martedì 29 novembre 2011

IO VI PARLO DI UN TEMPO...

Milano, 14 maggio 1977, via De Amicis: Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia durante una manifestazione di protesta. Questa scena (immortalata in una foto che riproduciamo qui in basso) è diventata l'icona degli Anni di piombo. Rievocare gli Anni di piombo, quando si parla dell’Estate Romana, per quelli della mia generazione equivale ad un riflesso condizionato.
Nella primavera del 1979 esce il bellissimo album di Lucio Dalla che comprende il brano L’anno che verrà a cui abbiamo rubato il verso che titola il nostro giornale (lo stesso cantautore avrebbe dedicato l’anno dopo all’Estate Romana, l’altro splendido brano: La sera dei miracoli).
I libri di storia non lo scriveranno mai, ma quella parte di popolazione italiana nata negli anni ’50 è stata letteralmente derubata della fase della spensieratezza e della serenità che normalmente contraddistingue l’età della giovinezza. La tragica fine di Unidad Popular di Salvador Allende in Cile, il golpe dei colonnelli in Grecia, le minacce di colpo di stato in Italia, le piazze insanguinate dalle bombe della Cia, le menzogne di stato sull’attivismo dei cosiddetti opposti estremismi (in realtà si trattava di fascisti manovrati dai servizi segreti occidentali) e per finire le maledette Brigate Rosse, che di rosso avevano solo il colore del sangue innocente che versavano, ma la cui unica funzione era quella di tenere fuori il PCI dalle stanze del potere. Era questo il tragico scenario di quegli anni tremendi e bui, le relazioni sociali e la vita culturale inevitabilmente risentirono di quel clima e, dopo i fasti del ’68, si registrò un ripiegamento nel privato, ben descritto dai versi di Lucio Dalla.
La nomina di Renato Nicolini ad assessore alla cultura di Roma, nel 1976, ed il conseguente avvio della macchina dell’ Estate Romana l’anno dopo, svolsero la funzione essenziale di rimuovere i “sacchi di sabbia vicino alla finestra” e stanare la gente dalle “case rifugio” in cui pensavano di aver trovato riparo. L’Effimero lungo nove anni rivoluzionò la vita culturale dell’intera nazione, l’essenza stessa dell’arte effimera si fece sistema, sostituendo gli stabili canoni convenzionali con l’instabilità di atti, gesti e situazioni che non avevano pretese di durata e di consistenza materiale. Fu il trionfo della libertà di espressione che emanava da azioni affrancate dal giogo scolastico di metodi e contenuti ormai stantii, si affermò un modello culturale dalla netta impronta esistenziale destinato (paradossalmente, vista la sua genesi) a durare nel tempo. L’Effimero dell’Estate Romana allargò a dismisura il campo delle esperienze creative e comunicative, nessuna forma di espressione fu preclusa grazie all’utilizzo dei più eterogenei materiali e strumenti, nonché le più diverse forme di linguaggio. La fotografia, la musica, la rappresentazione scenica e la poesia recitata (si inaugurò allora la fortunata esperienza dei reading), funsero da fattore contaminante delle arti convenzionali e non avrebbero mai più abdicato a questa funzione.
Cos’è rimasto oggi di quella esperienza? La nemesi storica ha voluto che quella contaminazione positiva subisse a sua volta una contaminazione, questa volta fatale. Ed oggi c’è addirittura qualcuno che pensa che le notti bianche, le sagre e le kermesse commerciali siamo figlie di quella memorabile stagione; il berlusconismo ha purtroppo inciso pure su questo e, minando fatalmente le basi etiche del Paese, ne ha conseguentemente inquinato il tessuto culturale. La trasfigurazione de l’Estate Romana nell’orgia commerciale delle Notti Bianche ne è la tragica dimostrazione.

lunedì 21 novembre 2011

ANCORA IL PCI NELLA STORIA D'ITALIA

Che un capo storico del PCI, quale Giorgio Napolitano, sia stato il protagonista assoluto di questa stagione politica e che, sostenuto da un grande consenso popolare, abbia portato a soluzione una gravissima crisi, costituisce la nemesi storica del berlusconismo. Nemesi che colpisce anche la scellerata azione politica, interna al PCI, sfociata in quella tristemente famosa “svolta della Bolognina”, anticamera dello scioglimento del partito avvenuto il 3 febbraio del 1991. Del resto che Berlusconi, Cicchitto, Gasparri et similia abbiano fatto dell’anticomunismo la loro ragione di vita è nella logica delle cose, ma che questa sindrome abbia colpito anche l’ultima generazione di comunisti italiani (Occhetto, D’Alema, Veltroni e compagnia bella) appare storicamente incomprensibile. I comunisti italiani, considerandosi parte fondante del patto costituzionale, erano caratterizzati da un roccioso senso dello Stato e delle Istituzioni. Sin dalle prime scelte di Togliatti, all’alba della Repubblica, fino alla determinante azione svolta negli anni del terrorismo, i comunisti sono stati in prima linea nella difesa delle istituzioni democratiche. La scuola politica del PCI ha dimostrato il suo grande valore nella gestione delle cosiddette “Regioni Rosse” ed ancora oggi Emilia Romagna, Toscana e Umbria costituiscono dei mirabili esempi di buona amministrazione locale, per non parlare della mitica stagione dei sindaci (Valenzi, Argan, Petroselli, Vetere, Novelli, Zangheri, Bonazzi, Falcomatà e tanti altri) che ha risvegliato nelle popolazioni l’amore per la propria città ed il rispetto per le istituzioni. L’azione di Napolitano in questi anni costituisce la fioritura di un destino politico (intriso di cultura dello Stato e amor di patria), e ridicolizza le tesi di chi aveva archiviato frettolosamente la storia del PCI attribuendogli colpe che non erano certo sue. Non c'è parola o gesto dei dirigenti comunisti italiani dei primi quarant'anni della Repubblica che non vada in direzione della difesa delle istituzioni democratiche, dell’arginamento dei sussulti populistici e delle tentazioni plebeistiche, pur nel rispetto di un operaismo maturo e consapevole. La scuola dei dirigenti comunisti fu severa nei confronti di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l'inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l'interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra, personaggi diversi per temperamento (basta confrontare Napolitano, Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao e Berlinguer), innamorati della politica, con una grande motivazione etica. La loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, la loro spinta verso l'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e il risultato che così si ottenne, in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentassero, costituirono il capolavoro politico di quegli anni bui. I comunisti italiani e la “via italiana al socialismo” si conquistarono il rispetto e l’attenzione del mondo intero. Nel 1978, al rientro da un viaggio negli USA dopo un ciclo di conferenze nelle principali università, Napolitano dichiarò profeticamente: “Queste questioni investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice". Oggi Giorgio Napolitano ha riscattato l’intera vicenda politica del Pci e l’ha consegnata alla storia nella sua giusta dimensione, quella, per dirla con Thomas Mann, della politica che «non potrà mai spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare la sua parte etica». Non è affatto un caso che questo comunista rigoroso, questo leader politico di grande caratura intellettuale si sia ritrovato oggi a reggere il timone di una nave in balia dei flutti, nel tentativo di salvare uno dei più importanti Paesi occidentali e dimostrando che la politica, quella seria, quella alla quale il berlusconismo ci aveva disabituato, ha bisogno di qualità che derivano dall’esperienza e da una sana formazione culturale.
Franco Arcidiaco

domenica 6 novembre 2011

LETTERA APERTA ALL'AVV. MONICA FALCOMATA'

Egr. Avv. Falcomatà la lettura della sua appassionata difesa del “modello Reggio” dalle pagine della Gazzetta del Sud, ha inizialmente ingenerato in me la convinzione che lei negli ultimi otto anni abbia vissuto in un’altra città, probabilmente collocata molto al di sopra del 38° parallelo. Veda avvocato, amare una città è come amare una persona e lei mi insegna che il peggio che si possa fare quando si ama una persona è ignorare i problemi che l’affliggono. Le premetto che, indipendentemente dalla mia posizione politica (situata agli antipodi dalla sua), sono sempre stato convinto che il male principale della nostra città sia costituito dall’inciviltà della stragrande maggioranza dei suoi cittadini, per cui non le nascondo che quando l’allora sindaco Scopelliti proclamò ai quattro venti l’intenzione di far sua la politica della “tolleranza zero” di Rudolfh Giuliani, che aveva fatto la fortuna di New York segnandone la rinascita, avevo cominciato a nutrire la speranza che si stesse imboccando la strada giusta. La speranza purtroppo durò lo spazio di un mattino, il degrado della città continuò ad estendersi giorno dopo giorno e la vicenda “Fallara” mise tragicamente ed inesorabilmente a nudo la vera natura del “modello Reggio”. La stagione del mai troppo rimpianto sindaco Italo Falcomatà ci ha insegnato che alla base del buongoverno c’è la regola che lui amava racchiudere nella massima “L’esempio è la fonte del pensiero successivo”, lascio a lei l’incombenza di rintracciare l’esempio che i cittadini abbiano potuto trarre dall’operato degli uomini guidati per otto anni dal sindaco Scopelliti. Sorvolo per carità di patria sul suo tentativo di minimizzare le risultanze delle indagini della Procura e dell’ispezione del Ministero delle Finanze, le ricordo solo che nella relazione della Procura della Repubblica (in possesso della stampa) ci sono ben 35 pagine di omissis… Quando mi parla di “Scopelliti sindaco più amato dagli italiani” mi richiama un celebre spot televisivo, ma mi permetta di ricordarle che lei non è la Cuccarini né, tantomeno, il dr. Scopelliti è assimilabile sotto ogni aspetto alla Cucina Scavolini. Comunque, considerando il tenore “televisivo” delle sue argomentazioni, desidero farle una proposta: la invito in una qualunque giornata feriale o festiva a fare una passeggiata con me per la città, ci faremo accompagnare da un operatore televisivo (a lei la scelta della persona e dell’emittente) e andremo a visitare tutti i luoghi da lei menzionati, andando a verificare le reali condizioni in cui versano ed affidando le nostre considerazioni e le relative immagini al giudizio dei cittadini telespettatori; per quanto riguarda la Pinacoteca le suggerisco di procurarsi le chiavi, altrimenti temo che avremo qualche difficoltà ad accedere, lo stesso dicasi per il Cipresseto perché, come saprà, attualmente se le contendono le due associazioni alle quali il Comune lo ha assegnato contemporaneamente. A proposito del Cilea poi, sarebbe il caso di ascoltare anche il parere del direttore artistico per la Lirica, Serenella Fraschini, la quale mi pare non abbia preso molto bene l’indirizzo “culturale” pervenutole da palazzo San Giorgio. Concluderemo la nostra passeggiata a Villa Zerbi stando bene attenti a non farci colpire da qualche pezzo di cornicione o travolgere da qualche infisso traballante e mi vorrà gentilmente spiegare a cosa pensa quando parla di “Mostra di Natale”, ci mancherebbe solo di dare in pasto quel gioiellino architettonico a orde di assatanati shoppinghieri. Mi fermo qui e aspetto fiducioso il suo appuntamento. Un cordiale saluto
Franco Arcidiaco

COSA SALVA REGGIO?

Cari amici vi ringrazio per il graditissimo invito e mi dispiace non essere con voi; vengo subito al punto: Reggio sarà salvata dalla disfatta dei “Riggitani” ad opera dei “Reggini”. La popolazione reggina è come dr. Jekyll e mr. Hyde; purtroppo però i secondi sono in sovrannumero. Il vero problema di Reggio è l’inciviltà della stragrande maggioranza dei suoi cittadini, ed il conseguente problema della legalità è strettamente correlato a quello del tasso di educazione civica. Il problema riguarda tutto il Sud, è inutile girarci attorno: la stragrande maggioranza della popolazione meridionale non è assolutamente incline a rispettare le più elementari regole del vivere civile. Mettetevi in macchina o in treno da Roma in direzione Sud e guardatevi attorno: il paesaggio è completamente devastato; discariche abusive ad ogni angolo, ecomostri lungo le coste e sulle colline, facciate dei palazzi grigie e degradate, terrazze con i ferri arrugginiti che aspettano con pazienza la costruzione dell’ennesimo piano naturalmente abusivo, erbacce e vegetazione incolta come unico esempio di verde pubblico, automobili posteggiate in modo selvaggio, isole pedonali e piste ciclabili inesistenti e barriere architettoniche insormontabile incubo per i disabili. E’ evidente che questo stato di cose è il terreno di coltura ideale per il proliferare delle attività della criminalità organizzata; i brillanti successi degli investigatori, che sempre più frequentemente arricchiscono il loro palmarés con l’arresto di pericolosi latitanti, servono a ben poco se non vanno di pari passo con la lotta per l’affermazione della legalità quotidiana sul nostro territorio. Quando, un paio di decenni fa, l’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani decise di rendere vivibile e sicura la metropoli, in brevissimo tempo, attuando la famosa politica della “tolleranza zero”, riuscì brillantemente in quella che sembrava una missione impossibile.
Questa politica deriva dalla cosiddetta teoria “Delle finestre rotte” formulata nel 1982 dai criminologi James Q. Wilson e George Kelling, che prevede che se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre e a vivere in un ambiente devastato senza reagire: riparando la finestra ci si abitua al rispetto della legalità. Ecco oggi il meridione, e la nostra Calabria in particolar modo, hanno bisogno di una politica che abbia il coraggio di attuare la “tolleranza zero”, mettendo da parte quella pruderie di matrice liberal-cattolica che tanti danni ha provocato al nostro Paese nel dopoguerra. E’ evidente, inoltre, che il ripristino della legalità deve passare obbligatoriamente, oltre che dall’apparato repressivo, dal lavoro educativo della famiglia e della scuola; ma qui entra in gioco l’altro grave problema che riguarda la preparazione e la sensibilità sull’argomento di genitori ed insegnanti; se un ragazzino vede i genitori buttare le carte dal finestrino della macchina e non sente parlare in casa della raccolta differenziata, non potrà mai diventare un buon cittadino; se la scuola non si fornisce degli strumenti per surrogare e/o integrare il ruolo della famiglia nell’educazione delle giovani generazioni e se i Comuni non si decidono ad attuare l’opportuna vigilanza sulle normali regole del vivere civile (dal parcheggio alla costruzione abusiva), il sistema della legalità quotidiana non si metterà mai in moto e la Calabria precipiterà, in modo sempre più irreversibile, in quel degrado che già oggi la contraddistingue drammaticamente dalle altre regioni d’Italia.
Bisogna soprattutto ripartire dall’ambiente per ritrovare il gusto del bello.
Si deve interrompere il circolo vizioso che vuole la Calabria sinonimo di degrado. Il territorio disseminato di ecomostri è la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio. E dietro tutto questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ stato calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è valso a nulla lo spreco di milioni di euro in campagne pubblicitarie (prima fra tutte quella assurda di Oliviero Toscani). La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti ed in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento ricopre e minaccia l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Torrente Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Questa tragica situazione contrasta con il trionfalismo dei vari assessori regionali competenti per materia che negano la più elementare evidenza; tra questi non ho alcuna esitazione a includere i miei amici del centrosinistra che non si rassegnano ad ammettere che nel 2005 hanno preso in consegna una Regione dal territorio pesantemente devastato e nel 2010, alla fine della legislatura, ce l’hanno riconsegnata, né più né meno, che nelle stesse condizioni. In tutto questo sfacelo non si potrà mai affrontare seriamente un discorso di sviluppo turistico senza prima avere avviato una seria, determinata e risolutiva politica ambientale. Quello che ci ostiniamo a non capire, e su questo voglio sollecitare gli amici ambientalisti, è che la nostra regione è assolutamente la più disastrata tra tutte le pur disastrate regione del Sud, e questo per un semplice motivo che è sotto gli occhi di tutti: IL PAESAGGIO DEVASTATO. Le miriadi di costruzioni non finite che sorgono dappertutto e deturpano coste e colline hanno irrimediabilmente frantumato il sogno dello sviluppo turistico. Ma chi volete che venga ad impiantare un Club Mediterranée, un Valtur, un Hilton od uno Sheraton nel bel mezzo di quelle bidonville alla cui stregua abbiamo ridotto le nostre città ed i nostri paesi? Vogliamo capire una volta per tutte che, come disse con lungimiranza anni addietro il giudice Roberto Pennisi, la ‘ndrangheta infettando di illegalità tutti gli strati della società ha fatto sì che i cittadini, vivendo in un contesto ambientale disastrato, perdessero definitivamente il senso del vivere civile? Roberto Pennisi, attuale sostituto procuratore nazionale antimafia, nel 1995 dichiarò infatti, testualmente, ai giornalisti (vedi Laltrareggio n.52 di Marzo 1995): “Sino a quando questa città avrà l’aspetto esteriore di un centro abitato appena sottoposto a bombardamento, e non si capirà che ciò è stato voluto ed è voluto dalla ‘ndrangheta proprio perché anche guardandosi intorno il cittadino non avesse la sensazione di essere tale, né sentisse alcuno stimolo per diventarlo, ancora una volta dovremo ripetere di aver fallito”. Pennisi in quegli anni aveva portato alla sbarra le cosche più pericolose della piana di Gioia Tauro, in un processo che nell’autunno del 1997 finì col comminare decine e decine di ergastoli confermati in appello, fu inoltre il magistrato che nel 1992 fece scoppiare la tangentopoli reggina con il famoso scandalo delle fioriere che vide protagonista l’allora sindaco Agatino Licandro; nonostante questo palmarès allora si guadagnò da parte dei riggitani la patente di “nemico di Reggio” e molte furono le voci che si levarono per stigmatizzare le sue dichiarazioni; a distanza di tanti anni, purtroppo, non possiamo far altro che confermare le sue convinzioni e prendere atto che aveva, sin da allora, compreso la nostra realtà molto meglio di tutti i politici di ieri e di oggi. Monsignor GianCarlo Bregantini, che è un altro “non calabrese” che ha capito la nostra terra molto meglio di quanto non l’abbiano capita tutti i nostri politici messi assieme, ha scritto: “Il gusto del bello è la migliore forma di antimafia”. Ecco, noi il gusto del bello l’abbiamo definitivamente perduto, quindi le nostre speranze di sviluppo, almeno in direzione turistica, sono eguali a zero!

Con questi presupposti lo sviluppo turistico rimarrà una mera illusione. Ci vorrebbe una rivoluzione, ma il tempo delle rivoluzioni, si sa, è definitivamente tramontato.
Prendiamo ad esempio la situazione attuale di Reggio: se una strada si ritrova piena di buche dopo pochi mesi dalla bitumazione, ci sarà pur qualcuno al Comune che dovrà chieder conto alla ditta responsabile dei lavori? E’ troppo chiedere che vengano alla luce le responsabilità (per errori od omissioni) di quanti, ditte appaltatrici o funzionari comunali, a vario titolo sono coinvolti in lavori pubblici che, volta per volta, si rivelano disastrosi e per nulla risolutori dei problemi che avrebbero dovuto affrontare in maniera definitiva? Le pagine dei giornali sono piene di lettere di cittadini che si lamentano per le voragini aperte sulle strade in ogni angolo della città, prima o poi qualcuno interverrà, sarà fatta la solita riparazione con conseguente spreco di denaro pubblico e dopo qualche mese il problema si ripresenterà, succede così da decenni nella generale indifferenza. La città è ridotta in condizioni pietose: strade e marciapiedi dissestati, facciate dei palazzi rustiche e quelle poche completate non in linea con il piano-colore, sporcizia dappertutto, caos e totale anarchia nel traffico automobilistico, assenza di polizia urbana sul territorio, opere pubbliche incomplete, mancanza di coordinamento tra le iniziative dei vari assessorati, troppi compari e comparelli beneficiati, spreco di denaro pubblico in iniziative a dir poco futili. Come abbiamo detto mille volte, si profonde il massimo impegno nella realizzazione di nuove opere, nelle grandi ristrutturazioni di quelle esistenti e non c’è nessuno che si preoccupi della manutenzione ordinaria. Perché invece di aprire decine di cantieri contemporaneamente, non si affrontano due o tre opere alla volta dedicando il resto delle energie alla manutenzione ed al decoro ordinario dell’esistente? Non credono i signori politici che si possa passare alla Storia anche senza tagliare un nastro ogni mese? E quando si decideranno a capire i nostri amministratori che l’unica variante ammissibile ai piani regolatori dei vari comuni, è la “Variante Caterpillar”? L’unico politico calabrese che ha avuto il coraggio di avviare un serio intervento di demolizioni è stato il sindaco di Lamezia Terme Gianni Speranza, ma la sua azione è stata contrastata e fermata anche da politici del suo stesso schieramento; demagogia e populismo vanno a braccetto con il clientelismo e una poltrona non la mette e rischio nessuno.
Io spero che dal dibattito di stasera vengano fuori delle proposte concrete, ma non vi nascondo che comincio a temere che Reggio sia ormai condannata definitivamente a sopravvivere nel più totale degrado.
Franco Arcidiaco

IL LAVORO EDITORIALE E IL RECUPERO DELLE STORIE “NEGATE”

Quando ho fondato la “Città del sole edizioni” nel 1997 mi sono posto come missione quella di farne un serbatoio della memoria della nostra terra. Quello che mi interessava era l’intercettare nella società le persone, non necessariamente intellettuali di professione, che avessero delle storie da raccontare; un esercizio che doveva essere non solo mnemonico ma anche interpretativo, una testimonianza non fredda e cronachistica ma che doveva essere accompagnata da considerazioni pertinenti, che aiutassero il lettore a meglio comprendere il contesto che l’aveva generata. Questa raccolta della memoria poteva anche essere svolta da giovani studiosi, che avrebbero potuto integrare le testimonianze con ricerche storiche d’archivio.
Da questo metodo è nato il primo grande successo editoriale, quel “Cinque anarchici del Sud” che avrebbe lanciato la mia casa editrice nel panorama nazionale ed il suo autore, Fabio Cuzzola, nell’agone accademico. Fabio Cuzzola, nel 2001 quando uscì il libro, era un giovane docente di italiano e storia, con qualche esperienza di scrittura maturata su giornali locali, tra cui il mio “laltrareggio”. L’idea del libro nacque nell’estate del 2000 proprio in redazione; la storia dei cinque anarchici (Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth) era una storia che ha segnato la mia generazione e che tutti i reduci di quella stagione ci portavamo dentro come un lutto non elaborato. Fabio è nato nel 1969, all’epoca dei fatti aveva appena un anno, non conosceva per nulla quella storia, rimase folgorato dalla mia narrazione e passò i sei mesi successivi a scavare negli archivi, a rintracciare testimoni e parenti, a tessere le fila di una vicenda che si rilevava ogni giorno sempre più paradigmatica del contesto storico in cui si era svolta. Come mirabilmente ha scritto Tonino Perna nella prefazione del libro: “Una storia, tante storie che non si possono perdere senza perdere una parte di noi stessi e della memoria storica della città di Reggio che in quell’anno fatale viveva uno dei momenti più contraddittori e drammatici della sua storia. Si sono scritti tanti volumi sulla città dei Boia chi molla, ci si è divisi tra denigratori e nostalgici di quella rivolta, senza capire fino in fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta etnica di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo. I giovani anarchici reggini stavano dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di protagonismo e trame nere che ne hanno determinato la cifra. Stavano tra la gente cercando di capire, di interpretare, di portare il loro contributo. Avevano perfettamente capito che eravamo di fronte a quello che in geometria analitica si chiama punto di flesso, una fase di passaggio delicata, confusa e contraddittoria.” Mi preme sottolineare come tra le righe della prefazione di quel libro, si sia giunti a completare una fase di sdoganamento della Rivolta di Reggio Calabria (passata nell’immaginario collettivo come “rivolta fascista”) da parte di un prestigioso intellettuale di sinistra, quale il prof. Tonino Perna; tale fase era stata avviata tre anni prima da un altro grande intellettuale di sinistra, il prof. Pasquale Amato, nel libro “Reggio capoluogo morale”, (uscito nel luglio 1998) che inaugurava la fortunata collana “I tempi della storia” della mia casa editrice. Amato, a ventotto anni dalla Rivolta, ha riletto quegli eventi collegandoli alle onde di lunga durata della Storia. Ha ricostruito i fatti per grandi linee e dalla parte del popolo, facendo ricorso alle più brillanti cronache degli inviati speciali nella Guerra di Reggio. E ha compiuto una lucida e acuta analisi su cause ed effetti penetrando nel cuore della verità con un linguaggio talora crudo, ma sempre scarno e immediato. Ne è scaturito un lavoro ricco di spunti interpretativi originali, inedito e controcorrente rispetto ai luoghi comuni su Reggio in generale e sulla Rivolta in particolare. Amato ha ribaltato quei luoghi comuni, rigettandoli oppure reinterpretandoli in chiave positiva. Ha elaborato nuovi parametri di lettura della storia della città più antica della Calabria e della sua provincia, allargando l’orizzonte di osservazione ai suoi quasi tremila anni di storia. Ha evidenziato peculiarità e continuità che ne hanno segnato il cammino di “città libera e ribelle”, difficile da governare e ancora più difficile da sottomettere. Una città che ha imparato a convivere con la sindrome da terremoto ed è stata capace di dare il meglio di sé quando tutto e tutti la davano per finita.

Arrivando ai giorni nostri (ed all’argomento di quest’incontro), ho naturalmente colto con grande entusiasmo la proposta di Pino Fabiano di riportare alla luce la figura di un grande rivoluzionario del Sud, quale è stato senza ombra di dubbio Rosario Migale. Non mi soffermerò su questo personaggio perché lo faranno certamente i relatori che interverranno a questa serata, io desidero solo sottolineare la qualità del dibattito che è scaturita la sera della prima presentazione del libro lo scorso 5 gennaio a Cutro, città natale di Migale. L’intervento più appassionato e incisivo è stato quello di un altro grande rivoluzionario del crotonese, Ciccio Caruso che purtroppo è scomparso un mese fa. Ciccio era come al solito vivace, anche se provato da una forte influenza; intervenendo nel dibattito, in quello che, probabilmente, è stato l’ultimo discorso pubblico della sua lunga vita, si è prodotto con veemenza in una difesa d’ufficio del suo PCI che, negli interventi che avevano preceduto il suo, era stato piuttosto bistrattato. Quella sera si parlava di una storica figura della sinistra di Cutro (quale è stato appunto Migale), che più di una volta era entrato in rotta di collisione con il PCI che, com’è noto, mal tollerava le deviazioni estremistiche dei suoi militanti. Da più parti si era parlato di un Partito rigido nella difesa di posizioni che di rivoluzionario avevano ben poco e di una carenza di democrazia al proprio interno; Ciccio, avendo percepito che queste posizioni avevano certamente un che di preconcetto, si era prodigato a descrivere al folto pubblico presente quello che secondo lui era stato veramente il PCI ed aveva ricordato come in settant’anni di attività, i suoi militanti avessero dato prova di enorme capacità amministrativa condita da abnegazione e, soprattutto, estrema onestà. Aveva parlato della grande epopea delle regioni rosse che ancora oggi costituiscono un insuperabile modello di efficienza e correttezza amministrativa e della grande leva di sindaci e amministratori comunisti che avevano fatto rialzare la testa alle città italiane dopo anni di malgoverno; ha ricordato ai presenti, tra cui per fortuna molti giovani, i grandi risultati che l’idea e l’azione comunista hanno prodotto a beneficio di tutta l’umanità: il riscatto delle masse diseredate l’affermazione della dignità dei lavoratori e del principio di uguaglianza, la fine delle discriminazioni sociali di ogni tipo e dello sfruttamento come sistema. Ho trovato l’intervento di Ciccio di quella sera ampiamente condivisibile, oggi, infatti, quelli sembrano tutti dei diritti acquisiti e sacrosanti, chiunque ne beneficia con la massima naturalezza, nessuno osa metterli in discussione e non c’è parte politica che non li includa nei propri programmi e non ne proclami la difesa. Appena un secolo fa tutto ciò era utopia ed il Manifesto del Partito Comunista sembrava l’immaginifico delirio di un sognatore pazzo. E’ naturale che la dirompente idea Comunista abbia suscitato una reazione di forte intensità nei poteri interessati a mantenere i loro privilegi; tale lotta è stata titanica ed ha imperversato per tutto il ventesimo secolo e, indubbiamente ha visto la sconfitta del Comunismo, ma nessuno si è mai sognato di mettere in discussione o di considerare azzerati i risultati ottenuti dal lavoro dell’azione dei Comunisti in tutto il mondo.
E’ questo il punto: ci siamo avviati verso il nuovo secolo forti dei successi ottenuti da una grande idea (la più grande mai prodotta da una mente umana), ma la rinneghiamo in ossequio alle nuove tendenze post-ideologiche e globalizzanti.
Le stesse tanto vituperate esperienze del cosiddetto “Socialismo reale”, che hanno traghettato direttamente i Paesi in cui hanno operato dal feudalesimo degli zar al ventesimo secolo, hanno dimostrato la forza dell’idea Comunista: la capacità di realizzare in meno di 50 anni quello che le grandi democrazie Europee avevano impiegato 5 secoli a raggiungere. Oggi tutti i Paesi dell’Est giunti alla cosiddetta “democrazia” rimpiangono i successi ed il prestigio che i regimi Comunisti avevano loro conferito e, ad ogni tornata elettorale nonostante le provocazioni ed i condizionamenti della Nato, si riafferma chiaro il desiderio delle popolazioni di riaffidare i governi alle forze comuniste.
Ed in tutto questo scenario cosa fanno i Comunisti rimasti? Continuano a praticare masochisticamente lo sport che hanno sempre preferito: autodistruggersi alimentando conflitti intestini.
La grande tragedia del Comunismo sta proprio in questo, il percorso è tracciato nettamente nel suo Dna, ogni nuovo leader deve affermarsi annientando quello che l’ha preceduto; in Unione Sovietica dalla grandezza di Lenin alla tragica incoscienza di Gorbaciov; in Italia fatte le debite proporzioni, dalla lucidità di Gramsci alla follia tragicomica di Occhetto e Veltroni; è stato tutto un susseguirsi di assurde delegittimazioni che hanno prodotto l’autoannientamento dell’idea Comunista. E’ fondamentale pertanto, riportare alla luce e consegnare alla storia l’azione di personaggi come Rosario Migale, fulgido esempio di una generazione di militanti che hanno fatto dell’impegno politico la cifra distintiva della loro vita, arrivando a trascurare gli affetti familiari e qualunque altro interesse privato.
Franco Arcidiaco

LA RIVOLTA DI REGGIO NEL LAVORO E NELLA MEMORIA DI UN EDITORE

Quando ho fondato la “Città del sole edizioni” nel 1997 mi sono posto come missione quella di farne un serbatoio della memoria della nostra terra. Quello che mi interessava era l’intercettare nella società le persone, non necessariamente intellettuali di professione, che avessero delle storie da raccontare; un esercizio che doveva essere non solo mnemonico ma anche interpretativo, una testimonianza non fredda e cronachistica ma che doveva essere accompagnata da considerazioni pertinenti, che aiutassero il lettore a meglio comprendere il contesto che l’aveva generata. Questa raccolta della memoria poteva anche essere svolta da giovani studiosi, che avrebbero potuto integrare le testimonianze con ricerche storiche d’archivio.
Da questo metodo è nato il primo grande successo editoriale, quel “Cinque anarchici del Sud” che avrebbe lanciato la mia casa editrice nel panorama nazionale ed il suo autore, Fabio Cuzzola, nell’agone accademico. Fabio Cuzzola, nel 2001 quando uscì il libro, era un giovane docente di italiano e storia, con qualche esperienza di scrittura maturata su giornali locali, tra cui il mio “laltrareggio”. L’idea del libro nacque nell’estate del 2000 proprio in redazione; la storia dei cinque anarchici (Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth) era una storia che ha segnato la mia generazione e che tutti i reduci di quella stagione ci portavamo dentro come un lutto non elaborato. Fabio è nato nel 1969, all’epoca dei fatti aveva appena un anno, non conosceva per nulla quella storia, rimase folgorato dalla mia narrazione e passò i sei mesi successivi a scavare negli archivi, a rintracciare testimoni e parenti, a tessere le fila di una vicenda che si rilevava ogni giorno sempre più paradigmatica del contesto storico in cui si era svolta. Come mirabilmente ha scritto Tonino Perna nella prefazione del libro: “Una storia, tante storie che non si possono perdere senza perdere una parte di noi stessi e della memoria storica della città di Reggio che in quell’anno fatale viveva uno dei momenti più contraddittori e drammatici della sua storia. Si sono scritti tanti volumi sulla città dei Boia chi molla, ci si è divisi tra denigratori e nostalgici di quella rivolta, senza capire fino in fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta etnica di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo. I giovani anarchici reggini stavano dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di protagonismo e trame nere che ne hanno determinato la cifra. Stavano tra la gente cercando di capire, di interpretare, di portare il loro contributo. Avevano perfettamente capito che eravamo di fronte a quello che in geometria analitica si chiama punto di flesso, una fase di passaggio delicata, confusa e contraddittoria.” Mi preme sottolineare come tra le righe della prefazione di quel libro, si sia giunti a completare una fase di sdoganamento della Rivolta da parte di un prestigioso intellettuale di sinistra, quale il prof. Tonino Perna; tale fase era stata avviata tre anni prima da un altro grande intellettuale di sinistra, il prof. Pasquale Amato, nel libro “Reggio capoluogo morale”, (uscito nel luglio 1998) che inaugurava la fortunata collana “I tempi della storia” della mia casa editrice. Amato, a ventotto anni dalla Rivolta, ha riletto quegli eventi collegandoli alle onde di lunga durata della Storia. Ha ricostruito i fatti per grandi linee e dalla parte del popolo, facendo ricorso alle più brillanti cronache degli inviati speciali nella Guerra di Reggio. E ha compiuto una lucida e acuta analisi su cause ed effetti penetrando nel cuore della verità con un linguaggio talora crudo, ma sempre scarno e immediato. Ne è scaturito un lavoro ricco di spunti interpretativi originali, inedito e controcorrente rispetto ai luoghi comuni su Reggio in generale e sulla Rivolta in particolare. Amato ha ribaltato quei luoghi comuni, rigettandoli oppure reinterpretandoli in chiave positiva. Ha elaborato nuovi parametri di lettura della storia della città più antica della Calabria e della sua provincia, allargando l’orizzonte di osservazione ai suoi quasi tremila anni di storia. Ha evidenziato peculiarità e continuità che ne hanno segnato il cammino di “città libera e ribelle”, difficile da governare e ancora più difficile da sottomettere. Una città che ha imparato a convivere con la sindrome da terremoto ed è stata capace di dare il meglio di sé quando tutto e tutti la davano per finita. Una città che assieme alla sua provincia è stata straordinariamente prolifica di poeti e scrittori, pittori e scultori, musicisti e stilisti, filosofi e giuristi, storici e critici letterari. Figure che fioriscono in ambienti caratterizzati da una vivace dialettica di idee, fonte di creatività artistica e di diffuso senso critico. In sostanza, per Amato l’onda di lunga durata di Reggio consiste nell’aver conservato nel suo Dna le peculiarità della polis più ateniese della Magna Grecia. Non per caso Reghion fu la più coerente alleata di Atene fra i Greci d’Occidente. Scrive Amato testualmente: “Spesso i leaders e i partiti politici non vogliono fare i conti con le onde lunghe della storia e con le influenze che esercitano sui popoli. Oppure ritengono presuntuosamente di poterle annullare o esorcizzare col semplice esercizio cinico del potere. Invece, quando meno se le aspettano, quelle onde tornano e sconvolgono manovre occulte e patti osceni. E’ stato il caso di Reggio, della sua rivolta inaspettata, della sua rivincita di questo fine secolo… E’ la rivincita della storia… che… ha la forza della memoria collettiva propria e degli altri. Quella memoria che crea e alimenta la civiltà”.
Nel luglio del 2000, in occasione del 30°anniversario della Rivolta, sono riuscito, grazie alla disponibilità degli eredi del compianto Luigi Malafarina ed all’amicizia degli altri due autori (nonché colleghi giornalisti) Franco Bruno e Santo Strati, a ripubblicare quella che è unanimemente riconosciuta come l’opera fondamentale sulla Rivolta, quella dalla quale nessun ricercatore e studioso ha mai potuto (e mai potrà) prescindere, il monumentale “Buio a Reggio”. La grandezza dell’opera risiede proprio nella matrice culturale e nella formazione professionale dei suoi autori, tre grandi giornalisti appunto, che hanno avuto l’acume di ricostruire e fissare gli eventi, selezionando e raccogliendo i reportages dei più importanti giornalisti italiani e stranieri inviati a Reggio da tutte le testate. “Buio a Reggio” era stato pubblicato in prima edizione nel 1971 dalla casa editrice “Parallelo 38”, fondata da un illustre intellettuale e politico recentemente scomparso, l’on. Giuseppe Reale; mi piace ricordare la grande signorilità con la quale mi concesse la liberatoria per la riedizione dell’opera, nonostante io fossi stato molto critico, dalle pagine de “laltrareggio”, verso il breve periodo, otto mesi nel 1993, in cui fu sindaco di Reggio. Aldilà degli aspetti politici, bisogna riconoscere che Giuseppe Reale fu un vero e proprio mecenate della cultura cittadina, ospitando tra le sue collane editoriali molti studiosi reggini che prima d’allora non avevano avuto la possibilità di pubblicare i propri lavori. Sempre nel luglio 2000, convinsi l’editore de “Il Domani della Calabria”, il catanzarese Guido Talarico, a celebrare il trentennale della Rivolta con una serie di venti inserti quotidiani, che uscirono dal 13 luglio al 9 agosto nelle pagine centrali del giornale. L’operazione andò in porto grazie anche al direttore dell’epoca, il reggino Domenico Morace, che dopo lunghi anni di prestigiosi incarichi professionali (tra i quali la direzione de “Il Corriere dello Sport” e del “Guerin Sportivo”), si convinse a tornare in Calabria. L’esperienza fu breve ma esaltante, e coincise con un periodo di grandi successi per il quotidiano catanzarese; purtroppo però, l’editore Talarico, pur capace e volenteroso, non aveva la solidità economica per garantire a Morace una squadra redazionale all’altezza della suo valore e lo costrinse alle dimissioni proprio in quei giorni. Morace mi affidò la responsabilità dell’inserto ed io chiesi ed ottenni che mi venisse affiancata la bravissima Daniela Pellicanò, anch’essa cresciuta professionalmente tra le pagine de “laltrareggio”. Daniela ed io confezionammo gli inserti attingendo a materiali presenti nell’emeroteca della mia famiglia, riproducendo volantini e manifesti custoditi in originale. La ricostruzione cronologica degli eventi era affiancata dai commenti degli inviati dell’epoca e da numerose testimonianze; pezzo forte fu un’intervista di Adele Cambria a Giacomo Mancini, che avevo scovato tra le pagine di una rivista semiclandestina della sinistra extraparlamentare (“Alternativa” del 14 febbraio 1971, anno 1° numero 1), in quell’occasione Mancini aveva cercato di giustificare il suo operato, descrivendo mirabilie del 5° Centro siderurgico che si sarebbe rivelato, invece, una colossale bufala; ne venne fuori l’impietosa immagine del classico politico provinciale interessato esclusivamente agli interessi del suo collegio elettorale, che sciorinava senza pudore incomprensibili motivazioni nel più bieco stile politichese. Adele fu bravissima a stanare, da sinistra, un politico di primo piano del centro-sinistra nazionale, che era diventato il giusto bersaglio dei rivoltosi. Nell’editoriale apparso nel ventesimo e ultimo numero dell’inserto, Daniela Pellicanò, tirando le fila del lavoro, stigmatizzava il fatto che i commenti apparsi sui giornali in quei giorni, in occasione appunto del trentesimo anniversario, non riuscivano ancora ad inquadrare la rivolta nella giusta luce, al contrario, invece, alcuni interventi di autorevoli giornalisti dell’epoca si erano dimostrati acuti e lungimiranti; citava questa mirabile considerazione di Franco Rosati, apparsa nel 1971 sulla rivista “Il Cavour” (badate bene, una rivista regionale piemontese): “E non è soltanto una rivolta campanilistica… E’ la rivolta contro un sistema che vede i partiti arbitri di tutto ma perennemente impegnati a non risolvere i problemi del popolo italiano, ma a condizionarsi a vicenda, perduti e divisi in mille rivoli di correnti, tutte occupate in giochi di potere e tra congressi, riunioni, convegni, più o meno segreti, tra questa e quella elezione, tra questa e quella scadenza, tra una riforma usata ed un’altra inventata, infischiarsene altamente del bene dei cittadini e delle loro necessità. E’ la rivolta contro le ingiustizie, le prepotenze, le partigianerie dei nuovi feudatari… E’ una rivolta morale”.
E’ incredibile l’attualità di queste parole ed è drammatico il costatare come nulla sia cambiato da allora; suona beffarda, alle nostre orecchie contemporanee, questa definizione di “rivolta morale”, delineate le proporzioni, oggi appare più necessaria una vera e propria rivoluzione.
Nell’agosto 2005 pubblicai il lavoro di Antonino Stillittano “Reggio capoluogo: fu vero scippo?”. Nino, grande dirigente del PCI, oggi ultranovantenne, mantiene ancora la rigida posizione del Partito dell’epoca, considera la rivolta “causa dell’involuzione politica della nostra provincia” e non transige sul suo carattere fascista; ma ha l’onestà intellettuale di ammettere che l’atteggiamento tenuto dal PCI reggino durante i fatti di Reggio, fu determinato dalla subalternità del gruppo dirigente reggino verso i compagni delle altre due province, ed arriva ad attribuirne la causa a: “L’imperante centralismo democratico che condizionava ogni decisione degli organismi periferici a scapito di gravi sanzioni disciplinari nei riguardi di coloro i quali osavano mettere in discussione quanto gli organismi centrali avevano deciso.” Ed ancora: “Non era un mistero per nessuno la subalternità del gruppo dirigente reggino verso i compagni delle altre due province, sia per il loro passato politico sia anche per la preparazione culturale e politica, ivi compresa la posizione economica di alcuni di loro (sic)… questi compagni esercitavano una tale influenza su noi reggini… da porci, durante le discussioni politiche e le decisioni da prendere, quasi in uno stato d’inferiorità psicologica…”. Più politica ed elaborata risulta invece l’analisi di un altro grande dirigente del PCI, Tommaso Rossi, che, nel dicembre del 2005, ha pubblicato con la mia casa editrice la sua appassionata autobiografia “Il lungo cammino”. Il capitolo dedicato alla rivolta è sofferto ma lucido, Rossi non ha difficoltà ad ammettere che mentre “fuori si cominciava a sparare, in Federazione si discuteva di cose interne. Ci sfuggiva per intero la percezione di quel che stava per accadere in città, un segno del nostro distacco.” La sua teoria è netta: “Se, dunque, è vero che nel PCI si manifestarono ritardi di elaborazione è tuttavia evidente che una lettura attenta degli avvenimenti e della loro successione non consente di poter affermare che in quella situazione la sinistra ed il PCI potessero assumere una posizione diversa da quella che, dopo un dibattito travagliato nella Federazione reggina, si scelse di seguire. La rivolta, aldilà dei suoi contenuti specifici, si inseriva in una sequenza di avvenimenti che andavano dai tentativi eversivi e golpisti dell’estrema destra, dall’attacco all’Istituzione regionale da parte del MSI, sino alle prove di mobilitazione violenta effettuate qualche mese prima proprio a Reggio da Valerio Borghese. Una rivendicazione che apparteneva al senso comune dei reggini, veniva utilizzata per inserirla in un disegno più generale di attacco allo Stato democratico. Si era, ormai, determinata una situazione in cui le forze della destra eversiva avevano acquisito tutti gli strumenti per accrescere il consenso attorno alle loro parole d’ordine di esaltazione della ideologia del capoluogo. Mi limito, dunque, di fronte alla tendenza che si manifesta anche a sinistra, di una rilettura critica delle posizioni del PCI e del PSI, a rilevare che sarebbe stato impossibile assumere un atteggiamento diverso… Rimango fortemente convinto che gli errori del PCI non furono certo quelli di aver preso le distanze da una rivolta che aveva le caratteristiche di un movimento eversivo e municipalistico, ma furono altri. Le elezioni regionali, che arrivarono con ventidue anni di ritardo rispetto alla promulgazione della Costituzione, non erano state accompagnate da una adeguata preparazione politica. Non ci fu in sostanza, nell’impostazione della campagna elettorale, la necessaria sottolineatura del valore dirompente che l’Istituto Regionale avrebbe dovuto assumere per spezzare lo schema dello Stato centralizzato, soprattutto nella realtà del Mezzogiorno; dell’importanza che l’autogoverno avrebbe avuto nel processo di crescita economica e sociale in una realtà come quella calabrese. Mancò in sostanza la spinta necessaria alla formazione di una cultura regionalistica. In conseguenza di ciò si accentuò il fenomeno municipalista e il prevalere dei cento campanili.” Ed infine l’amarissima chiosa: “Quegli errori non solo crearono un terreno favorevole all’esplosione dei fatti di Reggio, ma crearono anche il presupposto per la costruzione di una Regione fondata sui vecchi vizi dello Stato accentratore, il prevalere di una concezione burocratica e clientelare che ha rappresentato e rappresenta tuttora il principale ostacolo alla crescita economica e sociale della Calabria.” Tommaso Rossi è un fine politico e la sua analisi è perfettamente in linea con l’alta concezione che il PCI aveva della politica e della società, ma quel che appare difficile negare è che quella politica ottenne l’effetto di allontanare la base popolare dal partito (vedi le centinaia di tessere strappate in piazza) e di consegnare la città alla destra e al degrado per oltre un ventennio. Il PCI, secondo il mio parere, avrebbe dovuto trovare il modo di blandire la folla (direi leninisticamente), assecondando la schietta anima popolare della rivolta per poi indirizzarla sapientemente verso obiettivi più realistici e concreti del “pennacchio” del capoluogo. Bollare sin dall’inizio la rivolta come fascista, fu un errore fatale che finì per realizzare nell’immaginario collettivo un riscatto della figura dei fascisti, che assunsero automaticamente il ruolo di paladini del popolo reggino. L’azzeramento dell’azione civile e sociale dei partiti di sinistra, determinò inoltre il più grande e devastante effetto negativo della rivolta: il ventennio 1970/90 che vide la città precipitare nel degrado, nel caos e nell’anarchia, dai quali sarebbe poi uscita con la primavera di Italo Falcomatà. Purtroppo però gli effetti negativi avevano inquinato la base strutturale della società, per cui fu sufficiente la drammatica e nefasta uscita di scena del sindaco (nel dicembre 2001) a far riprecipitare la città nell’incubo del degrado e della corruzione.
Sulla rivolta si è anche soffermato il decano dei giornalisti reggini, Antonio La Tella, nel suo libro autobiografico “Taccuino segreto” pubblicato nel dicembre 2006. La Tella, che era molto vicino a Ciccio Franco, mantiene una posizione “ortodossa” sulla rivolta, che lui ha vissuto in primo piano come giornalista de “Il Tempo” e consigliere di gran parte dei politici (anche nazionali) presenti sulla scena, il suo libro è infarcito di aneddoti gustosi e particolari inediti ed è un esempio di fine scrittura. Per concludere questo excursus sulle pubblicazioni della mia casa editrice sulla Rivolta di Reggio, arriviamo all’ultimo nato: “Fuori dalle barricate, foto racconto della rivolta di Reggio”, uscito nel luglio 2010, in cui un ormai navigatissimo Fabio Cuzzola è affiancato da una giovane e brillante esordiente, Valentina Confido. Il libro, uscito in piena fase di celebrazione del 40° anniversario, ha l’intento squisitamente didattico di spiegare ai giovani la storia di quegli anni e lo scopo, chiaramente espresso dal titolo, di eliminare definitivamente quelle “barricate” che furono abbattute dai carri armati dello Stato solo materialmente, ma “rimasero erette idealmente contro tutto e tutti dopo il biennio 70-80 e che relegarono Reggio nel dimenticatoio” come scrive Cuzzola nella sua postfazione.
La mia età, ahimè, mi consente di fornire anche delle testimonianze dirette su quegli anni, sono testimonianze che riguardano la vita quotidiana sotto la rivolta e le difficoltà che si incontravano quotidianamente per espletare le varie attività. Uno dei ricordi più vividi è quello dei vari giornalisti e inviati che frequentavano assiduamente l’agenzia di distribuzione stampa “Granillo & Arcidiaco”, gestita da mio padre in società con Oreste Granillo. Io vi passavo gran parte delle mie giornate anche perché la scuola che frequentavo (il liceo scientifico “A.Volta” che, appena sorto da una costola del “Vinci”, era insediato nel vecchio edificio del collegio “San Prospero”) era stata requisita e adibita a caserma per i celerini. Era, per me, l’anno della maturità da ottobre 1970 a luglio 1971; inutile dire che il decorso degli studi fu abbastanza tormentato e particolare. Ci riunivamo a gruppi ed andavamo a casa dei professori più disponibili per organizzare delle vere e proprie lezioni clandestine. I pochi mesi in cui l’edificio fu sgombero, per recarsi a scuola bisognava sfidare l’ostilità degli “scioperanti”; andare in giro con i libri sottobraccio equivaleva ad essere classificato “crumiro comunista” e si rischiava seriamente il pestaggio. La sede dell’agenzia era al pianterreno della mia casa, in via Gaeta angolo via Nino Bixio; era una zona calda, a due passi dal ponte Calopinace, dove era stata alzata una delle barricate più strategiche, e delle sedi dell’Inail e delle Poste-ferrovie che venivano assaltate e incendiate un giorno sì e l’altro pure. Il lavoro cominciava alle quattro del mattino quando arrivavano i quotidiani per la distribuzione; i giornalisti arrivavano alle prime luci dell’alba per ritirare i plichi con le copie omaggio a loro destinate. I più assidui erano Luciano Lombardi della Rai e Bruno Tucci del Messaggero, mentre Giorgio Pisanò, direttore del Candido, aveva praticamente fatto dell’agenzia la sede della sua redazione. Pisanò era un personaggio irruento, reso ancora più tracotante dall’inaspettato grande successo di vendita del suo giornale, che era diventato l’organo ufficiale della rivolta. Me lo ricordo assistere impaziente allo scarico dei pacchi di giornali dalle motoapi, ne afferrava uno e lo apriva e poi cominciava a sfogliare una copia percorrendo a grandi falcate tutto il locale. Computer e fax erano aldilà da venire e quindi il risultato del tuo lavoro lo potevi vedere soltanto quando ti arrivava il giornale in mano. Le urla e le imprecazioni si sprecavano alla scoperta di inevitabili imperfezioni e refusi! Mio padre lo tollerava sornione, non avrebbe mai permesso a nessuno (nemmeno al suo socio) di urlare in casa sua, ma Pisanò in quei giorni era pur sempre il nostro miglior fornitore… E pensare che i primi giorni della rivolta la nostra situazione era stata a dir poco drammatica, moltissime volte avevamo subito irruzioni minacciose ed eravamo stati costretti a consegnare i pacchi dei giornali (l’Unità e l’Avanti in primis) che poi venivano bruciati in piazza Italia; una delle prime sere mia madre era rimasta atterrita con il telefono in mano, minacciavano di bruciare la nostra casa e l’agenzia se avessimo distribuito l’indomani la Gazzetta del Sud. All’inizio della rivolta, infatti, la Gazzetta si era dimostrata molto critica nei confronti dei rivoltosi; fu sufficiente quella sera una telefonata a Messina di mio padre, che buttò giù dal letto l’editore (il mitico Uberto Bonino), a trasformare sulle colonne del giornale i “teppisti” in “eroico popolo reggino”. Quando mio padre me lo consentiva, saltavo sul furgone rosso e accompagnavo gli operai al “Cippo” alle quattro del mattino; ci posizionavamo sul molo con i fari accesi rivolti verso il mare, per indicare l’approdo al barcone che trasportava da Messina le copie della Gazzetta. Lo Stretto, infatti, era bloccato e quello era l’unico modo per fare arrivare la Gazzetta. Gli altri giornali, quotidiani e periodici, arrivavano con i treni fino a Villa San Giovanni ed andavamo a ritirarli con i nostri mezzi, che superavano le barricate grazie al classico “obolo” della benzina per rifornire le “Molotov”. Bisogna anche dire che i rivoltosi si erano fatti furbi e avevano capito che era meglio non mettersi contro la stampa; allora, televisione significava solo i due canali della Rai, che naturalmente non era affatto tenera, quindi una certa indulgenza e comprensione da parte della carta stampata erano fattori preziosi e indispensabili. Una mattina rischiai seriamente di essere arrestato, avevamo appena finito la distribuzione dei quotidiani ed avevo come al solito le mani annerite dall’inchiostro. In agenzia non c’era acqua nei bagni per un guasto ed i fazzolettini umidi non erano stati ancora inventati, fui costretto ad uscire con le mani sporche. Alla fine del Corso Garibaldi, a cento metri dall’agenzia, c’era (e c’è ancora oggi) il Rio Bar, finito il lavoro mi recavo tutte le mattine a fare colazione, ma quel giorno avevo le mani sporche… Girato l’angolo mi imbattei in una pattuglia di celerini, si stavano recando verso la “Repubblica di Sbarre” pronti ad affrontare e superare la barricata del Calopinace che era piuttosto vulnerabile; contrariamente a quella del ponte di San Pietro non era, infatti, in muratura, ma elevata con materiale “mobile”. Sciaguratamente a uno dei celerini saltò agli occhi il colore “nerofumo” delle mie mani, si convinse che avevo combinato qualcosa (dalle mani sporche credevano di intuire che avevi lanciato pietre o partecipato ad azioni di guerriglia) e fece per afferrarmi, io istintivamente cominciai a correre ed urlare e per fortuna attirai l’attenzione di mio padre che si stava recando a sua volta al bar con alcuni dipendenti; per fortuna anche loro avevano le mani sporche e l’equivoco fu chiarito.
Mi trovavo, per forza di cose, invischiato nella rivolta ma ideologicamente ne ero lontano anni luce. Il 26 settembre del 1970 erano morti i cinque anarchici e quella vicenda mi aveva segnato profondamente. Non sono stato anarchico nemmeno da adolescente, l’età in cui, forse, sarebbe giusto esserlo; eppure quei ragazzi, soprattutto Angelo Casile, esercitavano su di me una forte attrazione. Angelo aveva un’espressione mite, dolce e sognante; a due passi da casa mia, alla fine della Via Nino Bixio, quasi a ridosso dell’argine del Calopinace, c’era il suo studio d’artista in un cantinato buio e umido. Quando lo vedevo emergere dalla grata che chiudeva l’ingresso, ammiravo con invidia i suoi lunghi capelli neri e gli rivolgevo un cenno di saluto che mi ricambia cordialmente, poi, mentre lui percorreva la strada a grandi falcate, nonostante la poliomelite l’avesse reso claudicante, speravo ardentemente che mio padre non l’avesse visto; i suoi commenti feroci su quello “sbandato capellone anarchico” mi ferivano profondamente ed acuivano il forte conflitto in corso tra di noi. Di Gianni Aricò, invece, non avevo una gran concetto; lo trovavo arrogante e sprezzante, anche perché, quando ci incontravamo, non mancava di sottolineare la mia condizione di “piccolo-borghese figlio di papà”.
Offesa più grave per me, che già da allora mi sentivo comunista fino al midollo, non poteva esserci.
Quando arrivò la notizia dell’incidente mortale rimasi profondamente colpito anche dall’indifferenza della città; tutti noi di sinistra non nutrivamo alcun dubbio sulla natura dell’evento, ma non avevamo alcun mezzo, oltre a qualche volantino ciclostilato diffuso clandestinamente, per manifestare le nostre convinzioni. “Se la sono cercata”era il motivo ricorrente dei commenti in città, una città affogata nei pregiudizi e sopraffatta dalla violenza, incapace di riconoscere le qualità dei suoi figli migliori. Io, che ancora non avevo elaborato il lutto per la morte di Che Guevara (9 ottobre 1967, appena iniziato il 2° liceo), mi ritrovavo ancora una volta al cospetto della morte ingiusta. Per fortuna, in mezzo a quello sfacelo, arrivavano le fantastiche notizie dal Cile, dove Salvador Allende aveva appena avviato il governo di “Unidad popular” concretizzando una grande speranza della sinistra mondiale. La sera, chiuso nella mia stanza con mio fratello Luciano, con una mano un fazzoletto bagnato sugli occhi per attenuare gli effetti dei lacrimogeni e con l’altra una radiolina all’orecchio, ascoltavo le notizie che arrivavano dal Cile e fantasticavo sul “sol dell’avvenir”, come se Santiago fosse dietro l’angolo. Ancora altre disillusioni e tragedie sarebbero dovute arrivare e le mie disfatte ideologiche non avrebbero avuto mai fine.
Franco Arcidiaco