venerdì 25 agosto 2017

CALVINO, "LO SCOIATTOLO DELLA PENNA*"

Salvo qualche inevitabile citazione da “Le città invisibili” e “Lezioni americane”, che te le tirano dietro da tutte le parti e inevitabilmente ti raggiungono, avevo interrotto il mio rapporto con Calvino nel 1979. Forte era stata la delusione provocata da “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; l’avevo atteso con ansia, il suo mito era stato alimentato dalla neonata Repubblica, che aveva lavorato Calvino ai fianchi per strapparlo al Corriere della Sera, fino a riuscirci proprio nel dicembre di quell’anno. La Repubblica ormai dettava la linea tra noi giovani militanti del PCI ed aveva preso il posto de l’Unità nelle tasche posteriori dei nostri jeans; solo molti anni dopo ci saremmo resi conto, ma non tutti purtroppo, della trappola che ci aveva teso la “borghesia illuminata” tramite la sua mosca cocchiera Eugenio Scalfari. Repubblica, dicevo, aveva creato un’attesa spasmodica attorno al nuovo romanzo di Calvino e tutti eravamo pronti a tuffarci tra le sue pagine; la nostra era l’età in cui ancora ci si illude di poter trovare delle risposte e, considerato che Google non era stato ancora inventato, che i nostri genitori si accorgevano di noi solo quando ci allungavamo i capelli e che i professori erano impantanati ancora nella melma di una riforma che aveva pensato solo a distruggere quel che di buono c’era nella scuola gentiliana, non avevamo altri orizzonti se non la letteratura, il cinema e la musica. Una passione smodata per la letteratura era cresciuta in me dall’adolescenza, mi ero pasciuto fino a quel momento dei grandi classici russi, europei e americani e sapevo bene cosa cercare in un romanzo.
Ancora oggi la mia aspettativa principale è quella di perdermi tra le pagine di un libro e di trovarmi all’interno di un mondo concluso e avvolgente e la gratificazione che ne traggo è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’opera. In “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Calvino non offre al lettore niente di tutto questo, la struttura del romanzo classico non è nelle sue corde, la sua dimensione ottimale è quella del racconto, della favola e del saggio letterario e la sua scrittura fredda e distaccata non è fatta per accogliere il lettore in un universo ricreato. Con la leggerezza ironica e straniante che gli è propria, tende invece sistematicamente a demolire la sicurezza del lettore “seriale”. Commentando il suo lavoro, perfidamente dichiara: «È un romanzo sul piacere di leggere romanzi»; siamo, invece, al cospetto della negazione del romanzo, o meglio, della teorizzazione dell’impossibilità di concludere un romanzo. Si tratta, insomma, di un “metaromanzo” che va ancora oltre quella frammentarietà che già avevamo riscontrato in una parte della letteratura del ‘900 (uno per tutti Svevo e la sua “Coscienza”).
Rendendosi conto del rischio dell’operazione, con saccente cerebrale snobismo, Calvino cercò di blandire il lettore aggrappandosi all’originalità dell’operazione che tendeva ad aprire un dialogo tra l’autore e il lettore “abbattendo quel muro di passività che per tanti anni ha abbandonato il lettore al suo ruolo di famelico curioso” ed espresse sin da subito la volontà di stupire, certo di aver creato qualcosa di diverso, di inconsueto. L’inizio del libro è infatti straniante: l’Autore si rivolge direttamente al Lettore, invitato a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, appunto. Questo espediente vorrebbe porre in posizione centrale il destinatario naturale di ogni libro, facendolo diventare parte attiva e centrale del contesto letterario, nonché protagonista della narrazione stessa. Il libro è costituito da dieci capitoletti e ognuno di questi costituisce l'incipit di un romanzo interrotto bruscamente nei punti di maggiore suspense. I generi di romanzo sono tutti diversi tra loro, dal thriller, al poliziesco, al romantico, mi riferisco alla centrale storia di Sherazad, dove è reso omaggio a Le mille e una notte da cui, peraltro, è mutuata la struttura. A riprova del carattere sperimentale dell’opera -una combinazione labirintica dal sapore tardo futurista- si noti che i titoli di questi dieci capitoli, se accostati, formano una frase di senso compiuto. Insomma si tratta del divertissement (in forma di collage letterario), per certi versi, non lo nego, affascinante, di uno scrittore “d’avanguardia” in crisi, che camuffa abilmente la sua incapacità di cimentarsi con l’arte del romanzo, di cogliere la complessità del reale e di raccontare storie unitarie. Eppure nel 1947 al suo esordio, Calvino un romanzo l’aveva scritto, parlo de Il sentiero dei nidi di ragno; si tratta in realtà di un racconto lungo che costituisce di per sé un trait d’union e una mediazione tra i due generi del racconto e del romanzo, e non meraviglia quindi che sia una forma cara al Calvino degli anni Cinquanta, che, pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno, dopo vari progetti abbandonati e tentativi falliti, ha rinunciato all’illusione di poter scrivere altri romanzi, ma che «sente stretta» anche la misura breve: in una lettera al critico Giansiro Ferrata del 6 dicembre del 1947, infatti, scrive: “Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine, i racconti non mi soddisfano più e mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei”.
Ho ripreso il mio rapporto con Calvino, dopo ben 38 anni, grazie a Rebecca Panella, giovanissima ma accanita lettrice la quale, sentendomi parlare di Calvino nei termini di cui sopra, si è fatta scrupolo di dimostrarmi le qualità di narratore di quello che invece è tra i suoi scrittori preferiti e mi ha donato Il sentiero dei nidi di ragno, nella collana Oscar Moderni Mondadori di recente edizione. Il libro è prezioso poiché il racconto lungo è accompagnato da una presentazione scritta da Calvino nel 1964 –una vera e propria lezione magistrale di letteratura che potrebbe costituire la base teorica di tutti i laboratori di scrittura che fioriscono in ogni angolo della penisola-, da una ricchissima cronologia della vita e delle opere che comprende citazioni e aneddoti interessantissimi e, chicca tra le chicche, da una breve ma fulminante postfazione di Cesare Pavese, apparsa su l’Unità del 26 ottobre 1947, dalla quale ho tratto la definizione* che ho usato come titolo di questo mio articolo.
Pavese esalta quest’opera prima del 23enne Calvino, il quale “sa già che per raccontare non è necessario ‘creare personaggi’, bensì trasformare dei fatti in parole” e la definisce “il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana”, la chiosa del suo articolo è una grandiosa lezione di tecnica narrativa: “Trasformare dei fatti in parole non vuol dire cedere alla retorica dei fatti, né cantare il bel canto. Vuol dire mettere nelle parole tutto quello che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarla. La pagina non deve essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla, questo sì. Dev’essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre. Per questa prima volta, a noi pare, Calvino c’è abbondantemente riuscito”.
Calvino era stato testimone della Resistenza ed era consapevole che da questo gliene derivasse “una responsabilità speciale” che finiva per fargli sentire il tema troppo impegnativo e solenne per le sue forze. “E allora decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo…”.
La storia è quella di Pin, ragazzo del carruggio che “ha una voglia lontana di carezze”, fratello di una prostituta, innocente e sboccato, dispettoso e cencioso, che ruba, su commissione, la pistola a un marinaio tedesco cliente della sorella e poi decide di tenerla per sé nascondendola tra i nidi di ragno, un posto che conosce solo lui. Il tono è a metà tra il fiabesco e surreale -non dimentichiamo che Calvino è stato il grande cantore della Fiaba Italiana- e alcuni personaggi sembrano fuoriusciti dal Pinocchio collodiano. Il linguaggio letterario tende a deformare l’abituale visione delle cose e la pone in un contesto quasi innaturale, sia ricorrendo a forme stilistiche inconsuete ricche di neologismi, sia deformando la realtà creando rapporti e situazioni imprevedibili.
È veramente straordinaria la capacità di Calvino di descrivere luoghi, persone e situazioni; l’inquietante clima da guerra civile è interpretato alla perfezione ed emerge spontaneamente dal dispiegarsi della narrazione. Sentite come sono descritte le truppe sbandate tedesche e le terribili brigate nere: “Sono due razze speciali: quanto i tedeschi sono rossicci, carnosi, imberbi, tanto i fascisti sono neri, ossuti, con le facce bluastre e i baffi da topo”, se ci pensate bene questa descrizione è così calzante da avere ispirato tutti i libri e i film sulla Resistenza usciti in seguito.
Nella presentazione, che ripeto è un vero capolavoro, Calvino parla del clima generale di quell’epoca seguita alla Resistenza in cui “l’esplosione letteraria fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo… ci sentivamo depositari di un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria”; “La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.
Concludo con alcune riflessioni sul mestiere di scrittore che, da editore, mi hanno molto intrigato e dimostrano a chiare lettere la maestosa statura dell’intellettuale Italo Calvino: “Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più”. “…l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria, ricchezza vera dello scrittore, ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini”. Il suo timore è che la pagina scritta finisca col fissare “con sfacciata e ingannevole sicurezza” la memoria che in realtà è ancora “un fatto presente”, col rischio di consegnare alla storia una realtà parziale, condizionata dalle reazioni fisiologiche derivanti da un vissuto ancora troppo recente. “Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo”.
Franco Arcidiaco
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano 2016, Mondadori, pagg. 160, € 12,00






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