Sono passati nove anni esatti dalla morte per suicidio, a quarantasei anni, dello scrittore americano David Foster Wallace. Nel suo paese grande era la stima di cui godeva, in Italia non ha mai incontrato i favori del grande pubblico, che forse trovava la sua scrittura complessa e audacemente innovativa. Non vi parlerò dei suoi due grandi romanzi, il più famoso dei quali “Infinite Jest” ho abbandonato nello scaffale dell’amico libraio-resistente Fabio Saraceno, non perché mi abbiano fatto paura le sue 1.500 pagine, ma per il semplice motivo che, dopo una scorsa sommaria, non ne ho gradito l’ambientazione e l’impianto narrativo.
La dimensione di D. F. Wallace che prediligo, e che ne esprime il genio letterario, è quella umoristica; questo “Una cosa divertente che non farò mai più”, capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico, ne è la riprova.
Il libro nasce da un incarico che l’autore aveva ricevuto dalla prestigiosa rivista Harper’s, il suo compito era di redigere un reportage narrativo da una crociera extralusso ai Caraibi. Foster cominciò il suo lavoro sulla stessa nave che lo ospitava ma, successivamente, ci prese gusto e lo arricchì revisionandolo a dismisura fino a farlo diventare un classico dell’umorismo di fine Novecento; più o meno quello che è stato “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” di Jerome K. Jerome per la letteratura della seconda metà dell’Ottocento.
Anche il libro di Jerome era nato quasi per caso, visto che l'autore, originariamente, aveva redatto un'opera ricca di notizie storico-letterarie utili per approntare una guida turistica del Tamigi. L'editore della rivista che aveva commissionato il racconto, pretese di tagliare gran parte delle digressioni storico culturali, sancendo di fatto l'enorme successo del libro, snellito ma pieno di gag umoristiche.
Wallace, con un’operazione più o meno simile, ha prodotto una satira spietata sull’opulenza sprecona e sul divertimento di massa forzato della società americana contemporanea.
Il talento letterario, la capacità di osservazione e l’intelligenza analitica di David Foster Wallace hanno trasformato un’esperienza a tutti gli effetti alienante in un’opera d’arte.
L’autore, da osservatore intelligente e paranoico, propaga il suo sguardo ovunque: sulla macchina del divertimento, sulle persone, sulle dinamiche sociali tra i crocieristi e tra questi e il personale di bordo, sulla somministrazione smisurata dei cibi, non risparmiando nemmeno se stesso. Ne esce innanzitutto un quadro lucido e ironico del turista medio e dei suoi tic, che non fatichiamo a rintracciare nel nostro vissuto. È obbligatorio ritrovarsi ricchi e felici, anche il cielo è sempre più blu, tutto deve rendere il viaggio indimenticabile. È l’industria del divertimento, che annulla in una bolla artificiale di benessere e opulenza le frustrazioni e le difficoltà di ogni giorno. Nessuno avverte la palese contraddizione consistente nel fatto che questa macchina dei vizi è prodotta da un equipaggio di immigrati malpagati (lavorano a “ritmi dickensiani”) che coccolano (esilarante è la gag del “fenomeno del sorriso professionale”, un “fenomeno fondamentale del terziario” e quella del “cameriere gastropedante”) per contratto e timore di perdere il lavoro.
David Foster Wallace analizza questa macchina di business in cui si trova immerso con analisi lucida e competente (le pagine sono stracolme di note ricche di dettagli e dati tecnici) e con talento letterario, coniando espressioni e calembour irresistibili.
La sua grandezza gli consente di operare un’altrettanto spietata operazione di autoanalisi, registrando disinvoltamente le sue reazioni a questo mondo di benessere artefatto e di vacua finzione. Ne deriva l’immagine di un uomo fragile, sociopatico, che non si ritrova nei riti dei crocieristi, che cede alla tentazione di ordinare la cena in camera per ritrovare i suoi spazi di solitudine, ma poi si trova a spargere fogli sul letto per dissimulare una presunta attività lavorativa che non lo faccia apparire un disadattato agli occhi del cameriere.
Leggete queste righe sul “water ad alto tiraggio” e ditemi se ho esagerato: “Lo scarico del water produce un rumore breve ma traumatico, una specie di gorgoglio in si-alto-tenuto, tipo disturbo gastrico su scala cosmica. Insieme a questo rumore arriva una violenta suzione così impressionante e potente che fa paura e allo stesso tempo dà uno strano senso di conforto –i vostri escrementi (escrementi e odori che sono conseguenza logica dei pasti alla Enrico VIII, del servizio in cabina gratuito e illimitato e dei cesti di frutta) più che rimossi sembrano risucchiati, e risucchiati a una velocità tale che vi fa pensare che vadano a finire in un luogo così lontano che diventano immediatamente un’astrazione… una specie di scarico ad alto tiraggio esistenziale. È piuttosto difficile ignorare la relazione tra l’alto tiraggio del water e le fantasie di negazione e trascendenza della morte che la crociera extralusso tenta di instillare.”
Franco Arcidiaco
David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Edizioni minimum fax, Roma 1998, pagg. 160, € 12,50.
martedì 3 ottobre 2017
TUTTI I CALEMBOUR DI DAVID FOSTER WALLACE
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