martedì 18 giugno 2013

LA GRANDE BELLEZZA (DI UN TRAILER LUNGO DUE ORE E MEZZA)

Alla fine ce la potremmo cavare con una proporzione multipla: "La grande bellezza" sta a "La dolce vita" come Paolo Sorrentino sta a Federico Fellini, come Toni Servillo sta a Marcello Mastroianni, come Anita Ekberg sta a Sabrina Ferilli. Ma sarebbe riduttivo e, soprattutto, non renderebbe onore ai tanti autorevoli critici, tra i quali il mio amico Paride Leporace, che hanno tessuto lodi sperticate verso l'ultimo film del nuovo regista di riferimento dell'intellighenzia italiana. Ma purtroppo anche il bravo Paolo Sorrentino è caduto nella tentazione fatale di superare "l'esame Fellini", a nulla gli è valso sapere che prima di lui ci avessero lasciato le penne, nello stesso vano tentativo, nomi del calibro di Nanni Moretti, Roberto Benigni e di un certo Woody Allen. Quando, nel 1981, uscì "Sogni d'oro" fu chiaro a tutti che Moretti aveva voluto, dall'alto della sua presuntuosa autoreferenzialità, tentare un iperbolico accostamento all' "Otto e mezzo" felliniano. Ci pensò Sergio Leone a metterlo a posto con la tagliente risposta alla domanda di un giornalista: "Fellini Otto e mezzo mi interessa, Moretti Uno e un quarto no!". Stessa sorte capitò al grande Roberto Benigni. È risaputo che tra i grandi progetti irrealizzati di Federico Fellini c'era il "Pinocchio"; finita la lavorazione de "La voce della luna" il Maestro si rivolse a Benigni e a Paolo Villaggio dicendo: "Siete due personaggi collodiani!". Incautamente Benigni la prese come un'investitura e, scomparso Fellini, si produsse, nel 2002, in quell'imbarazzante "Pinocchio" che gli è valso ben 5 nomination ai "Razzie Awards", che sarebbero gli Oscar dei peggiori film. Buon ultimo arriva, nel 2012, il mitico Woody Allen il quale, con la mente obnubilata dalla visione de "Lo sceicco bianco" e dalle scene immaginifiche, oniriche e provocatoriamente eterodosse di "Roma", realizza "To Rome with love" il suo film più sciatto e abbozzato, che costituisce una macchia indelebile nella sua peraltro splendida filmografia. E proprio a quest'ultimo film mi andava la mente, man mano che nello schermo scorrevano le immagini de "La grande bellezza". Eppure ero stato ben predisposto dall'iniziale citazione di Celine e del suo "Viaggio al termine della notte", salvo poi rendermi conto che Sorrentino aveva voluto, così, mettere in essere un'abile manovra autoassolutoria. I primi dieci minuti di un film sono come l'incipit di un romanzo, se non riesci a superarli molla tutto e passa ad altro! Con un libro è più facile, non devi dar conto a nessuno, lo metti da parte e ne prendi un altro; al cinema è più complicato, non sono mai riuscito a farlo, non me la sono mai sentita di infliggere quest'umiliazione pubblica alla "settima arte", anche se questa volta, confesso, la tentazione è stata forte. Per me il solo sfiorare Fellini è un delitto di lesa maestà, non ho mai perdonato a Goffredo Fofi la stroncatura di "Amarcord" (Quaderni Piacentini n. 55 del 1975) fu un vero e proprio pugno nello stomaco per uno come me che considerava le recensioni piacentiniane una bibbia; ci avrebbe messo quasi vent'anni a ricredersi Fofi, con un'incredibile giravolta, infatti, nella nuova edizione del suo libro "Strana gente" (Donzelli, 1992) arrivò a definire "Amarcord" e "Roma" "capisaldi di una lettura antropologica dell'Italia di cui l'Italia aveva assoluto bisogno". Paolo Sorrentino ha un bel dire che non pensava a Fellini, "non esiste alcuna relazione tra il mio film e La dolce vita", ha dichiarato a Cannes. Il suo film è impregnato dei tòpoi felliniani più scontati: nani, ballerine, cardinali mondani, suore improbabili, fatalone decadenti, dandy decaduti, luoghi urbani stranianti e animali esotici "fuori luogo". A proposito di questi ultimi, inutile dire che la sua giraffa risulta più fuori posto di quanto non risultasse il rinoceronte nella scialuppa di salvataggio de "La nave va" e i suoi orrendi fenicotteri digitali non evocano nemmeno lontanamente la magia, per esempio, delle cicogne di Marco Ferreri nella scena finale de "La carne". Lì era tutto surreale, qui al massimo è grottesco. Sorrentino sciorina un ributtante campionario freaks e lo inserisce in una soffocante atmosfera da girone dantesco a cinque stelle, creando un indigeribile pastone che trasmette una sgradevole sensazione di compilativo e raccogliticcio. Materiali di seconda mano assemblati da un collante narrativo che non riesce né ad emozionare né a far riflettere. L'immagine di Roma che ne deriva è assieme barocca e cafona, che sarà magari aderente alla realtà di oggi ma non merita certo di essere raccontata con uno spot autocompiaciuto lungo due ore e mezza! A proposito di spot, stendiamo un velo pietoso sulle innumerevoli marchette pubblicitarie di cui è infarcito il film, roba da cinepanettone! Per non parlare poi della recitazione, Toni Servillo farebbe bene a prendersi una pausa di riflessione, non è gigioneggiando che si corona una mirabile carriera, un velo pietoso su Carlo Verdone che quando non fa ridere risulta patetico, manieristico Roberto Herlitzka, penosa (a livello di caso umano) Serena Grandi. Giganteggia, il che è quanto dire, la sola Sabrina Ferilli. Paolo Sorrentino non subirà l'onta che toccò a Bernardo Bertolucci che si dovette sorbire "Ultimo tango a Zagarol", lui la parodia se l'è fatta da solo.
Franco Arcidiaco