Quando, nel gennaio 1969 apparve, per la prima volta in edizione economica negli Oscar Mondadori, la raccolta di poesie di Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, era accompagnata da una splendida introduzione di Fernanda Pivano, intitolata: “Un poeta, non soltanto un minestrone beat”, l’incipit era il seguente: “Nel giugno 1957 Lawrence Ferlinghetti, poeta e editore, fu condotto nella prigione di San Francisco. Il reato da lui commesso era quello di aver pubblicato nelle edizioni City Lights Books la raccolta di versi Howl (Urlo) di Allen Ginsberg(…)”.
“Il messaggio è: allargate l’area della coscienza”, era il sottotitolo della raccolta e per coscienza non s’intendeva certo la sede dei doveri morali, ma la sede della consapevolezza, il campo dell’attività mentale consapevole. Era la quintessenza del pensiero di quel movimento che sarebbe passato alla storia come Beat generation. Non avevo ancora compiuto sedici anni, quella lettura costituì l’equivalente di un viaggio lisergico che mi spalancò le porte dell’anticonformismo, della controcultura, del libero pensiero e, per naturale estensione, della grande ideologia comunista che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Fantasticavo sulla figura di questo indomito poeta-editore disposto ad affrontare il carcere per pubblicare il libro proibito di un amico poeta; San Francisco era lontana mille miglia dalla mia Reggio Calabria, sud del sud, frontiera del nulla, culla del più retrivo conformismo piccolo borghese, i libri e i dischi bisognava ordinarli, sfidando lo sguardo severo di disapprovazione dei negozianti, e aspettare settimane per vederli arrivare; il massimo della trasgressione era andare in giro con i capelli più lunghi (fino a quando mio padre non mi trascinava di peso dal barbiere), con un paio di jeans e, d’inverno, con l’immancabile eskimo.
Eravamo quattro gatti e per giunta divisi, in quegli anni bastava poco per creare un gruppuscolo o un movimento antagonista, bastava un’antipatia personale, una ragazza contesa e la geografia politica delle città si arricchiva della presenza di una nuova aggregazione che si poneva subito all’avanguardia nella lotta alla borghesia. La rivolta per il capoluogo consegnò poi la città nelle mani della destra, molti andarono a studiare fuori, tanti restammo a sognare sui dischi, sulle riviste (Ciao Amici e Big su tutti), su qualche trasmissione radiofonica fuori dal coro (Alto Gradimento, Supersonic, Per voi giovani), sui libri. Ed ancora oggi ci domandiamo se ci voleva più coraggio ad andar via o a rimanere…
Trentasette anni dopo, una vita intera, quando la Beat generation non mi sembra altro che un pirotecnico tassello del mosaico della mia vita, apro il giornale e leggo di una ragazza, poco più che ventenne, di Lazzàro, provincia di Reggio Calabria, (Parallelo 38 come San Francisco, vorrà dire qualcosa?) che collabora con la City Lights di San Francisco, è amica personale di Lawrence Ferlinghetti, il quale è stato tra l’altro ospite in incognito della sua casa a Lazzàro, ed è in procinto di pubblicare, per Feltrinelli, la sua unica biografia autorizzata. La ragazza si chiama Giada Diano, il libro è uscito a giugno di quest’anno, s’intitola “Io sono come Omero. Vita di Lawrence Ferlinghetti”, ed io l’ho divorato in due giorni!
“Io sono come Omero, intendo come Omero il mio cane, sempre alla ricerca delle sue radici”. Lawrence Ferlinghetti, 89 anni, è l’ultimo testimone vivente della Beat generation, ed è certamente uno dei più significativi esponenti di una generazione che ha cambiato il mondo; Giada Diano, in realtà, attraverso la biografia di Ferlinghetti tesse le fila di tutto il movimento di cui egli è stato un indiscusso protagonista, ne viene fuori un coloratissimo arazzo, nel quale con estrema disinvoltura, incastona le figure di personaggi mitici quali Allen Ginsberg, Gregory Corso, Samuel Beckett, George Whitman, Dylan Thomas, William Carlos Williams, Jacques Prévert, Jean-Jacques Lebel, Harold Norse, William Burroughs, Alejandro Jodorowsky, Fernando Arrabal, Roland Topor, Salvatore Quasimodo, Pablo Neruda, Giancarlo Menotti, Evgenij Evtusenko, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Zoya Voznesenskij, Gary Snyder, Dario Bellezza, Dacia Maraini, Osvaldo Soriano, Ignazio Buttitta, Ken Kesey, Erich Fried, Ted Joans, Jack Kerouac, Josif Brodskij, Bohumil Hrabal, Amelia Rosselli, Ed Sanders, John Giorno, Jack Hirschman, Agneta Falk, Marty Matz e, last but not least, Fernanda Pivano, la madrina italiana della Beat generation. Non vi sembri azzardato l’accostamento, ma il lavoro svolto da Giada Diano è senza dubbio assimilabile a quello svolto dalla grande Fernanda; se quest’ultima, infatti, ha avuto il gran merito di aprire alla sonnacchiosa cultura italiana, appena uscita dal buio del ventennio, lo spettacolare proscenio della letteratura americana, Giada ha avuto il coraggio di tirar fuori dall’oblio, al quale sembrava irrimediabilmente condannato, il movimento della Beat generation (non dimentichiamo che ai suoi coetanei il massimo del brivido lo procurano i libri di Moccia); non solo, dopo aver studiato con passione l’argomento, è andata più volte a San Francisco a conoscerne di persona i superstiti e gli eredi, ed è riuscita ad organizzare, sponsor la giunta comunale di centrodestra, un reading di poesia di Jack Hirschman che, probabilmente, è l’unico essere vivente che si può considerare più a sinistra del sottoscritto. Non dimenticherò mai, e di questo sarò sempre grato a Giada, l’espressione imbarazzata e il dileguarsi furtivo dell’assessore Raffa, quando Jack ha cominciato ad inveire dal palco contro Bush! Per non parlare, poi, delle emozioni di cui ha inondato Piazza Castello, la scorsa estate, con i tre giorni di reading di poesia internazionale “militante”.
Il libro è anche, naturalmente, una puntuale ricostruzione della vita di Lawrence e dei suoi punti cardine: il servizio in Marina (sbarco in Normandia compreso), gli anni parigini, i lunghi vagabondaggi per il globo e la ricerca, spasmodica, estenuante e commovente, delle radici italiane.
La scrittura di Giada è limpida e discorsiva, la singolare amicizia sorta con il vecchio poeta beat, ha consentito alla giovanissima studentessa italiana di avere accesso a tantissimi materiali inediti e soprattutto di consultarne e tradurne i diari privati. Il libro è inoltre inframmezzato da abbondanti citazioni di scritti e versi di Ferlinghetti, e Giada è bravissima nell’utilizzarli per aprire “finestre” sulla vita del poeta, intercettando nella narrazione del vissuto le scintille dalle quali sono scaturiti i versi. Dal libro, ed era inevitabile che accadesse visto il suo rigore scientifico, si evince impietosamente la debolezza teorico-politica che caratterizzò il movimento della Beat generation; come lucidamente scrisse Fernanda Pivano, alla base di tutto c’era l’anarchismo, ma: “L’anarchismo dei beat era di tipo attivo: mirava alla vita, alla felicità, e il suo rifiuto delle strutture sociali o economiche precostituite aveva un fondamento pragmatistico e individualistico tipicamente americano”. (L’Europa letteraria, maggio 1960)
E proprio questo pragmatismo individualista (ma questo aspetto l’ho colto solo oggi, leggendo il libro), impediva a Ferlinghetti & C. di essere indulgenti nei confronti dei Paesi del cosiddetto “Socialismo reale”. Ogni qualvolta i Beat si trovano a contatto di queste esperienze le critiche intolleranti si levano impietose, arrivando addirittura a negare il ruolo positivo dei comunisti nella Guerra Civile spagnola e nella Rivoluzione cubana! Ferlinghetti cade addirittura nel ridicolo quando decide di affrontare un lunghissimo viaggio invernale in treno lungo la Siberia e si abbandona a questa considerazione: “Non c’è proprio da meravigliarsi se il comunismo ha avuto successo da queste parti, la gente deve desiderare in maniera matta e disperata che accada qualcosa; qualunque cosa in qualunque posto”; oppure quando parla dell’“enorme vacuità che fissa gli uomini sovietici dritto negli occhi!”. Questo cieco livore anticomunista lo porta addirittura a subire passivamente (nella Praga post-comunista) l’umiliazione, di “un paio di tassisti che si rifiutano di prenderlo a bordo perché non sembra abbastanza ricco”! Basterebbe solo un episodio come questo per dare il via alla scrittura di interi trattati su quello che veramente è stata l’esperienza dei Paesi comunisti, dalla Guerra fredda allo sciagurato trionfo del Consumismo sul Comunismo, seguito all’altrettanto sciagurato crollo del Muro di Berlino. Ma questa è (ma solo apparentemente) un’altra storia, e spero vivamente che prima o poi arrivi un’altra (o un altro) giovane altrettanto bravo come Giada Diano a scriverla.
Franco Arcidiaco
GIADA DIANO
IO SONO COME OMERO – Vita di Lawrence Ferlinghetti
Feltrinelli – Pagg. 220
Euro 15,00 - ISBN 978-88-07-49066-8
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