”Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”. Questa bellissima frase pronunciata nel film L’attimo fuggente dal prof. John Keating (interpretato da Robin Williams) non poteva non tornarmi in mente nel momento in cui ho avuto tra le mani il poema Foglie d’erba che, per la verità, avevo cercato soprattutto per rileggerne la magnifica prefazione di Giorgio Manganelli.
La vicenda poetica di Walt Whitman è paradigmatica della Storia Americana. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, gli Stati Uniti non avevano ancora una poesia veramente autoctona, non avevano in sostanza un “poeta nazionale” degno di questo nome. Proprio nel momento in cui l’America cominciò a sentire l’esigenza di avere una propria voce, istintiva, con cui cantare se stessa, arrivò appunto Whitman, poeta di un unico libro, anzi di un vero e proprio poema epico, che in quel tempo ancora appariva come il genere più adatto a interpretare e fissare compiutamente la storia di una nazione; non a caso qualche critico è arrivato a parlare del poema come “prodotto dell’inconscio collettivo non meno che del singolo autore” o di “Bibbia democratica americana”.
Il tentativo di Whitman era piuttosto ambizioso, la sua idea, infatti, era di definire tutta una nazione e di “esprimere in forma letteraria o poetica, e senza compromessi, la mia propria persona fisica, emotiva, morale, intellettuale ed estetica, accordandola per mezzo dello spirito e dei fatti importanti dei suoi giorni immediati e dell’America attuale; svolgendo questa personalità, identificata nel tempo e nello spazio, in un senso molto più ingenuo e comprensivo che in qualunque libro o poema scritto sinora”.
In realtà la sua opera è l’incarnazione di fascinazioni tardoromantiche portate alle estreme conseguenze. Leaves of Grass, Foglie d’erba, fu un poema in itinere che vegetò e infittì fra le mani di Whitman; la prima edizione uscì nel 1855 e da quel momento, fino al 26 marzo 1892, giorno della sua morte, la sua storia personale e quella del poema furono una sola cosa. Il libro, al quale il poeta lavorò quindi per oltre metà della vita, comprendeva nella prima edizione pochissime poesie faticosamente elaborate. Uscì in ottocento copie, delle quali una sola fu venduta mentre le altre vennero distribuite a poeti, critici, amici e riviste letterarie; registrò più critiche che consensi ma Whitman non si arrese e avviò tutta una serie di revisioni e di inserimenti di nuovi capitoli producendo ben altre nove edizioni ognuna delle quali “accresciuta e corretta”, arrivando addirittura a modificarle anche in sede di ristampa. La quinta edizione del 1871 è quella che comprende Memories of President Lincoln con la celeberrima O Captain! My Captain!, la decima, ultima, è del 1892 ed è quella detta “del letto di morte”. In un’immaginaria rassegna della poesia universale nella quale ogni Paese fosse chiamato a presentare il suo poeta di riferimento, ritroveremmo dunque i versi di Whitman schierati al fianco di quelli di Dante, Goethe, Szymborska, Lorca, Baudelaire, Gibran, Majakovskij, Borges e Pessoa. Non renderemmo certo un buon servigio al povero Whitman poiché il suo poema non reggerebbe assolutamente il confronto con gli altri capolavori. Il suo motto “Sii semplice e chiaro, non essere occulto” è portato alle estreme conseguenze: il suo stile manifesta, infatti, una rozzezza di fondo, figlia della sua foga incontrollata e del suo infantile e didascalico entusiasmo marcatamente compilativo; l’utilizzo indiscriminato di slang, termini desueti e definizioni improbabili e il suo dispregio per la metrica, sono a mala pena suppliti dalla sua abilità oratoria e da qualche raro sprazzo di lirismo ispirato. Non a caso la lirica più conosciuta O Captain! My Captain!, resa celeberrima dal film L’attimo fuggente di Peter Weir, deriva la sua forza e la sua efficacia proprio dallo schema metrico e dai versi regolari e rimati che in genere Whitman non privilegiava. Eppure tra le pagine di Whitman sono nascoste delle perle preziose che non sono sfuggite al grande Giorgio Manganelli che definisce la sua poesia “estremamente e deliberatamente sviante; una poesia che sembra brulicare di idee ed anzi di raccomandarsi in grazia del frastuono di codeste idee, dell’ambigua generosità da comizio, della irritante fraternità dei vocativi, una sospetta eloquenza da predicatore itinerante…”. Con brevi incursioni tra le pagine, Manganelli segnala alcune “finezze ambigue, anche delicatamente puttanesche”. Questi versi sono un esempio: “O forse è il fazzoletto del Signore/un ricordo profumato lasciato cadere di proposito…”; il poeta, interrogato da un giovinetto su cosa sia mai l’erba, avanza l’ipotesi che sia una sorta di dono profumato lasciato cadere di proposito dal Signore per non farsi dimenticare. Mi ha molto incuriosito questa storia del fazzoletto profumato, mi ha fatto tornare in mente un elegante signore, si chiamava Mario Cundari, impiegato dell’agenzia giornalistica di mio padre, che soleva portare nella tasca dei pantaloni un fazzoletto intriso di profumo che non perdeva occasione di sfoderare per spargerne le buone essenze nell’ambiente di lavoro fumoso e polveroso di inchiostro dei giornali. Da un paio di versi nasce una suggestione o, per dirla con Manganelli, “un’istantanea meraviglia”. Emily Dickinson è stata una grande poetessa americana contemporanea di Whitman, lei del Massachusetts, lui dello stato di New York; meno amata dagli americani duri e puri e scoperta molti anni dopo la morte, ha lanciato involontariamente una ciambella di salvataggio all’opera di un poeta che da lei era lontano artisticamente anni luce: “Non c'è nessun vascello che, come un libro possa portarci in paesi lontani, né corsiere che superi al galoppo le pagine di una poesia. È questo un viaggio anche per il più povero, che non paga nulla, tanto semplice è la carrozza che trasporta l'anima umana”. Come dire che non esiste un libro che non contenga una perla, basta avere la costanza di cercarla. È evidente che la grandezza di Whitman risiede proprio nella semplicità e naturalezza con la quale, istintivamente, riusciva a esprimere le sue emozioni e i suoi aneliti di libertà; e questa sua caratteristica certamente contribuì a renderlo un mito soprattutto per le generazioni future. Lo “zio Walt” divenne un simbolo e i suoi versi guidarono il percorso “on the road” di tutti i poeti della Beat Generation, con in testa Allen Ginsberg che gli dedicò dei magnifici versi nel suo A Supermarket in California.
Franco Arcidiaco
Walt Whitman, Foglie d’erba, BUR poesia Rizzoli, Milano 1988, pagg. 520, £ 11.000
Whitman, Poesie, Nuova Accademia, Milano 1965, pagg. 160, £ 600
Walt Whitman, O capitano mio capitano, Crocetti editore, Milano 1990, pagg. 96, £ 10.000
domenica 3 dicembre 2017
domenica 29 ottobre 2017
GIORNALISTA E NARRATORE, DUE MESTIERI DIVERSI
Danilo Chirico è tra i pochi cronisti di giudiziaria e nera che quando scrive non corre il rischio di essere considerato un velinaro o, peggio, un megafono degli inquirenti e delle procure. Il suo linguaggio chiaro e coraggioso rispetta i principi cardine della buona informazione. Questo non significa automaticamente che Danilo sia diventato anche un bravo scrittore o meglio, per dirla con il nume tutelare della letteratura calabrese Pasquino Crupi, un bravo narratore. La capacità di narrare è fondamentalmente innata, anche se la pratica, a lungo andare, può produrre affinamento. Ma mentre risulta naturale a un buon scrittore applicare le forme narrative al giornalismo, non lo è altrettanto per un giornalista che si improvvisa narratore. Pier Paolo Pasolini, Gianni Brera o Dino Buzzati non erano classificabili come giornalisti: erano scrittori che scrivevano editoriali per i giornali. Viceversa non si registrano molti casi di bravi giornalisti che siano riusciti a rintracciare nel proprio DNA l’estro narrativo. Altro discorso vale, invece, per la saggistica che sovente appare come l’approdo naturale del buon cronista. Detto ciò, potrei anche chiudere questo faticoso tentativo di recensione, ma tale omissione dal sapore gesuitico produrrebbe, son certo, a Danilo più fastidio di una stroncatura.
In una recente intervista, Danilo ha dichiarato che Chiaroscuro “costruisce un asse – politico e criminale, ma anche economico e sociale – che mette in relazione, direi tiene insieme, questi due mondi” ovverossia la società reggina e quella romana, che sono rispettivamente la sua città di nascita e quella d’adozione. Siamo quindi nel terreno del romanzo di genere ed esattamente in quello del sempre più inflazionato noir (con buona pace del povero Simenon). Protagonista la generazione dei trenta-quarantenni le cui caratteristiche (grandi fervori ed enormi contraddizioni) sono trattate con un notevole realismo, viziato, però, da forzature fastidiosamente ridondanti. Il vomito continuo (siamo alla media di una vomitata ogni due pagine), l’Oki dipendenza e l’ossessiva passione (solo presunta, altrimenti non chiamerebbe la Barbera al maschile…) per i vini piemontesi, riducono il povero PM Federico Principe alla stregua di una macchietta. In questa sua opera prima, Danilo Chirico ha infranto la regola n. 11 del breviario di scrittura On Writing di Stephen King che recita testualmente: “Non date troppe informazioni inutili: meno è meglio! Includete nella vostra storia solo i dettagli davvero utili per farla andare avanti e per spingere il lettore a continuare a leggere”.
Parlavo prima di realismo, Danilo lo profonde a piene mani; l’esperienza maturata sul campo ha arricchito oltre misura il suo bagaglio ma ha infuso un’ansia bulimica al tessuto narrativo. Dentro Chiaroscuro ci sono decine e decine di fatti realmente accaduti: la pistola di un PM che ferisce una ragazza durante una festa, il vizietto della cocaina di qualche giovane magistrato, le frequentazioni e le parentele imbarazzanti di alcuni inquilini della procura, i rapporti privilegiati con determinati cronisti, i rapporti complicati (per usare un eufemismo morbido) con superiori e colleghi, la tentazione della politica; un déjà vu per chiunque abbia prestato un po’ di attenzione alla cronaca degli ultimi decenni.
Aver voluto racchiudere tutti questi elementi in un unico personaggio è stato l’errore principale di Danilo Chirico; l’intreccio risente dell’ammassarsi di fatti e circostanze e rende arduo al lettore il dipanamento del groviglio letterario. Mi risulta imbarazzante giudicare il lavoro degli altri editori, ma da un monumento come la Bompiani (sia pur ormai giuntizzata) mi sarei aspettato un lavoro di editing più accurato e deciso nei confronti dell’opera prima di un ottimo giornalista.
Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui ho completato la lettura del libro di Danilo Chirico, mi sia ritrovato tra le mani il volumetto di racconti di A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli editore.
Guthrie, romanziere americano che ha percorso tutto il ‘900, ha vinto il Premio Pulitzer nel 1950 ed è un maestro di narrativa che spazia dalla tragedia alla commedia, percorrendo la storia americana per raccontare “l’epos e le radici del lato oscuro e del lato luminoso del mito a stelle e strisce”. Il rapporto uomo-natura, l’avventura, il viaggio, la libertà, la violenza, il pentimento, l’amore mai sdolcinato, il tempo traditore; ingredienti classici che, mixati sapientemente, rivelano una grande vena da storyteller. Ne suggerisco la lettura a Danilo e alle sue editor in Bompiani.
Franco Arcidiaco
Danilo Chirico, Chiaroscuro, Bompiani, Milano 2017, pagg. 464, € 18,00
A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli, Fidenza 2016, pagg. 152, € 16,90
In una recente intervista, Danilo ha dichiarato che Chiaroscuro “costruisce un asse – politico e criminale, ma anche economico e sociale – che mette in relazione, direi tiene insieme, questi due mondi” ovverossia la società reggina e quella romana, che sono rispettivamente la sua città di nascita e quella d’adozione. Siamo quindi nel terreno del romanzo di genere ed esattamente in quello del sempre più inflazionato noir (con buona pace del povero Simenon). Protagonista la generazione dei trenta-quarantenni le cui caratteristiche (grandi fervori ed enormi contraddizioni) sono trattate con un notevole realismo, viziato, però, da forzature fastidiosamente ridondanti. Il vomito continuo (siamo alla media di una vomitata ogni due pagine), l’Oki dipendenza e l’ossessiva passione (solo presunta, altrimenti non chiamerebbe la Barbera al maschile…) per i vini piemontesi, riducono il povero PM Federico Principe alla stregua di una macchietta. In questa sua opera prima, Danilo Chirico ha infranto la regola n. 11 del breviario di scrittura On Writing di Stephen King che recita testualmente: “Non date troppe informazioni inutili: meno è meglio! Includete nella vostra storia solo i dettagli davvero utili per farla andare avanti e per spingere il lettore a continuare a leggere”.
Parlavo prima di realismo, Danilo lo profonde a piene mani; l’esperienza maturata sul campo ha arricchito oltre misura il suo bagaglio ma ha infuso un’ansia bulimica al tessuto narrativo. Dentro Chiaroscuro ci sono decine e decine di fatti realmente accaduti: la pistola di un PM che ferisce una ragazza durante una festa, il vizietto della cocaina di qualche giovane magistrato, le frequentazioni e le parentele imbarazzanti di alcuni inquilini della procura, i rapporti privilegiati con determinati cronisti, i rapporti complicati (per usare un eufemismo morbido) con superiori e colleghi, la tentazione della politica; un déjà vu per chiunque abbia prestato un po’ di attenzione alla cronaca degli ultimi decenni.
Aver voluto racchiudere tutti questi elementi in un unico personaggio è stato l’errore principale di Danilo Chirico; l’intreccio risente dell’ammassarsi di fatti e circostanze e rende arduo al lettore il dipanamento del groviglio letterario. Mi risulta imbarazzante giudicare il lavoro degli altri editori, ma da un monumento come la Bompiani (sia pur ormai giuntizzata) mi sarei aspettato un lavoro di editing più accurato e deciso nei confronti dell’opera prima di un ottimo giornalista.
Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui ho completato la lettura del libro di Danilo Chirico, mi sia ritrovato tra le mani il volumetto di racconti di A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli editore.
Guthrie, romanziere americano che ha percorso tutto il ‘900, ha vinto il Premio Pulitzer nel 1950 ed è un maestro di narrativa che spazia dalla tragedia alla commedia, percorrendo la storia americana per raccontare “l’epos e le radici del lato oscuro e del lato luminoso del mito a stelle e strisce”. Il rapporto uomo-natura, l’avventura, il viaggio, la libertà, la violenza, il pentimento, l’amore mai sdolcinato, il tempo traditore; ingredienti classici che, mixati sapientemente, rivelano una grande vena da storyteller. Ne suggerisco la lettura a Danilo e alle sue editor in Bompiani.
Franco Arcidiaco
Danilo Chirico, Chiaroscuro, Bompiani, Milano 2017, pagg. 464, € 18,00
A. B. Guthrie, L’ultimo serpente, Mattioli, Fidenza 2016, pagg. 152, € 16,90
ROSARIO VILLARI, IL NOSTRO LIBRO DI STORIA
Oggi è morta la Storia. Per la mia generazione e minimo per altre due, con Rosario Villari è scomparsa una parte importante di noi. Il libro di Storia, che noi chiamavamo semplicemente “il Villari”, compagno fedele di interminabili pomeriggi di studio, ha contribuito a sviluppare la nostra coscienza critica; ci ha fatto capire che la Storia non è semplicemente quello che raccontano i vincitori e le classi dominanti, ma è quella scritta col sudore e col sangue delle classi operaie e contadine. Rosario Villari ci ha spiegato che la Storia si può interpretare e ci ha fornito gli strumenti per farlo; ci ha fatto capire che la “questione meridionale” non è uno slogan vuoto ma il prodotto di un preciso disegno geopolitico. Nel mio Villari le pagine della Rivoluzione Francese sono appena leggibili tra sottolineature di vari colori, in un bordo c’è anche una macchia di marmellata, anche questa annotata con cura, segno di una delle tante merende consumate distrattamente avvinto dalle epiche vicende che scorrevano sotto i miei avidi occhi. Addio compagno Sasha e grazie per la semina.
Franco Arcidiaco
Post pubblicato su FB il 18.10.17
Franco Arcidiaco
Post pubblicato su FB il 18.10.17
domenica 22 ottobre 2017
LE PAOLINE E LA CORAZZATA POTËMKIN
“La libreria è un tempio, il libraio è un predicatore. Le nostre librerie non sono per fare denari, ma per beneficare la gente”. Questa frase, pronunciata da don Giacomo Alberione nel luglio del 1946, mi è tornata in mente quando la superiora della Congregazione delle Paoline della nostra città, suor José Maria Farini, mi ha proposto di intervenire alla Festa per l’Intronizzazione della Bibbia che si è svolta domenica 8 ottobre a Piazza Camagna. Il mio intervento, nella qualità di delegato comunale alla Cultura, non ha riguardato certo quello che il grande biblista francese Étienne Nodet definisce il “Libro dei Libri”; per parlare della Bibbia mi mancano i fondamentali… come si diceva una volta, e allora ho fatto ricorso alle suggestioni della mia memoria, che quando si tratta di vicende culturali non mi tradisce mai.
Don Giacomo Alberione era un tipo straordinario, basti pensare che il 20 agosto del 1914, mentre in Europa imperversava la Grande Guerra, in un tranquillo paesino delle Langhe piemontesi, Alba, decise di fondare nientemeno che una casa editrice, nacquero così le Edizioni Paoline; nel 1924 fondò il “Giornalino” (il primo settimanale per bambini che fece appassionare un’intera nazione alla nuova arte del fumetto; pensate che il mensile “Linus” sarebbe apparso solo nel 1965). Non contento, nel 1928 fondò in mezz’Italia la catena delle Librerie Paoline (giusto per dire, la catena delle Feltrinelli sarebbe arrivata ben 29 anni dopo!) e nel 1931 la “Famiglia Cristiana” (che ancora oggi è tra i più diffusi settimanali italiani).
Il motto di Alberione era “Portare Cristo oggi con i mezzi di oggi”, ovvero diffondere la parola di Dio tramite ogni mezzo che la tecnologia mette a disposizione; d’altra parte il suo ispiratore era San Paolo, a tutti gli effetti il primo comunicatore sociale che utilizzò proficuamente lo strumento mediatico del suo tempo, ovvero “le lettere”, al punto che l’intera sua predicazione è raccolta in epistole. Alberione, beatificato nel 2003, è stato proposto come “Patrono della rete” e penso che mai scelta fu più azzeccata come in questo caso.
Ma veniamo al mio rapporto con le Paoline, le “apostole della buona stampa e della parola fatta carta”: risale alla fine degli anni ’70, quando con un nutrito gruppo di giovani della sezione del PCI “Mattia Preti”, quartiere Tremulini, fondai il Circolo del Cinema “Pier Paolo Pasolini”. L’attività sociale del circolo si svolgeva all’interno della sezione sotto lo sguardo paterno ma diffidente dei compagni più anziani, mentre i film li proiettavamo nel salone della adiacente Scuola Elementare Carducci. Gli scarsi mezzi che avevamo a disposizione non ci consentivano di reperire le pellicole nei normali circuiti distributivi, lavoravamo con le bobine a 35mm ed eravamo costretti a noleggiarle nei circuiti del cinema d’essai di mezza Italia con costi per noi proibitivi. Il secondo anno di attività, quando cominciavamo a perdere le speranze di riuscire ad andare avanti, vennero in soccorso a noi, giovani comunisti duri e puri, le mitiche suore Paoline. La loro libreria sorgeva, come ancora oggi, nel plesso diocesano di piazza Duomo ed all’interno era ospitata la sezione del “Centro studi San Paolo Film”; in quegli anni di forti tensioni sociali, di aspre contrapposizioni tra i vari schieramenti politici, di “opposti estremismi” e “strategie della tensione”, una enclave cattolica ben definita animava e sosteneva la cultura cinematografica più progressista ed anticonformista, espressione diretta della rivoluzione planetaria del ’68. Nel loro catalogo erano presenti oltre al neorealismo italiano e al cinema di impegno civile, la nouvelle vague francese e il nuovo cinema indipendente americano, assieme ai grandi classici della cinematografia sovietica e ai maestri del cinema orientale e del cinema nordico (con la filmografia completa di Ingmar Bergman). Per tutto il suo periodo di attività il nostro circolo realizzò programmi di elevato livello avvalendosi esclusivamente dei film noleggiati “alle Paoline” e dell’ausilio delle preziose schede filmografiche prodotte dal centro studi.
Le suore che gestivano la libreria in quel periodo, andavano in giro con una Seicento Multipla bicolore e più di una volta ci consegnavano le bobine direttamente alla Carducci aspettando pazienti che raccogliessimo i soldi per pagarle. Sembra una storia alla Guareschi ma vi posso assicurare che andò proprio così. Oggi le suore Paoline continuano l’attività con lo stesso vigore d’allora ed il loro modello vincente si è esteso, grazie a papa Francesco, a tutto il movimento cattolico; noi comunisti, invece, siamo stati solo capaci di trasformare la battaglia contro le ideologie in una forma di karahiri collettivo ed oggi viviamo solo di ricordi.
Franco Arcidiaco
Don Giacomo Alberione era un tipo straordinario, basti pensare che il 20 agosto del 1914, mentre in Europa imperversava la Grande Guerra, in un tranquillo paesino delle Langhe piemontesi, Alba, decise di fondare nientemeno che una casa editrice, nacquero così le Edizioni Paoline; nel 1924 fondò il “Giornalino” (il primo settimanale per bambini che fece appassionare un’intera nazione alla nuova arte del fumetto; pensate che il mensile “Linus” sarebbe apparso solo nel 1965). Non contento, nel 1928 fondò in mezz’Italia la catena delle Librerie Paoline (giusto per dire, la catena delle Feltrinelli sarebbe arrivata ben 29 anni dopo!) e nel 1931 la “Famiglia Cristiana” (che ancora oggi è tra i più diffusi settimanali italiani).
Il motto di Alberione era “Portare Cristo oggi con i mezzi di oggi”, ovvero diffondere la parola di Dio tramite ogni mezzo che la tecnologia mette a disposizione; d’altra parte il suo ispiratore era San Paolo, a tutti gli effetti il primo comunicatore sociale che utilizzò proficuamente lo strumento mediatico del suo tempo, ovvero “le lettere”, al punto che l’intera sua predicazione è raccolta in epistole. Alberione, beatificato nel 2003, è stato proposto come “Patrono della rete” e penso che mai scelta fu più azzeccata come in questo caso.
Ma veniamo al mio rapporto con le Paoline, le “apostole della buona stampa e della parola fatta carta”: risale alla fine degli anni ’70, quando con un nutrito gruppo di giovani della sezione del PCI “Mattia Preti”, quartiere Tremulini, fondai il Circolo del Cinema “Pier Paolo Pasolini”. L’attività sociale del circolo si svolgeva all’interno della sezione sotto lo sguardo paterno ma diffidente dei compagni più anziani, mentre i film li proiettavamo nel salone della adiacente Scuola Elementare Carducci. Gli scarsi mezzi che avevamo a disposizione non ci consentivano di reperire le pellicole nei normali circuiti distributivi, lavoravamo con le bobine a 35mm ed eravamo costretti a noleggiarle nei circuiti del cinema d’essai di mezza Italia con costi per noi proibitivi. Il secondo anno di attività, quando cominciavamo a perdere le speranze di riuscire ad andare avanti, vennero in soccorso a noi, giovani comunisti duri e puri, le mitiche suore Paoline. La loro libreria sorgeva, come ancora oggi, nel plesso diocesano di piazza Duomo ed all’interno era ospitata la sezione del “Centro studi San Paolo Film”; in quegli anni di forti tensioni sociali, di aspre contrapposizioni tra i vari schieramenti politici, di “opposti estremismi” e “strategie della tensione”, una enclave cattolica ben definita animava e sosteneva la cultura cinematografica più progressista ed anticonformista, espressione diretta della rivoluzione planetaria del ’68. Nel loro catalogo erano presenti oltre al neorealismo italiano e al cinema di impegno civile, la nouvelle vague francese e il nuovo cinema indipendente americano, assieme ai grandi classici della cinematografia sovietica e ai maestri del cinema orientale e del cinema nordico (con la filmografia completa di Ingmar Bergman). Per tutto il suo periodo di attività il nostro circolo realizzò programmi di elevato livello avvalendosi esclusivamente dei film noleggiati “alle Paoline” e dell’ausilio delle preziose schede filmografiche prodotte dal centro studi.
Le suore che gestivano la libreria in quel periodo, andavano in giro con una Seicento Multipla bicolore e più di una volta ci consegnavano le bobine direttamente alla Carducci aspettando pazienti che raccogliessimo i soldi per pagarle. Sembra una storia alla Guareschi ma vi posso assicurare che andò proprio così. Oggi le suore Paoline continuano l’attività con lo stesso vigore d’allora ed il loro modello vincente si è esteso, grazie a papa Francesco, a tutto il movimento cattolico; noi comunisti, invece, siamo stati solo capaci di trasformare la battaglia contro le ideologie in una forma di karahiri collettivo ed oggi viviamo solo di ricordi.
Franco Arcidiaco
domenica 8 ottobre 2017
TUTTI I FANTASMI DI GIANNI AMELIO
Lo scorso mese di maggio, era di sabato, Antonella ed io abbiamo dato un passaggio in macchina a Gianni Amelio; si trovava a Reggio dalla sera prima per presentare il suo ultimo bel film “La tenerezza” e l’indomani, di buon mattino, doveva essere a Catanzaro, sua città natale, per un impegno di famiglia. Abbiamo fatto “il giro lungo”, in realtà avevamo un impegno a Bovalino nel pomeriggio, ma non ci siamo lasciati scappare l’occasione di conversare un paio d’ore con uno dei più importanti registi italiani.
L’occasione era ghiotta, poiché lo cercavo da tempo e lui purtroppo ha la cattiva abitudine di non rispondere né al telefono né alla posta elettronica; avevo bisogno di notizie su un suo film, girato a Reggio nel 1999 su commissione di Italo Falcomatà, “Uno schermo sull’acqua”.
Il film (una video-inchiesta di 50’, oggi avremmo detto un “docufilm”…) fu presentato in prima nazionale il 5 febbraio 2000 al “Teatro Politeama Siracusa” e raccontava la nostra città “che cambiava” attraverso varie voci: la giovane fotografa della Reggina, che era appena approdata al gotha della serie A, il libraio che animava il dibattito culturale in città, un giovane immigrato albanese, una ragazza nata in Canada tornata nella terra del padre e una giovane colombiana che si era innamorata di un coetaneo reggino “via internet”.
In quell’occasione Italo aveva dichiarato: “La nostra è una città che cambia perché i suoi cittadini hanno trovato fiducia in loro stessi e hanno riscoperto l’orgoglio delle loro radici, delle loro tradizioni, sicuri che un avvenire di sviluppo è concretamente possibile”.
Per raccontare questa “nuova” città, Amelio aveva incorniciato Reggio in uno schermo vero e proprio, quello che era stato allestito nell’estate del 1999 in riva al mare, davanti all’arena dello stretto, in occasione del “Festival Cinematografico del XXI Secolo”. Il regista calabrese pensò bene di usare quello schermo come uno specchio nel quale la città si rappresentava. Ricordo bene quella mattina magica in cui fu sistemato lo schermo, che corrispose anche al momento del primo ciak del film. Italo mi aveva convocato con altri pochi intimi, tra i quali un paio di pescatori di Calamizzi nel ruolo di “consulenti eolici”; i tecnici addetti al montaggio avevano raccomandato al sindaco di individuare una fascia oraria assolutamente priva di vento per non compromettere la stésa dello schermo e Italo chiamò i pescatori, che sapevano esattamente qual era il momento di “cambio di rema” che avrebbe assicurato una fase, sia pur breve, di calma piatta.
Con Laltrareggio seguivo passo passo l’attività del “sindaco della primavera” e, anzi, nell’occasione del Festival arrivai a produrre quello che forse fu il solo e unico esempio di quotidiano cinematografico, il XXI Secolo che per un’intera settimana accompagnò la programmazione del Festival.
Amelio realizzò dunque il film, che dopo aver girato i circuiti dei cineclub passò anche in Rai; il passo successivo sarebbe dovuto essere la produzione di un DVD per una distribuzione più capillare; purtroppo, invece, dopo la morte di Italo, “Uno schermo sull’acqua” subì le conseguenze della damnatio memoriae decretata dal suo successore. Ho cercato invano tracce del film a Palazzo San Giorgio ma, pur trattandosi di una produzione del Comune, non ho trovato alcunché.
Quella mattina in macchina Amelio è stato particolarmente loquace, Antonella ed io ci siamo limitati a qualche timida domanda, destinata ad essere travolta dal fiume di parole che ci riversava addosso, appoggiato con entrambi i gomiti sui sedili anteriori della nostra vecchia Skoda. Mi ha promesso che mi avrebbe aiutato a recuperare la pellicola originale del film o almeno una copia in DVD professionale e che mi avrebbe spedito in omaggio un cofanetto, prodotto dalla RAI in serie limitata, comprendente tutti i suoi film rimasterizzati in DVD.
Non abbiamo avuto più sue notizie, né abbiamo mai ricevuto i doni promessi; anche la sua email ed il suo cellulare hanno ripreso l’antica abitudine del silenzio…
Ha parlato tanto Gianni Amelio e, in due ore, ci ha sciorinato, con accattivante eloquio, la storia della sua vita e le inquietudini e i disagi della sua attuale condizione di anziano che sono, poi, tra i temi chiave de “La tenerezza”. Ci ha parlato della sua infanzia in un paesino di campagna attorniato da madri, zie, comari e nonne; del suo amatissimo figlio adottivo, Luan, di origini albanesi e delle tre adorate nipotine che lui si coccola portandole al cinema e in libreria. Ci ha parlato dell’odio profondo maturato per suo padre il giorno che si rifiutò di comprargli una rivista esposta in edicola, si trattava di Cinemanuovo che recava in copertina l’immagine di Jeanne Moreau tratta da Ascensore per il patibolo; non gli perdonò mai quella frase: “Coi soldi si compra il pane e non la carta”.
Arrivati a Catanzaro gli abbiamo donato un paio di libri di nostra edizione e lui ci ha invitato a leggere il suo ultimo libro Politeama edito da Mondadori salutandoci con queste testuali parole: “Temo, però, che dopo che l’avrete fatto mi toglierete il saluto!”. Forse è per questo che si è dimenticato di noi e delle promesse fatte…
Naturalmente, arrivati a Catanzaro Lido, ci siamo precipitati nella libreria Ubik del carissimo Nunzio Belcaro e abbiamo acquistato il libro.
In Politeama, Amelio racconta la storia di Luigino che vive una difficile infanzia, madre in manicomio e padre sconosciuto, nel Sud disperato degli anni ’50; un romanzo di formazione fuori da ogni schema nel quale l’autore, con chiara evidenza, riversa tutti i fantasmi derivanti dalle inquietudini di una diversità elaborata solo in età avanzata, il suo coming out, dalle pagine di Repubblica, risale infatti al 2014. Il romanzo è ricco di bellissime descrizioni in soggettiva che ci fanno entrare nel personaggio di Luigino, che è una tabula rasa, e viviamo con lui realisticamente la scoperta delle cose e le sensazioni che gliene derivano.
La crudezza di alcune scene di sesso e di violenza può risultare a tratti insopportabile e forse da questo derivava il suo ammonimento… in realtà se una critica mi sento di muovere riguarda invece lo stile di scrittura, tutti i dialoghi sono troppo verbosi e circostanziati al punto di rendere particolarmente noiosa la lettura. Amelio poi si concede il vezzo di porre in epigrafe a ogni capitolo dei versi tratti da canzoni degli anni ’50, francamente non ne ho capito il motivo poiché l’operazione non appare funzionale né a contestualizzare l’epoca storica, né a richiamare delle attinenze narrative.
L’incipit è didascalico e vale la pena di essere riportato: “Quando Luigi aveva sette anni, sua madre lo vestiva da femmina. Al buio, nella casa senza finestre, lo faceva salire su una sedia e gli infilava le mutandine rosa, poi la gonnella a fiori, la camicetta con le maniche corte, le calze e le scarpe bianche della sorella che era morta il mese prima”.
Caro Gianni, il libro l’ho letto e non è certo per questo motivo che ti leverò il saluto, ma tu almeno cerca di leggere questa mia strana recensione, non vorrei che in un angolo remoto della tua mente mi avessi relegato al semplice ruolo di autista…
Franco Arcidiaco
Gianni Amelio, Politeama, Mondadori, Milano 2016, pagg. 176, € 18,00
L’occasione era ghiotta, poiché lo cercavo da tempo e lui purtroppo ha la cattiva abitudine di non rispondere né al telefono né alla posta elettronica; avevo bisogno di notizie su un suo film, girato a Reggio nel 1999 su commissione di Italo Falcomatà, “Uno schermo sull’acqua”.
Il film (una video-inchiesta di 50’, oggi avremmo detto un “docufilm”…) fu presentato in prima nazionale il 5 febbraio 2000 al “Teatro Politeama Siracusa” e raccontava la nostra città “che cambiava” attraverso varie voci: la giovane fotografa della Reggina, che era appena approdata al gotha della serie A, il libraio che animava il dibattito culturale in città, un giovane immigrato albanese, una ragazza nata in Canada tornata nella terra del padre e una giovane colombiana che si era innamorata di un coetaneo reggino “via internet”.
In quell’occasione Italo aveva dichiarato: “La nostra è una città che cambia perché i suoi cittadini hanno trovato fiducia in loro stessi e hanno riscoperto l’orgoglio delle loro radici, delle loro tradizioni, sicuri che un avvenire di sviluppo è concretamente possibile”.
Per raccontare questa “nuova” città, Amelio aveva incorniciato Reggio in uno schermo vero e proprio, quello che era stato allestito nell’estate del 1999 in riva al mare, davanti all’arena dello stretto, in occasione del “Festival Cinematografico del XXI Secolo”. Il regista calabrese pensò bene di usare quello schermo come uno specchio nel quale la città si rappresentava. Ricordo bene quella mattina magica in cui fu sistemato lo schermo, che corrispose anche al momento del primo ciak del film. Italo mi aveva convocato con altri pochi intimi, tra i quali un paio di pescatori di Calamizzi nel ruolo di “consulenti eolici”; i tecnici addetti al montaggio avevano raccomandato al sindaco di individuare una fascia oraria assolutamente priva di vento per non compromettere la stésa dello schermo e Italo chiamò i pescatori, che sapevano esattamente qual era il momento di “cambio di rema” che avrebbe assicurato una fase, sia pur breve, di calma piatta.
Con Laltrareggio seguivo passo passo l’attività del “sindaco della primavera” e, anzi, nell’occasione del Festival arrivai a produrre quello che forse fu il solo e unico esempio di quotidiano cinematografico, il XXI Secolo che per un’intera settimana accompagnò la programmazione del Festival.
Amelio realizzò dunque il film, che dopo aver girato i circuiti dei cineclub passò anche in Rai; il passo successivo sarebbe dovuto essere la produzione di un DVD per una distribuzione più capillare; purtroppo, invece, dopo la morte di Italo, “Uno schermo sull’acqua” subì le conseguenze della damnatio memoriae decretata dal suo successore. Ho cercato invano tracce del film a Palazzo San Giorgio ma, pur trattandosi di una produzione del Comune, non ho trovato alcunché.
Quella mattina in macchina Amelio è stato particolarmente loquace, Antonella ed io ci siamo limitati a qualche timida domanda, destinata ad essere travolta dal fiume di parole che ci riversava addosso, appoggiato con entrambi i gomiti sui sedili anteriori della nostra vecchia Skoda. Mi ha promesso che mi avrebbe aiutato a recuperare la pellicola originale del film o almeno una copia in DVD professionale e che mi avrebbe spedito in omaggio un cofanetto, prodotto dalla RAI in serie limitata, comprendente tutti i suoi film rimasterizzati in DVD.
Non abbiamo avuto più sue notizie, né abbiamo mai ricevuto i doni promessi; anche la sua email ed il suo cellulare hanno ripreso l’antica abitudine del silenzio…
Ha parlato tanto Gianni Amelio e, in due ore, ci ha sciorinato, con accattivante eloquio, la storia della sua vita e le inquietudini e i disagi della sua attuale condizione di anziano che sono, poi, tra i temi chiave de “La tenerezza”. Ci ha parlato della sua infanzia in un paesino di campagna attorniato da madri, zie, comari e nonne; del suo amatissimo figlio adottivo, Luan, di origini albanesi e delle tre adorate nipotine che lui si coccola portandole al cinema e in libreria. Ci ha parlato dell’odio profondo maturato per suo padre il giorno che si rifiutò di comprargli una rivista esposta in edicola, si trattava di Cinemanuovo che recava in copertina l’immagine di Jeanne Moreau tratta da Ascensore per il patibolo; non gli perdonò mai quella frase: “Coi soldi si compra il pane e non la carta”.
Arrivati a Catanzaro gli abbiamo donato un paio di libri di nostra edizione e lui ci ha invitato a leggere il suo ultimo libro Politeama edito da Mondadori salutandoci con queste testuali parole: “Temo, però, che dopo che l’avrete fatto mi toglierete il saluto!”. Forse è per questo che si è dimenticato di noi e delle promesse fatte…
Naturalmente, arrivati a Catanzaro Lido, ci siamo precipitati nella libreria Ubik del carissimo Nunzio Belcaro e abbiamo acquistato il libro.
In Politeama, Amelio racconta la storia di Luigino che vive una difficile infanzia, madre in manicomio e padre sconosciuto, nel Sud disperato degli anni ’50; un romanzo di formazione fuori da ogni schema nel quale l’autore, con chiara evidenza, riversa tutti i fantasmi derivanti dalle inquietudini di una diversità elaborata solo in età avanzata, il suo coming out, dalle pagine di Repubblica, risale infatti al 2014. Il romanzo è ricco di bellissime descrizioni in soggettiva che ci fanno entrare nel personaggio di Luigino, che è una tabula rasa, e viviamo con lui realisticamente la scoperta delle cose e le sensazioni che gliene derivano.
La crudezza di alcune scene di sesso e di violenza può risultare a tratti insopportabile e forse da questo derivava il suo ammonimento… in realtà se una critica mi sento di muovere riguarda invece lo stile di scrittura, tutti i dialoghi sono troppo verbosi e circostanziati al punto di rendere particolarmente noiosa la lettura. Amelio poi si concede il vezzo di porre in epigrafe a ogni capitolo dei versi tratti da canzoni degli anni ’50, francamente non ne ho capito il motivo poiché l’operazione non appare funzionale né a contestualizzare l’epoca storica, né a richiamare delle attinenze narrative.
L’incipit è didascalico e vale la pena di essere riportato: “Quando Luigi aveva sette anni, sua madre lo vestiva da femmina. Al buio, nella casa senza finestre, lo faceva salire su una sedia e gli infilava le mutandine rosa, poi la gonnella a fiori, la camicetta con le maniche corte, le calze e le scarpe bianche della sorella che era morta il mese prima”.
Caro Gianni, il libro l’ho letto e non è certo per questo motivo che ti leverò il saluto, ma tu almeno cerca di leggere questa mia strana recensione, non vorrei che in un angolo remoto della tua mente mi avessi relegato al semplice ruolo di autista…
Franco Arcidiaco
Gianni Amelio, Politeama, Mondadori, Milano 2016, pagg. 176, € 18,00
martedì 3 ottobre 2017
TUTTI I CALEMBOUR DI DAVID FOSTER WALLACE
Sono passati nove anni esatti dalla morte per suicidio, a quarantasei anni, dello scrittore americano David Foster Wallace. Nel suo paese grande era la stima di cui godeva, in Italia non ha mai incontrato i favori del grande pubblico, che forse trovava la sua scrittura complessa e audacemente innovativa. Non vi parlerò dei suoi due grandi romanzi, il più famoso dei quali “Infinite Jest” ho abbandonato nello scaffale dell’amico libraio-resistente Fabio Saraceno, non perché mi abbiano fatto paura le sue 1.500 pagine, ma per il semplice motivo che, dopo una scorsa sommaria, non ne ho gradito l’ambientazione e l’impianto narrativo.
La dimensione di D. F. Wallace che prediligo, e che ne esprime il genio letterario, è quella umoristica; questo “Una cosa divertente che non farò mai più”, capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico, ne è la riprova.
Il libro nasce da un incarico che l’autore aveva ricevuto dalla prestigiosa rivista Harper’s, il suo compito era di redigere un reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi. Foster cominciò il suo lavoro sulla stessa nave che lo ospitava ma, successivamente, ci prese gusto e lo arricchì revisionandolo a dismisura fino a farlo diventare un classico dell’umorismo di fine Novecento; più o meno quello che è stato “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” di Jerome K. Jerome per la letteratura della seconda metà dell’Ottocento.
Anche il libro di Jerome era nato quasi per caso, visto che l'autore, originariamente, aveva redatto un'opera ricca di notizie storico-letterarie utili per approntare una guida turistica del Tamigi. L'editore della rivista che aveva commissionato il racconto, pretese di tagliare gran parte delle digressioni storico culturali, sancendo di fatto l'enorme successo del libro, snellito ma pieno di gag umoristiche.
Wallace, con un’operazione più o meno simile, ha prodotto una satira spietata sull’opulenza sprecona e sul divertimento di massa forzato della società americana contemporanea.
Il talento letterario, la capacità di osservazione e l’intelligenza analitica di David Foster Wallace hanno trasformato un’esperienza a tutti gli effetti alienante in un’opera d’arte.
L’autore, da osservatore intelligente e paranoico, propaga il suo sguardo ovunque: sulla macchina del divertimento, sulle persone, sulle dinamiche sociali tra i crocieristi e tra questi e il personale di bordo, sulla somministrazione smisurata dei cibi, non risparmiando nemmeno se stesso. Ne esce innanzitutto un quadro lucido e ironico del turista medio e dei suoi tic, che non fatichiamo a rintracciare nel nostro vissuto. È obbligatorio ritrovarsi ricchi e felici, anche il cielo è sempre più blu, tutto deve rendere il viaggio indimenticabile. È l’industria del divertimento, che annulla in una bolla artificiale di benessere e opulenza le frustrazioni e le difficoltà di ogni giorno. Nessuno avverte la palese contraddizione consistente nel fatto che questa macchina dei vizi è prodotta da un equipaggio di immigrati malpagati (lavorano a “ritmi dickensiani”) che coccolano (esilarante è la gag del “fenomeno del sorriso professionale”, un “fenomeno fondamentale del terziario” e quella del “cameriere gastropedante”) per contratto e timore di perdere il lavoro.
David Foster Wallace analizza questa macchina di business in cui si trova immerso con analisi lucida e competente (le pagine sono stracolme di note ricche di dettagli e dati tecnici) e con talento letterario, coniando espressioni e calembour irresistibili.
La sua grandezza gli consente di operare un’altrettanto spietata operazione di autoanalisi, registrando disinvoltamente le sue reazioni a questo mondo di benessere artefatto e di vacua finzione. Ne deriva l’immagine di un uomo fragile, sociopatico, che non si ritrova nei riti dei crocieristi, che cede alla tentazione di ordinare la cena in camera per ritrovare i suoi spazi di solitudine, ma poi si trova a spargere fogli sul letto per dissimulare una presunta attività lavorativa che non lo faccia apparire un disadattato agli occhi del cameriere.
Leggete queste righe sul “water ad alto tiraggio” e ditemi se ho esagerato: “Lo scarico del water produce un rumore breve ma traumatico, una specie di gorgoglio in si-alto-tenuto, tipo disturbo gastrico su scala cosmica. Insieme a questo rumore arriva una violenta suzione così impressionante e potente che fa paura e allo stesso tempo dà uno strano senso di conforto –i vostri escrementi (escrementi e odori che sono conseguenza logica dei pasti alla Enrico VIII, del servizio in cabina gratuito e illimitato e dei cesti di frutta) più che rimossi sembrano risucchiati, e risucchiati a una velocità tale che vi fa pensare che vadano a finire in un luogo così lontano che diventano immediatamente un’astrazione… una specie di scarico ad alto tiraggio esistenziale. È piuttosto difficile ignorare la relazione tra l’alto tiraggio del water e le fantasie di negazione e trascendenza della morte che la crociera extralusso tenta di instillare.”
Franco Arcidiaco
David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Edizioni minimum fax, Roma 1998, pagg. 160, € 12,50.
La dimensione di D. F. Wallace che prediligo, e che ne esprime il genio letterario, è quella umoristica; questo “Una cosa divertente che non farò mai più”, capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico, ne è la riprova.
Il libro nasce da un incarico che l’autore aveva ricevuto dalla prestigiosa rivista Harper’s, il suo compito era di redigere un reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi. Foster cominciò il suo lavoro sulla stessa nave che lo ospitava ma, successivamente, ci prese gusto e lo arricchì revisionandolo a dismisura fino a farlo diventare un classico dell’umorismo di fine Novecento; più o meno quello che è stato “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” di Jerome K. Jerome per la letteratura della seconda metà dell’Ottocento.
Anche il libro di Jerome era nato quasi per caso, visto che l'autore, originariamente, aveva redatto un'opera ricca di notizie storico-letterarie utili per approntare una guida turistica del Tamigi. L'editore della rivista che aveva commissionato il racconto, pretese di tagliare gran parte delle digressioni storico culturali, sancendo di fatto l'enorme successo del libro, snellito ma pieno di gag umoristiche.
Wallace, con un’operazione più o meno simile, ha prodotto una satira spietata sull’opulenza sprecona e sul divertimento di massa forzato della società americana contemporanea.
Il talento letterario, la capacità di osservazione e l’intelligenza analitica di David Foster Wallace hanno trasformato un’esperienza a tutti gli effetti alienante in un’opera d’arte.
L’autore, da osservatore intelligente e paranoico, propaga il suo sguardo ovunque: sulla macchina del divertimento, sulle persone, sulle dinamiche sociali tra i crocieristi e tra questi e il personale di bordo, sulla somministrazione smisurata dei cibi, non risparmiando nemmeno se stesso. Ne esce innanzitutto un quadro lucido e ironico del turista medio e dei suoi tic, che non fatichiamo a rintracciare nel nostro vissuto. È obbligatorio ritrovarsi ricchi e felici, anche il cielo è sempre più blu, tutto deve rendere il viaggio indimenticabile. È l’industria del divertimento, che annulla in una bolla artificiale di benessere e opulenza le frustrazioni e le difficoltà di ogni giorno. Nessuno avverte la palese contraddizione consistente nel fatto che questa macchina dei vizi è prodotta da un equipaggio di immigrati malpagati (lavorano a “ritmi dickensiani”) che coccolano (esilarante è la gag del “fenomeno del sorriso professionale”, un “fenomeno fondamentale del terziario” e quella del “cameriere gastropedante”) per contratto e timore di perdere il lavoro.
David Foster Wallace analizza questa macchina di business in cui si trova immerso con analisi lucida e competente (le pagine sono stracolme di note ricche di dettagli e dati tecnici) e con talento letterario, coniando espressioni e calembour irresistibili.
La sua grandezza gli consente di operare un’altrettanto spietata operazione di autoanalisi, registrando disinvoltamente le sue reazioni a questo mondo di benessere artefatto e di vacua finzione. Ne deriva l’immagine di un uomo fragile, sociopatico, che non si ritrova nei riti dei crocieristi, che cede alla tentazione di ordinare la cena in camera per ritrovare i suoi spazi di solitudine, ma poi si trova a spargere fogli sul letto per dissimulare una presunta attività lavorativa che non lo faccia apparire un disadattato agli occhi del cameriere.
Leggete queste righe sul “water ad alto tiraggio” e ditemi se ho esagerato: “Lo scarico del water produce un rumore breve ma traumatico, una specie di gorgoglio in si-alto-tenuto, tipo disturbo gastrico su scala cosmica. Insieme a questo rumore arriva una violenta suzione così impressionante e potente che fa paura e allo stesso tempo dà uno strano senso di conforto –i vostri escrementi (escrementi e odori che sono conseguenza logica dei pasti alla Enrico VIII, del servizio in cabina gratuito e illimitato e dei cesti di frutta) più che rimossi sembrano risucchiati, e risucchiati a una velocità tale che vi fa pensare che vadano a finire in un luogo così lontano che diventano immediatamente un’astrazione… una specie di scarico ad alto tiraggio esistenziale. È piuttosto difficile ignorare la relazione tra l’alto tiraggio del water e le fantasie di negazione e trascendenza della morte che la crociera extralusso tenta di instillare.”
Franco Arcidiaco
David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Edizioni minimum fax, Roma 1998, pagg. 160, € 12,50.
LUCIANO BIANCIARDI E IL LAVORO CULTURALE D'ANTAN...
Con tre edizioni conservate in Biblioteca, non l’avevo mai letto integralmente, ma a spizzichi e bocconi, da citazione a citazione. L’ho letto d’un fiato in un pomeriggio di fine estate, per giunta domenicale. Un senso di sgomenta nostalgia mi ha pervaso; con la sua grande capacità di scrittura Luciano Bianciardi mi ha trasportato di peso in un’epoca che è stata anche la mia (mirabili e per me struggenti le istruzioni e le raccomandazioni rivolte a chi si accingeva ad “aprire un circolo del cinema”), con la differenza che nella mia “provincia della provincia” il tutto si svolgeva esattamente vent’anni dopo rispetto alla sua “centrale” Toscana.
Ora non mi rendo conto se il mio smarrimento derivi dalla constatazione dell’arretratezza cronica della mia terra o dalla presa d’atto, di scientificità notarile, del fallimento non di una ma di tre generazioni che si sono trovate a gestire il dopoguerra italiano. Un fallimento che però è da addebitare esclusivamente alla cecità del lavoro politico, incapace di tradurre le istanze e gli stimoli di una classe intellettuale di elevatissimo livello che però non è andata mai oltre la funzione di florilegio della Politica.
Franco Arcidiaco
Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1964, pagine 112, £ 300
Ora non mi rendo conto se il mio smarrimento derivi dalla constatazione dell’arretratezza cronica della mia terra o dalla presa d’atto, di scientificità notarile, del fallimento non di una ma di tre generazioni che si sono trovate a gestire il dopoguerra italiano. Un fallimento che però è da addebitare esclusivamente alla cecità del lavoro politico, incapace di tradurre le istanze e gli stimoli di una classe intellettuale di elevatissimo livello che però non è andata mai oltre la funzione di florilegio della Politica.
Franco Arcidiaco
Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1964, pagine 112, £ 300
domenica 27 agosto 2017
NIENTE "SFUMATURE", SOLO BUONA LETTERATURA PULP
“Io canto il sacro. Canto i corpi, canto il sesso, l’unione tra l’uomo e la donna, l’intimità sempre sconvolgente di corpi che s’incontrano, della copula, del fornicare, su letti con lenzuola di lino inamidato, su pavimenti coperti da tappeti sporchi, su divani traballanti, in vasche da bagno, sotto lo stillicidio di una doccia che perde, in letti adulteri ancora intrisi dell’odore dell’altro, in ogni luogo pubblico o privato. Canto la scopata, l’inculata, i sospiri, il dolore, i piaceri. Canto quello che non c’è più. Piango quello che siamo stati un tempo, e se tu dici che in questo modo ti tradisco, ti rispondo che sbagli. Può sembrare una veglia funebre, ma è anche una celebrazione. Di come la nostra carne nuda si è incontrata e congiunta, e di una gioia suprema”.
Maxim Jakubowski ci racconta di come la nostra carne nuda si incontra e si congiunge, e di “una gioia suprema” attraverso questo “Vita nel mondo delle donne. Una raccolta di storie d’amore vili e pericolose”. Erotismo esistenziale? Fate voi. Ma non pensate nemmeno lontanamente di essere dalle parti delle varie "sfumature", più o meno colorate, che hanno popolato (ed economicamente rianimato) le librerie negli ultimi anni, qui c’è intanto alta letteratura con una scrittura avvincente che spazia senza soluzione di continuità tra il porno e il noir. La protagonista del romanzo è la classica bionda mozzafiato che sembra uscita direttamente dalle pagine di Raymond Chandler e del suo mitico investigatore Philip Marlowe oppure dai classici di James M. Cain e Dashiell Hammett. La bionda, che nelle sette parti del libro assume identità e ruoli diversi ma ha sempre le identiche caratteristiche fisiche, è l’amante di uno scrittore, evidente alter ego del nostro; tra di loro intercorre una relazione fisicamente perfetta che, inevitabilmente, dopo il travolgente periodo iniziale finisce per consumarsi nella routine. Mentre la donna, forte dell’acquisita consapevolezza, vive la nuova stagione con maturità e disinvoltura, l’uomo non riesce a farsene una ragione e, nelle sette parti e quindi con sette soluzioni diverse, trova la via d’uscita alla sua ossessione solo nella morte violenta di entrambi.
I richiami letterari e cinematografici sono numerosi e la lettura scorre gradevolissima sia nelle roventi parti passionali che in quelle noir in chiave pulp. Nella settima e ultima parte “Il caso del nudo nella camera chiusa” c’è un chiaro omaggio a Wim Wenders e al suo straordinario “Paris Texas”; Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton si materializzano nelle pagine e ridanno vita alla straniante situazione dell’uomo che rintraccia la sua donna in un locale dove vende il suo corpo al migliore offerente.
Con tecnica magistrale, Jakubowski sceglie sapientemente le location dove si consuma l’epilogo di ogni parte del libro, rendendole coerenti alla scelta di vita della donna; si passa così da suite sfavillanti di grandi alberghi, a moderni uffici editoriali, da compassati quartieri londinesi a squallidi sobborghi industriali, dalle grandi metropoli nord americane ai vizi di plastica di quelle californiane per finire nello squallore postribolare di una New Orleans senza il conforto del blues. Non manca un dichiarato omaggio a Philip K. Dick nella scena in cui l’amante viene incaricato, per un curioso equivoco, dal marito di indagare sull’amante della moglie… cioè su se stesso.
Il libro è del 1996 ed è stato pubblicato in Italia nel 1997 dalle Edizioni Es nella collana “Biblioteca dell’Eros” che, purtroppo, proprio con questo numero 90, ha chiuso i battenti.
Maxim Jakubowski, nato a Londra nel 1944 e cresciuto a Parigi, ha iniziato la sua carriera nel mondo editoriale aprendo la libreria “Murder One” in Charing Cross Road a Londra nel 1988. La libreria, diventata in breve tempo un punto di riferimento mondiale per gli appassionati del giallo e del noir, ha chiuso il 31 gennaio del 2009 dopo 21 anni di attività.
In punto di chiudere Maxim Jakubowski ha dichiarato: “La libreria non ha mai avuto particolari difficoltà economiche, ma la situazione dei mercati, e la perdita di valore della sterlina nei confronti del dollaro, non lasciavano presagire nulla di buono per il futuro. Meglio chiudere, quindi, senza lasciare debiti e con la reputazione immacolata”.
Maxim aveva purtroppo visto giusto e, con la sua decisione, diede il via a una tendenza che avrebbe portato in breve tempo alla chiusura della stragrande maggioranza delle librerie storiche indipendenti in ogni angolo del mondo.
Rimasto nel campo dell’editoria, oggi Jakubowski è uno degli editor più importanti e apprezzati a livello planetario. Nel 2013 ha curato, per l’editore americano “Running Press”, l’antologia “La Dolce Vita” che racchiude racconti erotici italiani in lingua inglese, scritti da alcune delle autrici del genere più rappresentative nel nostro paese quali Barbara Baraldi, Katia Ceccarelli, Eliselle, Francesca Mazzuccato, Sofia Natella, Valeria Parrella, Alina Rizzi e Claudia Salvatori.
Franco Arcidiaco
Maxim Jakubowski, “Life in the World of Women”/”Vita nel mondo delle donne”, Milano 1997, ES edizioni, pagg. 160, £ 28.000
Nella foto l'autore con Barbara Baraldi
Maxim Jakubowski ci racconta di come la nostra carne nuda si incontra e si congiunge, e di “una gioia suprema” attraverso questo “Vita nel mondo delle donne. Una raccolta di storie d’amore vili e pericolose”. Erotismo esistenziale? Fate voi. Ma non pensate nemmeno lontanamente di essere dalle parti delle varie "sfumature", più o meno colorate, che hanno popolato (ed economicamente rianimato) le librerie negli ultimi anni, qui c’è intanto alta letteratura con una scrittura avvincente che spazia senza soluzione di continuità tra il porno e il noir. La protagonista del romanzo è la classica bionda mozzafiato che sembra uscita direttamente dalle pagine di Raymond Chandler e del suo mitico investigatore Philip Marlowe oppure dai classici di James M. Cain e Dashiell Hammett. La bionda, che nelle sette parti del libro assume identità e ruoli diversi ma ha sempre le identiche caratteristiche fisiche, è l’amante di uno scrittore, evidente alter ego del nostro; tra di loro intercorre una relazione fisicamente perfetta che, inevitabilmente, dopo il travolgente periodo iniziale finisce per consumarsi nella routine. Mentre la donna, forte dell’acquisita consapevolezza, vive la nuova stagione con maturità e disinvoltura, l’uomo non riesce a farsene una ragione e, nelle sette parti e quindi con sette soluzioni diverse, trova la via d’uscita alla sua ossessione solo nella morte violenta di entrambi.
I richiami letterari e cinematografici sono numerosi e la lettura scorre gradevolissima sia nelle roventi parti passionali che in quelle noir in chiave pulp. Nella settima e ultima parte “Il caso del nudo nella camera chiusa” c’è un chiaro omaggio a Wim Wenders e al suo straordinario “Paris Texas”; Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton si materializzano nelle pagine e ridanno vita alla straniante situazione dell’uomo che rintraccia la sua donna in un locale dove vende il suo corpo al migliore offerente.
Con tecnica magistrale, Jakubowski sceglie sapientemente le location dove si consuma l’epilogo di ogni parte del libro, rendendole coerenti alla scelta di vita della donna; si passa così da suite sfavillanti di grandi alberghi, a moderni uffici editoriali, da compassati quartieri londinesi a squallidi sobborghi industriali, dalle grandi metropoli nord americane ai vizi di plastica di quelle californiane per finire nello squallore postribolare di una New Orleans senza il conforto del blues. Non manca un dichiarato omaggio a Philip K. Dick nella scena in cui l’amante viene incaricato, per un curioso equivoco, dal marito di indagare sull’amante della moglie… cioè su se stesso.
Il libro è del 1996 ed è stato pubblicato in Italia nel 1997 dalle Edizioni Es nella collana “Biblioteca dell’Eros” che, purtroppo, proprio con questo numero 90, ha chiuso i battenti.
Maxim Jakubowski, nato a Londra nel 1944 e cresciuto a Parigi, ha iniziato la sua carriera nel mondo editoriale aprendo la libreria “Murder One” in Charing Cross Road a Londra nel 1988. La libreria, diventata in breve tempo un punto di riferimento mondiale per gli appassionati del giallo e del noir, ha chiuso il 31 gennaio del 2009 dopo 21 anni di attività.
In punto di chiudere Maxim Jakubowski ha dichiarato: “La libreria non ha mai avuto particolari difficoltà economiche, ma la situazione dei mercati, e la perdita di valore della sterlina nei confronti del dollaro, non lasciavano presagire nulla di buono per il futuro. Meglio chiudere, quindi, senza lasciare debiti e con la reputazione immacolata”.
Maxim aveva purtroppo visto giusto e, con la sua decisione, diede il via a una tendenza che avrebbe portato in breve tempo alla chiusura della stragrande maggioranza delle librerie storiche indipendenti in ogni angolo del mondo.
Rimasto nel campo dell’editoria, oggi Jakubowski è uno degli editor più importanti e apprezzati a livello planetario. Nel 2013 ha curato, per l’editore americano “Running Press”, l’antologia “La Dolce Vita” che racchiude racconti erotici italiani in lingua inglese, scritti da alcune delle autrici del genere più rappresentative nel nostro paese quali Barbara Baraldi, Katia Ceccarelli, Eliselle, Francesca Mazzuccato, Sofia Natella, Valeria Parrella, Alina Rizzi e Claudia Salvatori.
Franco Arcidiaco
Maxim Jakubowski, “Life in the World of Women”/”Vita nel mondo delle donne”, Milano 1997, ES edizioni, pagg. 160, £ 28.000
Nella foto l'autore con Barbara Baraldi
venerdì 25 agosto 2017
CALVINO, "LO SCOIATTOLO DELLA PENNA*"
Salvo qualche inevitabile citazione da “Le città invisibili” e “Lezioni americane”, che te le tirano dietro da tutte le parti e inevitabilmente ti raggiungono, avevo interrotto il mio rapporto con Calvino nel 1979. Forte era stata la delusione provocata da “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; l’avevo atteso con ansia, il suo mito era stato alimentato dalla neonata Repubblica, che aveva lavorato Calvino ai fianchi per strapparlo al Corriere della Sera, fino a riuscirci proprio nel dicembre di quell’anno. La Repubblica ormai dettava la linea tra noi giovani militanti del PCI ed aveva preso il posto de l’Unità nelle tasche posteriori dei nostri jeans; solo molti anni dopo ci saremmo resi conto, ma non tutti purtroppo, della trappola che ci aveva teso la “borghesia illuminata” tramite la sua mosca cocchiera Eugenio Scalfari. Repubblica, dicevo, aveva creato un’attesa spasmodica attorno al nuovo romanzo di Calvino e tutti eravamo pronti a tuffarci tra le sue pagine; la nostra era l’età in cui ancora ci si illude di poter trovare delle risposte e, considerato che Google non era stato ancora inventato, che i nostri genitori si accorgevano di noi solo quando ci allungavamo i capelli e che i professori erano impantanati ancora nella melma di una riforma che aveva pensato solo a distruggere quel che di buono c’era nella scuola gentiliana, non avevamo altri orizzonti se non la letteratura, il cinema e la musica. Una passione smodata per la letteratura era cresciuta in me dall’adolescenza, mi ero pasciuto fino a quel momento dei grandi classici russi, europei e americani e sapevo bene cosa cercare in un romanzo.
Ancora oggi la mia aspettativa principale è quella di perdermi tra le pagine di un libro e di trovarmi all’interno di un mondo concluso e avvolgente e la gratificazione che ne traggo è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’opera. In “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Calvino non offre al lettore niente di tutto questo, la struttura del romanzo classico non è nelle sue corde, la sua dimensione ottimale è quella del racconto, della favola e del saggio letterario e la sua scrittura fredda e distaccata non è fatta per accogliere il lettore in un universo ricreato. Con la leggerezza ironica e straniante che gli è propria, tende invece sistematicamente a demolire la sicurezza del lettore “seriale”. Commentando il suo lavoro, perfidamente dichiara: «È un romanzo sul piacere di leggere romanzi»; siamo, invece, al cospetto della negazione del romanzo, o meglio, della teorizzazione dell’impossibilità di concludere un romanzo. Si tratta, insomma, di un “metaromanzo” che va ancora oltre quella frammentarietà che già avevamo riscontrato in una parte della letteratura del ‘900 (uno per tutti Svevo e la sua “Coscienza”).
Rendendosi conto del rischio dell’operazione, con saccente cerebrale snobismo, Calvino cercò di blandire il lettore aggrappandosi all’originalità dell’operazione che tendeva ad aprire un dialogo tra l’autore e il lettore “abbattendo quel muro di passività che per tanti anni ha abbandonato il lettore al suo ruolo di famelico curioso” ed espresse sin da subito la volontà di stupire, certo di aver creato qualcosa di diverso, di inconsueto. L’inizio del libro è infatti straniante: l’Autore si rivolge direttamente al Lettore, invitato a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, appunto. Questo espediente vorrebbe porre in posizione centrale il destinatario naturale di ogni libro, facendolo diventare parte attiva e centrale del contesto letterario, nonché protagonista della narrazione stessa. Il libro è costituito da dieci capitoletti e ognuno di questi costituisce l'incipit di un romanzo interrotto bruscamente nei punti di maggiore suspense. I generi di romanzo sono tutti diversi tra loro, dal thriller, al poliziesco, al romantico, mi riferisco alla centrale storia di Sherazad, dove è reso omaggio a Le mille e una notte da cui, peraltro, è mutuata la struttura. A riprova del carattere sperimentale dell’opera -una combinazione labirintica dal sapore tardo futurista- si noti che i titoli di questi dieci capitoli, se accostati, formano una frase di senso compiuto. Insomma si tratta del divertissement (in forma di collage letterario), per certi versi, non lo nego, affascinante, di uno scrittore “d’avanguardia” in crisi, che camuffa abilmente la sua incapacità di cimentarsi con l’arte del romanzo, di cogliere la complessità del reale e di raccontare storie unitarie. Eppure nel 1947 al suo esordio, Calvino un romanzo l’aveva scritto, parlo de Il sentiero dei nidi di ragno; si tratta in realtà di un racconto lungo che costituisce di per sé un trait d’union e una mediazione tra i due generi del racconto e del romanzo, e non meraviglia quindi che sia una forma cara al Calvino degli anni Cinquanta, che, pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno, dopo vari progetti abbandonati e tentativi falliti, ha rinunciato all’illusione di poter scrivere altri romanzi, ma che «sente stretta» anche la misura breve: in una lettera al critico Giansiro Ferrata del 6 dicembre del 1947, infatti, scrive: “Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine, i racconti non mi soddisfano più e mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei”.
Ho ripreso il mio rapporto con Calvino, dopo ben 38 anni, grazie a Rebecca Panella, giovanissima ma accanita lettrice la quale, sentendomi parlare di Calvino nei termini di cui sopra, si è fatta scrupolo di dimostrarmi le qualità di narratore di quello che invece è tra i suoi scrittori preferiti e mi ha donato Il sentiero dei nidi di ragno, nella collana Oscar Moderni Mondadori di recente edizione. Il libro è prezioso poiché il racconto lungo è accompagnato da una presentazione scritta da Calvino nel 1964 –una vera e propria lezione magistrale di letteratura che potrebbe costituire la base teorica di tutti i laboratori di scrittura che fioriscono in ogni angolo della penisola-, da una ricchissima cronologia della vita e delle opere che comprende citazioni e aneddoti interessantissimi e, chicca tra le chicche, da una breve ma fulminante postfazione di Cesare Pavese, apparsa su l’Unità del 26 ottobre 1947, dalla quale ho tratto la definizione* che ho usato come titolo di questo mio articolo.
Pavese esalta quest’opera prima del 23enne Calvino, il quale “sa già che per raccontare non è necessario ‘creare personaggi’, bensì trasformare dei fatti in parole” e la definisce “il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana”, la chiosa del suo articolo è una grandiosa lezione di tecnica narrativa: “Trasformare dei fatti in parole non vuol dire cedere alla retorica dei fatti, né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutto quello che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla. La pagina non deve essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre. Per questa prima volta, a noi pare, Calvino c’è abbondantemente riuscito”.
Calvino era stato testimone della Resistenza ed era consapevole che da questo gliene derivasse “una responsabilità speciale” che finiva per fargli sentire il tema troppo impegnativo e solenne per le sue forze. “E allora decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…”.
La storia è quella di Pin, ragazzo del carruggio che “ha una voglia lontana di carezze”, fratello di una prostituta, innocente e sboccato, dispettoso e cencioso, che ruba, su commissione, la pistola a un marinaio tedesco cliente della sorella e poi decide di tenerla per sé nascondendola tra i nidi di ragno, un posto che conosce solo lui. Il tono è a metà tra il fiabesco e surreale -non dimentichiamo che Calvino è stato il grande cantore della Fiaba Italiana- e alcuni personaggi sembrano fuoriusciti dal Pinocchio collodiano. Il linguaggio letterario tende a deformare l’abituale visione delle cose e la pone in un contesto quasi innaturale, sia ricorrendo a forme stilistiche inconsuete ricche di neologismi, sia deformando la realtà creando rapporti e situazioni imprevedibili.
È veramente straordinaria la capacità di Calvino di descrivere luoghi, persone e situazioni; l’inquietante clima da guerra civile è interpretato alla perfezione ed emerge spontaneamente dal dispiegarsi della narrazione. Sentite come sono descritte le truppe sbandate tedesche e le terribili brigate nere: “Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo”, se ci pensate bene questa descrizione è così calzante da avere ispirato tutti i libri e i film sulla Resistenza usciti in seguito.
Nella presentazione, che ripeto è un vero capolavoro, Calvino parla del clima generale di quell’epoca seguita alla Resistenza in cui “l’esplosione letteraria fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo… ci sentivamo depositari di un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria”; “La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.
Concludo con alcune riflessioni sul mestiere di scrittore che, da editore, mi hanno molto intrigato e dimostrano a chiare lettere la maestosa statura dell’intellettuale Italo Calvino: “Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più”. “…l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria, ricchezza vera dello scrittore, ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini”. Il suo timore è che la pagina scritta finisca col fissare “con sfacciata e ingannevole sicurezza” la memoria che in realtà è ancora “un fatto presente”, col rischio di consegnare alla storia una realtà parziale, condizionata dalle reazioni fisiologiche derivanti da un vissuto ancora troppo recente. “Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo”.
Franco Arcidiaco
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano 2016, Mondadori, pagg. 160, € 12,00
Ancora oggi la mia aspettativa principale è quella di perdermi tra le pagine di un libro e di trovarmi all’interno di un mondo concluso e avvolgente e la gratificazione che ne traggo è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’opera. In “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Calvino non offre al lettore niente di tutto questo, la struttura del romanzo classico non è nelle sue corde, la sua dimensione ottimale è quella del racconto, della favola e del saggio letterario e la sua scrittura fredda e distaccata non è fatta per accogliere il lettore in un universo ricreato. Con la leggerezza ironica e straniante che gli è propria, tende invece sistematicamente a demolire la sicurezza del lettore “seriale”. Commentando il suo lavoro, perfidamente dichiara: «È un romanzo sul piacere di leggere romanzi»; siamo, invece, al cospetto della negazione del romanzo, o meglio, della teorizzazione dell’impossibilità di concludere un romanzo. Si tratta, insomma, di un “metaromanzo” che va ancora oltre quella frammentarietà che già avevamo riscontrato in una parte della letteratura del ‘900 (uno per tutti Svevo e la sua “Coscienza”).
Rendendosi conto del rischio dell’operazione, con saccente cerebrale snobismo, Calvino cercò di blandire il lettore aggrappandosi all’originalità dell’operazione che tendeva ad aprire un dialogo tra l’autore e il lettore “abbattendo quel muro di passività che per tanti anni ha abbandonato il lettore al suo ruolo di famelico curioso” ed espresse sin da subito la volontà di stupire, certo di aver creato qualcosa di diverso, di inconsueto. L’inizio del libro è infatti straniante: l’Autore si rivolge direttamente al Lettore, invitato a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, appunto. Questo espediente vorrebbe porre in posizione centrale il destinatario naturale di ogni libro, facendolo diventare parte attiva e centrale del contesto letterario, nonché protagonista della narrazione stessa. Il libro è costituito da dieci capitoletti e ognuno di questi costituisce l'incipit di un romanzo interrotto bruscamente nei punti di maggiore suspense. I generi di romanzo sono tutti diversi tra loro, dal thriller, al poliziesco, al romantico, mi riferisco alla centrale storia di Sherazad, dove è reso omaggio a Le mille e una notte da cui, peraltro, è mutuata la struttura. A riprova del carattere sperimentale dell’opera -una combinazione labirintica dal sapore tardo futurista- si noti che i titoli di questi dieci capitoli, se accostati, formano una frase di senso compiuto. Insomma si tratta del divertissement (in forma di collage letterario), per certi versi, non lo nego, affascinante, di uno scrittore “d’avanguardia” in crisi, che camuffa abilmente la sua incapacità di cimentarsi con l’arte del romanzo, di cogliere la complessità del reale e di raccontare storie unitarie. Eppure nel 1947 al suo esordio, Calvino un romanzo l’aveva scritto, parlo de Il sentiero dei nidi di ragno; si tratta in realtà di un racconto lungo che costituisce di per sé un trait d’union e una mediazione tra i due generi del racconto e del romanzo, e non meraviglia quindi che sia una forma cara al Calvino degli anni Cinquanta, che, pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno, dopo vari progetti abbandonati e tentativi falliti, ha rinunciato all’illusione di poter scrivere altri romanzi, ma che «sente stretta» anche la misura breve: in una lettera al critico Giansiro Ferrata del 6 dicembre del 1947, infatti, scrive: “Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine, i racconti non mi soddisfano più e mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei”.
Ho ripreso il mio rapporto con Calvino, dopo ben 38 anni, grazie a Rebecca Panella, giovanissima ma accanita lettrice la quale, sentendomi parlare di Calvino nei termini di cui sopra, si è fatta scrupolo di dimostrarmi le qualità di narratore di quello che invece è tra i suoi scrittori preferiti e mi ha donato Il sentiero dei nidi di ragno, nella collana Oscar Moderni Mondadori di recente edizione. Il libro è prezioso poiché il racconto lungo è accompagnato da una presentazione scritta da Calvino nel 1964 –una vera e propria lezione magistrale di letteratura che potrebbe costituire la base teorica di tutti i laboratori di scrittura che fioriscono in ogni angolo della penisola-, da una ricchissima cronologia della vita e delle opere che comprende citazioni e aneddoti interessantissimi e, chicca tra le chicche, da una breve ma fulminante postfazione di Cesare Pavese, apparsa su l’Unità del 26 ottobre 1947, dalla quale ho tratto la definizione* che ho usato come titolo di questo mio articolo.
Pavese esalta quest’opera prima del 23enne Calvino, il quale “sa già che per raccontare non è necessario ‘creare personaggi’, bensì trasformare dei fatti in parole” e la definisce “il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana”, la chiosa del suo articolo è una grandiosa lezione di tecnica narrativa: “Trasformare dei fatti in parole non vuol dire cedere alla retorica dei fatti, né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutto quello che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla. La pagina non deve essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre. Per questa prima volta, a noi pare, Calvino c’è abbondantemente riuscito”.
Calvino era stato testimone della Resistenza ed era consapevole che da questo gliene derivasse “una responsabilità speciale” che finiva per fargli sentire il tema troppo impegnativo e solenne per le sue forze. “E allora decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…”.
La storia è quella di Pin, ragazzo del carruggio che “ha una voglia lontana di carezze”, fratello di una prostituta, innocente e sboccato, dispettoso e cencioso, che ruba, su commissione, la pistola a un marinaio tedesco cliente della sorella e poi decide di tenerla per sé nascondendola tra i nidi di ragno, un posto che conosce solo lui. Il tono è a metà tra il fiabesco e surreale -non dimentichiamo che Calvino è stato il grande cantore della Fiaba Italiana- e alcuni personaggi sembrano fuoriusciti dal Pinocchio collodiano. Il linguaggio letterario tende a deformare l’abituale visione delle cose e la pone in un contesto quasi innaturale, sia ricorrendo a forme stilistiche inconsuete ricche di neologismi, sia deformando la realtà creando rapporti e situazioni imprevedibili.
È veramente straordinaria la capacità di Calvino di descrivere luoghi, persone e situazioni; l’inquietante clima da guerra civile è interpretato alla perfezione ed emerge spontaneamente dal dispiegarsi della narrazione. Sentite come sono descritte le truppe sbandate tedesche e le terribili brigate nere: “Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo”, se ci pensate bene questa descrizione è così calzante da avere ispirato tutti i libri e i film sulla Resistenza usciti in seguito.
Nella presentazione, che ripeto è un vero capolavoro, Calvino parla del clima generale di quell’epoca seguita alla Resistenza in cui “l’esplosione letteraria fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo… ci sentivamo depositari di un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria”; “La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.
Concludo con alcune riflessioni sul mestiere di scrittore che, da editore, mi hanno molto intrigato e dimostrano a chiare lettere la maestosa statura dell’intellettuale Italo Calvino: “Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più”. “…l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria, ricchezza vera dello scrittore, ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini”. Il suo timore è che la pagina scritta finisca col fissare “con sfacciata e ingannevole sicurezza” la memoria che in realtà è ancora “un fatto presente”, col rischio di consegnare alla storia una realtà parziale, condizionata dalle reazioni fisiologiche derivanti da un vissuto ancora troppo recente. “Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo”.
Franco Arcidiaco
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano 2016, Mondadori, pagg. 160, € 12,00
lunedì 21 agosto 2017
UN KAMASUTRA SURREALISTA DENTRO IL DELIRIO PRELISERGICO DI BRETON E ÉLUARD
“L’amore reciproco, il solo del quale potremmo occuparci qui, è quello che mette in gioco l’inconsueto nella pratica, l’immaginazione nel luogo comune, la fede nel dubbio, la percezione dell’oggetto interiore nell’oggetto esteriore.
Implica il bacio, l’amplesso, il problema e l’esito infinitamente problematico del problema.
L’amore ha sempre tempo. Ha davanti a sé la fronte da cui sembra scaturire il pensiero, gli occhi che ora bisognerà distrarre dal loro sguardo, la gola dove si addenseranno i suoni, i seni e il fondo della bocca. Ha davanti a sé le pieghe dell’inguine, le gambe che correvano, il vapore che scende dalle loro vele, il piacere della neve che cade davanti alla finestra. La lingua disegna le labbra, unisce gli occhi, erge i seni, scava le ascelle, apre la finestra; la bocca attira la carne con tutte le sue forze, affonda in un bacio nomade, sostituisce la bocca che ha preso, è il mescolarsi del giorno e della notte. Le braccia e le cosce dell’uomo sono allacciate alle braccia e alle cosce della donna, il vento si fonde col fumo, le mani prendono l’impronta dei desideri.
I problemi si distinguono in problemi di primo, secondo e terzo grado. Nel problema di primo grado, la donna, ispirandosi alle sculture Tlonkit del Nord-America, cercherà il perfetto amplesso con l’uomo; si tratterà di formare in due un solo blocco. In quello di secondo grado, la donna, prendendo a modello le sculture Haida di origine appena diversa, fuggirà il più possibile quest’amplesso; si tratterà di toccarsi appena, di dilettarsi soltanto in scioltezza. In quello di terzo grado, la donna adotterà di volta in volta tutte le posizioni naturali.
La finestra sarà aperta, semiaperta, chiusa, darà sulla stella, la stella si leverà verso di lei, la stella dovrà raggiungerla o passare dall’altra parte della casa.
1. Quando la donna è sul dorso e l’uomo è steso su di lei, abbiamo la cediglia.
2. Quando l’uomo è sul dorso e la sua amante è stesa su di lui, si ha la c.
3. Quando l’uomo e la sua amante sono stesi sul fianco e si guardano, è il parabrezza.
4. Quando l’uomo e la donna sono stesi sul fianco e solo la schiena della donna è visibile, si ha la Palude-del-Diavolo.
5. Quando l’uomo e la sua amante sono stesi sul fianco, faccia a faccia, e la donna stringe con le sue gambe quelle dell’uomo, lasciando spalancata la finestra, è l’oasi.
6. Quando l’uomo e la donna stanno sdraiati sul dorso e una gamba della donna poggia di traverso sul ventre dell’uomo, si ha lo specchio infranto.
7. Quando l’uomo è steso sulla sua amante, la quale lo stringe con le gambe, è la vigna vergine.
8. Quando l’uomo e la donna sono sulla schiena, e la donna è messa a rovescio sopra l’uomo con le gambe sotto le braccia di lui, è il fischio del treno.
9. Quando la donna è seduta, le gambe distese sull’uomo coricato di schiena, e si appoggia sulle mani, è la lettura.
10. Quando la donna è seduta, con le ginocchia piegate sull’uomo disteso standogli di fronte, il busto rovesciato o no, è il ventaglio.
11. Quando la donna è seduta di schiena, con le ginocchia piegate, sull’uomo sdraiato, è il trampolino.
12. Quando la donna, distesa sul dorso, alza verticalmente le cosce, è l’uccello lira.
13. Quando la donna, vista di fronte, poggia le gambe sulle spalle dell’uomo, è la lince.
14. Quando le gambe della donna sono piegate e l’uomo le tiene così contro il suo petto, si ha lo scudo.
15. Quando le gambe della donna sono piegate, con le ginocchia all’altezza dei seni, è l’orchidea.
16. Quando solo una sua gamba rimane distesa, è mezzanotte passata.
17. Quando la donna poggia una gamba sulla spalla dell’uomo e tende l’altra gamba, poi mette quest’ultima sulla spalla e tende la prima, e così via, alternandole, è la macchina da cucire.
18. Quando la donna poggia una gamba sulla testa dell’uomo e tende l’altra, è il primo passo.
19. Quando le cosce della donna restano sollevate e poggiano l’una sull’altra, è la spirale.
20. Quando l’uomo, durante il problema, gira in tondo e gode della sua amante senza lasciarla, mentre questa gli tiene abbracciate le reni, è il calendario perpetuo.
21. Quando l’uomo e la sua amante si appoggiano l’uno sul corpo dell’altra, o contro un muro, e, restando così in piedi, svolgono il problema, è alla salute del taglialegna.
22. Quando l’uomo si appoggia al muro e la donna, seduta sulle mani dell’uomo riunite sotto di lei, gli cinge il collo con le braccia e, incollate le cosce alla vita di lui, si muove facendo leva coi piedi contro il muro cui s’appoggia l’uomo, è il rapimento in barca.
23. Quando la donna si regge sulle mani e i piedi, come un quadrupede, e l’uomo resta in piedi, è l’orecchino.
24. Quando la donna si regge sulle mani e le ginocchia e l’uomo è inginocchiato, si ha la Mensa del Signore.
25. Quando la donna si regge sulle mani e l’uomo, in piedi, la tiene sollevata per le cosce che gli serrano i fianchi, è la ciambella di salvataggio.
26. Quando l’uomo è seduto su una sedia e la sua amante gli sta a cavalcioni, faccia a faccia, si ha il giardino pubblico.
27. Quando l’uomo è seduto su una sedia e la sua amante gli sta addosso a cavalcioni, voltandogli le spalle, si ha la trappola.
28. Quando l’uomo è in piedi e la donna poggia sul letto la parte superiore del corpo, mentre con le cosce stringe la vita dell’uomo, si ha la testa di Vercingetorige.
29. Quando la donna è accovacciata sul letto, di fronte all’uomo che sta in piedi contro il letto, si ha il gioco della pulce.
30. Quando la donna è inginocchiata sul letto, di fronte all’uomo che sta in piedi contro il letto, si ha il vetiver.
31. Quando la donna è inginocchiata sul letto, e dà le spalle all’uomo che sta in piedi contro il letto, è il battesimo delle campane.
32. Quando la vergine è rovesciata all’indietro, col corpo violentemente arcuato, appoggiandosi a terra coi piedi e le mani, o, meglio, coi piedi e la testa, mentre l’uomo rimane in ginocchio, è l’aurora boreale.
L’amore moltiplica i problemi. La libertà furente s’impadronisce degli amanti devoti l’uno all’altro più dello spazio al grembo dell’aria. La donna custodisce per sempre alla sua finestra la luce della stella e nella sua mano la linea della vita dell’amante. La stella, nella finestra, ruota lentamente, vi entra ed esce senza tregua, il problema si compie, la sagoma diafana della stella ha bruciato alla finestra la cortina del giorno”.
L’amour, in: L’Immaculée Conception di André Breton e Paul Éluard, Éditions surréalistes, Parigi, 1930.
Traduz. di Carmine Mangone
Ho riportato integralmente questo capitolo che è l’unico che giustifichi l’inserimento del testo nella collana “Piccola Biblioteca dell’Eros” della defunta Edizioni ES (piccola e raffinata casa editrice milanese, costola della casa editrice SE); uscito nel 1930, a Parigi, per i tipi di un piccolo libraio editore, scritto a quattro mani da due poeti rivoluzionari di eccezionale statura stilistica, Breton ed Éluard, il libro esalta la "rivolta assoluta" contro ogni morale, ogni costrizione, ogni letale bisogno d'ordine. Una sorta di blob ante litteram che anticipa il psichedelismo lisergico degli anni ’60, sublimando la poesia e l’essenza naturalistica dell'erotismo; Breton e Éluard poeti della dismisura cantano la diversità, la deriva, l’inaspettato, l'impensato, il desiderio folle di vivere contro l’imperio del conformismo borghese che condanna tutti alla mera sopravvivenza. Nell’introduzione alla sezione “Gli invasamenti”, i due autori parlano non a caso di “stati mentali artificialmente indotti” e si fanno scrupolo di rassicurare il lettore riguardo “l’assoluta onestà dell’impresa”, mettendolo in guardia sul rischio che potrebbe derivargliene qualora non fosse addestrato poeticamente e culturalmente (e io direi anche psicologicamente) fino al punto di compromettere le “sue facoltà di equilibrio”. La loro esigenza è di regolare i conti con la ragione “quella stessa ragione che ci nega quotidianamente il diritto di esprimerci con i mezzi che l’istinto ci suggerisce” ed il loro auspicio finale è che questo loro lavoro venga classificato come “il saggio di simulazione delle malattie che vengono rinchiuse nei manicomi” andando a sostituire “vantaggiosamente la ballata, il sonetto, l’epopea, la poesia senza capo né coda e altri generi caduchi”.
Nell’epoca in cui l’avanguardia è interpretata esclusivamente dal ciarpame della civiltà internettiana, è bene rivisitare criticamente questa irripetibile avventura della sovversione creativa che ha osato sognare l'impossibile: il surrealismo al servizio della rivoluzione. Gli stessi autori parlano di “conti da regolare con la ragione umana”.
Siamo al cospetto di un classico del Surrealismo e della poesia sovversiva, il manifesto della rivolta assoluta; un classico della letteratura europea che ha seguito però il fatale destino dei capolavori proibiti, vale a dire di essere conosciuto da tutti ma di non esser stato letto integralmente da nessuno (o quasi).
Franco Arcidiaco
André Breton – Paul Éluard, L’immacolata concezione, Milano 1997, ES, pagg. 96, £ 20.000
Implica il bacio, l’amplesso, il problema e l’esito infinitamente problematico del problema.
L’amore ha sempre tempo. Ha davanti a sé la fronte da cui sembra scaturire il pensiero, gli occhi che ora bisognerà distrarre dal loro sguardo, la gola dove si addenseranno i suoni, i seni e il fondo della bocca. Ha davanti a sé le pieghe dell’inguine, le gambe che correvano, il vapore che scende dalle loro vele, il piacere della neve che cade davanti alla finestra. La lingua disegna le labbra, unisce gli occhi, erge i seni, scava le ascelle, apre la finestra; la bocca attira la carne con tutte le sue forze, affonda in un bacio nomade, sostituisce la bocca che ha preso, è il mescolarsi del giorno e della notte. Le braccia e le cosce dell’uomo sono allacciate alle braccia e alle cosce della donna, il vento si fonde col fumo, le mani prendono l’impronta dei desideri.
I problemi si distinguono in problemi di primo, secondo e terzo grado. Nel problema di primo grado, la donna, ispirandosi alle sculture Tlonkit del Nord-America, cercherà il perfetto amplesso con l’uomo; si tratterà di formare in due un solo blocco. In quello di secondo grado, la donna, prendendo a modello le sculture Haida di origine appena diversa, fuggirà il più possibile quest’amplesso; si tratterà di toccarsi appena, di dilettarsi soltanto in scioltezza. In quello di terzo grado, la donna adotterà di volta in volta tutte le posizioni naturali.
La finestra sarà aperta, semiaperta, chiusa, darà sulla stella, la stella si leverà verso di lei, la stella dovrà raggiungerla o passare dall’altra parte della casa.
1. Quando la donna è sul dorso e l’uomo è steso su di lei, abbiamo la cediglia.
2. Quando l’uomo è sul dorso e la sua amante è stesa su di lui, si ha la c.
3. Quando l’uomo e la sua amante sono stesi sul fianco e si guardano, è il parabrezza.
4. Quando l’uomo e la donna sono stesi sul fianco e solo la schiena della donna è visibile, si ha la Palude-del-Diavolo.
5. Quando l’uomo e la sua amante sono stesi sul fianco, faccia a faccia, e la donna stringe con le sue gambe quelle dell’uomo, lasciando spalancata la finestra, è l’oasi.
6. Quando l’uomo e la donna stanno sdraiati sul dorso e una gamba della donna poggia di traverso sul ventre dell’uomo, si ha lo specchio infranto.
7. Quando l’uomo è steso sulla sua amante, la quale lo stringe con le gambe, è la vigna vergine.
8. Quando l’uomo e la donna sono sulla schiena, e la donna è messa a rovescio sopra l’uomo con le gambe sotto le braccia di lui, è il fischio del treno.
9. Quando la donna è seduta, le gambe distese sull’uomo coricato di schiena, e si appoggia sulle mani, è la lettura.
10. Quando la donna è seduta, con le ginocchia piegate sull’uomo disteso standogli di fronte, il busto rovesciato o no, è il ventaglio.
11. Quando la donna è seduta di schiena, con le ginocchia piegate, sull’uomo sdraiato, è il trampolino.
12. Quando la donna, distesa sul dorso, alza verticalmente le cosce, è l’uccello lira.
13. Quando la donna, vista di fronte, poggia le gambe sulle spalle dell’uomo, è la lince.
14. Quando le gambe della donna sono piegate e l’uomo le tiene così contro il suo petto, si ha lo scudo.
15. Quando le gambe della donna sono piegate, con le ginocchia all’altezza dei seni, è l’orchidea.
16. Quando solo una sua gamba rimane distesa, è mezzanotte passata.
17. Quando la donna poggia una gamba sulla spalla dell’uomo e tende l’altra gamba, poi mette quest’ultima sulla spalla e tende la prima, e così via, alternandole, è la macchina da cucire.
18. Quando la donna poggia una gamba sulla testa dell’uomo e tende l’altra, è il primo passo.
19. Quando le cosce della donna restano sollevate e poggiano l’una sull’altra, è la spirale.
20. Quando l’uomo, durante il problema, gira in tondo e gode della sua amante senza lasciarla, mentre questa gli tiene abbracciate le reni, è il calendario perpetuo.
21. Quando l’uomo e la sua amante si appoggiano l’uno sul corpo dell’altra, o contro un muro, e, restando così in piedi, svolgono il problema, è alla salute del taglialegna.
22. Quando l’uomo si appoggia al muro e la donna, seduta sulle mani dell’uomo riunite sotto di lei, gli cinge il collo con le braccia e, incollate le cosce alla vita di lui, si muove facendo leva coi piedi contro il muro cui s’appoggia l’uomo, è il rapimento in barca.
23. Quando la donna si regge sulle mani e i piedi, come un quadrupede, e l’uomo resta in piedi, è l’orecchino.
24. Quando la donna si regge sulle mani e le ginocchia e l’uomo è inginocchiato, si ha la Mensa del Signore.
25. Quando la donna si regge sulle mani e l’uomo, in piedi, la tiene sollevata per le cosce che gli serrano i fianchi, è la ciambella di salvataggio.
26. Quando l’uomo è seduto su una sedia e la sua amante gli sta a cavalcioni, faccia a faccia, si ha il giardino pubblico.
27. Quando l’uomo è seduto su una sedia e la sua amante gli sta addosso a cavalcioni, voltandogli le spalle, si ha la trappola.
28. Quando l’uomo è in piedi e la donna poggia sul letto la parte superiore del corpo, mentre con le cosce stringe la vita dell’uomo, si ha la testa di Vercingetorige.
29. Quando la donna è accovacciata sul letto, di fronte all’uomo che sta in piedi contro il letto, si ha il gioco della pulce.
30. Quando la donna è inginocchiata sul letto, di fronte all’uomo che sta in piedi contro il letto, si ha il vetiver.
31. Quando la donna è inginocchiata sul letto, e dà le spalle all’uomo che sta in piedi contro il letto, è il battesimo delle campane.
32. Quando la vergine è rovesciata all’indietro, col corpo violentemente arcuato, appoggiandosi a terra coi piedi e le mani, o, meglio, coi piedi e la testa, mentre l’uomo rimane in ginocchio, è l’aurora boreale.
L’amore moltiplica i problemi. La libertà furente s’impadronisce degli amanti devoti l’uno all’altro più dello spazio al grembo dell’aria. La donna custodisce per sempre alla sua finestra la luce della stella e nella sua mano la linea della vita dell’amante. La stella, nella finestra, ruota lentamente, vi entra ed esce senza tregua, il problema si compie, la sagoma diafana della stella ha bruciato alla finestra la cortina del giorno”.
L’amour, in: L’Immaculée Conception di André Breton e Paul Éluard, Éditions surréalistes, Parigi, 1930.
Traduz. di Carmine Mangone
Ho riportato integralmente questo capitolo che è l’unico che giustifichi l’inserimento del testo nella collana “Piccola Biblioteca dell’Eros” della defunta Edizioni ES (piccola e raffinata casa editrice milanese, costola della casa editrice SE); uscito nel 1930, a Parigi, per i tipi di un piccolo libraio editore, scritto a quattro mani da due poeti rivoluzionari di eccezionale statura stilistica, Breton ed Éluard, il libro esalta la "rivolta assoluta" contro ogni morale, ogni costrizione, ogni letale bisogno d'ordine. Una sorta di blob ante litteram che anticipa il psichedelismo lisergico degli anni ’60, sublimando la poesia e l’essenza naturalistica dell'erotismo; Breton e Éluard poeti della dismisura cantano la diversità, la deriva, l’inaspettato, l'impensato, il desiderio folle di vivere contro l’imperio del conformismo borghese che condanna tutti alla mera sopravvivenza. Nell’introduzione alla sezione “Gli invasamenti”, i due autori parlano non a caso di “stati mentali artificialmente indotti” e si fanno scrupolo di rassicurare il lettore riguardo “l’assoluta onestà dell’impresa”, mettendolo in guardia sul rischio che potrebbe derivargliene qualora non fosse addestrato poeticamente e culturalmente (e io direi anche psicologicamente) fino al punto di compromettere le “sue facoltà di equilibrio”. La loro esigenza è di regolare i conti con la ragione “quella stessa ragione che ci nega quotidianamente il diritto di esprimerci con i mezzi che l’istinto ci suggerisce” ed il loro auspicio finale è che questo loro lavoro venga classificato come “il saggio di simulazione delle malattie che vengono rinchiuse nei manicomi” andando a sostituire “vantaggiosamente la ballata, il sonetto, l’epopea, la poesia senza capo né coda e altri generi caduchi”.
Nell’epoca in cui l’avanguardia è interpretata esclusivamente dal ciarpame della civiltà internettiana, è bene rivisitare criticamente questa irripetibile avventura della sovversione creativa che ha osato sognare l'impossibile: il surrealismo al servizio della rivoluzione. Gli stessi autori parlano di “conti da regolare con la ragione umana”.
Siamo al cospetto di un classico del Surrealismo e della poesia sovversiva, il manifesto della rivolta assoluta; un classico della letteratura europea che ha seguito però il fatale destino dei capolavori proibiti, vale a dire di essere conosciuto da tutti ma di non esser stato letto integralmente da nessuno (o quasi).
Franco Arcidiaco
André Breton – Paul Éluard, L’immacolata concezione, Milano 1997, ES, pagg. 96, £ 20.000
venerdì 18 agosto 2017
OTTO MONTAGNE PER UNO STREGA
Come si confeziona un Premio Strega lo sanno pure le pietre e questo vale naturalmente per tutti i premi letterari, non starò qui pertanto a parlarvi delle dinamiche spartitorie guidate, manco a dirlo, dai vertici della Mondazzoli in combutta con le elisabettesgarbi di vario calibro.
Altro discorso riguarda invece la tecnica di confezionamento del libro vincente da parte dell’autore, complice più o meno inconsapevole, dell’inghippo.
Quest’anno è toccato all’Einaudi e l’Einaudi per fortuna aveva in scuderia uno scrittore del calibro di Paolo Cognetti che aveva in serbo una bella storia, semplice ma coinvolgente.
Autore e editor si sono chiusi in laboratorio e hanno sfornato il prodotto perfetto, perfetto naturalmente per il pubblico italiano e per un premio letterario italiano; in America un prodotto del genere avrebbe trovato spazio, sì e no, in uno dei due marchi “rosa” (William Morrow o Avon Books) di proprietà della celeberrima casa editrice Harper Collins e nessuno si sarebbe mai sognato di candidarlo a un premio letterario di livello.
Il problema è che i premi letterari sono disprezzati da tutti ma poi nessuno disdegna di riceverli anche perché, ai livelli dello Strega, conferiscono gloria e denari. Lo stesso Italo Calvino che nel 1968 rifiuta con un telegramma il Premio Viareggio per Ti con zero (“Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio premio perché non mi sento di continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome tra vincitori stop”), anni dopo finirà con l’accettarne una caterva (Asti, Lincei, Nizza, Mondello, etc.) dimostrando di aver ceduto lui stesso alla logica delle conventicole.
Otto montagne,dicevo, è un libro perfetto, gli ingredienti del romanzo classico ci sono tutti: formazione,genitori-figli,amicizia,natura,viaggio,amore e morte; la sapienza con la quale sono stati amalgamati rivela un grande mestiere sia da parte dell’autore che dell’editor. Frequenti e magnifiche descrizioni naturalistiche in cui la montagna, evidente vera passione dell’autore, la fa da padrona, rendono scorrevole ed a tratti avvincente la lettura, anche grazie al loro abile miscelarsi con le reazioni psicologiche elementari dei personaggi.
Un classico da ombrellone dunque, ben venga in questi periodi di magra a rimpinguare le casse degli amici librai.
Franco Arcidiaco
Paolo Cognetti, Le otto montagne, pagg. 206, € 18,50, Torino 2017, Einaudi.
Altro discorso riguarda invece la tecnica di confezionamento del libro vincente da parte dell’autore, complice più o meno inconsapevole, dell’inghippo.
Quest’anno è toccato all’Einaudi e l’Einaudi per fortuna aveva in scuderia uno scrittore del calibro di Paolo Cognetti che aveva in serbo una bella storia, semplice ma coinvolgente.
Autore e editor si sono chiusi in laboratorio e hanno sfornato il prodotto perfetto, perfetto naturalmente per il pubblico italiano e per un premio letterario italiano; in America un prodotto del genere avrebbe trovato spazio, sì e no, in uno dei due marchi “rosa” (William Morrow o Avon Books) di proprietà della celeberrima casa editrice Harper Collins e nessuno si sarebbe mai sognato di candidarlo a un premio letterario di livello.
Il problema è che i premi letterari sono disprezzati da tutti ma poi nessuno disdegna di riceverli anche perché, ai livelli dello Strega, conferiscono gloria e denari. Lo stesso Italo Calvino che nel 1968 rifiuta con un telegramma il Premio Viareggio per Ti con zero (“Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio premio perché non mi sento di continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome tra vincitori stop”), anni dopo finirà con l’accettarne una caterva (Asti, Lincei, Nizza, Mondello, etc.) dimostrando di aver ceduto lui stesso alla logica delle conventicole.
Otto montagne,dicevo, è un libro perfetto, gli ingredienti del romanzo classico ci sono tutti: formazione,genitori-figli,amicizia,natura,viaggio,amore e morte; la sapienza con la quale sono stati amalgamati rivela un grande mestiere sia da parte dell’autore che dell’editor. Frequenti e magnifiche descrizioni naturalistiche in cui la montagna, evidente vera passione dell’autore, la fa da padrona, rendono scorrevole ed a tratti avvincente la lettura, anche grazie al loro abile miscelarsi con le reazioni psicologiche elementari dei personaggi.
Un classico da ombrellone dunque, ben venga in questi periodi di magra a rimpinguare le casse degli amici librai.
Franco Arcidiaco
Paolo Cognetti, Le otto montagne, pagg. 206, € 18,50, Torino 2017, Einaudi.
giovedì 17 agosto 2017
DANIELA PELLICANÒ E IL DISAGIO DELL'INTELLETTUALE
Giacomo Leopardi, massimo cantore del pessimismo cosmico, in una delle sue Operette morali, «Dialogo della Natura e di un Islandese», descrive la tragica avventura di un Islandese (per lui gli islandesi erano il simbolo dell’infelicità dell’uomo) che incontra la Natura, la quale ha sembianze di donna enorme adagiata su una montagna nel cuore dell'Africa, e le chiede fervidamente la ragione del dolore dell'uomo, della sua infinita miseria esistenziale. Inutile dire che egli si senta particolarmente sciagurato, poiché il clima estremo della sua isola gli ha sempre impedito di essere felice. La Natura con cinico e beffardo distacco, intriso d’impenetrabile indifferenza, gli risponde che il mondo non è stato creato a misura d'uomo e che la vita dell'universo è frutto di un ciclo di creazione e distruzione; mentre il povero Islandese ancora manifesta disperato questo intimo disagio, che è quello del poeta, domandandosi a chi può giovare questa vita così dolorosa, viene colto da morte improvvisa che Leopardi si diverte anche a lasciare imprecisata.
Daniela Pellicanò, raffinata intellettuale e ottima giornalista-scrittrice, ha incarnato questo disagio, questo male di vivere di matrice leopardiana; era consapevole che tra lei e il mondo, si fosse compiuta l’inevitabile frattura definitiva che l’aveva portata a perdere il proprio ruolo nella società. Come tutti i letterati decadenti si sentiva ormai sradicata dal suo tempo e ha finito per darla vinta alle subdole sirene dell’autodistruzione.
Con Daniela, più giovane di me di un decennio, ho vissuto parecchie stagioni; da quella entusiasmante della militanza politica, nel fronte dell’associazionismo cinematografico, a quella del giornalismo di frontiera, tra le colonne de Laltrareggio e de Il Berlusconiere. Ci perdevamo di vista, anche per lunghi periodi, ma bastava un nulla per ritrovare l’antica intesa sulla scorta delle comuni pulsioni intellettuali. Una settimana prima della sua morte, quando la malattia aveva completato il suo lavoro agevolata dalla stanchezza esistenziale di Daniela, progettavamo di intervenire assieme alla presentazione dell’ultimo bellissimo libro di Nadia Crucitti, “L’imperfezione dell’angelo” (Città del Sole edizioni, 2015) che tratta il tema a noi caro della vita quotidiana negli anni ’70 e della rivolta di Reggio. Su questo argomento avevamo prodotto assieme un inserto quotidiano per “Il Domani della Calabria” in occasione del 25° anniversario del “Boia chi molla”. Daniela, che della Rivolta aveva solo una memoria diretta da ragazzina di sette anni, aveva attinto con passione e grande competenza professionale ai materiali custoditi nell’emeroteca della mia famiglia, che dal prossimo mese si trasferirà nella neonata Biblioteca Comunale “Antonino Arcidiaco” di San Lorenzo. Daniela in quel lavoro ha unito sapientemente documenti d’archivio, foto e articoli di giornale, ricostruendo una dettagliata e realistica storia della Rivolta che ancora oggi costituisce un sicuro punto di riferimento per gli studiosi; mia moglie Antonella Cuzzocrea, responsabile della Città del Sole edizioni, ha pensato di raccogliere quegli inserti in un volume che vedrà la luce nel prossimo mese di ottobre.
La massima espressione professionale di Daniela rimane però “Uno sparo in caserma” (Città del Sole edizioni, 2006); un volume che ricostruisce la vicenda umana e professionale del maresciallo dei Carabinieri Antonio Lombardo, che il 4 marzo del 1995 giunge alla determinazione di togliersi la vita. Lo fa con la sua Beretta d’ordinanza nell’atrio della caserma Bonsignore a Palermo in Corso Vittorio Emanuele, dopo un colloquio con alcuni suoi superiori. Un luogo frequentato da personaggi eccellenti come l’allora colonnello Mori (in seguito generale e già direttore del SISDE), il capitano (in seguito tenente colonnello) De Caprio, alias “Ultimo”. Un luogo denso di storie per ovvi motivi poco o affatto noti, un crocevia di sforzi investigativi, di energie umane spese rincorrendo obbiettivi importanti, molto importanti. Lombardo giunge al suicidio alcuni giorni dopo essere stato pesantemente accusato da Leoluca Orlando e Manlio Mele di non fare il suo dovere di Carabiniere, ciò nel corso della trasmissione televisiva “Tempo Reale”, condotta da Michele Santoro. In quegli anni era impegnato nella delicata operazione di rientro in Italia del boss Gaetano Badalamenti, il cui ritorno prometteva rivelazioni pesanti su vicende giudiziarie di enorme spessore allora in corso. Tra le altre cose pare che il boss di Cinisi avesse avuto elementi per mettere in discussione l’affidabilità di Tommaso Buscetta, il notissimo collaboratore di giustizia allora perno di molte teorie della Procura di Palermo, ad esempio nel processo Andreotti. Negli ultimi giorni della sua vita, Lombardo vede crollare nella polvere anni di lavoro certosino e pericoloso e il 23 febbraio subisce l’attacco televisivo dei due politici, senza avere la possibilità di replicare se non con una querela, atto formale che rimane molto meno potente degli effetti di una trasmissione televisiva. La vicenda del maresciallo Lombardo mi era stata raccontata dal cognato, il ten. Carmelo Canale, braccio destro di Paolo Borsellino, che era stato anche lui “tragediato” dai corvi che volteggiavano attorno ai palazzi di giustizia palermitani. Canale era stato relegato, sia pur in un ruolo di vertice, presso quella sorta di refugium peccatorum costituito dalla Scuola Allievi Carabinieri, dove lo incontrai grazie alla segnalazione di amici comuni che mi dissero che cercava un editore che desse voce alla storia di suo cognato. Ascoltato Canale, uomo spigoloso e diffidente, decisi che la vicenda meritasse di essere approfondita essendo la sua narrazione chiaramente di parte; ne parlai con Daniela che non esitò un istante ad accettare l’incarico e, da cronista di razza, si gettò nell’affaire approfondendolo con indagini e interviste esclusive svolte durante numerosi viaggi a Palermo. Il libro ebbe un notevole successo e il suo percorso fu fermato solo dall’ostilità dei vertici dell’Arma, ma soprattutto dalla querela dell’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli che ha continuato a perseguitare Daniela nelle aule dei tribunali, ritenendosi indicato nel libro quale artefice, più o meno occulto, degli attacchi a Lombardo. Ricordo con grande emozione la prima visita, mia e di Daniela, a Terrasini a casa dei Lombardo tra i divani di un soggiorno in penombra, impregnato di rabbia e di dolore; dalla cucina arrivava l’odore dei fagioli in bollitura, lo stesso piatto in preparazione il giorno che la notizia del suicidio era arrivata alla vedova, quel giorno però i fagioli nella pentola erano diventati inspiegabilmente neri… Un rapido cenno d’intesa e Daniela ed io decidemmo di aprire il libro con questa suggestione, toccò a lei, dopo, farlo diventare, a detta della critica e dei lettori, uno dei più riusciti libri-inchiesta degli ultimi anni. Il giorno della prima presentazione a Palermo, presso la grande sala della storica Biblioteca di Casa Professa, gremita in ogni angolo, l’emozione era palpabile e forte si levò il grido di rabbia dei colleghi di Lombardo tra l’imbarazzo dei pochi alti graduati presenti, alcuni rigorosamente in incognito. Daniela continuò a esporre e a difendere il suo lavoro in tutte le successive presentazioni pubbliche anche quando, riorganizzatisi dopo la sorpresa iniziale, i burattinai delle torbide vicende palermitane cominciarono ad affondare i loro colpi tesi a riportare la vicenda nell’oblio. Con Daniela speravamo di riuscire ad avere la meglio, nonostante tutto, in tribunale ed ipotizzavamo un rilancio trionfante del libro ma la sorte beffarda ha voluto che le fasi del giudizio non giungessero a conclusione, come ha recitato professionalmente uno dei nostri avvocati, poiché “il processo è da ritenersi estinto a causa della scomparsa della principale imputata”…
Daniela è scomparsa e il destino ha voluto che in questi giorni io mi sia ritrovato a trasferire e rimettere in ordine la mia emeroteca: sul dorso dei faldoni la sua scrittura chiara e ordinata e sui miei occhi le lacrime.
Franco Arcidiaco
Daniela Pellicanò, raffinata intellettuale e ottima giornalista-scrittrice, ha incarnato questo disagio, questo male di vivere di matrice leopardiana; era consapevole che tra lei e il mondo, si fosse compiuta l’inevitabile frattura definitiva che l’aveva portata a perdere il proprio ruolo nella società. Come tutti i letterati decadenti si sentiva ormai sradicata dal suo tempo e ha finito per darla vinta alle subdole sirene dell’autodistruzione.
Con Daniela, più giovane di me di un decennio, ho vissuto parecchie stagioni; da quella entusiasmante della militanza politica, nel fronte dell’associazionismo cinematografico, a quella del giornalismo di frontiera, tra le colonne de Laltrareggio e de Il Berlusconiere. Ci perdevamo di vista, anche per lunghi periodi, ma bastava un nulla per ritrovare l’antica intesa sulla scorta delle comuni pulsioni intellettuali. Una settimana prima della sua morte, quando la malattia aveva completato il suo lavoro agevolata dalla stanchezza esistenziale di Daniela, progettavamo di intervenire assieme alla presentazione dell’ultimo bellissimo libro di Nadia Crucitti, “L’imperfezione dell’angelo” (Città del Sole edizioni, 2015) che tratta il tema a noi caro della vita quotidiana negli anni ’70 e della rivolta di Reggio. Su questo argomento avevamo prodotto assieme un inserto quotidiano per “Il Domani della Calabria” in occasione del 25° anniversario del “Boia chi molla”. Daniela, che della Rivolta aveva solo una memoria diretta da ragazzina di sette anni, aveva attinto con passione e grande competenza professionale ai materiali custoditi nell’emeroteca della mia famiglia, che dal prossimo mese si trasferirà nella neonata Biblioteca Comunale “Antonino Arcidiaco” di San Lorenzo. Daniela in quel lavoro ha unito sapientemente documenti d’archivio, foto e articoli di giornale, ricostruendo una dettagliata e realistica storia della Rivolta che ancora oggi costituisce un sicuro punto di riferimento per gli studiosi; mia moglie Antonella Cuzzocrea, responsabile della Città del Sole edizioni, ha pensato di raccogliere quegli inserti in un volume che vedrà la luce nel prossimo mese di ottobre.
La massima espressione professionale di Daniela rimane però “Uno sparo in caserma” (Città del Sole edizioni, 2006); un volume che ricostruisce la vicenda umana e professionale del maresciallo dei Carabinieri Antonio Lombardo, che il 4 marzo del 1995 giunge alla determinazione di togliersi la vita. Lo fa con la sua Beretta d’ordinanza nell’atrio della caserma Bonsignore a Palermo in Corso Vittorio Emanuele, dopo un colloquio con alcuni suoi superiori. Un luogo frequentato da personaggi eccellenti come l’allora colonnello Mori (in seguito generale e già direttore del SISDE), il capitano (in seguito tenente colonnello) De Caprio, alias “Ultimo”. Un luogo denso di storie per ovvi motivi poco o affatto noti, un crocevia di sforzi investigativi, di energie umane spese rincorrendo obbiettivi importanti, molto importanti. Lombardo giunge al suicidio alcuni giorni dopo essere stato pesantemente accusato da Leoluca Orlando e Manlio Mele di non fare il suo dovere di Carabiniere, ciò nel corso della trasmissione televisiva “Tempo Reale”, condotta da Michele Santoro. In quegli anni era impegnato nella delicata operazione di rientro in Italia del boss Gaetano Badalamenti, il cui ritorno prometteva rivelazioni pesanti su vicende giudiziarie di enorme spessore allora in corso. Tra le altre cose pare che il boss di Cinisi avesse avuto elementi per mettere in discussione l’affidabilità di Tommaso Buscetta, il notissimo collaboratore di giustizia allora perno di molte teorie della Procura di Palermo, ad esempio nel processo Andreotti. Negli ultimi giorni della sua vita, Lombardo vede crollare nella polvere anni di lavoro certosino e pericoloso e il 23 febbraio subisce l’attacco televisivo dei due politici, senza avere la possibilità di replicare se non con una querela, atto formale che rimane molto meno potente degli effetti di una trasmissione televisiva. La vicenda del maresciallo Lombardo mi era stata raccontata dal cognato, il ten. Carmelo Canale, braccio destro di Paolo Borsellino, che era stato anche lui “tragediato” dai corvi che volteggiavano attorno ai palazzi di giustizia palermitani. Canale era stato relegato, sia pur in un ruolo di vertice, presso quella sorta di refugium peccatorum costituito dalla Scuola Allievi Carabinieri, dove lo incontrai grazie alla segnalazione di amici comuni che mi dissero che cercava un editore che desse voce alla storia di suo cognato. Ascoltato Canale, uomo spigoloso e diffidente, decisi che la vicenda meritasse di essere approfondita essendo la sua narrazione chiaramente di parte; ne parlai con Daniela che non esitò un istante ad accettare l’incarico e, da cronista di razza, si gettò nell’affaire approfondendolo con indagini e interviste esclusive svolte durante numerosi viaggi a Palermo. Il libro ebbe un notevole successo e il suo percorso fu fermato solo dall’ostilità dei vertici dell’Arma, ma soprattutto dalla querela dell’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli che ha continuato a perseguitare Daniela nelle aule dei tribunali, ritenendosi indicato nel libro quale artefice, più o meno occulto, degli attacchi a Lombardo. Ricordo con grande emozione la prima visita, mia e di Daniela, a Terrasini a casa dei Lombardo tra i divani di un soggiorno in penombra, impregnato di rabbia e di dolore; dalla cucina arrivava l’odore dei fagioli in bollitura, lo stesso piatto in preparazione il giorno che la notizia del suicidio era arrivata alla vedova, quel giorno però i fagioli nella pentola erano diventati inspiegabilmente neri… Un rapido cenno d’intesa e Daniela ed io decidemmo di aprire il libro con questa suggestione, toccò a lei, dopo, farlo diventare, a detta della critica e dei lettori, uno dei più riusciti libri-inchiesta degli ultimi anni. Il giorno della prima presentazione a Palermo, presso la grande sala della storica Biblioteca di Casa Professa, gremita in ogni angolo, l’emozione era palpabile e forte si levò il grido di rabbia dei colleghi di Lombardo tra l’imbarazzo dei pochi alti graduati presenti, alcuni rigorosamente in incognito. Daniela continuò a esporre e a difendere il suo lavoro in tutte le successive presentazioni pubbliche anche quando, riorganizzatisi dopo la sorpresa iniziale, i burattinai delle torbide vicende palermitane cominciarono ad affondare i loro colpi tesi a riportare la vicenda nell’oblio. Con Daniela speravamo di riuscire ad avere la meglio, nonostante tutto, in tribunale ed ipotizzavamo un rilancio trionfante del libro ma la sorte beffarda ha voluto che le fasi del giudizio non giungessero a conclusione, come ha recitato professionalmente uno dei nostri avvocati, poiché “il processo è da ritenersi estinto a causa della scomparsa della principale imputata”…
Daniela è scomparsa e il destino ha voluto che in questi giorni io mi sia ritrovato a trasferire e rimettere in ordine la mia emeroteca: sul dorso dei faldoni la sua scrittura chiara e ordinata e sui miei occhi le lacrime.
Franco Arcidiaco
mercoledì 16 agosto 2017
UN BALSAMO PER LA PRUDERIE DEGLI ITALIANI
Gianni Passavini, dopo tre anni da direttore responsabile del Quotidiano dei Lavoratori, nel febbraio del 1982 si trova davanti a un bivio: volare a Beirut in vista dell’invasione israeliana come inviato di guerra, per conto di un giornale che non lo pagava da tre anni e del quale comunque non condivideva più la linea, oppure fare il redattore ordinario del settimanale Le Ore, il patinato giornale pornografico che, con il suo clamoroso successo di vendita, aveva spazzato via la sciocca supponenza sessuofobica della borghesia cattolica. È da questa sua esperienza, durata oltre un decennio, che nasce questo libro “Porno di carta”, che ricostruisce la grande epopea dello spregiudicato editore catanese Saro Balsamo e della moglie Adelina Tattilo che dal 1966, anno di nascita di Men, settimanale antesignano dell’editoria erotica italiana, al 2000, data di chiusura di Le Ore, hanno rivoluzionato i costumi degli italiani. Balsamo non era nuovo a queste imprese, si deve a lui, infatti, l’uscita nel giugno del 1965 di Big il settimanale giovane, un rotocalco anticonformista che avrebbe formato un’intera generazione interpretando la rivoluzione del ’68 in Italia.
Passavini descrive Balsamo così: “L’uomo che ha dato le tette all’Italia, l’artefice, tra i tanti, dei periodici Men e Le Ore è stato uno degli imprenditori più ricchi e maggiormente in vista in assoluto. Ricco, ricchissimo, epico e vanaglorioso, stramondano e sopra le righe, protagonista della Milano che beveva ante litteram. Amante dell’azzardo sul tavolo verde e nel quotidiano, con corollario di flotta di aerei ed elicotteri privati, magioni deluxe dovunque e uno stile di vita da nababbo. Un tycoon a luci rosse spregiudicato e sempre in predicato di diventare un pregiudicato, amico di certi politici e nemico di certa magistratura, coi basettoni d’ordinanza, la parlata lenta e squillante, i capelli impomatati, i completi sgargianti e litri di profumo spruzzato addosso”.
In 428 pagine fitte di vicende incredibili, nomi, circostanze, immagini e contestualizzazioni storiche documentate da ricche note, si snoda la storia degli anni più difficili della nostra Repubblica; per intenderci quelli che sarebbero passati alla Storia come “gli anni di piombo”, quel lungo decennio in cui la “strategia della tensione” avrebbe reso il nostro Paese proscenio di intrighi internazionali, in balìa di personaggi loschi e senza scrupoli che avrebbero disseminato morte e terrore nelle nostre strade. Il clima era tale che alcuni di questi personaggi si ritrovarono a lavorare sotto copertura nelle redazioni, comprese quelle di Balsamo, e seminavano messaggi e avvertimenti premonitori da brivido; emblematico il caso del sequestro di Aldo Moro le cui modalità vengono anticipate di ben dodici anni, con dovizia di particolari, sulle pagine di Men e su quelle de Il Bagaglino.
Ma per rendere meglio l’idea del periodo che vivevamo, andiamo a leggere l’incipit del capitolo 8 del libro: “Quando Le Ore esce nelle edicole (9.11.70), l’Italia è un paese in bilico tra l’orrido dove tentano di spingerla fascisti, atlantisti e servizi segreti sull’esempio della Grecia dei colonnelli - la strage di Piazza Fontana è di un anno prima mentre il golpe Borghese è alle porte – e la conquista di nuovi diritti, come il divorzio, che sta per diventare legge, in un’Italia curiale, ministeriale e da caserma, la stessa che un programma radiofonico irriverente - Alto Gradimento, di Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, già collaboratori di Big – può finalmente mettere alla berlina. Stato fragilissimo, con governi sempre sull’orlo di una crisi. In estate è esplosa la rivolta di Reggio Calabria e in ottobre la mafia ha eletto a Palermo il suo sindaco, Vito Ciancimino. Uno Stato pieno di debiti e di spese, che amministra l’economia a colpi di decretoni, aumentando tasse, benzina, imposte contro cui sindacati e classe operaia non riescono a fare granché, nonostante lotte e mobilitazioni di massa”.
Quando nel 1975 Saro Balsamo imprime uno scatto alla sua linea editoriale e da’ una svolta ancora più licenziosa alle sue ormai innumerevoli testate, siamo in pieno Anno Santo di Paolo VI. Passavini parla di un anno orribile, per lo stupro omicida del Circeo e per l’uccisione di Pier Paolo Pasolini e scrive: “Il 1975 è allo stesso tempo anno santo e anno porno”. Per papa Paolo VI doveva essere l’anno “del rinnovamento interiore dell’uomo: dell’uomo che pensa, e pensando ha smarrito la certezza nella Verità; dell’uomo che lavora, e lavorando ha avvertito d’essersi tanto estroflesso da non possedere più abbastanza il proprio personale colloquio; dell’uomo che gode e si diverte e tanto fruisce dei mezzi eccitanti una sua gaudente esperienza da sentirsene presto annoiato e deluso… noi pensiamo di non errare scoprendo nell’uomo di oggi una profonda insoddisfazione, una sazietà unita a un’insufficienza, una infelicità esasperata dalle false ricette di felicità dalle quali è intossicato, uno stupore di non sapere godere dei mille godimenti che la civiltà gli offre in abbondanza”. Il povero Paolo VI tutto avrebbe potuto immaginare fuor che il suo proclama finisse per diventare un caso scuola di eterogenesi dei fini. Balsamo, infatti, colse a modo suo il senso di quegli ammonimenti e impresse una svolta nettamente più pornografica alle sue riviste, andando così incontro alle esigenze di quegli uomini che non trovavano più soddisfazione nel porno-soft e anelavano una decisa accelerazione verso il realismo fotografico spinto alle estreme conseguenze.
Sulle pagine dei giornali di Balsamo è passato il fior fiore della scrittura italiana: Luciano Bianciardi (la sua rubrica di libri si chiamava “I consigli di un libridinoso”), Maria Jatosti (compagna di Bianciardi), Gian Carlo Fusco, Gianni Brera, Francesco Cardella, Franco Valobra, Pietro Cimatti, Milena Milani, Lucia Alberti, Guglielmo Solci, Sergio Modugno, Marcello Mancini, Giò Stajano, Attilio Battistini, Aldo Nobile, Leoncarlo Settimelli, Walter Peroni, Paolo Brogi, Silverio Corvisieri, Ugo Moretti, Giorgio Saviane, Luigi Gianoli, Massimo Balletti, Mauro De Mauro, Annamaria Rodari, Giorgio Colorni, Isotta Gaeta, Pier Francesco Pingitore, Stefano Surace, oltre a una fitta schiera di grandi fotografi, una per tutti Letizia Battaglia.
La parte più retriva della magistratura fece di tutto per frenare il fenomeno ma i vari p.m. riuscirono solo a coprirsi di ridicolo, a partire da Oscar Lanzi che nel 1966, nel corso del famoso processo contro il giornalino scolastico La zanzara, parlava di una “donna che non ha più pudore, e senza pudore la donna non è più donna… l’abbiamo sempre concepita come un angelo, pensarla in modo diverso è immorale”, per arrivare a Guido Viola che nel 1974 mandava a processo stampatori, direttori, distributori e finanche giornalai.
Nel luglio del 1975 sarebbe arrivata finalmente una legge che avrebbe esonerato da ogni responsabilità i distributori e gli edicolanti, ma la persecuzione sarebbe ripresa successivamente con l’arrivo sul mercato delle videocassette hard, io stesso mi sono ritrovato sotto processo nel 1986 a Catania, in qualità di titolare della società di distribuzione “Sicilstampa”, con l’accusa, che peraltro non consideravo affatto ignominiosa, di “diffusione di materiale pornografico”, salvo ritrovarmi assolto con formula ampia dopo un paio d’anni “perché il fatto non sussiste” su richiesta dello stesso pubblico ministero!
Agli albori degli anni ’90 si giunge all’assoluzione giudiziaria della pornografia, che viene finalmente legittimata perché, a determinate condizioni, “non costituisce reato”: il comune senso del pudore non esiste più come questione che interessa la competenza pubblica, perché attiene alla sfera privata degli individui. Chiosa però sapientemente Passavini: “Paradossalmente è proprio il suo sdoganamento a creare i più grossi problemi alla pornografia, che ha prosperato grazia all’aura di proibito, di trasgressione e di peccato che l’ha sempre circondata”. L’impero di Balsamo crollò miseramente, incartato nel groviglio dell’ingegneria finanziaria che aveva funzionato da volano per ottimizzare i profitti quando le cose andavano bene mentre ora mostrava tutti i suoi lati deboli; anche la stanchezza dei suoi settantacinque anni vissuti spericolatamente aveva giocato la sua parte e Saro se ne andò improvvisamente la notte del 7 febbraio del 2005 nella casa in affitto dove si era ritirato dopo aver venduto tutte le sue dorate magioni.
Con l’avvento delle televisioni berlusconiane e dello sviluppo di internet, l’erotismo e la pornografia sono diventate un bene di primo consumo, basti pensare che il 30% del traffico web mondiale transita sui siti porno; Saro certamente oggi non si sarebbe perso d’animo e qualcosa si sarebbe inventato… chissà… un ologramma interattivo nelle forme di assistente sexy, in Giappone ci sono arrivati lo scorso dicembre, Saro, probabilmente, l’avrebbe immessa sul mercato all’alba del 2000.
Da questo lavoro di Gianni Passavini non potrà prescindere chiunque voglia tracciare la storia dell’editoria periodica italiana, io, che ho conosciuto personalmente tanti dei protagonisti di questa storia, Adelina e Saro in testa, l’ho trovato avvincente e sono grato all’amico Tonino Nocera, attento osservatore del mondo editoriale, che me ne ha fatto dono.
Franco Arcidiaco
Gianni Passavini, Porno di carta, pagg. 432, € 18,00. Roma 2016, Iacobelli editore
Passavini descrive Balsamo così: “L’uomo che ha dato le tette all’Italia, l’artefice, tra i tanti, dei periodici Men e Le Ore è stato uno degli imprenditori più ricchi e maggiormente in vista in assoluto. Ricco, ricchissimo, epico e vanaglorioso, stramondano e sopra le righe, protagonista della Milano che beveva ante litteram. Amante dell’azzardo sul tavolo verde e nel quotidiano, con corollario di flotta di aerei ed elicotteri privati, magioni deluxe dovunque e uno stile di vita da nababbo. Un tycoon a luci rosse spregiudicato e sempre in predicato di diventare un pregiudicato, amico di certi politici e nemico di certa magistratura, coi basettoni d’ordinanza, la parlata lenta e squillante, i capelli impomatati, i completi sgargianti e litri di profumo spruzzato addosso”.
In 428 pagine fitte di vicende incredibili, nomi, circostanze, immagini e contestualizzazioni storiche documentate da ricche note, si snoda la storia degli anni più difficili della nostra Repubblica; per intenderci quelli che sarebbero passati alla Storia come “gli anni di piombo”, quel lungo decennio in cui la “strategia della tensione” avrebbe reso il nostro Paese proscenio di intrighi internazionali, in balìa di personaggi loschi e senza scrupoli che avrebbero disseminato morte e terrore nelle nostre strade. Il clima era tale che alcuni di questi personaggi si ritrovarono a lavorare sotto copertura nelle redazioni, comprese quelle di Balsamo, e seminavano messaggi e avvertimenti premonitori da brivido; emblematico il caso del sequestro di Aldo Moro le cui modalità vengono anticipate di ben dodici anni, con dovizia di particolari, sulle pagine di Men e su quelle de Il Bagaglino.
Ma per rendere meglio l’idea del periodo che vivevamo, andiamo a leggere l’incipit del capitolo 8 del libro: “Quando Le Ore esce nelle edicole (9.11.70), l’Italia è un paese in bilico tra l’orrido dove tentano di spingerla fascisti, atlantisti e servizi segreti sull’esempio della Grecia dei colonnelli - la strage di Piazza Fontana è di un anno prima mentre il golpe Borghese è alle porte – e la conquista di nuovi diritti, come il divorzio, che sta per diventare legge, in un’Italia curiale, ministeriale e da caserma, la stessa che un programma radiofonico irriverente - Alto Gradimento, di Gianni Boncompagni e Renzo Arbore, già collaboratori di Big – può finalmente mettere alla berlina. Stato fragilissimo, con governi sempre sull’orlo di una crisi. In estate è esplosa la rivolta di Reggio Calabria e in ottobre la mafia ha eletto a Palermo il suo sindaco, Vito Ciancimino. Uno Stato pieno di debiti e di spese, che amministra l’economia a colpi di decretoni, aumentando tasse, benzina, imposte contro cui sindacati e classe operaia non riescono a fare granché, nonostante lotte e mobilitazioni di massa”.
Quando nel 1975 Saro Balsamo imprime uno scatto alla sua linea editoriale e da’ una svolta ancora più licenziosa alle sue ormai innumerevoli testate, siamo in pieno Anno Santo di Paolo VI. Passavini parla di un anno orribile, per lo stupro omicida del Circeo e per l’uccisione di Pier Paolo Pasolini e scrive: “Il 1975 è allo stesso tempo anno santo e anno porno”. Per papa Paolo VI doveva essere l’anno “del rinnovamento interiore dell’uomo: dell’uomo che pensa, e pensando ha smarrito la certezza nella Verità; dell’uomo che lavora, e lavorando ha avvertito d’essersi tanto estroflesso da non possedere più abbastanza il proprio personale colloquio; dell’uomo che gode e si diverte e tanto fruisce dei mezzi eccitanti una sua gaudente esperienza da sentirsene presto annoiato e deluso… noi pensiamo di non errare scoprendo nell’uomo di oggi una profonda insoddisfazione, una sazietà unita a un’insufficienza, una infelicità esasperata dalle false ricette di felicità dalle quali è intossicato, uno stupore di non sapere godere dei mille godimenti che la civiltà gli offre in abbondanza”. Il povero Paolo VI tutto avrebbe potuto immaginare fuor che il suo proclama finisse per diventare un caso scuola di eterogenesi dei fini. Balsamo, infatti, colse a modo suo il senso di quegli ammonimenti e impresse una svolta nettamente più pornografica alle sue riviste, andando così incontro alle esigenze di quegli uomini che non trovavano più soddisfazione nel porno-soft e anelavano una decisa accelerazione verso il realismo fotografico spinto alle estreme conseguenze.
Sulle pagine dei giornali di Balsamo è passato il fior fiore della scrittura italiana: Luciano Bianciardi (la sua rubrica di libri si chiamava “I consigli di un libridinoso”), Maria Jatosti (compagna di Bianciardi), Gian Carlo Fusco, Gianni Brera, Francesco Cardella, Franco Valobra, Pietro Cimatti, Milena Milani, Lucia Alberti, Guglielmo Solci, Sergio Modugno, Marcello Mancini, Giò Stajano, Attilio Battistini, Aldo Nobile, Leoncarlo Settimelli, Walter Peroni, Paolo Brogi, Silverio Corvisieri, Ugo Moretti, Giorgio Saviane, Luigi Gianoli, Massimo Balletti, Mauro De Mauro, Annamaria Rodari, Giorgio Colorni, Isotta Gaeta, Pier Francesco Pingitore, Stefano Surace, oltre a una fitta schiera di grandi fotografi, una per tutti Letizia Battaglia.
La parte più retriva della magistratura fece di tutto per frenare il fenomeno ma i vari p.m. riuscirono solo a coprirsi di ridicolo, a partire da Oscar Lanzi che nel 1966, nel corso del famoso processo contro il giornalino scolastico La zanzara, parlava di una “donna che non ha più pudore, e senza pudore la donna non è più donna… l’abbiamo sempre concepita come un angelo, pensarla in modo diverso è immorale”, per arrivare a Guido Viola che nel 1974 mandava a processo stampatori, direttori, distributori e finanche giornalai.
Nel luglio del 1975 sarebbe arrivata finalmente una legge che avrebbe esonerato da ogni responsabilità i distributori e gli edicolanti, ma la persecuzione sarebbe ripresa successivamente con l’arrivo sul mercato delle videocassette hard, io stesso mi sono ritrovato sotto processo nel 1986 a Catania, in qualità di titolare della società di distribuzione “Sicilstampa”, con l’accusa, che peraltro non consideravo affatto ignominiosa, di “diffusione di materiale pornografico”, salvo ritrovarmi assolto con formula ampia dopo un paio d’anni “perché il fatto non sussiste” su richiesta dello stesso pubblico ministero!
Agli albori degli anni ’90 si giunge all’assoluzione giudiziaria della pornografia, che viene finalmente legittimata perché, a determinate condizioni, “non costituisce reato”: il comune senso del pudore non esiste più come questione che interessa la competenza pubblica, perché attiene alla sfera privata degli individui. Chiosa però sapientemente Passavini: “Paradossalmente è proprio il suo sdoganamento a creare i più grossi problemi alla pornografia, che ha prosperato grazia all’aura di proibito, di trasgressione e di peccato che l’ha sempre circondata”. L’impero di Balsamo crollò miseramente, incartato nel groviglio dell’ingegneria finanziaria che aveva funzionato da volano per ottimizzare i profitti quando le cose andavano bene mentre ora mostrava tutti i suoi lati deboli; anche la stanchezza dei suoi settantacinque anni vissuti spericolatamente aveva giocato la sua parte e Saro se ne andò improvvisamente la notte del 7 febbraio del 2005 nella casa in affitto dove si era ritirato dopo aver venduto tutte le sue dorate magioni.
Con l’avvento delle televisioni berlusconiane e dello sviluppo di internet, l’erotismo e la pornografia sono diventate un bene di primo consumo, basti pensare che il 30% del traffico web mondiale transita sui siti porno; Saro certamente oggi non si sarebbe perso d’animo e qualcosa si sarebbe inventato… chissà… un ologramma interattivo nelle forme di assistente sexy, in Giappone ci sono arrivati lo scorso dicembre, Saro, probabilmente, l’avrebbe immessa sul mercato all’alba del 2000.
Da questo lavoro di Gianni Passavini non potrà prescindere chiunque voglia tracciare la storia dell’editoria periodica italiana, io, che ho conosciuto personalmente tanti dei protagonisti di questa storia, Adelina e Saro in testa, l’ho trovato avvincente e sono grato all’amico Tonino Nocera, attento osservatore del mondo editoriale, che me ne ha fatto dono.
Franco Arcidiaco
Gianni Passavini, Porno di carta, pagg. 432, € 18,00. Roma 2016, Iacobelli editore
lunedì 12 giugno 2017
LA NARRATIVA DI LERNET-HOLENIA TRA COLTE DIGRESSIONI, GROVIGLI NARRATIVI E VETTE DI LIRISMO ESISTENZIALE
Un romanzo incredibile, per certi versi straordinario. D’altra parte ci sarà pure un motivo se Leonardo Sciascia ebbe a definirlo, in un’appassionata recensione, un libro che ha “un che di labirintico, affascinante e insieme vertiginoso”, che contiene “una diabolica essenza” e sa calarsi “dentro una conoscenza del cuore umano, dentro introspezioni e descrizioni, di eccezionale acutezza e delicatezza”. Diciamo subito che ci troviamo al cospetto di un grande narratore anche se, come al solito quando si tratta di opere in lingue di ceppo germanico, non sappiamo fino a che punto la traduzione gli abbia reso onore; francamente trovo a dir poco disinvolto l’utilizzo dei tempi dei verbi e la resa di alcuni neologismi da parte di Cesare De Marchi, autore di questa traduzione, ma si sa che dalle parti dell’Adelphi questo argomento è tabu. A proposito di questo monumento dell’editoria italiana, sarei proprio curioso di sapere per quale motivo il testo tradotto non viene sottoposto a editing, i refusi sono troppi e imperdonabili a certi livelli…
Ma torniamo al testo e sentite la musicale bellezza di queste mirabili descrizioni d’ambiente: “I muri dei campanili prendevano già la tinta della sera, alcuni strati di nuvole d’un grigio tenue e orlate di colore lampone, come le avrebbe dipinte Watteau, salivano impercettibilmente nel cielo. La piazza era già in ombra, ma il nimbo tra i campanili della chiesa dei gesuiti fiammava ancora come un’esplosione d’oro. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la piazza. Faceva freddo, le giornate di tarda primavera emergevano appena –come lo scintillio di una polena dalla prua sommersa di una nave- dal fiotto d’ebano della lunga tenebra invernale. I colombi tubavano sui loro cornicioni”.
Non manca un omaggio, classico per un narratore nordico, ai paesi del Sud: “Anche il tempo era bello, di quella bellezza perfetta che a volte ci spinge a credere per ore, a volte per un giorno intero, di vivere nella felicità dei paesi meridionali”.
Lernet-Holenia, è questa la sua cifra distintiva, ama infarcire la narrazione di numerose digressioni di carattere filosofico-esistenziale che diffonde con leggerezza e nonchalance. Molte descrizioni di scene, apparentemente avulse dal contesto, sono di impareggiabile bellezza, la sublimazione dell’inutile come arte narrativa. Lo stesso intreccio giallo di questo romanzo diviene un semplice ma efficacissimo espediente narrativo. A volte, però, a furia di dilatare le congetture, finisce col produrre chiose prive di senso, sentite questa: “Ma se si lasciano gli oggetti nelle loro camere senza cambiarne di continuo la collocazione, essi acquisiscono per certo, nelle loro relazioni reciproche, un’importanza inspiegabile, e in quelle stanze, giacché non vi accade nulla, accade qualcosa che pare di rilievo incomparabilmente superiore a tutti gli atti compiuti nelle stanze invece abitate da qualcuno”; sfido qualcuno a spiegarmi che vuol dire!
A parte queste piccole sbavature, alle quali probabilmente si sarebbe potuto porre rimedio con un buon lavoro di editing, bisogna dire che siamo al cospetto di un libro da centellinare, su ogni parola bisogna soffermarsi con la massima attenzione, insomma è da gustare come un vino da meditazione ultradecennale, diciamo uno sherry Pedro Ximénez giusto per capirci.
La descrizione degli ultimi istanti di vita del sottotenente Fonseca, una delle vittime del misterioso killer dei membri del reggimento “Due Sicilie”, è quanto di più straordinario mi sia capitato di leggere in questi ultimi tempi: “C’era un gran silenzio; solo, da qualche parte, in una casa lontana, qualcuno suonava il pianoforte. La musica proveniva come da un altro mondo ed era immensamente triste. Una sensazione di sogno, quasi uno stato irreale, si impadronì di Fonseca. Nell’insieme gli toccò aspettare nella stanza una ventina di minuti, durante i quali si rivelò che quel tempo -e il tempo in generale- si poteva suddividere, ma non realmente misurare. Lo si poteva scomporre in parti, ciascuna di eguale grandezza rispetto alle altre… Ma quanto duri in realtà un minuto o un’ora, non si può determinarlo… Il tempo, insomma in sé non c’è – ma può esserci. Quel che conta è non accorgersi che c’è. Perché accorgersene è sgradevole. Meglio dimenticarsene. Oppure riempirlo con le cose il cui decorso costituisce il tempo. Allora esso ha una durata comprensibile. Altrimenti dura incomprensibilmente a lungo. E altrettanto terribile è che ci sfugga fra le dita o che non cessi di durare. Giacché il tempo dilegua solo per durare, e dura solo per dileguare…
Al pari di un prigioniero in carcere o di un santo nella sua grotta, che non soppesa più la propria felicità o infelicità, ma osserva ormai solo le oscillazioni della grazia -quell’effusione che scende dall’alto e gli consente di tollerare la propria esistenza- o il venir meno della grazia stessa, che torna a toglierli tutto, anche Fonseca sentiva ormai solo che stava pensando, o che i pensieri di lui si ritraevano. Ma quali pensieri? Non lo sapeva. Ebbe un sussulto di paura, senza riuscire a ricordare che cosa avesse pensato. E ricadde nel suo intontimento, e sopraggiunsero altre riflessioni – più concrete… ma non riusciva a rammentare nient’altro, anzi d’un tratto gli risultò quanto mai difficile pensare a qualcosa di preciso, era forse per via del pianoforte che continuava a suonare e lo intorpidiva, che cresceva d’intensità, si ingrossava e lo sopraffaceva con la sua veemenza, come se a un tratto chi suonava stesse lì accanto a lui”.
Per favore ditemi chi altro mai ha saputo fissare meglio gli ultimi istanti della vita di un uomo e ritrarli così drammaticamente dal suo stesso punto di vista!
Lernet-Holenia è magistrale nel descrivere l’atmosfera surreale che pervade i luoghi presso i quali sta per succedere, o in passato è successo, qualcosa di fatale. “…come quando una folata di vento improvvisa passa sopra gli alberi o i tetti, e per un attimo un’aria affatto diversa ristà nell’aria consueta del giorno, prima di disperdersi -ma quel fenomeno non era legato a un alito di vento o a un reale raffreddarsi dell’aria: era solo come un infiltrarsi nell’aria d’una sostanza altrettanto diafana ma assai più indefinita- o appena come un brivido. Un gran numero di cose, che non so esprimere, credevo di percepire – o meglio credevo di prendere coscienza di eventi a tal punto chimerici e obliati, che pareva tornarmi in mente non solo l’intera mia vita, su su fino a giorni così remoti che non potevo averli vissuti, ma anche tanti giorni di tante altre vite. E ogni volta che quel fenomeno si verificava, ogni volta che il brivido sopraggiungeva, erano anche i prati ad avvertirlo. Un fremito molto più delicato di un refolo li attraversava, sebbene i fili d’erba non si muovessero minimamente, o quantomeno non per quella causa; era solo uno scemare, per minimi gradi della luminosità del verde argenteo e tremulo –un rabbrividire, insomma che, nella sua inafferrabilità, toccava ancor di più l’anima. Così me ne stavo nella mia poltrona aspettando quotidianamente quello strano atterrirsi della natura…”.
Siamo nel campo della grande narrativa mitteleuropea e un riferimento all’inarrivabile Joseph Roth è d’obbligo, ma ditemi, d’altra parte, come fareste a non rintracciare echi rothiani nell’inutile tentativo di conciliazione che il signor Harff, arbitro del duello tra gli ufficiali Lukawsky e Pufendorf, rivolge ai contendenti: “Siamo diventati tutti dei poveracci. Non siamo più quelli di una volta. Il mondo di cui eravamo parte non è più. Ciò che qui sta per accadere è cosa d’altri tempi. Tempi in cui eravamo giovani. Non dobbiamo più invocare il giudizio di Dio in questa contesa. Dio è diventato altissimo. Non decide più. Chiedo ai contendenti di riconciliarsi”. La descrizione del duello che segue è un piccolo capolavoro di narrativa che catapulta letteralmente il lettore sulla scena con una potenza espressiva tale da fargli percepire l’odore della polvere da sparo.
Alta letteratura che mi imporrebbe ancora una lunga serie di citazioni, mi riferisco al sogno premonitore del colonnello Rochonville, tre pagine intense che descrivono in un’atmosfera plumbea la scena di “drappelli spettrali” costituiti da “uomini in cerca delle proprie tombe”. L’Adelphi, giustamente in questo caso, ha riportato questo testo nell’aletta della quarta di copertina ed è quindi facilmente rintracciabile.
Siamo al cospetto di un capolavoro, di livello straordinario, un caposaldo della letteratura europea; completo in ogni sua sfaccettatura riesce a raggiungere anche picchi di raffinato lirismo come in queste righe con le quali chiudo questa mia recensione (la chiudo a malincuore ma rischierei altrimenti di trascrivere il libro integralmente).
“…Ora Silverstolpe, curvatosi in avanti, sollevò un’ape dal tappeto. ‘Hai finito per calpestarla’ disse. ‘Avrei dovuto avvertirti, stava sul tappeto e forse era malata. Ma non volevo interromperti. Forse ero solo curioso di vedere se la scampava o no. Adesso, vedi, mi sto anche un po’ interessando -comprensibilmente- alla durata della vita altrui…’. Posò l’ape in un portacenere. ‘È morta,’ disse ‘sebbene l’estate sia appena incominciata. Sui fiori dei prati non potrà più andare, né sulle spalliere su cui batte il sole. Non tornerà più alle malve su cui era abituata a volare, né sul phlox quando è in fiore. Che anche i fiori fioriscano per niente! Che anche l’estate, all’apparenza eterna, finisca! Un giorno, quando si farà nuvolo, lo stagno si coprirà d’argento e le sue minuscole onde offuscheranno lo specchio di un mondo che non è più, e i suoi giunchi sussurreranno i nomi di tutti quelli che non saranno più. Che tristezza non ritornare più, mai più! E che anche gli amanti, ahimè, non possano ritornare, nemmeno loro! Loro che pure vivono l’uno per l’altra –prima per giorni, poi per settimane, infine per anni. E credono che sia per sempre. Eppure sopraggiunge poi l’ultimo istante. Si lasciano, e forse pensano ancora di lasciarsi come altre volte solo per poco tempo. Invece è per sempre. I cammini che erano abituati a percorrere li aspettano invano, e le stanze dove si incontravano restano vuote come spazi vuoti. Due mani si congiungono ancora, ma in quell’istante la mano dell’uno dista più delle stelle più remote, e le lagrime che vi gocciolano sopra, cadono nell’eternità.’”
Franco Arcidiaco
P.S. Quando sono andato a riporre il volume nello scaffale (letteratura straniera, ordine alfabetico per autore) mi sono accorto di possederne un’altra edizione (Alexander Lernet-Holenia, Le Due Sicilie, Serra e Riva editori 1983, pagg. 270, £ 24.000, traduzione di Elisabetta Bolla).
Ho avuto la conferma di quello che sospettavo: al solito la traduzione della Adelphi è stata effettuata in modo scolastico e impersonale, irrispettoso dei canoni della buona letteratura. Molti periodi che avevo trovato farraginosi, banali o incomprensibili qui si rivelano nella loro essenza e rendono sicuro onore a questo grande romanziere; senza dire che ho scoperto che alcuni refusi che avevo intercettato erano dovuti alla traduzione. Unica nota stonata è l’articolo nel titolo, quel “Le” Due Sicilie è inesatto e fuorviante poiché non rimanda immediatamente, come dovrebbe, al nome del reggimento ma appare come un riferimento geopolitico; in questo caso, però, penso che la responsabilità sia dell’editore (di cui è la competenza del paratesto) piuttosto che del traduttore.
Alexander Lernet-Holenia, Due Sicilie, Adelphi 2017, pagg. 244, € 19,00
Ma torniamo al testo e sentite la musicale bellezza di queste mirabili descrizioni d’ambiente: “I muri dei campanili prendevano già la tinta della sera, alcuni strati di nuvole d’un grigio tenue e orlate di colore lampone, come le avrebbe dipinte Watteau, salivano impercettibilmente nel cielo. La piazza era già in ombra, ma il nimbo tra i campanili della chiesa dei gesuiti fiammava ancora come un’esplosione d’oro. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la piazza. Faceva freddo, le giornate di tarda primavera emergevano appena –come lo scintillio di una polena dalla prua sommersa di una nave- dal fiotto d’ebano della lunga tenebra invernale. I colombi tubavano sui loro cornicioni”.
Non manca un omaggio, classico per un narratore nordico, ai paesi del Sud: “Anche il tempo era bello, di quella bellezza perfetta che a volte ci spinge a credere per ore, a volte per un giorno intero, di vivere nella felicità dei paesi meridionali”.
Lernet-Holenia, è questa la sua cifra distintiva, ama infarcire la narrazione di numerose digressioni di carattere filosofico-esistenziale che diffonde con leggerezza e nonchalance. Molte descrizioni di scene, apparentemente avulse dal contesto, sono di impareggiabile bellezza, la sublimazione dell’inutile come arte narrativa. Lo stesso intreccio giallo di questo romanzo diviene un semplice ma efficacissimo espediente narrativo. A volte, però, a furia di dilatare le congetture, finisce col produrre chiose prive di senso, sentite questa: “Ma se si lasciano gli oggetti nelle loro camere senza cambiarne di continuo la collocazione, essi acquisiscono per certo, nelle loro relazioni reciproche, un’importanza inspiegabile, e in quelle stanze, giacché non vi accade nulla, accade qualcosa che pare di rilievo incomparabilmente superiore a tutti gli atti compiuti nelle stanze invece abitate da qualcuno”; sfido qualcuno a spiegarmi che vuol dire!
A parte queste piccole sbavature, alle quali probabilmente si sarebbe potuto porre rimedio con un buon lavoro di editing, bisogna dire che siamo al cospetto di un libro da centellinare, su ogni parola bisogna soffermarsi con la massima attenzione, insomma è da gustare come un vino da meditazione ultradecennale, diciamo uno sherry Pedro Ximénez giusto per capirci.
La descrizione degli ultimi istanti di vita del sottotenente Fonseca, una delle vittime del misterioso killer dei membri del reggimento “Due Sicilie”, è quanto di più straordinario mi sia capitato di leggere in questi ultimi tempi: “C’era un gran silenzio; solo, da qualche parte, in una casa lontana, qualcuno suonava il pianoforte. La musica proveniva come da un altro mondo ed era immensamente triste. Una sensazione di sogno, quasi uno stato irreale, si impadronì di Fonseca. Nell’insieme gli toccò aspettare nella stanza una ventina di minuti, durante i quali si rivelò che quel tempo -e il tempo in generale- si poteva suddividere, ma non realmente misurare. Lo si poteva scomporre in parti, ciascuna di eguale grandezza rispetto alle altre… Ma quanto duri in realtà un minuto o un’ora, non si può determinarlo… Il tempo, insomma in sé non c’è – ma può esserci. Quel che conta è non accorgersi che c’è. Perché accorgersene è sgradevole. Meglio dimenticarsene. Oppure riempirlo con le cose il cui decorso costituisce il tempo. Allora esso ha una durata comprensibile. Altrimenti dura incomprensibilmente a lungo. E altrettanto terribile è che ci sfugga fra le dita o che non cessi di durare. Giacché il tempo dilegua solo per durare, e dura solo per dileguare…
Al pari di un prigioniero in carcere o di un santo nella sua grotta, che non soppesa più la propria felicità o infelicità, ma osserva ormai solo le oscillazioni della grazia -quell’effusione che scende dall’alto e gli consente di tollerare la propria esistenza- o il venir meno della grazia stessa, che torna a toglierli tutto, anche Fonseca sentiva ormai solo che stava pensando, o che i pensieri di lui si ritraevano. Ma quali pensieri? Non lo sapeva. Ebbe un sussulto di paura, senza riuscire a ricordare che cosa avesse pensato. E ricadde nel suo intontimento, e sopraggiunsero altre riflessioni – più concrete… ma non riusciva a rammentare nient’altro, anzi d’un tratto gli risultò quanto mai difficile pensare a qualcosa di preciso, era forse per via del pianoforte che continuava a suonare e lo intorpidiva, che cresceva d’intensità, si ingrossava e lo sopraffaceva con la sua veemenza, come se a un tratto chi suonava stesse lì accanto a lui”.
Per favore ditemi chi altro mai ha saputo fissare meglio gli ultimi istanti della vita di un uomo e ritrarli così drammaticamente dal suo stesso punto di vista!
Lernet-Holenia è magistrale nel descrivere l’atmosfera surreale che pervade i luoghi presso i quali sta per succedere, o in passato è successo, qualcosa di fatale. “…come quando una folata di vento improvvisa passa sopra gli alberi o i tetti, e per un attimo un’aria affatto diversa ristà nell’aria consueta del giorno, prima di disperdersi -ma quel fenomeno non era legato a un alito di vento o a un reale raffreddarsi dell’aria: era solo come un infiltrarsi nell’aria d’una sostanza altrettanto diafana ma assai più indefinita- o appena come un brivido. Un gran numero di cose, che non so esprimere, credevo di percepire – o meglio credevo di prendere coscienza di eventi a tal punto chimerici e obliati, che pareva tornarmi in mente non solo l’intera mia vita, su su fino a giorni così remoti che non potevo averli vissuti, ma anche tanti giorni di tante altre vite. E ogni volta che quel fenomeno si verificava, ogni volta che il brivido sopraggiungeva, erano anche i prati ad avvertirlo. Un fremito molto più delicato di un refolo li attraversava, sebbene i fili d’erba non si muovessero minimamente, o quantomeno non per quella causa; era solo uno scemare, per minimi gradi della luminosità del verde argenteo e tremulo –un rabbrividire, insomma che, nella sua inafferrabilità, toccava ancor di più l’anima. Così me ne stavo nella mia poltrona aspettando quotidianamente quello strano atterrirsi della natura…”.
Siamo nel campo della grande narrativa mitteleuropea e un riferimento all’inarrivabile Joseph Roth è d’obbligo, ma ditemi, d’altra parte, come fareste a non rintracciare echi rothiani nell’inutile tentativo di conciliazione che il signor Harff, arbitro del duello tra gli ufficiali Lukawsky e Pufendorf, rivolge ai contendenti: “Siamo diventati tutti dei poveracci. Non siamo più quelli di una volta. Il mondo di cui eravamo parte non è più. Ciò che qui sta per accadere è cosa d’altri tempi. Tempi in cui eravamo giovani. Non dobbiamo più invocare il giudizio di Dio in questa contesa. Dio è diventato altissimo. Non decide più. Chiedo ai contendenti di riconciliarsi”. La descrizione del duello che segue è un piccolo capolavoro di narrativa che catapulta letteralmente il lettore sulla scena con una potenza espressiva tale da fargli percepire l’odore della polvere da sparo.
Alta letteratura che mi imporrebbe ancora una lunga serie di citazioni, mi riferisco al sogno premonitore del colonnello Rochonville, tre pagine intense che descrivono in un’atmosfera plumbea la scena di “drappelli spettrali” costituiti da “uomini in cerca delle proprie tombe”. L’Adelphi, giustamente in questo caso, ha riportato questo testo nell’aletta della quarta di copertina ed è quindi facilmente rintracciabile.
Siamo al cospetto di un capolavoro, di livello straordinario, un caposaldo della letteratura europea; completo in ogni sua sfaccettatura riesce a raggiungere anche picchi di raffinato lirismo come in queste righe con le quali chiudo questa mia recensione (la chiudo a malincuore ma rischierei altrimenti di trascrivere il libro integralmente).
“…Ora Silverstolpe, curvatosi in avanti, sollevò un’ape dal tappeto. ‘Hai finito per calpestarla’ disse. ‘Avrei dovuto avvertirti, stava sul tappeto e forse era malata. Ma non volevo interromperti. Forse ero solo curioso di vedere se la scampava o no. Adesso, vedi, mi sto anche un po’ interessando -comprensibilmente- alla durata della vita altrui…’. Posò l’ape in un portacenere. ‘È morta,’ disse ‘sebbene l’estate sia appena incominciata. Sui fiori dei prati non potrà più andare, né sulle spalliere su cui batte il sole. Non tornerà più alle malve su cui era abituata a volare, né sul phlox quando è in fiore. Che anche i fiori fioriscano per niente! Che anche l’estate, all’apparenza eterna, finisca! Un giorno, quando si farà nuvolo, lo stagno si coprirà d’argento e le sue minuscole onde offuscheranno lo specchio di un mondo che non è più, e i suoi giunchi sussurreranno i nomi di tutti quelli che non saranno più. Che tristezza non ritornare più, mai più! E che anche gli amanti, ahimè, non possano ritornare, nemmeno loro! Loro che pure vivono l’uno per l’altra –prima per giorni, poi per settimane, infine per anni. E credono che sia per sempre. Eppure sopraggiunge poi l’ultimo istante. Si lasciano, e forse pensano ancora di lasciarsi come altre volte solo per poco tempo. Invece è per sempre. I cammini che erano abituati a percorrere li aspettano invano, e le stanze dove si incontravano restano vuote come spazi vuoti. Due mani si congiungono ancora, ma in quell’istante la mano dell’uno dista più delle stelle più remote, e le lagrime che vi gocciolano sopra, cadono nell’eternità.’”
Franco Arcidiaco
P.S. Quando sono andato a riporre il volume nello scaffale (letteratura straniera, ordine alfabetico per autore) mi sono accorto di possederne un’altra edizione (Alexander Lernet-Holenia, Le Due Sicilie, Serra e Riva editori 1983, pagg. 270, £ 24.000, traduzione di Elisabetta Bolla).
Ho avuto la conferma di quello che sospettavo: al solito la traduzione della Adelphi è stata effettuata in modo scolastico e impersonale, irrispettoso dei canoni della buona letteratura. Molti periodi che avevo trovato farraginosi, banali o incomprensibili qui si rivelano nella loro essenza e rendono sicuro onore a questo grande romanziere; senza dire che ho scoperto che alcuni refusi che avevo intercettato erano dovuti alla traduzione. Unica nota stonata è l’articolo nel titolo, quel “Le” Due Sicilie è inesatto e fuorviante poiché non rimanda immediatamente, come dovrebbe, al nome del reggimento ma appare come un riferimento geopolitico; in questo caso, però, penso che la responsabilità sia dell’editore (di cui è la competenza del paratesto) piuttosto che del traduttore.
Alexander Lernet-Holenia, Due Sicilie, Adelphi 2017, pagg. 244, € 19,00
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