustizialista che criminalizza l’accoglienza trasformando migliaia di volontari in potenziali criminali e militanti politici come Mimmo Lucano in pericolosi delinquenti”. La sua chiave di lettura meridionalista sottolinea come la sentenza produca “il rafforzarsi di una grottesca narrazione della Calabria come luogo irredimibile, territorio da bonificare con le buone o le cattive, dove i buoni sono solo un pugno di coraggiosi magistrati che vogliono rivoltarla come un calzino per purificarla dal male. Per fortuna ci sono scrittori e scrittrici come Mimmo Gangemi, Gioacchino Criaco, Katia Colica, che avanzano letture più profonde, colte, più in grado di leggere la drammatica complessità di una terra dura e spesso ingiusta che non ha bisogno di liberatori bensì di poter liberare le proprie energie, come ci ricorda lo storico Ilario Ammendolia nel suo piccolo ma prezioso libro per capire i danni del paradigma giustizialista (La ‘ndrangheta come alibi, Città del Sole Edizioni)”.
Esattamente quello che faceva Mimmo Lucano, immaginando che per sottrarre la Calabria all’egemonia e al controllo asfissiante della ‘ndrangheta non basti la repressione, tanto più quando spettacolarizzata, bensì serva affermare nella pratica quotidiana una cultura del rispetto e della dignità di ogni essere umano che è alternativa alla cultura dell’appartenenza e del sangue che è il cuore della cultura mafiosa.
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-5202984687151885342021-10-03T20:18:00.006+02:002021-10-03T22:31:18.877+02:00IL MILLENNIO BIZANTINO E LE SUE FIGURE FANTASTICHE E CONTROVERSE<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXwRCGmR6ybIy-acSn5H-y6Tvmz1_mBh7fCYI6W6ZH_gTO6nSL0exLVdExGcEK59gK7UgxwT7-03fYcpr-cjI7epAJcdfijSeIowD_GcbyMd4Wdc2iR0adqudfL_3X7BU-Gg_9doKAaj0/s1920/1920px-Mosaic_of_Theodora_-_Basilica_San_Vitale_Ravenna_Italy.webp" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1098" data-original-width="1920" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXwRCGmR6ybIy-acSn5H-y6Tvmz1_mBh7fCYI6W6ZH_gTO6nSL0exLVdExGcEK59gK7UgxwT7-03fYcpr-cjI7epAJcdfijSeIowD_GcbyMd4Wdc2iR0adqudfL_3X7BU-Gg_9doKAaj0/s320/1920px-Mosaic_of_Theodora_-_Basilica_San_Vitale_Ravenna_Italy.webp"/></a></div>
Meritevole iniziativa editoriale del Corriere della Sera che, in abbinata al quotidiano, ha mandato in edicola la collana “Medioevo” in 35 volumi curati, manco a dirlo, da Franco Cardini.
Uno dei titoli più interessanti è certamente il classico “Figure bizantine” di Charles Diehl (1859-1944) celebre professore di Storia bizantina alla Sorbona. Si tratta di una ricca storia dell’Impero greco d’Oriente che, come ben scrive Silvia Ronchey nella prefazione, “disegna un vero florilegio storico, prosopografico, letterario, estetico, del millennio bizantino. … Sono pochi, tra i sedimenti della storiografia novecentesca, quelli che ancora brillano alla luce del ventunesimo secolo. Le Figure di Diehl sono tra questi.”
La storiografia ufficiale del Novecento ha, volutamente o meno, disegnato un’immagine stereotipa e distorta della corte di Bisanzio come regno esclusivo di intrighi da gineceo. Il senso spregiativo che diamo ancora oggi all’aggettivo “bizantino” e anche l’irragionevole percezione della storia bizantina come “decadenza infinitamente protratta”, hanno radice nella pruderie che permeava il partito borghese degli eruditi, di cui lo stesso Diehl era parte predominante.
Il gran merito di questo libro consiste nell’aver rilevato, tra l’altro, una dimensione sostanziale: la preminenza, stabilità e autorevolezza del potere femminile lungo tutti gli undici secoli di Bisanzio.
“Duttili e delicati spiriti femminili così pronti, nella loro complessità, a ricevere tutte le influenze, a riflettere tutte le tendenze del cangiante mosaico dell’impero”, le donne bizantine che Diehl scoprì -da Irene di Atene a Teofano, da Zoe Porfirogenita ad Anna Dalassena, da Anna Comnena a Irene Ducas, fino alle spose occidentali dell’ultima dinastia imperiale di Bisanzio, i Paleologhi- sono “menti straordinarie e anime mediocri, grandi ambiziose e figure devote”, non meno spregiudicate e incisive di personaggi maschili quali Basilio il Macedone, Leone il Saggio o “quel don Giovanni bizantino che fu Andronico Comneno”.
“Non solo la celeberrima Teodora di Giustiniano” verrebbe da dire, in undici secoli nel palazzo imperiale di Bisanzio e nella chiesa di Santo Stefano del Palazzo, si sono avvicendate basilisse che giungevano tra le braccia del basileus attraverso un accuratissimo e sofisticato sistema di scouting che percorreva tutte le vie dell’impero per selezionare la compagna giusta per l’imperatore. Scrive Diehl: “È chiaro che i basileis non tenevano poi eccessivamente ai quarti di nobiltà, e che una qualsiasi bella ragazza poteva sembrar loro un’imperatrice accettabile. Il fatto era che le cerimonie solenni che accompagnavano l’incoronazione e le nozze erano sufficienti a conferire alla futura sovrana una personalità del tutto nuova e a trasformare la povera ragazza di ieri in un essere sovrumano, incarnazione vivente del potere assoluto e della divinità. Non starò a descrivere dettagliatamente il pomposo cerimoniale, poiché queste solennità bizantine si somigliano tutte un po’ nella loro monotona magnificenza… ma basterà ricordare qualche atto simbolico, qualche gesto caratteristico, che mettono a fuoco tutta la maestà insita nel titolo glorioso di imperatrice di Bisanzio. Un esempio, tanto per cominciare, è che le nozze fanno seguito all’incoronazione e non la precedono”.
Diehl avverte giustamente che “nella storia di una società scomparsa ciò che deve maggiormente attirare l’attenzione non sono le grandi imprese belliche, né le rivolte di palazzo o di caserma… quelli che bisogna cercare di rintracciare e che ci possono maggiormente ragguagliare, sono gli aspetti molteplici dell’esistenza quotidiana, i modi diversi di essere e di pensare, i comportamenti e le usanze, in una parola la civiltà”, “…ciò che noi conosciamo di meno, ciò che i documenti ci permettono meno agevolmente di intravedere, e ciò che, forse, ci interessa di più sono i sentimenti, i modi di essere e di pensare, la condizione e la vita intima delle classi medie…”, “Il grande uomo, per il solo fatto di essere grande, conserva sempre qualcosa di personale, di fuori dalla norma; mentre la persona di condizione media, in generale non è altro che l’archetipo di un modello ampiamente ripetuto e acquista così una sorta di valore rappresentativo. Conoscerne uno vuol dire conoscerne migliaia… e queste migliaia sono la materia oscura con cui si fa la Storia…”.
Non manca una meravigliosa descrizione della Costantinopoli del V secolo: “…nonostante il suo carattere di capitale cristiana rimaneva profondamente impregnata di memorie pagane. Arricchita da Costantino e dai suoi successori delle più splendide spoglie dei santuari antichi, esibiva in piazze e palazzi i più famosi capolavori della scultura greca, ed era come se in questo museo incomparabile gli dèi decaduti serbassero ancora il loro prestigio e la loro gloria”.
Il capitolo dedicato a Teodora e alla Storia segreta che la riguarda, assume i contorni del romanzo d’appendice, basterebbe solo la descrizione di Alessandria: “La capitale egiziana non era certamente solo un grande centro commerciale, una città elegante e ricca, corrotta e di facili costumi, paese d’elezione di celebri cortigiane. Dal IV secolo era anche una delle capitali del cristianesimo”, e, guarda caso, una sosta abbastanza lunga ad Alessandria fu determinante nell’esistenza della bella Teodora che possedeva alcune di quelle eminenti qualità che legittimano la ricerca dell’autorità suprema: avvenenza, intelligenza superiore, ambizione e sete di potere, energia feroce, fermezza virile, e “un freddo coraggio che si dimostrò all’altezza delle circostanze più difficili. Col risultato che nei ventun anni in cui regnò accanto a Giustiniano ella ebbe un’influenza profonda e legittima su un marito che l’adorava” e ancora oggi il nome di Teodora è associato a quello dell’imperatore, in San Vitale, a Ravenna, la sua immagine nei mosaici dimostra come Giustiniano aveva voluto condividere con Teodora i trionfi militari e le più fulgide glorie del regno. Il 18 gennaio 532 quando Giustiniano, assediato dagli insorti, non vedeva altro scampo che la fuga, Teodora indignata dalla viltà che la circondava richiamò imperatore e ministri al loro dovere, salvando così il trono di Giustiniano: “Quand’anche non mi restasse altra salvezza che la fuga, io non fuggirei. Chi ha cinto una corona non dovrebbe sopravvivere alla sua perdita. Che io possa non vedere il giorno in cui non mi saluteranno più con il titolo di imperatrice! Se tu, o Cesare, decidi di fuggire, fallo pure: non ti manca il denaro per farlo, ed ecco laggiù il mare, con le tue navi pronte nel porto. Quanto a me, io resto. Mi attengo all’antica massima: la porpora è il più glorioso dei sudari.”
In realtà Teodora va iscritta di diritto nella grande famiglia degli imperatori bizantini, i quali hanno sempre saputo intravedere sotto l’apparenza effimera e mutevole delle dispute religiose il fondo permanente di un problema politico, mentre Giustiniano, teologo puro, si occupava di contese religiose per il gusto della controversia, per il piacere sterile del dogmatismo.
La galoppata di Diehl lungo i secoli bizantini non manca di analizzare le dispute, una per tutte quella delle immagini, che generarono persecuzioni crudeli e violenze inaudite. La pratica dell’accecamento, che sostituiva cinicamente la pena di morte, era praticata con tale frequente disinvoltura da rendere intollerabile la lettura delle cronache di quegli anni; l’imperatrice Irene moglie di Leone IV e tutrice di Costantino VI (il suo regno viene definito da Diehl come uno dei più sbalorditivi) non esitò a eseguire una lunga sequela di sentenze brutali e cruente, il cui culmine fu l’ordine dell’accecamento del figlio al fine di succedergli, lei donna, con il titolo di imperatore: “Irene, gran basileus e autocrate dei Romani”.
Lo splendore del palazzo imperiale raggiunse l’apogeo a partire dal 829, anno dell’insediamento di Teofilo, figlio di Michele II di Amorio. “All’imperatore piaceva edificare. Agli antichi appartamenti di Costantino e di Giustiniano aveva aggiunto tutta una serie di costruzioni sontuose, adornate col gusto più squisito e ricercato. Amante dello sfarzo e della magnificenza, per ravvivare la grandiosità dei ricevimenti a palazzo aveva commissionato ai suoi artisti delle meraviglie di oreficeria e di meccanica: il Pentapirgio, famoso armadio d’oro in cui si esponevano i gioielli della corona, gli organi d’oro che suonavano nei giorni di udienze solenni, il platano d’oro che si ergeva accanto al trono imperiale e sul quale uccelli meccanici volteggiavano cantando, i leoni d’oro accucciati ai piedi del sovrano che a tratti si drizzavano, agitavano la coda, ruggivano, e i grifoni d’oro dall’aspetto misterioso che sembravano vegliare, come nei palazzi dei re asiatici, sulla sicurezza dell’imperatore”. Teofilo, tutto preso dalla sua passione per l’arte sfarzosa, trascurò l’educazione del figlio Michele III che si rivelò “marcio nel profondo” e asceso al trono giovanissimo, alla morte prematura del padre, si abbandonò a una condotta sciagurata e demenziale; le cronache del tempo tratteggiano il suo regno come uno dei momenti più bassi dell’era bizantina.
Sorvolando, per brevità su molti altri personaggi di gran rilievo, due su tutte Teofano (vera e propria femme fatale) e Zoe la Porfirogenita (“la sua storia è certamente una delle più piccanti che ci abbiano serbato gli annali bizantini… ha riempito il palazzo imperiale delle sue avventure scandalose…”), giungiamo al XII secolo nel cui corso la seconda e la terza crociata misero ancora una volta in contatto antagonista Bizantini e Latini: “Da parte dei guerrieri indisciplinati della crociata ci sono i soliti saccheggi, le solite violenze, le solite pretese imperiose; da parte dei Greci ci sono i soliti mezzi, spesso molto sleali per sbarazzarsi dei visitatori scomodi e togliergli la voglia di ritornare”. Quando agli antichi rancori cresciuti a dismisura si aggiunse, sempre più chiara, la consapevolezza della ricchezza e anche della debolezza di Bisanzio, i Latini non resistettero più alla tentazione. I baroni della Quarta crociata, partiti per la conquista del Santo Sepolcro, finirono per conquistare Costantinopoli e per rovesciare il trono dei basileis con la tacita complicità del papa e l’applauso universale del mondo cristiano.
“L’instaurazione di un impero latino sulle rovine della monarchia di Costantino offendeva troppo crudelmente il patriottismo bizantino perché questa soluzione brutale potesse calmare i vecchi rancori e placare l’antagonismo dei due mondi”.
È chiaro che ogni crociata ha avuto come conseguenza la fondazione di uno Stato latino in Oriente. “Fu come un pezzo di Europa feudale trasportata sotto il cielo d’Oriente”.
Ma come ben sottolinea Diehl (e se vogliamo questa è proprio la chiave del libro): “E se, come sempre accade quando si fronteggiano due civiltà ineguali, la meno avanzata di esse -era allora il caso di quella occidentale- subì potentemente l’influenza delle civiltà superiori, araba, siriana, bizantina con cui fu in contatto, pur ricevendo molto essa dette anche molto in cambio”.
E se l’Occidente trasse un notevole beneficio nel campo delle scienze e del pensiero, manifestò senza alcun dubbio una grande influenza sul mondo greco nel campo dei fenomeni sociali.
Su tutto troneggia “l’incommensurabile orgoglio dei bizantini, coscienti della loro lunga tradizione di civiltà, di non essere per nulla dei barbari”.
Memorabile il grande disprezzo con il quale l’altra grande principessa bizantina Anna Comnena (1083-1153), moglie di Niceforo Briennio, bolla i crociati: “…di quei barbari rozzi di cui si scusa perfino di dover introdurre nella sua storia i nomi grossolani; doppiamente offesa nel suo amor proprio letterario di sentire il ritmo della frase rotto da quei vocaboli stranieri, e nella sua arroganza imperiale di dover perdere tempo a occuparsi di quegli uomini che la disgustano e la tediano”.
Giungiamo quindi a un altro personaggio chiave, Andronico Comneno, modello perfetto del bizantino del XII secolo, con tutte le sue qualità e con tutti i suoi vizi che Diehl non esita a definire “Il Cesare Borgia d’Oriente”. Indifferente in materia religiosa, al contrario della maggior parte dei Bizantini provava una noia insostenibile per le dispute teologiche. Morì dopo un atroce supplizio nel 1185 a sessantacinque anni, dopo aver riempito tutto il XII secolo del clamore delle sue avventure, dello splendore delle sue nobili virtù e dello scandalo dei suoi vizi. “La sua vita, fantastica quanto un romanzo, è una delle più pittoresche della storia di Bisanzio. Con i suoi colpi di testa e di spada, le sue evasioni e i suoi amori, le sue disgrazie e i suoi ritorni in auge, questo avventuriero prodigioso, vera e propria incarnazione del ‘superuomo’, seduce ancora i posteri come sedusse i suoi contemporanei”. La sua personalità potente offre qualcosa di più di un interesse aneddotico: è singolarmente caratteristica e rappresentativa. “Nella vita di questo principe geniale e corrotto, tiranno abominevole e grande uomo di Stato che invece di salvare l’impero come avrebbe potuto non fece che affrettarne la rovina, si trovano effettivamente, riuniti in sintesi, tutti i tratti essenziali, tutti i contrasti di questa società bizantina, strano miscuglio di bene e di male, crudele, atroce, decadente, ma anche capace di grandezza, di energia, di impegno. Una società che per secoli, in tutti i momenti torbidi della sua storia, è sempre riuscita a trovare in sé stessa le risorse per vivere e per durare, e non senza gloria”.
Nemmeno a Bisanzio, come in ogni luogo e in ogni epoca, gli intellettuali se la passavano granché, “nonostante il rinascimento letterario che contraddistinse l’epoca dei Comneni, le lettere non davano da mangiare. Si professava il massimo rispetto per la letteratura, ma gli scrittori erano ridotti all’accattonaggio”. Uno dei testimoni più importanti dell’epoca, vero prototipo dell’uomo di lettere a Bisanzio, Teodoro Prodromo, in rari momenti d’orgoglio, malgrado la sua miseria, si felicitava che le cose stessero così, dato che la povertà si accompagna sempre al talento: “Data l’impossibilità di essere allo stesso tempo filosofo e ricco, preferisco restare povero e con i miei libri”.
Nel 1146 arriva sulla scena un’altra donna memorabile, Berta di Sulzbach che sposa Manuele Comneno e salendo al trono prende il nome bizantino di Irene, simbolo della pace ristabilita tra il suo paese natale, la Germania, e la nuova patria. Irene, moglie sfortunata perché sterile, ammaliò sudditi e cortigiani sia per la sua avvenenza che per la sua cultura. Sopportò i tradimenti del marito e riuscì a mantenere il suo ruolo fino alla morte anche per motivi geopolitici, considerata l’importanza strategica dell’intesa tra Bisanzio e il suo paese d’origine.
A Berta-Irene seguirono Agnese di Francia e Costanza di Hohenstaufen, “c’è qualcosa di malinconico nei destini di queste principesse d’Occidente che nel XII e XIII secolo se ne andarono a regnare sull’impero di Bisanzio; la loro figura lontana, quasi evanescente, trattiene in sé una grazia commovente. Trapiantate lontano dal paese natale per i giochi della politica, rimaste quasi sempre estranee alle novità del mondo in cui la sorte le aveva proiettate, queste principesse in esilio hanno dato triste prova, a quell’epoca, dell’impossibilità d’intesa tra Latini e Greci. Coinvolte nei più grandi avvenimenti della storia, ne sono state più che altro le vittime… hanno visto grandi cose (all’ombra dei rispettivi consorti) ma raramente le hanno dirette. Gli splendori della Bisanzio del XII secolo, le tragedie delle rivoluzioni di palazzo, la Quarta crociata e la fondazione di un impero latino a Costantinopoli, la politica orientale di un Federico II illuminano di un fulgore prestigioso le figure incerte di quelle principesse dimenticate. Ma la loro storia, soprattutto, testimonia l’abisso che le crociate finirono di scavare fra Oriente e Occidente. Mai, forse, questi due mondi hanno fatto sforzi più numerosi e più sinceri per compenetrarsi, per comprendersi, per unirsi. Ma, nonostante la reciproca buona volontà, hanno fallito clamorosamente nei loro tentativi”.
E il destino vuole che sia proprio un’altra occidentale, italiana questa volta, Anna di Savoia, moglie di Andronico III (Corte dei Paleologhi) ad assumere, con la sua fatale resa (dopo una lunga guerra civile) al ‘gran domestico’ Giovanni VI Cantacuzeno e con tutti gli errori del suo governo e soprattutto con le richieste d’aiuto rivolte ai peggiori nemici dell’impero, la pesante responsabilità della decadenza e della rovina finale dell’impero bizantino.
Diehl va giù pesante con la Savoia: “Mai prima d’allora si era vista una principessa bizantina sposata a un musulmano; mai prima d’allora s’erano visti i turchi stabiliti in Tracia come a casa propria e i tesori della Chiesa utilizzati per soddisfare le esigenze degli infedeli… si permettevano libertà inaudite… si sentivano i padroni da vincitori della guerra civile… Non si sbagliavano. Cent’anni più tardi, in una Costantinopoli conquistata, in una Santa Sofia saccheggiata, la mezzaluna avrebbe rimpiazzato per secoli la croce. Il regno di Anna di Savoia contiene le cause lontane ma certe di questa catastrofe finale. E si ha il diritto di deplorare il fatto che, al contrario di tante principesse d’Occidente oscure e evanescenti passate sul trono di Bisanzio, questa abbia voluto e potuto ottenere un ruolo che, poco intelligente qual era, non poteva che svolgere miseramente”.
Gli ultimi secoli agonici dell’impero vedono avvicendarsi al potere con alterne fortune, gli ultimi eredi dei Paleologhi con una nutrita schiera di spose occidentali; il pericolo turco aumentava di giorno in giorno e l’impero bizantino, stremato, non vedeva altra risorsa se non nell’aiuto dell’Occidente. “Nonostante il dissenso profondo, nonostante l’antipatia secolare che separava Greci e Latini, gli uomini del XV secolo fecero seri sforzi per riconciliare Oriente e Occidente e assicurare con la loro concordia il traballante impero di Bisanzio”. Gli italiani ebbero un ruolo predominante, “Venezia era ovunque”, il pericolo comune della conquista musulmana avvicinava tutti i principati, una miriade di matrimoni strategici cercò invano di arginare la deriva.
I Turchi Ottomani, guidati dal sultano Maometto II, conquistarono Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti.
Con la caduta della capitale, ufficialmente conseguente alla morte dell'imperatore Costantino XI Paleologo (1449-1453), l'Impero Romano d'Oriente, dopo 1058 anni, cessò di esistere.
Secondo alcuni storici questa data alternativamente alla scoperta delle Americhe, è da intendere come la fine del Medioevo e l'inizio dell'era moderna.
Charles Diehl, Figure Bizantine, Corriere della Sera 2021 € 8,90, pagg. 490
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsqykk-n0HXS-F6DEkArJzz0TH9FNsuXkwwTBc3e2abtzGaNXpPilsMxQ6ekBQcNzUQfIRSc3gg0b-vUJU24xHIUIZ_w1Acs92a2pyGFqs7kP3V8WPCjoSq_Q6iJGp67hxW7dwH_nlMsc/s1743/Teofano+865-897.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1178" data-original-width="1743" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjsqykk-n0HXS-F6DEkArJzz0TH9FNsuXkwwTBc3e2abtzGaNXpPilsMxQ6ekBQcNzUQfIRSc3gg0b-vUJU24xHIUIZ_w1Acs92a2pyGFqs7kP3V8WPCjoSq_Q6iJGp67hxW7dwH_nlMsc/s320/Teofano+865-897.jpeg"/></a></div>Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-54261562536464859242021-08-08T17:59:00.002+02:002021-08-08T17:59:26.225+02:00LA PARCELLA A ZAHA HADID L'HA SALDATA FALCOMATÀDalle pagine di Gazzetta del Sud, che correttamente lo scorso 1° agosto ha pubblicato la mia precisazione, il principale corifeo di quel poco che resta della destra Scopellitiana, Lucio Dattola, ha ripreso maldestramente l’argomento della presunta incapacità, o mala voglia, del sindaco Giuseppe Falcomatà di cantierizzare e completare le “favolose opere pubbliche” sognate e commissionate da Giuseppe Scopelliti nel periodo della sua reggenza. Dattola, addirittura, in un intervento pubblicato dalla Gazzetta del Sud, si spinge ad esortare Falcomatà a “limitarsi a completare a ultimare quanto ideato, progettato e iniziato da quel visionario di Peppe Scopelliti…”. Ora è evidente che non tocca a me difendere Giuseppe Falcomatà, anche perché da gennaio 2020 son tornato a fare il mio antico mestiere ma, francamente, di fronte a certe affermazioni non riesco a tacere, anche per una forma di deontologia professionale. Si da’ il caso, infatti, che durante l’espletamento del mio incarico a Palazzo San Giorgio nello staff del sindaco, mi sono imbattuto, proprio nei giorni d’inizio del primo mandato, in un plico contenente un decreto ingiuntivo internazionale proveniente da uno studio di architettura londinese. Dattola parla di Scopelliti come di un visionario appassionato amante della sua città; l’estro ironico di Lucio è universalmente riconosciuto, ma il suo amore per Peppe vola al sopra di ogni cosa, senso del ridicolo compreso, e così non ha tenuto in conto che quel visionario di Scopelliti era talmente preda delle sue visioni che si ritrovava a trascurare le cose terrene. Tra queste il pagamento della mega parcella dell’archistar anglo-iraniana Zaha Hadid, l’ideatrice del tanto celebrato Waterfront, scomparsa purtroppo prematuramente il 31 marzo del 2016.
Stiamo parlando di un milione e trecento ventimila euro, pagati nel 2016 dall’amministrazione Falcomatà, di cui 120 mila euro solo di spese legali e di notifica del decreto ingiuntivo internazionale.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqCXMmxPE3ZcJ6cTcXzN5WjH7YVgZ6mfMAT-5EAuh2fvrC_hbdiAIuzhyphenhyphenWzuIFDDN9mDeHOXyDU8hX0Mahnt88CQMo3jinyeAILl9Ct1SeYceUwwH2CSQcw9uQUOnCit_p1F8qRO5YEAg/s2508/Waterfront+Zaha+Hadid.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="1254" data-original-width="2508" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqCXMmxPE3ZcJ6cTcXzN5WjH7YVgZ6mfMAT-5EAuh2fvrC_hbdiAIuzhyphenhyphenWzuIFDDN9mDeHOXyDU8hX0Mahnt88CQMo3jinyeAILl9Ct1SeYceUwwH2CSQcw9uQUOnCit_p1F8qRO5YEAg/s320/Waterfront+Zaha+Hadid.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAS0qW-a5wF7-qG9Ne7oyBbgHwoxkf54piDHrdDC6KbQ3WfdOcJ7QfkNRd_SFCPWm7-joBQHP8Wa3N569GqjdO-BT3z7qzw3qHlB83_8IyHwezjjeVX76bqKDQZhgTA5GQ0FHhyl-nFx4/s851/Gazzetta+del+Sud+1.8.21+mia+precisazione+su+parcella+Zaha+Hadid.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="337" data-original-width="851" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiAS0qW-a5wF7-qG9Ne7oyBbgHwoxkf54piDHrdDC6KbQ3WfdOcJ7QfkNRd_SFCPWm7-joBQHP8Wa3N569GqjdO-BT3z7qzw3qHlB83_8IyHwezjjeVX76bqKDQZhgTA5GQ0FHhyl-nFx4/s320/Gazzetta+del+Sud+1.8.21+mia+precisazione+su+parcella+Zaha+Hadid.jpg"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-49979216827242462332021-03-08T19:09:00.002+01:002021-03-08T19:09:23.588+01:00BENVENUTI A LUMACHE, IL PAESE DELLE VAVEPiù che la “new wave” della letteratura calabrese, "Lumache", il nuovo romanzo di Anton.francesco Milicia e Antonio Tassone, rappresenta le “new vave”. Sono le <i>vave</i>, appunto, il filo conduttore di questo avvincente narrato ambientato nella Locride in cui ironia, mistero, sesso e potere formano un tutt’uno armonico e appassionante, dalla prima all’ultima delle 480 pagine.
In realtà, sembrano due romanzi in uno: la prima parte, infatti, ripercorre le vicende di un paesotto di mare – “Lumache”, appunto – che ricorda la “Piccola città eterna” di Ligabue o, nell’accezione meno benevola, la “Piccola città, bastardo posto” di Guccini; nella seconda, invece, la storia assume i contorni di un noir senza sconti, in cui un personaggio apparentemente di secondo piano nella prima parte del romanzo, diviene protagonista assoluto e risolve, con caparbietà e un pizzico di fortuna, un caso particolarmente intricato.
Già, perché a Lumache non ci sono solo le <i>vave</i>, le tresche, i pettegolezzi e i retroscena tipici dei posti in cui tutti conoscono tutti. No, ci sono anche omicidi inquietanti, intrighi politici, affari milionari e indagini della magistratura.
E se Antonio Tassone, al suo romanzo d’esordio, ci mette la tipica ironia pungente, fino ad immedesimarsi in uno dei personaggi del romanzo, Anton.francesco Milicia apporta la sua anima noir e la sua capacità narrativa già dimostrata ampiamente nei suoi tre precedenti romanzi, in cui una trama robusta e variegata trova efficacemente la sua sintesi conclusiva in cui tutti i protagonisti, apparentemente accantonati, tornano alla ribalta, ognuno col proprio destino.
E allora, lasciamo al lettore il piacere di farsi cullare dal ritmo lento della vita di "Lumache", in cui c’è sempre tempo per scambiare due chiacchiere con l’ambizioso architetto, l’arrivista avvocatessa Ferrari, o per uno sguardo lanciato con concupiscenza alla provocante tabaccaia Daniela, sotto l’occhio vigile (benché strabico) di un calzolaio che dall’angolo della piazza principale tiene tutto e tutti sotto controllo, tra il pericolo di cannonate a un pasticcere fascista e le ingombranti incursioni del clochard Canigghia.
Fin qui la recensione di <i>MAG ladra di libri</i>, pubblicata il 12 luglio del 2018 sul portale “Locride è Cultura”.
"Lumache" è stato un vero caso editoriale, cinquanta presentazioni in pubblico in tanti centri della regione, accolto con entusiasmo da lettori di ogni età.
Leggiamo dal prologo, “Il lento resistere”. “A Lumache il tempo fluisce lentamente, scivola via giorno dopo giorno senza fare troppi capricci, come se il nome di questo luogo, strisciando attraverso i secoli, si fosse arrogato il compito affettuoso di decidere quali fossero gli aggettivi adatti per raffigurarne l’identità”.
Gli aggettivi sono: Lento, Viscido e Cornuto!
Tutto è determinato dallo scorrere delle <i>vave</i> (le bave biancastre e appiccicose). “Le <i>vave<i><i></i></i></i>, fatte della stessa materia nebulosa dei sogni, rappresentano la inossidabile falsità nascosta in un qualsiasi concentrato umano di carne e spirito, e ne sintetizzano il tanto vero quanto bugiardo genius loci. E dunque: benvenuti a Lumache. Il paese delle vave.”
Anton.francesco Milicia, Antonio Tassone, Lumache, Città del Sole edizioni, 2018, pagg. 480, € 20,00
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8-Ub6YBc87hPDMUXdGP53lyIWzmDwrbxOC4R4ZYWXtGHpeyyBdihSRdcq37ewvu5oVFbRUmqVCoZovJRizOyCpQOHvwCX6OeBlVnSfMqCT0vextpDNGPHjd-ynU6R73VEzg2VJfl6fUA/s2048/Lumache.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="2048" data-original-width="1436" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi8-Ub6YBc87hPDMUXdGP53lyIWzmDwrbxOC4R4ZYWXtGHpeyyBdihSRdcq37ewvu5oVFbRUmqVCoZovJRizOyCpQOHvwCX6OeBlVnSfMqCT0vextpDNGPHjd-ynU6R73VEzg2VJfl6fUA/s320/Lumache.jpg"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-80192264932346669842021-03-08T17:56:00.006+01:002021-03-08T18:05:25.911+01:00ANILDA IBRAHIMI TRA MACRO E MICROSTORIAAnilda Ibrahimi è una grande narratrice e questo “Il tuo nome è una promessa” (2017) si colloca appena un passo sotto lo straordinario “Rosso come una sposa” (2008) di cui ho parlato sul blog il 25 gennaio 2009. La Ibrahimi è abile nel tessere le microstorie della sua terra d’origine, l’Albania, nel telaio della macrostoria. La sua terra non è certo avara di Storia, fu Winston Churchill a dire: "I Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire".
Anilda Ibrahimi è nata e cresciuta nell’Albania Comunista di Enver Hoxha ed è quindi inevitabile che la sua metodologia narratologica sia condizionata da realtà e avvenimenti che lei presume abbiano avuto luogo e che i suoi personaggi si confondano con quelli della vita reale. Il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov sosteneva che l'opera letteraria è storia e discorso allo stesso tempo. “Storia in quanto comprende una certa realtà e avvenimenti che si presume abbiano avuto luogo e personaggi che si confondono con quelli della vita reale. Ma l'opera letteraria è al tempo stesso discorso perché vi è un narratore che narra la storia e un lettore che la percepisce e a questo livello, quello che ha importanza non sono gli avvenimenti raccontati ma il modo in cui il narratore li ha fatti conoscere.”
Lo scrittore, il cui linguaggio non può essere neutrale, attinge alle risorse mentali che sono inevitabilmente condizionate dall’impatto degli eventi nel vissuto diretto e quindi prescindono da una valutazione scientifica della realtà. Lo scrittore opera, pertanto, una mediazione tra il valore logico dell’argomentazione e la dose di immaginazione che influenza il percorso di ricostruzione del passato. Non possiamo pretendere pertanto che Anilda sfoderi indulgenza nei confronti del Comunismo; quando Enver Hoxha prese il potere nel 1944 avviò un processo rivoluzionario comunista in un tessuto sociale di tipo feudale segnato da secoli di patriarcato selvaggio. Lenin e Marx hanno insegnato che il processo di transizione al Comunismo non può prescindere da una fase borghese e da una successiva di dittatura del proletariato, ma la microstoria, inevitabilmente, di questa fase di transizione registra solo le conseguenze negative.
Ho fatto fatica ad apprezzare questo bel romanzo sia per i giudizi impietosi di Anilda sul periodo comunista del suo Paese, sia per l’ossessivo ricorso al procedimento analettico che genera tensione e disorientamento in chi legge; lo stesso finale indeciso è frutto di questa discontinuità narrativa.
La protagonista del romanzo Rebecca, americana, manager di un’organizzazione sovranazionale, arriva a Tirana allontanandosi da un matrimonio in crisi, ma col desiderio recondito di ricostruire una storia familiare che la madre non le ha mai saputo raccontare.
“Ha portato la sua vita nella lontana terra dove vagano ancora le ombre della sua infanzia”.
A Tirana (“È un posto che ti seduce senza fare nulla per essere seducente”) è accolta da Andi, il funzionario che le farà da assistente, che parla con un “tono svociato” e “le fa venire in mente un cantante di una band heavy metal, nonostante l’abito grigio, anzi fumo di Londra, che lo fa sembrare il testimone di nozze del suo migliore amico all’alba del giorno dopo la cerimonia”.
Tra Andi e Rebecca si crea una corrente attrattiva che Rebecca vive con scetticismo e disincanto. “Andi le dice che lui girerebbe la testa, se la vedesse per strada. E lo dice con una tale foga che a lei viene un nodo alla gola. Gli uomini ancora si girano a guardarla, sì, ma lei lo sa, non è nient’altro che un gesto d’addio, un ultimo bagno di stagione”.
“È bella Rebecca, a Andi sembra la donna più bella del mondo. Anche se ha gli occhi tristi. La guarda come si guarda un fiore appena sbocciato, pronto a vivere il suo unico giorno. Il suo sguardo non è carico di desiderio ma di incanto, la guarda come il pittore guarda la musa quando ha deciso di regalarle l’eternità”.
Molti tratti della narrazione raggiungono livelli di vera poesia, “Nel dormiveglia sente il rumore della pioggia. Finalmente è arrivata. Il ritmo dell’acqua sulla finestra ha una sua dolcezza un po’ amara, quella del fuggitivo che trova riparo lontano da casa e che non riesce a sentirsi in colpa”.
L’Albania è il Paese che ha dato ospitalità a sua madre Esther in fuga dalla Berlino nazista (in uno dei tanti flashback troviamo una drammatica descrizione della “Notte dei cristalli”), ma non al punto da metterla al riparo dalla successiva persecuzione degli ebrei ad opera di nazisti e fascisti italiani occupanti. La famiglia di Rebecca è ancora una volta travolta dalla Storia e, allo scoppio della guerra, si ritrova in piena occupazione tedesca, “le loro paure più profonde diventano realtà.”
In due pagine, dal grande registro drammatico, Anilda Ibrahimi descrive magistralmente la scena in cui la piccola Abigail si tradisce, rispondendo in tedesco alla brusca domanda di un soldato nazista. I Rosen hanno cambiato identità e lingua per mettersi al riparo, ma “la vecchia lingua ti rantola dentro, relegata in un angolo della mente”.
Alla fine, riusciranno a scappare in America (dove nascerà Rebecca) ma perderanno le tracce della sorella di Esther, Abigail, deportata a Dachau.
Abigail tornerà da Dachau, ma le due sorelle non si ritroveranno mai più. Abigail condurrà una vita tormentata, in un’Albania preda delle contraddizioni e delle arretratezze civili e sociali a cui, inevitabilmente, nemmeno il comunismo di Enver Hoxha è riuscito a porre riparo.
Abigail lotterà disperatamente contro questa realtà, le pagine in cui cerca di conquistare la libertà di genere assieme alla sua amica Italia (un nome volutamente simbolico) sono straordinarie e coinvolgenti, ma nulla potrà.
Toccherà a Rebecca fare i conti col passato della sua famiglia, anche con l’aiuto del marito Thomas, che nel frattempo l’ha raggiunta a Tirana per provare a dare un nuovo corso al loro matrimonio. Sarà proprio lui, documentarista e fotografo di successo, a riannodare i fili di quelle vite spezzate ricostruendo in un docufilm le vicende degli ebrei accolti da re Zog e delle due sorelle Esther e Abigail.
Grazie al lavoro di Thomas, Rebecca ritroverà il suo uomo (“Questo film per Thomas vuol dire deviare il percorso, alla ricerca di quell’uomo che Rebecca ha visto in lui sin dall’inizio. Vuol dire mettere al riparo l’amore, rovesciare la fine, per ricominciare”) ma troverà in un colpo di scena finale, ma lasciato lì come avesse prodotto un effetto annichilente, la cugina Joanna, figlia di Abigail, che è accorsa alla proiezione e ha riconosciuto la storia della sua famiglia nello schermo.
La forma disorganica del romanzo priva del gusto della narrazione classica, ma la formidabile capacità di scrittura della Ibrahimi surroga abbondantemente questa carenza con dei frammenti narrativi veramente memorabili. Quando Rebecca, complice una serata “giusta” di suggestioni musicali e alcoliche, si concede a Andi, leggiamo una scena degna di un film d’autore.
“-Facciamo che siamo due che si sono incontrati per caso in una taverna, - aveva detto Rebecca all’improvviso.
-E si mettono a bere insieme per non piangere sulle loro vite vuote? – aveva chiesto Andi divertito.
-No, così è banale, -aveva riso lei. – Hai ragione. Banale come l’amore.
-Non è l’amore che è banale, lo è solo il finale.
-Si può avere un amore senza finale?
-Sì, in teoria, un amore che non inizia mai e non finisce mai. Ma poi non è più amore. Bisogna inventare una parola nuova, - aveva detto pensoso Andi.
…
La risposta di Rebecca era stata un lungo bacio. Si era svegliata nel proprio letto con accanto il viso giovane di Andi illuminato dai raggi del sole che entravano dalla finestra. Per una volta non voleva farsi troppe domande.
Avevano deciso di trascorrere la giornata al mare.
Arrivati a riva, Rebecca si era tolta il vestito ed era corsa verso le onde.
…
Come ogni donna, era diventata un’altra dopo essersi spogliata davanti a un uomo. Mentre sgusciava via dal vestito aveva quella voluttà che scandisce l’origine del mondo.
Poi era sparita in mezzo alle onde come un delfino che esegue il suo numero.” Anilda Ibrahimi, Il tuo nome è una promessa, Einaudi 2017, pagg. 230, € 17,50
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEioIC3zKMu7YJ55LAZ4g4svW0XMpqtWQyCyerSL2J31cDtitVtwZZOcnn28y7YzMW2yAb0BaMK3ChjP3Tb8vrq30eQblZD1cDUDjvkeqFkm1-r5G4yOP4SwtLblKuEpX6D4yelf38WmuvM/s2048/Il+tuo+nome+e%25CC%2580+una+promessa.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="2048" data-original-width="1309" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEioIC3zKMu7YJ55LAZ4g4svW0XMpqtWQyCyerSL2J31cDtitVtwZZOcnn28y7YzMW2yAb0BaMK3ChjP3Tb8vrq30eQblZD1cDUDjvkeqFkm1-r5G4yOP4SwtLblKuEpX6D4yelf38WmuvM/s320/Il+tuo+nome+e%25CC%2580+una+promessa.jpg"/></a></div>
Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-1540256343387927692021-02-21T20:11:00.003+01:002021-02-22T22:22:31.912+01:00CORRADO AUGIAS TRA SFURIATE INOPPORTUNE E GAFFE CLAMOROSECorrado Augias è tornato di recente a calcare la mano sulle vicende calabresi, commentando i recenti fatti di cronaca relativi all’operazione “Basso profilo” e ai rapporti fra <i>‘ndrangheta</i> e politica calabrese. Ospite della trasmissione <i>Quante Storie</i> su Rai 3, Augias ha espresso, con la solita finta pacatezza che lo contraddistingue, un giudizio piuttosto sferzante, per non dire sprezzante: “La Calabria è purtroppo una terra perduta, questa inchiesta e anche il maxi processo in corso, del quale i media non hanno parlato a sufficienza, lo dimostrano”.
Il conduttore lo interrompe: “È una frase tremenda dire ‘la Calabria è una terra perduta’…” e Augias, senza battere ciglio: “È la mia opinione personale, dunque vale poco, vale quello che vale, è un sentimento, non un’affermazione politica. Io ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile. L’ho visto anche in occasione delle ultime elezioni, avevano un candidato ottimo, un imprenditore calabrese (Callipo, ndr), forte, che resta lì nonostante i rischi che corre, che dà lavoro: lo hanno escluso, hanno eletto un’altra persona che sfortunatamente è mancata (Jole Santelli, ndr). Detto questo, le inchieste di Gratteri vanno seguite con attenzione. Gratteri è calabrese, un altro uomo che è voluto restare in Calabria, fa una vita d’inferno, vive con 4 carabinieri intorno, quando va a zappare il suo piccolo orto la domenica ha 4 carabinieri agli angoli con i mitra, una vita che nessuno vorrebbe fare…”.
Ora, a parte, la descrizione iconica di Gratteri ormai trita e ritrita che non tiene in alcun conto i clamorosi flop di gran parte delle azioni penali promosse dal <i>magistar</i>-scrittore calabrese, Augias avrebbe dovuto avere il buon senso di tacere o di documentarsi prima di parlare.
Finita la trasmissione sono partite le bordate sui social, prima fra tutte <b>Michela Fazio dello straordinario e popolare blog “La Filosofia Reggina”</b> che il 21 gennaio posta:
“No, non ci siamo... se cataloghi un’intera regione come irrecuperabile devi avere gli attributi per andare a monte non mi basta analizzare la vittoria del Presidente di regione; ennò... devi fare i nomi di chi sta a monte... se un uomo si fa lustro sparando a zero su 2 milioni di persone poi deve avere le palle di indicare i burattinai... altrimenti è una pagliacciata. La Calabria è irrecuperabile ma tessi le lodi di due calabresi… sei un tot confuso... irrecuperabile sarai tu coi teatrini ben assestati tipo la restituzione di qualche mese fa. Riempirsi la bocca coi calabresi è facile scontato minuscolo... poi però guarda caso gli intrallazzi si prediligono con la <i>‘ndrangheta</i> calabrese e guarda caso sono politici altisonanti che vanno dagli <i>‘ndranghetisti</i>... Gratteri docet.
Augias sì Piemontese falso cortese e usurpatori... ringrazia il Sud Italia, staresti ancora alla corte degli austriaci a leccar stivali”.
Il giorno dopo sono intervenuto io con questo commento sotto il post di Michela:
“30 anni fa ho ospitato Corrado Augias nella mia redazione de <i>Laltrareggio</i> ed è stato anche a casa mia. Era candidato alle Europee col PDS. C’era anche il sindaco Italo Falcomatà. Augias parlava di Questione Meridionale, di terra meravigliosa discriminata e dimenticata, ha promesso che avrebbe portato le nostre istanze in Europa. Eletto con i nostri voti, 5 anni di mandato con stipendio da favola, non si è più visto né sentito. Magari le cose che dice sono giuste ma secondo me avrebbe dovuto tacere per pudore. Anche allora, con lui, i calabresi hanno votato male...”
Settimana nera per il povero Augias, dopo qualche giorno la newsletter <i>Charlie</i> del <i>ilPost</i> scriveva:
“Corrado Augias si è lamentato nella sua rubrica quotidiana su <i>La Repubblica</i> della mail sgrammaticata che aveva ricevuto da Enel, e del malfunzionamento delle istruzioni che conteneva. Si trattava evidentemente di un caso truffaldino di phishing via mail, e la mail era un'impostura che non c'entrava niente con Enel: è capitato a quasi tutti e la gran parte dei destinatari ormai riconosce il meccanismo e le sue evidenze. Può capitare che per qualcuno come Augias sia una cosa nuova, ma se non ci sono ruoli che fanno filtro in redazione il risultato è che i lettori di uno dei maggiori quotidiani nazionali registrano che Enel spedisce mail sgrammaticate e offrendo servizi ingannevoli e inefficienti, oltre a non essere informati sui pericoli del phishing. Questo nuovo incidente racconta come in molti quotidiani sia stata eliminata la tradizionale cautela di rileggere anche gli articoli più importanti prima di pubblicarli: e questo c'entra con una antica cultura poco attenta alle verifiche e ai controlli ma ormai anche con un sempre più severo taglio delle accortezze e revisioni minime, e che è proprio di un modo di confezionare i giornali diventato più precipitoso.
Stamattina si è scusato Augias”.
Nella foto: Corrado Augias e Franco Arcidiaco Aprile 1994 – Campagna elettorale Europee, redazione <i>Laltrareggio</i>
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Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-63400952540682359532021-02-20T15:51:00.003+01:002021-02-20T15:51:14.515+01:00LA RICOSTRUZIONE DELLA CATTEDRALE DI NÔTRE-DAME PARTE DAL LAVORO DI UN ARCHITETTO REGGINOIl “cantiere del secolo” come lo chiama il presidente francese Emmanuel Macron, si basa su un modello digitale della cattedrale di Notre-Dame andata a fuoco il 15 aprile 2019.
È quello il punto di riferimento, la mappa che guida i lavori, lo strumento che -grazie a robot e intelligenza artificiale- fotografa, cataloga e connette le migliaia di resti di legno e pietre spezzate che sono la conseguenza del disastro. A guidare il gruppo di ricercatori del Cnrs (l’equivalente del nostro Cnr) c’è un italiano 44enne, Livio De Luca, arrivato in Francia quasi 20 anni fa per un master a Aix-en-Provence dopo la laurea in architettura a Reggio Calabria, e vincitore nel 2019 della “medaglia dell’innovazione del Cnrs”.
“Per ricostruire Notre-Dame dobbiamo mettere insieme i pezzi di un immenso puzzle”, dice in collegamento Zoom da Marsiglia, dove vive. De Luca è di formazione architetto e poi ha aggiunto diplomi di informatica. La digitalizzazione del Patrimonio è la sua specializzazione.
Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi del Corriere della Sera, 19 febbraio 2021
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisPhr-VxI0Z3e112aKhKXFDckFZvJUgClM0Dh-WwQdvbz4xDlRO6NAl_ing3kjGjxJiO0J5rMrvl-zBbVeMz82b0rkS_g4SH6wepfOeLJPt1rNUg2bJtNvbBmth8PsVAbEQPQmnMQJJ9s/s1280/Livio+De+Luca.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="320" data-original-height="720" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisPhr-VxI0Z3e112aKhKXFDckFZvJUgClM0Dh-WwQdvbz4xDlRO6NAl_ing3kjGjxJiO0J5rMrvl-zBbVeMz82b0rkS_g4SH6wepfOeLJPt1rNUg2bJtNvbBmth8PsVAbEQPQmnMQJJ9s/s320/Livio+De+Luca.jpg"/></a></div>Franco Arcidiacohttp://www.blogger.com/profile/13087544962531384700noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6839445094019548253.post-89083383403842552112021-02-20T13:00:00.002+01:002021-02-20T13:01:39.184+01:00RIPIDDU NIVICATU - ADELANTE ETNA, CON JUICIO...Stamattina l'Etna (u mungibeddhu) dal balcone di casa mia, era la rappresentazione plastica di uno dei piatti più gustosi e spettacolari della tradizione siciliana: U ripiddu nivicatu. Una montagnola di riso al nero di seppia, un cappuccio di morbida ricotta e uno sbaffo di salsa piccante.
Una meraviglia per la vista e per il palato. L'ho mangiato mille volte, ma quello del mio privilegio era servito (come Piatto del Buon Ricordo) dal mitico ristorante di Catania "La Siciliana".
"La Siciliana" è stato per decenni il miglior ristorante di Catania, almeno fin quando la sciagura della "nouvelle cuisine" non si è abbattuta sulle nostre tavole.
Comunque, il ristorante esiste ancora e mi riprometto di visitarlo appena possibile.
Adelante Etna, con juicio...
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