Scartabellando nel mio archivio mi sono imbattuto in un articolo di Renato Nicolini sul Quotidiano del 20 marzo 2005, il titolo era quello che ho preso in prestito per questo mio intervento. Sapete bene che il tema della bellezza, unitamente a quello della lotta al degrado e al disordine edilizio, è la mia grande ossessione ed ho sempre registrato con stupore la circostanza paradossale che una delle città urbanisticamente più degradate del mondo, qual è Reggio, si trovi ad ospitare una qualificatissima università dalla quale sono passati i migliori architetti ed urbanisti d’Italia. Ma evidentemente la sapienza e la buona volontà degli studiosi nulla possono contro l’insipienza e la voracità dei politici. Vale la pena riprendere alcuni passi dell’articolo di Nicolini (si consideri che eravamo a ridosso delle regionali); dopo un ampio excursus sulla situazione della città e sulle sue aspirazioni, Nicolini entra nel merito della presunta vocazione turistica e scrive testualmente: “Soprattutto bisogna che questa offerta (turistica, ndr.) sia finalmente in armonia con la grande bellezza del luogo, con lo Stretto, con i ricordi omerici che suscita, con la visione dell’Etna. Occorre anche restituire alla città la forma che il piano De Nava le assicurava e che incontrollate crescite in altezza le hanno tolto.” E qui Nicolini affronta il tema spinoso degli espropri e delle demolizioni, proprio quell’argomento che i politici (tutti, nessuno escluso) hanno sempre evitato di affrontare, forse per il timore di sfidare l’impopolarità o di intaccare interessi mafiosi; oppure, se si vuole riconoscere la buona fede, semplicemente per l’incapacità di reperire le risorse finanziarie necessarie. Anche su questo aspetto Nicolini ha l’idea giusta: “Da tempo lavoro su un’idea, concepita assieme al mio compianto collega Piero Lo Sardo (nel 2006 è uscito per i tipi di Laruffa editore il libro “Rottamare il degrado, Calabria da rigenerare”, ndr.); quella di sperimentare un nuovo approccio contro il degrado, per rigenerare la bellezza perduta: la rottamazione. Penso a qualcosa di simile alla rottamazione per le auto. Ci sono situazioni di degrado che ormai non producono più risorse economiche neppure per il proprietario privato. La Regione può dare vita a un diverso sistema di convenienze, che si traduca nella trasformazione volontaria e concordata delle situazioni di degrado. Nella rinuncia a una cubatura, ad esempio, per ottenere una destinazione d’uso più vantaggiosa. Introducendo decisamente, nel calcolo economico dei valori, il parametro della qualità.” Sono passati da allora tre anni e mezzo, si è insediata una giunta di belle speranze che ha fatto tanto in direzione dell’impiego delle risorse europee derivanti dall’ “Obiettivo 1” con il quale sono indicate le “Regioni in ritardo di sviluppo”; tra POR, PIN, PON ed altri bizzarri acronimi è stata dispersa una cifra iperbolica, dilapidata tra i mille rivoli clientelari messi in pista dai vari partiti che ha prodotto esclusivamente arricchimenti personali senza nemmeno l’ombra di alcun intervento strutturale degno di questo nome. Sul campo, poi, della lotta al degrado, è stato registrato un grande attivismo da parte dell’assessorato regionale competente che ha prodotto un numero spropositato di convegni, supportati da svariate tonnellate di carta patinata, ma nulla di più; e non mi si venga a dire che l’idea di Nicolini e Lo Sardo non avesse i crismi della scientificità, era il classico uovo di Colombo offerto su un piatto d’argento da due intellettuali che una volta tanto avevano rinunciato al comodo rifugio della torre d’avorio. C’è ancora tempo per riaprire il discorso? Attendiamo adeguate risposte dagli addetti ai lavori.
Franco Arcidiaco
venerdì 30 gennaio 2009
IL PAESAGGIO DEVASTATO E LE INTEMERATE DEL CARO LEADER
Non ti nascondo che andare in giro per le strade della Calabria mi provoca sempre una pena indicibile. Il territorio disseminato di ecomostri è la prova tangibile, la testimonianza più vergognosa dello sfruttamento selvaggio del territorio. E dietro tutto questo c’è invariabilmente la Calabria dei piccoli abusi edilizi tollerati da sempre, che, nell’assenza totale di interventi, ha finito per sfregiare irreparabilmente coste e montagne, colline e aree, cosiddette, protette. E’ stato calcolato che ogni 150 metri una cicatrice segna il territorio. Il paesaggio devastato è l’immagine emblematica della Calabria e non è certo la creatività di Oliviero Toscani che servirà alla Calabria per recuperare i danni di immagine che ne derivano. La favoletta della “vocazione turistica” è rimasta solo lo stanco leit-motiv di politici a corto di argomenti ed in mala fede; la Calabria, e le sue coste soprattutto, sono sempre state terra di nessuno. Da un versante all’altro del territorio il cemento ricopre e minaccia l’ambiente, e le bellezze naturali passano desolatamente in secondo piano. Le aree più degradate sono quelle di Soverato e del Golfo di Squillace (587 ecomostri) e la Foce del Torrente Gallico (845 ecomostri), nelle altre la densità è più bassa, ma il degrado è diffuso omogeneamente in tutto il territorio. Questa tragica situazione contrasta con il borioso e tracotante trionfalismo dell’assessore regionale all’Urbanistica Michelangelo Tripodi che, negando la più elementare evidenza, non si rassegna ad ammettere che quattro anni fa ha preso in consegna una Regione dal territorio pesantemente devastato e tra un anno, alla fine della legislatura, ce la riconsegnerà, né più né meno, che nelle stesse condizioni. Certo il nostro Caro Leader ha lavorato tanto, è stato bravissimo a monitorare il territorio ed a legiferare, affidando il suo assessorato a mani professionalmente capaci e soprattutto oneste, ma alla resa dei conti è rimasta solo qualche misera demolizione ed una marea di pubblicazioni patinate (roba da editoria di regime…per intenderci), lastricate di buone intenzioni e tante promesse. L’on. Tripodi dovrebbe capire che un conto è dirigere un partito-famiglia come il suo, dove si può permettere di fare il bello e il cattivo tempo, scegliendo ministri e deputati per poi buttarli a mare non appena manifestano il minimo tentativo di iniziative autonome, un conto è maltrattare giornalisti (vedi la penosa intemerata contro Riccardo Iacona di Viva l’Italia che si era macchiato del delitto di lesa-maestà, o la replica al Quotidiano sulla vicenda di Bova Marina) e imprenditori considerati non più allineati, ponendo ridicoli e surreali veti a partecipazioni a convegni e riunioni pubbliche. Anche il valoroso compagno Michelangelo Tripodi è rimasto purtroppo vittima della scellerata “svolta della Bolognina” ed ha dimenticato che nel glorioso PCI, dal quale tutti proveniamo, le regole auree erano la severità, il rispetto, la solidarietà e l’umiltà nella gestione del Partito ed il dialogo, l’efficienza e la trasparenza nella gestione della cosa pubblica. Cosa rimanga di tutto questo nel suo partito sarà materia di discussione per gli storici, purché non pretenda di scegliere anche questi tra l’elenco dei suoi amici.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
TORNELLI A GO GO OVVERO: ‘NA FILERATA I TORNELLI...
Caro Quotidiano non ci puoi credere ma in Sicilia hanno risolto il problema degli sbarchi clandestini! Zitti, zitti, senza proclami in pompa magna, e senza clamori buddhacieschi a Messina, nella rada San Francesco presso gli approdi della Caronte, hanno montato una serie di tornelli elettronici che permettono di entrare in città solo a chi si è munito preventivamente di biglietto; è un’idea fantastica e sono certo che sarà estesa presto a tutto il perimetro dell’Isola alla faccia di Gheddafi e Berlusconi e dei loro accordi fasulli. Le ditte costruttrici di tornelli stanno gongolando e c’è da immaginare che i soliti noti saranno già pronti a rastrellarne le azioni con effetti benefici anche sulle Borse. Ho apprezzato anche tantissimo la politica filantropica della Società che gestisce il traghettamento sullo Stretto, pensa, caro Quotidiano, che la Caronte risponde personalmente dell’identità dei suoi passeggeri, pertanto tutti quelli che scendono dalle navi e non hanno gettato il biglietto possono usarlo per aprire i tornelli ed entrare così a Messina; ma ti rendi conto, nell’era del liberismo sfrenato una grossa Spa si fa carico di un problema sociale di queste dimensioni! Hanno pensato pure a quelli che hanno smarrito o non hanno acquistato il biglietto a Villa, affianco ai tornelli c’è una comoda biglietteria: con due Euro compri il ticket e sei a Messina, fantastico! L’unica cosa che non mi quadra, e chiedo lumi a te caro Quotidiano, che ne sai una più del diavolo, è che per tornare in Calabria bisogna di nuovo passare per i tornelli usando il biglietto; francamente non capisco, io penso che semmai i tornelli dovrebbero essere montati anche a Villa San Giovanni ed in tutto il perimetro delle coste calabresi, come mai Franza & C. non ci hanno ancora pensato? Cos’ha la Calabria meno della Sicilia? L’altra cosa che non capisco è perché dai tornelli ci debbano passare pure i pendolari dello Stretto, pensa che giovedì scorso a Messina la nave delle venti è partita con tre minuti di anticipo ignorando i poveretti che armeggiavano con i tornelli, e poi tutti quelli che non sono riusciti ad imbarcarsi hanno dovuto aspettare 40 minuti all’aperto, perché una sala d’aspetto è un lusso che evidentemente la Caronte non si può permettere; c’è stato qualcuno che ha anche pensato di ingannare il tempo passeggiando per Messina, ma un solerte impiegato gli ha detto che per passare dai tornelli bisognava comprare un altro biglietto di andata e ritorno. Mi è venuto un dubbio, caro Quotidiano, ma per caso i tornelli sono riservati ai passeggeri della Caronte? E in tal caso, è normale che una società concessionaria di un suolo demaniale, d’importanza strategica come un’area costiera, imponga delle gabelle di passaggio? Se tutto il problema consiste nel controllare il pagamento del biglietto, non credi che forse i tornelli andrebbero impiantati sulle navi? Sono francamente un po’ disorientato, aspetto pertanto che, tuo tramite, qualcuno mi chiarisca la situazione.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
domenica 25 gennaio 2009
TANTU SCRUSCIU PI NENTI
Grazie ad una recensione radiofonica e al periodo feriale, ho avuto la possibilità di leggere un delizioso libretto edito da Sellerio: Il manoscritto di Shakespeare, ultimo romanzo di Domenico Seminerio. La lettura è stata godibilissima, il libro (340 pagine) si legge d’un fiato, la storia è molto intrigante e plausibile. Lo stile è originale con narrazione in prima persona e tantissimi dialoghi resi in costruzione indiretta, arricchiti da un sapiente e non ossessivo (alla Camilleri, per intenderci) utilizzo di neologismi a matrice dialettale e dall’utilizzo di nomi di fantasia o espedienti bizzarri (la nuova compagna del narratore viene sempre e solo indicata come Lei e la moglie come la Prima); i nomi dei personaggi e dei luoghi sono fantasiosi e ricordano un po’ l’atmosfera di Macondo: Borgodico, Grandocchio, Guardabella, Castelgrotta sono i luoghi immaginari, dove si muovono personaggi come lo scrittore protagonista e voce narrante Agostino Elleffe (che un curioso refuso trasforma a pagina 226 in Efferre) e gli altri che rispondono ai nomi di Gregorio Perdepane, Rodrigo Pappina, Avvocato Dentifricio, don Giovannino, Angelo Pappalisca, Maresciallo Franco Sbirrone, Marialaura Pelorosso, Preside Scacciapulci; altri personaggi, non meno comprimari, vengono indicati solo con il nome di battesimo Concettina, Lina, Enzo, il tutto con una freschezza ed una scioltezza veramente mirabili. Sappiate che Seminerio, come peraltro Bufalino e Camilleri, é arrivato al successo oltrepassati i 60 anni; mi viene da pensare a quanti tesori nascondano ancora le scrivanie siciliane ed invidio gli editori che avranno la fortuna di intercettarli! Anni addietro ho partecipato a un dibattito tra editori a Roma, nell’ambito della Fiera Più libri più liberi; tra gli altri colleghi c’era un rampollo di casa Sellerio che andava sostenendo che l’enorme mole di manoscritti in arrivo presso la sua casa editrice costituiva un grosso problema, dopo aver così sapientemente pontificato andò via senza aspettare gli altri interventi; si perse la mia risposta, con l’invito a girare i manoscritti presso la sede della mia casa editrice che, contrariamente alla sua, considera gli stessi un patrimonio. Ma evidentemente si trattava di un pensiero in libertà, se ancora oggi la sua casa editrice sforna gioiellini come il libro in oggetto.
Prima di entrare nel merito della storia narrata, voglio segnalare all’autore una piccola incongruenza temporale: nelle ultime pagine del romanzo fa arrivare il Capodanno dopo l’Epifania descrivendo due incontri chiave del protagonista (vedi pagg. 309 e 318); al collega editore invece segnalo un editing non molto accurato, si sarebbe potuta evitare infatti qualche inutile ripetizione sulle rivelazioni di Perdipane (vedi pagg. 149 e 215), e la scarsa accuratezza della stampa, almeno per quanto riguarda la copia in mio possesso: alcuni trentaduesimi sono sottoesposti al limite della leggibilità, altri sono sovraesposti modello nerofumo, per non parlare delle odiose pieghe alla carta causate dal taglio a trentadue…
Veniamo ora alla storia, Domenico Seminerio, riprende e rielabora (con il grande merito quindi di divulgarla al di fuori dagli ambienti accademici) una vecchia querelle che vuole il grande William Shakespeare di origini siciliane. E’ risaputo che la biografia del Bardo è piuttosto scarna, si sa solo che era di umili origini, figlio di un macellaio elevatosi successivamente a guantaio, con una carriera studentesca che non spiega la grande cultura in materia classica, geografica e storica, che manifestano le sue opere. Il mistero permane fino a quando il prestigioso quotidiano londinese The Times in data 8 Aprile 2000 non riporta, riprendendo lo studio di alcuni coraggiosi ricercatori inglesi e del Prof. Martino Iuvara di Ispica (docente della cattedra di Letteratura Italiana a Palermo), un articolo secondo il quale William Shakespeare sarebbe nato a Messina. Secondo questa ricerca egli, infatti, sarebbe dovuto scappare dalla sua Messina alla volta di Londra a causa della Santa Inquisizione (in quel periodo Messina era sotto il giogo della dominazione spagnola) essendo i genitori di lui fervidi sostenitori e assertori del calvinismo. Arrivato in Inghilterra, nella cittadina di Stratford-Upon-Avon, avrebbe trasformato quindi il suo nome da Michelangelo Florio Crollalanza, nel suo equivalente (tradotto letteralmente Shake= Scrollare e Speare= Lancia) Shakespeare, mentre il nome William lo avrebbe derivato da un suo cugino da parte di madre, morto prematuramente a Stratford-Upon-Avon, cittadina dove già da tempo vivevano alcuni suoi parenti. Un'altra ipotesi è invece quella secondo cui il Bardo non fece altro, una volta giunto in terra britannica, che trasformare al maschile il nome e cognome della madre Guglielma Crollalanza nell'esatta traduzione inglese, ovvero: William Shakespeare. Inoltre il prof. Iuvara sostiene che i primi dubbi vennero colti proprio in Italia, nei primi anni '20, quando venne ritrovato un volume di proverbi, "I secondi frutti", scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista, tale Michelangelo Crollalanza. Molti di questi detti erano gli stessi che William Shakespeare avrebbe utilizzato successivamente ne L'Amleto.
The Times scriveva testualmente: “Il mistero di come e perché William Shakespeare sapeva così tanto dell'Italia ed ha messo tanto dell'Italia nelle sue opere è stato risolto da un accademico siciliano pensionato, la questione risiede nel fatto che non era affatto inglese, ma italiano. Le biografie del Bardo ammettono che ci sono moltissime lacune nella sua vita, ma attestano che Shakespeare era figlio di John Shakespeare e Mary Arden, che era nato a Stratford-Avon nel mese di aprile 1564, e che sia stato sepolto là nel mese di aprile del 1616. Il professor Martino Iuvara, 71 anni, un insegnante pensionato di letteratura, sostiene che Shakespeare era siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza e che fuggito a Londra a causa della Santa Inquisizione, perché appartenente al rito Calvinista, cambiò il suo nome nell'equivalente inglese. Crollalanza o Crollalancia si traduce letteralmente Shakespeare. In un'intervista al magazine Oggi , il professor Iuvara ha detto che la chiave del mistero era il 1564, l'anno in cui John Calvin è morto a Ginevra. Era l'anno in cui Michelangelo nacque a Messina da un medico, Giovanni Florio e una nobildonna chiamata Guglielma Crollalanza, entrambi seguaci di Calvino. L'inquisizione era sulle tracce del Dott. Florio a causa delle sue idee eretiche calviniste, allora la famiglia fuggì a Tresivio in Valtellina e comprò una casa denominata Cà d’Otello costruita da un mercenario veneziano chiamato Otello che, la leggenda locale diceva, anni prima, avere ucciso, per la sua mal risposta gelosia, la moglie. Michelangelo studiò a Venezia, Padova e Mantova ed viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna ed Austria. Diventò amico del filosofo Giordano Bruno, che sarebbe stato bruciato sul rogo per eresia nel 1600. Bruno, dice lo Iuvara, aveva forti collegamenti con William Herbert, Conte di Pembroke e con il Conte di Southampton. Nel 1588, a 24 anni, Michelangelo si recò in Inghilterra sotto il loro patronato. Sua madre, la Signora Crollalanza, aveva un cugino inglese a Stratford, che prese il ragazzo in casa. Il ramo di Stratford aveva già tradotto il loro cognome come Shakespeare ed aveva avuto un figlio chiamato William, che era morto prematuramente. Michelangelo, dice il professore, ha semplicemente preso questo nome per se stesso, diventando William Shakespeare.” Qui accanto troverete altri approfondimenti sulla questione, tratti dai copiosi materiali forniti da Google alla voce: “Shakespeare era siciliano.”
Nel romanzo di Seminerio questa storia viene proposta al protagonista Agostino Elleffe, affermato scrittore di provincia, da un anziano insegnante, Gregorio Perdipane, il quale un bel giorno lo va a trovare a casa con fare circospetto dando il via ad una avvincente sarabanda di situazioni e ad un groviglio di storie che si dipanano tra quadretti coloriti di vita paesana, improbabili agenti segreti inglesi piuttosto sprovveduti, capi-bastone famelici ed all’occorrenza assassini, un azzeccagarbugli dal sorriso smagliante (Avvocato Dentifricio, appunto) e dal fare melenso ed avvolgente; il tutto condito da gustosi aforismi, irresistibili duetti dal tono macchiettistico tra i personaggi, sapienti divagazioni socio-antropologiche sulla insularità e sulla sicilitudine. Quando, per esempio, descrive un’ordinaria situazione di degrado, chiosa: “E sullo sfondo quello che sembra essere una sorta di nichilismo morale in molti campi della vita sociale, che porta ad assumere atteggiamenti quotidiani mutuati dagli atteggiamenti malavitosi e una concezione del bene e del male più vicina all’utile che non all’onesto.” Ed ancora: “Mi è anche venuto il sospetto che a forza di parlare di sicilitudine, di sviscerare abitudini e comportamenti propri di noi isolani, si finirà col suggerire questi comportamenti, ottenendo l’effetto che molti smetteranno di essere siciliani e si accontenteranno di fare i siciliani, per rispondere meglio ai prototipi delineati dalla letteratura e soprattutto da cinema e televisione.” Non mancano mirabili descrizioni paesaggistiche; chiunque abbia mai avuto il piacere di percorrere la meravigliosa autostrada Catania-Palermo non potrà non emozionarsi nel leggere queste mirabili righe: “Ho attraversato tutta la Sicilia interna per giungere a Palermo. Quella Sicilia misteriosa e antica come il cielo e il mare, fatta di enormi distese di ristoppie e di calcari fratturati, di paesi che s’intravedono appena sulla cima di qualche collina, di pecore al pascolo tra ulivi stentati e agavi in bilico su costoni franosi. E poi i corvi, appollaiati in fila sulle spallette dei ponti, come note musicali su un aereo pentagramma, indifferenti al rombo dei motori e ai bolidi colorati che sfrecciano loro accanto.” Mozzafiato! E sentite ancora quando arriva a Palermo, a Monte Pellegrino: “E’ il regno della bellezza assoluta, lo strappo attraverso il quale ti sembra possibile andare al di là delle apparenze, del mondo stesso, e penetrare in una dimensione sconosciuta che ha la parvenza dell’eternità.” Il romanzo finisce in modo amaro, fra tentativi di redenzione ed ammissioni sconsolate: “Forse, come tanti, sono onesto per mancanza di occasioni e incapacità più che per precisa volontà.”
Domenico Seminerio è un maestro di artifici letterari, un funambolo del linguaggio capace di acrobatiche divagazioni al limite dell’inverosimile e creatore di pregnanti figure dal tono solo apparentemente macchiettistico che trascinano il lettore in un vortice di situazioni colorate ed intriganti.
Franco Arcidiaco
Prima di entrare nel merito della storia narrata, voglio segnalare all’autore una piccola incongruenza temporale: nelle ultime pagine del romanzo fa arrivare il Capodanno dopo l’Epifania descrivendo due incontri chiave del protagonista (vedi pagg. 309 e 318); al collega editore invece segnalo un editing non molto accurato, si sarebbe potuta evitare infatti qualche inutile ripetizione sulle rivelazioni di Perdipane (vedi pagg. 149 e 215), e la scarsa accuratezza della stampa, almeno per quanto riguarda la copia in mio possesso: alcuni trentaduesimi sono sottoesposti al limite della leggibilità, altri sono sovraesposti modello nerofumo, per non parlare delle odiose pieghe alla carta causate dal taglio a trentadue…
Veniamo ora alla storia, Domenico Seminerio, riprende e rielabora (con il grande merito quindi di divulgarla al di fuori dagli ambienti accademici) una vecchia querelle che vuole il grande William Shakespeare di origini siciliane. E’ risaputo che la biografia del Bardo è piuttosto scarna, si sa solo che era di umili origini, figlio di un macellaio elevatosi successivamente a guantaio, con una carriera studentesca che non spiega la grande cultura in materia classica, geografica e storica, che manifestano le sue opere. Il mistero permane fino a quando il prestigioso quotidiano londinese The Times in data 8 Aprile 2000 non riporta, riprendendo lo studio di alcuni coraggiosi ricercatori inglesi e del Prof. Martino Iuvara di Ispica (docente della cattedra di Letteratura Italiana a Palermo), un articolo secondo il quale William Shakespeare sarebbe nato a Messina. Secondo questa ricerca egli, infatti, sarebbe dovuto scappare dalla sua Messina alla volta di Londra a causa della Santa Inquisizione (in quel periodo Messina era sotto il giogo della dominazione spagnola) essendo i genitori di lui fervidi sostenitori e assertori del calvinismo. Arrivato in Inghilterra, nella cittadina di Stratford-Upon-Avon, avrebbe trasformato quindi il suo nome da Michelangelo Florio Crollalanza, nel suo equivalente (tradotto letteralmente Shake= Scrollare e Speare= Lancia) Shakespeare, mentre il nome William lo avrebbe derivato da un suo cugino da parte di madre, morto prematuramente a Stratford-Upon-Avon, cittadina dove già da tempo vivevano alcuni suoi parenti. Un'altra ipotesi è invece quella secondo cui il Bardo non fece altro, una volta giunto in terra britannica, che trasformare al maschile il nome e cognome della madre Guglielma Crollalanza nell'esatta traduzione inglese, ovvero: William Shakespeare. Inoltre il prof. Iuvara sostiene che i primi dubbi vennero colti proprio in Italia, nei primi anni '20, quando venne ritrovato un volume di proverbi, "I secondi frutti", scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista, tale Michelangelo Crollalanza. Molti di questi detti erano gli stessi che William Shakespeare avrebbe utilizzato successivamente ne L'Amleto.
The Times scriveva testualmente: “Il mistero di come e perché William Shakespeare sapeva così tanto dell'Italia ed ha messo tanto dell'Italia nelle sue opere è stato risolto da un accademico siciliano pensionato, la questione risiede nel fatto che non era affatto inglese, ma italiano. Le biografie del Bardo ammettono che ci sono moltissime lacune nella sua vita, ma attestano che Shakespeare era figlio di John Shakespeare e Mary Arden, che era nato a Stratford-Avon nel mese di aprile 1564, e che sia stato sepolto là nel mese di aprile del 1616. Il professor Martino Iuvara, 71 anni, un insegnante pensionato di letteratura, sostiene che Shakespeare era siciliano, nato a Messina come Michelangelo Florio Crollalanza e che fuggito a Londra a causa della Santa Inquisizione, perché appartenente al rito Calvinista, cambiò il suo nome nell'equivalente inglese. Crollalanza o Crollalancia si traduce letteralmente Shakespeare. In un'intervista al magazine Oggi , il professor Iuvara ha detto che la chiave del mistero era il 1564, l'anno in cui John Calvin è morto a Ginevra. Era l'anno in cui Michelangelo nacque a Messina da un medico, Giovanni Florio e una nobildonna chiamata Guglielma Crollalanza, entrambi seguaci di Calvino. L'inquisizione era sulle tracce del Dott. Florio a causa delle sue idee eretiche calviniste, allora la famiglia fuggì a Tresivio in Valtellina e comprò una casa denominata Cà d’Otello costruita da un mercenario veneziano chiamato Otello che, la leggenda locale diceva, anni prima, avere ucciso, per la sua mal risposta gelosia, la moglie. Michelangelo studiò a Venezia, Padova e Mantova ed viaggiò in Danimarca, Grecia, Spagna ed Austria. Diventò amico del filosofo Giordano Bruno, che sarebbe stato bruciato sul rogo per eresia nel 1600. Bruno, dice lo Iuvara, aveva forti collegamenti con William Herbert, Conte di Pembroke e con il Conte di Southampton. Nel 1588, a 24 anni, Michelangelo si recò in Inghilterra sotto il loro patronato. Sua madre, la Signora Crollalanza, aveva un cugino inglese a Stratford, che prese il ragazzo in casa. Il ramo di Stratford aveva già tradotto il loro cognome come Shakespeare ed aveva avuto un figlio chiamato William, che era morto prematuramente. Michelangelo, dice il professore, ha semplicemente preso questo nome per se stesso, diventando William Shakespeare.” Qui accanto troverete altri approfondimenti sulla questione, tratti dai copiosi materiali forniti da Google alla voce: “Shakespeare era siciliano.”
Nel romanzo di Seminerio questa storia viene proposta al protagonista Agostino Elleffe, affermato scrittore di provincia, da un anziano insegnante, Gregorio Perdipane, il quale un bel giorno lo va a trovare a casa con fare circospetto dando il via ad una avvincente sarabanda di situazioni e ad un groviglio di storie che si dipanano tra quadretti coloriti di vita paesana, improbabili agenti segreti inglesi piuttosto sprovveduti, capi-bastone famelici ed all’occorrenza assassini, un azzeccagarbugli dal sorriso smagliante (Avvocato Dentifricio, appunto) e dal fare melenso ed avvolgente; il tutto condito da gustosi aforismi, irresistibili duetti dal tono macchiettistico tra i personaggi, sapienti divagazioni socio-antropologiche sulla insularità e sulla sicilitudine. Quando, per esempio, descrive un’ordinaria situazione di degrado, chiosa: “E sullo sfondo quello che sembra essere una sorta di nichilismo morale in molti campi della vita sociale, che porta ad assumere atteggiamenti quotidiani mutuati dagli atteggiamenti malavitosi e una concezione del bene e del male più vicina all’utile che non all’onesto.” Ed ancora: “Mi è anche venuto il sospetto che a forza di parlare di sicilitudine, di sviscerare abitudini e comportamenti propri di noi isolani, si finirà col suggerire questi comportamenti, ottenendo l’effetto che molti smetteranno di essere siciliani e si accontenteranno di fare i siciliani, per rispondere meglio ai prototipi delineati dalla letteratura e soprattutto da cinema e televisione.” Non mancano mirabili descrizioni paesaggistiche; chiunque abbia mai avuto il piacere di percorrere la meravigliosa autostrada Catania-Palermo non potrà non emozionarsi nel leggere queste mirabili righe: “Ho attraversato tutta la Sicilia interna per giungere a Palermo. Quella Sicilia misteriosa e antica come il cielo e il mare, fatta di enormi distese di ristoppie e di calcari fratturati, di paesi che s’intravedono appena sulla cima di qualche collina, di pecore al pascolo tra ulivi stentati e agavi in bilico su costoni franosi. E poi i corvi, appollaiati in fila sulle spallette dei ponti, come note musicali su un aereo pentagramma, indifferenti al rombo dei motori e ai bolidi colorati che sfrecciano loro accanto.” Mozzafiato! E sentite ancora quando arriva a Palermo, a Monte Pellegrino: “E’ il regno della bellezza assoluta, lo strappo attraverso il quale ti sembra possibile andare al di là delle apparenze, del mondo stesso, e penetrare in una dimensione sconosciuta che ha la parvenza dell’eternità.” Il romanzo finisce in modo amaro, fra tentativi di redenzione ed ammissioni sconsolate: “Forse, come tanti, sono onesto per mancanza di occasioni e incapacità più che per precisa volontà.”
Domenico Seminerio è un maestro di artifici letterari, un funambolo del linguaggio capace di acrobatiche divagazioni al limite dell’inverosimile e creatore di pregnanti figure dal tono solo apparentemente macchiettistico che trascinano il lettore in un vortice di situazioni colorate ed intriganti.
Franco Arcidiaco
QUANDO GLI EDITORI ERANO “PURI”
E’ in libreria, edita da Avagliano, la biografia di Erich Linder, Il dio di carta, realizzata dal giornalista culturale della Rai di Milano Dario Biagi. Linder, scomparso nel 1983 all’età di 59 anni, è stato per oltre un trentennio il deus ex machina dell’editoria italiana, svolgendo il ruolo di agente letterario per conto della quasi totalità degli scrittori italiani e stranieri del secondo novecento. Un personaggio straordinario, dalla vita incredibile, che ha dominato la scena dell’editoria italiana ed anche internazionale. Con passione e competenza, Dario Biagi ha messo a disposizione di tutti gli appassionati di editoria e quindi dei bibliofili, degli intellettuali e degli operatori del settore, un libro destinato a diventare un oggetto di culto. Si tratta di una fantastica galoppata nell’affascinante mondo dell’editoria italiana del secondo dopoguerra, quando operavano in prima persona personaggi del calibro di Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli (senior, per carità…), Giangiacomo Feltrinelli, Livio Garzanti; scrive Biagi:” Gli anni Cinquanta sono ancora una fase artigianale per l’editoria italiana. Pochi grandi editori dalla straripante personalità dominano la scena e i rapporti sono ancora personali: tra agente e editore e tra editore e autore. A volte fin troppo personalizzati, Linder sintetizza efficacemente le attitudini tra il mecenatesco e il dispotico nella categoria dell’editore-Don Giovanni: ’Vuole sedurre l’autore. E quanto più quello gli resiste, tanto più si sente attratto, invogliato. Non gli importa nulla d’averlo. L’importante è sedurlo; dopo, non gliene importa più’.” Ma Linder amava gli autori più d’ogni altra cosa, al punto di arrivare anche a sostenerli economicamente quando si trovavano in difficoltà, avvenne tra gli altri con Bacchelli e con Soldati; certo, sapeva bene che uno scrittore non si può fabbricare ma teorizzava: “Quello che si può fare (lo può fare un editore, in certi casi lo posso fare anch’io) è di tirar fuori da una persona un libro che la persona ha dentro di sé e di cui non si è resa conto…”. Al sorgere degli anni ’70 Linder si rende conto che i tempi stanno cambiando, le grandi famiglie editoriali saranno destinate a una fine miserevole, fagocitate da gruppi di industriali e mercanti senza scrupoli e senza passione culturale. Lancia un monito contro la tendenza a far scomparire i libri dalle librerie in breve tempo per sostituirli con titoli nuovi, scrive acutamente Biagi: “Qui la posizione del rappresentante degli autori coincide totalmente con quella dell’uomo di cultura…La salvaguardia dell’autore non passa solo per la riscossione della giusta mercede, ma per una vita meno breve in libreria. La battaglia per i cosiddetti libri di catalogo, cioè i titoli che si continuano a vendere anche un bel po’ dopo che sono usciti, diverrà nel tempo uno dei suoi principali argomenti polemici nei confronti dell’industria culturale. Un vero grido di dolore al principio degli anni Ottanta, quando il settantacinque per cento delle vendite dei due maggiori editori italiani, Mondadori e Rizzoli, arriverà a essere costituito da novità e la permanenza dei titoli sugli scaffali si ridurrà a un mese o due in un turnover sempre più frenetico.” Linder vive con gran rammarico la tragedia che travolge la Rizzoli a metà degli anni ’70, quando gli imbelli eredi di Angelo Rizzoli sr raggirati dal direttore finanziario Bruno Tassan Din, faranno risucchiare la gloriosa azienda dal vortice criminale della vicenda P2, Ior e Banco Ambrosiano. E si capisce che altrettanto critico è nei confronti dell’operazione Mondadori-Berlusconi, tant’è vero che quando il cavaliere lo convoca ad Arcore per affidargli in Fininvest il ruolo che sarà poi di Fedele Confalonieri, Linder rifiuterà sdegnato; scrive Biagi: “Dal colloquio Linder uscirà orripilato, schifato dalla pacchiana ostentazione di lusso…”. Il suo declino fisico andrà di pari passo con il declino professionale, qualche anno prima della morte …“…guai economici, bilanci in rosso zavorrano il suo passo. Ma incide anche il disgusto crescente per il contesto, per quel marketing sempre più pervasivo, per la dimensione sempre meno umanistica del gioco, per il degrado del sistema Paese”. Il “Dio di carta” scompare e con lui scompare la figura dell’agente letterario che dirige il sistema editoriale con lo stesso piglio del direttore d’orchestra, con lui scompare, in verità era scomparso oltre un decennio prima di lui, l’editore “puro” cioè quella figura d’imprenditore che traeva i suoi proventi direttamente ed esclusivamente dall’attività editoriale (di cui vari esemplari sopravvivono solo nella fascia della piccola e media editoria), oggi le aziende editoriali sono branche di attività di grandi imprese industriali che operano in tutt’altri settori e paradigmatica è la vicenda della Mondadori che, a causa di intrecci finanziari di dubbia natura, è finita nelle mani di un personaggio come Silvio Berlusconi. Per non parlare della situazione in cui versa il fronte delle librerie, le città sono ormai infestate dai punti di vendita delle grandi catene (Mondadori, Feltrinelli, Messaggerie etc.), che trattano il libro come una scatoletta di tonno, hanno fatto scomparire dagli scaffali i libri di qualità (piccola e media editoria in primis) e sono gestite da personale la cui professionalità è lontana anni luce da quella del libraio-intellettuale che ha fatto la storia e la fortuna dell’editoria italiana; si sta inoltre diffondendo il vezzo di creare, da parte delle grandi aziende, marchi civetta che costituiscono delle vere e proprie foglie di fico per occultare la vergogna dell’allontanamento dei piccoli editori da questi supermercati del libro, sono nate tante nuove sigle che di tanto in tanto sfornano best seller preconfezionati, che sono linee minori delle major che dominano il mercato. A questo stato di cose si oppongono ancora eroicamente le centinaia di piccoli editori che, mutuando lo spirito dei grandi padri, ancora oggi producono editoria di qualità, intercettando autori di valore che, senza il loro aiuto, mai avrebbero la possibilità di veder pubblicate le loro opere; nuovi sistemi di vendita (internet sopra tutti, ma anche la vendita diretta durante le presentazioni o il “porta a porta” degli autori stessi), consentono a questa “editoria pura” di sopravvivere e proliferare mantenendo acceso il lumicino della speranza per una società che di speranze ne lascia intravedere ben poche. Se proprio vogliamo trovare un limite al bellissimo lavoro di Dario Biagi è proprio quello di dare l’impressione al lettore che con Erich Linder sia scomparsa tutta l’editoria di qualità, disconoscendo la raccolta del testimone avvenuta da parte dell’editoria cosiddetta minore.
Franco Arcidiaco
Dario Biagi, Il dio di carta vita di Erich Linder, Avagliano editore
Pagg. 204 Euro 14,50 isbn 978 88 8309 243 5
Franco Arcidiaco
Dario Biagi, Il dio di carta vita di Erich Linder, Avagliano editore
Pagg. 204 Euro 14,50 isbn 978 88 8309 243 5
IL COMUNISMO ED IL GERME DELL’AUTODISTRUZIONE
Il grido di dolore in difesa del Comunismo, lanciato dal compagno Gioffrè sulle pagine del Quotidiano, è straziante ed accorato e non ci può lasciare indifferenti.
Egli ha analizzato lucidamente e con vena amaramente ironica le cause della disfatta ma, colto dalla sindrome della sconfitta, ha omesso di parlare dei grandi risultati che l’idea e l’azione comunista hanno prodotto a beneficio di tutta l’umanità: il riscatto delle mosse diseredate l’affermazione della dignità dei lavoratori e del principio di uguaglianza, la fine delle discriminazioni sociali di ogni tipo e dello sfruttamento come sistema.
Oggi sembrano tutti dei diritti acquisiti e sacrosanti, chiunque ne beneficia con la massima naturalezza, nessuno osa metterli in discussione e non c’è parte politica che non li includa nei propri programmi e non ne proclami la difesa.
Appena un secolo fa tutto ciò era utopia ed il Manifesto del Partito Comunista sembrava l’immaginifico delirio di un sognatore pazzo.
E’ naturale che la dirompente idea Comunista abbia suscitato una reazione di forte intensità nei poteri interessati a mantenere i loro privilegi; tale lotta è stata titanica ed ha imperversato per tutto il XX° secolo e indubbiamente ha visto la sconfitta del Comunismo, ma nessuno si è mai sognato di mettere in discussione o di considerare azzerati i risultati ottenuti dal lavoro e dall’azione dei Comunisti in tutto il mondo.
E’ questo il punto: ci siamo avviati verso il nuovo secolo forti dei successi ottenuti da una grande idea (la più grande mai prodotta da una mente umana), ma la rinneghiamo in ossequio alle nuove tendenze post-ideologiche e globalizzanti.
Le stesse tanto vituperate esperienze del cosiddetto “Socialismo reale” che hanno traghettato direttamente i Paesi in cui hanno operato dal medioevo al XX secolo, hanno dimostrato la forza dell’idea Comunista: la capacità di realizzare in meno di 50 anni quello che le grandi democrazie Europee avevano impiegato 5 secoli a raggiungere. Oggi tutti i Paesi dell’Est giunti alla cosiddetta “democrazia” rimpiangono i successi ed il prestigio che i regimi Comunisti avevano loro conferito e ad ogni tornata elettorale nonostante le provocazioni ed i condizionamenti della NATO si riafferma chiaro il desiderio delle popolazioni di riaffidare i governi alle forze comuniste.
Ed in tutto questo scenario cosa fanno i Comunisti rimasti? Continuano a praticare masochisticamente lo sport che hanno sempre preferito: autodistruggersi alimentando conflitti intestini.
La grande tragedia del Comunismo sta proprio in questo, il percorso è tracciato nettamente nel suo DNA, ogni nuovo leader deve affermarsi annientando quello che l’ha preceduto; in Unione Sovietica dalla grandezza di LENIN alla tragica incoscienza di GORBACIOV; in Italia fatte le debite proporzioni, dalla lucidità di Gramsci alla follia tragicomica di Occhetto e Veltroni, è stato tutto un susseguirsi di assurde delegittimazioni che hanno prodotto l’autoannientamento dell’idea Comunista.
Nessuna idea antagonista ha avuto la forza di distruggere l’idea Comunista: essa si è semplicemente estinta per l’incapacità e l’umana debolezza dei propri leader.
Al compagno Gioffrè, recente protagonista di un’avventura del genere, desidero dedicare questa citazione da La caduta di Friedrich Durrenmatt: "Il loro istinto di conservazione li costringeva a spiarsi a vicenda, le simpatie e le antipatie che provavano l’uno per l’altro influenzavano le loro decisioni assai più che i conflitti politici".
Egli ha analizzato lucidamente e con vena amaramente ironica le cause della disfatta ma, colto dalla sindrome della sconfitta, ha omesso di parlare dei grandi risultati che l’idea e l’azione comunista hanno prodotto a beneficio di tutta l’umanità: il riscatto delle mosse diseredate l’affermazione della dignità dei lavoratori e del principio di uguaglianza, la fine delle discriminazioni sociali di ogni tipo e dello sfruttamento come sistema.
Oggi sembrano tutti dei diritti acquisiti e sacrosanti, chiunque ne beneficia con la massima naturalezza, nessuno osa metterli in discussione e non c’è parte politica che non li includa nei propri programmi e non ne proclami la difesa.
Appena un secolo fa tutto ciò era utopia ed il Manifesto del Partito Comunista sembrava l’immaginifico delirio di un sognatore pazzo.
E’ naturale che la dirompente idea Comunista abbia suscitato una reazione di forte intensità nei poteri interessati a mantenere i loro privilegi; tale lotta è stata titanica ed ha imperversato per tutto il XX° secolo e indubbiamente ha visto la sconfitta del Comunismo, ma nessuno si è mai sognato di mettere in discussione o di considerare azzerati i risultati ottenuti dal lavoro e dall’azione dei Comunisti in tutto il mondo.
E’ questo il punto: ci siamo avviati verso il nuovo secolo forti dei successi ottenuti da una grande idea (la più grande mai prodotta da una mente umana), ma la rinneghiamo in ossequio alle nuove tendenze post-ideologiche e globalizzanti.
Le stesse tanto vituperate esperienze del cosiddetto “Socialismo reale” che hanno traghettato direttamente i Paesi in cui hanno operato dal medioevo al XX secolo, hanno dimostrato la forza dell’idea Comunista: la capacità di realizzare in meno di 50 anni quello che le grandi democrazie Europee avevano impiegato 5 secoli a raggiungere. Oggi tutti i Paesi dell’Est giunti alla cosiddetta “democrazia” rimpiangono i successi ed il prestigio che i regimi Comunisti avevano loro conferito e ad ogni tornata elettorale nonostante le provocazioni ed i condizionamenti della NATO si riafferma chiaro il desiderio delle popolazioni di riaffidare i governi alle forze comuniste.
Ed in tutto questo scenario cosa fanno i Comunisti rimasti? Continuano a praticare masochisticamente lo sport che hanno sempre preferito: autodistruggersi alimentando conflitti intestini.
La grande tragedia del Comunismo sta proprio in questo, il percorso è tracciato nettamente nel suo DNA, ogni nuovo leader deve affermarsi annientando quello che l’ha preceduto; in Unione Sovietica dalla grandezza di LENIN alla tragica incoscienza di GORBACIOV; in Italia fatte le debite proporzioni, dalla lucidità di Gramsci alla follia tragicomica di Occhetto e Veltroni, è stato tutto un susseguirsi di assurde delegittimazioni che hanno prodotto l’autoannientamento dell’idea Comunista.
Nessuna idea antagonista ha avuto la forza di distruggere l’idea Comunista: essa si è semplicemente estinta per l’incapacità e l’umana debolezza dei propri leader.
Al compagno Gioffrè, recente protagonista di un’avventura del genere, desidero dedicare questa citazione da La caduta di Friedrich Durrenmatt: "Il loro istinto di conservazione li costringeva a spiarsi a vicenda, le simpatie e le antipatie che provavano l’uno per l’altro influenzavano le loro decisioni assai più che i conflitti politici".
IL DITTATORE CONOSCEVA I SUOI POLLI
“Il mio popolo si divideva tra piazze in cui aspettava che cascassero dal cielo macchine lussuose e benessere per tutti, e altre piazze, meno belle, in cui cercava dentro sacchi di plastica nera vestiti che odoravano di Occidente…” “…Tirana era invasa da bar e discoteche. Discoteche che non chiudevano mai, ventiquattrore non stop, ventiquattrore di svago musica alcol. L’Albania doveva recuperare in fretta le sue rinunce giovanili. In quegli anni vidi un Paese a me sconosciuto. Vissi con un popolo estraneo. Il mio pensiero più ricorrente era: il dittatore conosceva i suoi polli.”
“Rosso come una sposa” di Anilda Ibrahimi è un libro scomodo per gli anticomunisti, per la prima volta si pubblica un romanzo (che per fortuna l’autrice ha scritto direttamente in italiano…) in cui si parla della vita durante un regime Comunista senza preoccuparsi di compiacere la pubblicistica corrente che vuol sentir parlare di Comunismo solo in termini negativi. La Ibrahimi non esita a rimpiangere quanto di buono ci potesse essere in un regime Comunista chiuso come quello di Enver Hoxha guardando ad esso con oggettività storica, con un senso critico scanzonato e libero, senza livore preconcetto. Proprio in questi giorni è scomparso l’alfiere della letteratura anticomunista falsa e menzognera, quel Solgeniztkin di cui parliamo in altra parte del giornale, che non si fece scrupoli di mettere la sua penna al soldo della Cia e di quel Capitalismo di cui negli ultimi tempi, in un patetico tentativo di riscatto, avrebbe finto di deplorarne gli eccessi. Anilda Ibrahimi, come si evince dall’asciutta intervista che pubblichiamo in questa pagina (presa in prestito dal sito internet www.ilsottoscritto.it a cura di Marisa Cecchetti, che si dispera a cercare tracce di anticomunismo dove non ce n’è nemmeno l’ombra), è una donna libera e serena che ha scritto un meraviglioso romanzo che rende pienamente la magia e l’epica dei Balcani; nelle sue pagine si respira la grande letteratura con uno stile chiaro e personale che richiama le più belle atmosfere alla Marquez ed i grandi intrecci narrativi di un John Irving. L’Albania, ma la storia è comune a tutta l’area Balcanica, è stata nel Novecento un luogo magico ed arcaicamente misterioso in cui convivevano caoticamente religioni e tradizioni risalenti alla notte dei tempi. Una società fortemente matriarcale in cui le donne anziane scandivano con consigli e ammonimenti i ritmi della vita e della morte. Quando Meliha, la capostipite della saga, si vanta con la suocera di avere conquistato il cuore del marito, si sente puntualizzare: “Solo col cuore di tuo marito non saresti andata da nessuna parte. Gli uomini a casa non sono che ospiti.” In realtà la società matriarcale (in tutte le epoche e a tutte le latitudini), paradossalmente, non svolge altro ruolo che quello di assicurare il perpetuarsi del potere reale del maschio, vigilando che niente stravolga questa regola: “Il marito ti picchia, il marito ti onora…”, “…lo sposo è sempre a posto…si lava con una brocca d’acqua e torna pulito, per la sposa non basterebbero tutti i fiumi del mondo.” Violenza, raki (bevanda alcolica tradizionale), umiliazioni, gravidanze forzate, faide, conflitti tribali, gli ingredienti classici dello strapotere maschile, vengono notevolmente contenuti negli anni Cinquanta dall’arrivo del Comunismo; “Domani vado a fare due chiacchiere con il segretario del partito diceva Saba. E suo marito diventava un agnellino…”; le donne cominciano a lavorare: “Mai si era visto prima da quelle parti che una donna toccasse il denaro con le proprie mani. Saba con le sue amiche oltre che toccarlo poteva anche spenderlo…E nessuno poteva più rispedire la donna dal padre senza i figli perché non aveva obbedito al marito: era il marito che rischiava di finire male se tentava di cacciarla…Saba andava alla scuola serale con le amiche. Spesso portava pure i piccoletti, che si addormentavano intorno a lei mentre leggeva da sola sulla lavagna: La donna, forza della rivoluzione”. Con l’avvento del Comunismo, la donna diventa praticamente padrona della sua vita: “Questo governo mi piace…sono una donna libera in questo sistema, libera anche se non ricca. Prima non ero né ricca né libera”, dice Saba alla sorella Bedena durante una discussione familiare.
La prima parte della saga si svolge nel paesino di Kaltra che la Ibrahimi descrive magistralmente all’inizio del terzo capitolo: “Il paese si trovava nascosto tra alte montagne. Sembrava non essere in contatto con niente e con nessuno, tranne che con il tempo. Se non ti si fermava il cuore passando per la gola di quelle montagne eri fortunato, o almeno così diceva una vecchia canzone. Ma questo pericolo non esisteva perché raramente capitava che qualcuno passasse per Kaltra. Kaltra: azzurra. Azzurra come l’acqua che sgorgava dalle viscere della terra al centro del paese. Kaltra era anche il nome del fiume che scendeva dalla montagna e correva verso il mare. Correva sotto i monti arcuati fatti di sassi bianchi, correva lungo il destino fermo dei fieri montanari. Le montagne si alzavano verso il cielo come coltelli ben affilati. Come se volessero tagliare fuori dal mondo queste esistenze. Non è che il mondo avesse offerto loro granché, nemmeno le cose di cui avevano veramente bisogno. Eppure nessuno a Kaltra si sentiva isolato. Si sentivano potenti come le pietre delle tombe che godono l’eternità inconsapevoli. Il passato era l’unica certezza e aggrapparsi ad esso assicurava la sopravvivenza.” Anche in quest’angolo di mondo isolato e arcaico arriverà la brutalità della guerra, prima con il volto bonario dei soldati italiani (i peppini) e subito dopo con la ferocia dei nazisti che coprirà di sangue anche quelle terre incontaminate, la famiglia protagonista pagherà un pesante tributo di sangue che poi le varrà onori, riconoscimenti e privilegi sotto il governo di Hoxha. La narrazione alterna pagine d’incisiva valenza storica e antropologica a pagine di pura narrativa “romantica” nel senso più ampio del termine, tenere e struggenti sono le descrizioni degli addii (siano essi partenze o morti) e dei rimpianti; fin quando nella seconda parte del romanzo la narrazione cambia registro, passa in prima persona e la scena viene occupata da Dora (alter ego di Anilda Ibrahimi) che, saltando la generazione di mezzo quella della mamma Klementina, la cui figura rimane opaca e sfumata, raccoglie il testimone dalla nonna Saba; Dora, tipica figlia dei nostri giorni, sintetizza l’essenza del mondo ancestrale che non è mai stato suo e dal quale è intimamente imperniata, lo stile diventa ironico e scanzonato, i toni epici vengono accantonati ed il racconto scorre con accenti quasi cronachistici con sfumature surreali: “Da piccola sono stata molto felice, ma poi ho smesso. Ho smesso così, di colpo, come i fumatori che decidono da un giorno all’altro. Ma non come quelli che poi ci ricadono; io non sono più ricaduta. Solo una volta, all’inizio.” Esilaranti sono le pagine in cui si descrivono i tentativi del padre di aggirare le rigide regole del governo Comunista per migliorare la propria posizione lavorativa o quelle in cui parla dei metodi sbrigativi usati da Enver Hoxha per risolvere gli ancestrali problemi dell’Albania soprattutto in campo religioso: “Lui, nel dubbio aveva eliminato tutte le religioni…Nel 1967 Hoxha aveva proposto che i luoghi di culto e di preghiera venissero concretamente eliminati. O semplicemente trasformati. Potevano diventare centri culturali. O anche magazzini per i cereali, ad esempio…”. Per non parlare poi delle pagine in cui si descrivono i cambiamenti derivanti al Paese dal passaggio dall’orbita Sovietica (dopo la scellerata svolta revisionista di Kruscev) all’orbita Maoista, i rapporti della popolazione con i “fratelli cinesi” non saranno mai idilliaci ed evidente sarà la dimensione forzata di una relazione “contro natura” considerata l’abissale distanza tra gli usi e i costumi dei due popoli. Dora-Anilda accompagna così con levità il suo Paese fino al tragico epilogo del 1991 quando le armate capitalistiche e consumistiche polverizzeranno, dopo anni di logoramento tramite la Guerra Fredda, i Paesi Comunisti consegnandoli alla democrazia del mercato e del consumismo che ne distruggerà l’identità e la dignità; gravissime sono le responsabilità della stampa occidentale (quella italiana cosiddetta di “sinistra” in primis) che non dà voce a quanti nei paesi dell’Est rimpiangono i passati governi Comunisti che avevano sempre garantito loro eguaglianza, sobrio benessere e servizi pubblici efficienti e civili. Sentite come Dora-Anilda conclude, nel filo dell’amara ironia, l’argomento del post-comunismo: “…nel 1991 bruciammo perfino gli uliveti coltivati durante il comunismo. Distruggemmo fabbriche, macchinari, raffinerie, miniere, scuole, e tutto ciò che avevamo costruito durante il comunismo. Avevamo detto morte al comunismo e volevamo andare fino in fondo. Per ricostruire non bisogna prima distruggere? Tutto era contaminato dall’ideologia comunista. Prendiamo ad esempio gli uliveti: ci saremmo sentiti tranquilli a mangiare una bruschetta condita con olio comunista?... L’America ci avrebbe fatto mangiare con cucchiai d’oro…”
Grande romanzo dunque, grande libertà di pensiero e soprattutto grande coraggio di andare contro il pensiero dominante, che non varranno sicuramente riconoscimenti, vendite e premi letterari, ma servono sicuramente a dare un segnale d’incoraggiamento a quanti sono stufi di sentirsi raccontare le balle del “ritorno alla democrazia”, dell’ “uscita dal buio dei regimi comunisti”, della “libertà riconquistata” e vorrebbero aprire un serio dibattito su cosa, per esempio, sarebbero potuti essere i governi comunisti senza l’infame accerchiamento planetario della “Guerra Fredda”.
Ci complimentiamo con la direzione editoriale della storica “Einaudi” e ci auguriamo (prima che se ne accorgano i rampolli di Silvio dalla casa-madre Mondadori) che faccia arrivare sulla scena editoriale italiana altri tesori come questo che sono confinati nei circoli culturali controcorrente di tutti i paesi dell’Est.
Franco Arcidiaco
Anilda Ibrahimi
Rosso come una sposa
Einaudi 2008
pagg. 264 Euro 16,00
ISBN 978 88 06 19237 2
“Rosso come una sposa” di Anilda Ibrahimi è un libro scomodo per gli anticomunisti, per la prima volta si pubblica un romanzo (che per fortuna l’autrice ha scritto direttamente in italiano…) in cui si parla della vita durante un regime Comunista senza preoccuparsi di compiacere la pubblicistica corrente che vuol sentir parlare di Comunismo solo in termini negativi. La Ibrahimi non esita a rimpiangere quanto di buono ci potesse essere in un regime Comunista chiuso come quello di Enver Hoxha guardando ad esso con oggettività storica, con un senso critico scanzonato e libero, senza livore preconcetto. Proprio in questi giorni è scomparso l’alfiere della letteratura anticomunista falsa e menzognera, quel Solgeniztkin di cui parliamo in altra parte del giornale, che non si fece scrupoli di mettere la sua penna al soldo della Cia e di quel Capitalismo di cui negli ultimi tempi, in un patetico tentativo di riscatto, avrebbe finto di deplorarne gli eccessi. Anilda Ibrahimi, come si evince dall’asciutta intervista che pubblichiamo in questa pagina (presa in prestito dal sito internet www.ilsottoscritto.it a cura di Marisa Cecchetti, che si dispera a cercare tracce di anticomunismo dove non ce n’è nemmeno l’ombra), è una donna libera e serena che ha scritto un meraviglioso romanzo che rende pienamente la magia e l’epica dei Balcani; nelle sue pagine si respira la grande letteratura con uno stile chiaro e personale che richiama le più belle atmosfere alla Marquez ed i grandi intrecci narrativi di un John Irving. L’Albania, ma la storia è comune a tutta l’area Balcanica, è stata nel Novecento un luogo magico ed arcaicamente misterioso in cui convivevano caoticamente religioni e tradizioni risalenti alla notte dei tempi. Una società fortemente matriarcale in cui le donne anziane scandivano con consigli e ammonimenti i ritmi della vita e della morte. Quando Meliha, la capostipite della saga, si vanta con la suocera di avere conquistato il cuore del marito, si sente puntualizzare: “Solo col cuore di tuo marito non saresti andata da nessuna parte. Gli uomini a casa non sono che ospiti.” In realtà la società matriarcale (in tutte le epoche e a tutte le latitudini), paradossalmente, non svolge altro ruolo che quello di assicurare il perpetuarsi del potere reale del maschio, vigilando che niente stravolga questa regola: “Il marito ti picchia, il marito ti onora…”, “…lo sposo è sempre a posto…si lava con una brocca d’acqua e torna pulito, per la sposa non basterebbero tutti i fiumi del mondo.” Violenza, raki (bevanda alcolica tradizionale), umiliazioni, gravidanze forzate, faide, conflitti tribali, gli ingredienti classici dello strapotere maschile, vengono notevolmente contenuti negli anni Cinquanta dall’arrivo del Comunismo; “Domani vado a fare due chiacchiere con il segretario del partito diceva Saba. E suo marito diventava un agnellino…”; le donne cominciano a lavorare: “Mai si era visto prima da quelle parti che una donna toccasse il denaro con le proprie mani. Saba con le sue amiche oltre che toccarlo poteva anche spenderlo…E nessuno poteva più rispedire la donna dal padre senza i figli perché non aveva obbedito al marito: era il marito che rischiava di finire male se tentava di cacciarla…Saba andava alla scuola serale con le amiche. Spesso portava pure i piccoletti, che si addormentavano intorno a lei mentre leggeva da sola sulla lavagna: La donna, forza della rivoluzione”. Con l’avvento del Comunismo, la donna diventa praticamente padrona della sua vita: “Questo governo mi piace…sono una donna libera in questo sistema, libera anche se non ricca. Prima non ero né ricca né libera”, dice Saba alla sorella Bedena durante una discussione familiare.
La prima parte della saga si svolge nel paesino di Kaltra che la Ibrahimi descrive magistralmente all’inizio del terzo capitolo: “Il paese si trovava nascosto tra alte montagne. Sembrava non essere in contatto con niente e con nessuno, tranne che con il tempo. Se non ti si fermava il cuore passando per la gola di quelle montagne eri fortunato, o almeno così diceva una vecchia canzone. Ma questo pericolo non esisteva perché raramente capitava che qualcuno passasse per Kaltra. Kaltra: azzurra. Azzurra come l’acqua che sgorgava dalle viscere della terra al centro del paese. Kaltra era anche il nome del fiume che scendeva dalla montagna e correva verso il mare. Correva sotto i monti arcuati fatti di sassi bianchi, correva lungo il destino fermo dei fieri montanari. Le montagne si alzavano verso il cielo come coltelli ben affilati. Come se volessero tagliare fuori dal mondo queste esistenze. Non è che il mondo avesse offerto loro granché, nemmeno le cose di cui avevano veramente bisogno. Eppure nessuno a Kaltra si sentiva isolato. Si sentivano potenti come le pietre delle tombe che godono l’eternità inconsapevoli. Il passato era l’unica certezza e aggrapparsi ad esso assicurava la sopravvivenza.” Anche in quest’angolo di mondo isolato e arcaico arriverà la brutalità della guerra, prima con il volto bonario dei soldati italiani (i peppini) e subito dopo con la ferocia dei nazisti che coprirà di sangue anche quelle terre incontaminate, la famiglia protagonista pagherà un pesante tributo di sangue che poi le varrà onori, riconoscimenti e privilegi sotto il governo di Hoxha. La narrazione alterna pagine d’incisiva valenza storica e antropologica a pagine di pura narrativa “romantica” nel senso più ampio del termine, tenere e struggenti sono le descrizioni degli addii (siano essi partenze o morti) e dei rimpianti; fin quando nella seconda parte del romanzo la narrazione cambia registro, passa in prima persona e la scena viene occupata da Dora (alter ego di Anilda Ibrahimi) che, saltando la generazione di mezzo quella della mamma Klementina, la cui figura rimane opaca e sfumata, raccoglie il testimone dalla nonna Saba; Dora, tipica figlia dei nostri giorni, sintetizza l’essenza del mondo ancestrale che non è mai stato suo e dal quale è intimamente imperniata, lo stile diventa ironico e scanzonato, i toni epici vengono accantonati ed il racconto scorre con accenti quasi cronachistici con sfumature surreali: “Da piccola sono stata molto felice, ma poi ho smesso. Ho smesso così, di colpo, come i fumatori che decidono da un giorno all’altro. Ma non come quelli che poi ci ricadono; io non sono più ricaduta. Solo una volta, all’inizio.” Esilaranti sono le pagine in cui si descrivono i tentativi del padre di aggirare le rigide regole del governo Comunista per migliorare la propria posizione lavorativa o quelle in cui parla dei metodi sbrigativi usati da Enver Hoxha per risolvere gli ancestrali problemi dell’Albania soprattutto in campo religioso: “Lui, nel dubbio aveva eliminato tutte le religioni…Nel 1967 Hoxha aveva proposto che i luoghi di culto e di preghiera venissero concretamente eliminati. O semplicemente trasformati. Potevano diventare centri culturali. O anche magazzini per i cereali, ad esempio…”. Per non parlare poi delle pagine in cui si descrivono i cambiamenti derivanti al Paese dal passaggio dall’orbita Sovietica (dopo la scellerata svolta revisionista di Kruscev) all’orbita Maoista, i rapporti della popolazione con i “fratelli cinesi” non saranno mai idilliaci ed evidente sarà la dimensione forzata di una relazione “contro natura” considerata l’abissale distanza tra gli usi e i costumi dei due popoli. Dora-Anilda accompagna così con levità il suo Paese fino al tragico epilogo del 1991 quando le armate capitalistiche e consumistiche polverizzeranno, dopo anni di logoramento tramite la Guerra Fredda, i Paesi Comunisti consegnandoli alla democrazia del mercato e del consumismo che ne distruggerà l’identità e la dignità; gravissime sono le responsabilità della stampa occidentale (quella italiana cosiddetta di “sinistra” in primis) che non dà voce a quanti nei paesi dell’Est rimpiangono i passati governi Comunisti che avevano sempre garantito loro eguaglianza, sobrio benessere e servizi pubblici efficienti e civili. Sentite come Dora-Anilda conclude, nel filo dell’amara ironia, l’argomento del post-comunismo: “…nel 1991 bruciammo perfino gli uliveti coltivati durante il comunismo. Distruggemmo fabbriche, macchinari, raffinerie, miniere, scuole, e tutto ciò che avevamo costruito durante il comunismo. Avevamo detto morte al comunismo e volevamo andare fino in fondo. Per ricostruire non bisogna prima distruggere? Tutto era contaminato dall’ideologia comunista. Prendiamo ad esempio gli uliveti: ci saremmo sentiti tranquilli a mangiare una bruschetta condita con olio comunista?... L’America ci avrebbe fatto mangiare con cucchiai d’oro…”
Grande romanzo dunque, grande libertà di pensiero e soprattutto grande coraggio di andare contro il pensiero dominante, che non varranno sicuramente riconoscimenti, vendite e premi letterari, ma servono sicuramente a dare un segnale d’incoraggiamento a quanti sono stufi di sentirsi raccontare le balle del “ritorno alla democrazia”, dell’ “uscita dal buio dei regimi comunisti”, della “libertà riconquistata” e vorrebbero aprire un serio dibattito su cosa, per esempio, sarebbero potuti essere i governi comunisti senza l’infame accerchiamento planetario della “Guerra Fredda”.
Ci complimentiamo con la direzione editoriale della storica “Einaudi” e ci auguriamo (prima che se ne accorgano i rampolli di Silvio dalla casa-madre Mondadori) che faccia arrivare sulla scena editoriale italiana altri tesori come questo che sono confinati nei circoli culturali controcorrente di tutti i paesi dell’Est.
Franco Arcidiaco
Anilda Ibrahimi
Rosso come una sposa
Einaudi 2008
pagg. 264 Euro 16,00
ISBN 978 88 06 19237 2
IL MESSAGGIO E’: ALLARGATE L’AREA DELLA COSCIENZA!
Quando, nel gennaio 1969 apparve, per la prima volta in edizione economica negli Oscar Mondadori, la raccolta di poesie di Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, era accompagnata da una splendida introduzione di Fernanda Pivano, intitolata: “Un poeta, non soltanto un minestrone beat”, l’incipit era il seguente: “Nel giugno 1957 Lawrence Ferlinghetti, poeta e editore, fu condotto nella prigione di San Francisco. Il reato da lui commesso era quello di aver pubblicato nelle edizioni City Lights Books la raccolta di versi Howl (Urlo) di Allen Ginsberg(…)”.
“Il messaggio è: allargate l’area della coscienza”, era il sottotitolo della raccolta e per coscienza non s’intendeva certo la sede dei doveri morali, ma la sede della consapevolezza, il campo dell’attività mentale consapevole. Era la quintessenza del pensiero di quel movimento che sarebbe passato alla storia come Beat generation. Non avevo ancora compiuto sedici anni, quella lettura costituì l’equivalente di un viaggio lisergico che mi spalancò le porte dell’anticonformismo, della controcultura, del libero pensiero e, per naturale estensione, della grande ideologia comunista che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Fantasticavo sulla figura di questo indomito poeta-editore disposto ad affrontare il carcere per pubblicare il libro proibito di un amico poeta; San Francisco era lontana mille miglia dalla mia Reggio Calabria, sud del sud, frontiera del nulla, culla del più retrivo conformismo piccolo borghese, i libri e i dischi bisognava ordinarli, sfidando lo sguardo severo di disapprovazione dei negozianti, e aspettare settimane per vederli arrivare; il massimo della trasgressione era andare in giro con i capelli più lunghi (fino a quando mio padre non mi trascinava di peso dal barbiere), con un paio di jeans e, d’inverno, con l’immancabile eskimo.
Eravamo quattro gatti e per giunta divisi, in quegli anni bastava poco per creare un gruppuscolo o un movimento antagonista, bastava un’antipatia personale, una ragazza contesa e la geografia politica delle città si arricchiva della presenza di una nuova aggregazione che si poneva subito all’avanguardia nella lotta alla borghesia. La rivolta per il capoluogo consegnò poi la città nelle mani della destra, molti andarono a studiare fuori, tanti restammo a sognare sui dischi, sulle riviste (Ciao Amici e Big su tutti), su qualche trasmissione radiofonica fuori dal coro (Alto Gradimento, Supersonic, Per voi giovani), sui libri. Ed ancora oggi ci domandiamo se ci voleva più coraggio ad andar via o a rimanere…
Trentasette anni dopo, una vita intera, quando la Beat generation non mi sembra altro che un pirotecnico tassello del mosaico della mia vita, apro il giornale e leggo di una ragazza, poco più che ventenne, di Lazzàro, provincia di Reggio Calabria, (Parallelo 38 come San Francisco, vorrà dire qualcosa?) che collabora con la City Lights di San Francisco, è amica personale di Lawrence Ferlinghetti, il quale è stato tra l’altro ospite in incognito della sua casa a Lazzàro, ed è in procinto di pubblicare, per Feltrinelli, la sua unica biografia autorizzata. La ragazza si chiama Giada Diano, il libro è uscito a giugno di quest’anno, s’intitola “Io sono come Omero. Vita di Lawrence Ferlinghetti”, ed io l’ho divorato in due giorni!
“Io sono come Omero, intendo come Omero il mio cane, sempre alla ricerca delle sue radici”. Lawrence Ferlinghetti, 89 anni, è l’ultimo testimone vivente della Beat generation, ed è certamente uno dei più significativi esponenti di una generazione che ha cambiato il mondo; Giada Diano, in realtà, attraverso la biografia di Ferlinghetti tesse le fila di tutto il movimento di cui egli è stato un indiscusso protagonista, ne viene fuori un coloratissimo arazzo, nel quale con estrema disinvoltura, incastona le figure di personaggi mitici quali Allen Ginsberg, Gregory Corso, Samuel Beckett, George Whitman, Dylan Thomas, William Carlos Williams, Jacques Prévert, Jean-Jacques Lebel, Harold Norse, William Burroughs, Alejandro Jodorowsky, Fernando Arrabal, Roland Topor, Salvatore Quasimodo, Pablo Neruda, Giancarlo Menotti, Evgenij Evtusenko, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Zoya Voznesenskij, Gary Snyder, Dario Bellezza, Dacia Maraini, Osvaldo Soriano, Ignazio Buttitta, Ken Kesey, Erich Fried, Ted Joans, Jack Kerouac, Josif Brodskij, Bohumil Hrabal, Amelia Rosselli, Ed Sanders, John Giorno, Jack Hirschman, Agneta Falk, Marty Matz e, last but not least, Fernanda Pivano, la madrina italiana della Beat generation. Non vi sembri azzardato l’accostamento, ma il lavoro svolto da Giada Diano è senza dubbio assimilabile a quello svolto dalla grande Fernanda; se quest’ultima, infatti, ha avuto il gran merito di aprire alla sonnacchiosa cultura italiana, appena uscita dal buio del ventennio, lo spettacolare proscenio della letteratura americana, Giada ha avuto il coraggio di tirar fuori dall’oblio, al quale sembrava irrimediabilmente condannato, il movimento della Beat generation (non dimentichiamo che ai suoi coetanei il massimo del brivido lo procurano i libri di Moccia); non solo, dopo aver studiato con passione l’argomento, è andata più volte a San Francisco a conoscerne di persona i superstiti e gli eredi, ed è riuscita ad organizzare, sponsor la giunta comunale di centrodestra, un reading di poesia di Jack Hirschman che, probabilmente, è l’unico essere vivente che si può considerare più a sinistra del sottoscritto. Non dimenticherò mai, e di questo sarò sempre grato a Giada, l’espressione imbarazzata e il dileguarsi furtivo dell’assessore Raffa, quando Jack ha cominciato ad inveire dal palco contro Bush! Per non parlare, poi, delle emozioni di cui ha inondato Piazza Castello, la scorsa estate, con i tre giorni di reading di poesia internazionale “militante”.
Il libro è anche, naturalmente, una puntuale ricostruzione della vita di Lawrence e dei suoi punti cardine: il servizio in Marina (sbarco in Normandia compreso), gli anni parigini, i lunghi vagabondaggi per il globo e la ricerca, spasmodica, estenuante e commovente, delle radici italiane.
La scrittura di Giada è limpida e discorsiva, la singolare amicizia sorta con il vecchio poeta beat, ha consentito alla giovanissima studentessa italiana di avere accesso a tantissimi materiali inediti e soprattutto di consultarne e tradurne i diari privati. Il libro è inoltre inframmezzato da abbondanti citazioni di scritti e versi di Ferlinghetti, e Giada è bravissima nell’utilizzarli per aprire “finestre” sulla vita del poeta, intercettando nella narrazione del vissuto le scintille dalle quali sono scaturiti i versi. Dal libro, ed era inevitabile che accadesse visto il suo rigore scientifico, si evince impietosamente la debolezza teorico-politica che caratterizzò il movimento della Beat generation; come lucidamente scrisse Fernanda Pivano, alla base di tutto c’era l’anarchismo, ma: “L’anarchismo dei beat era di tipo attivo: mirava alla vita, alla felicità, e il suo rifiuto delle strutture sociali o economiche precostituite aveva un fondamento pragmatistico e individualistico tipicamente americano”. (L’Europa letteraria, maggio 1960)
E proprio questo pragmatismo individualista (ma questo aspetto l’ho colto solo oggi, leggendo il libro), impediva a Ferlinghetti & C. di essere indulgenti nei confronti dei Paesi del cosiddetto “Socialismo reale”. Ogni qualvolta i Beat si trovano a contatto di queste esperienze le critiche intolleranti si levano impietose, arrivando addirittura a negare il ruolo positivo dei comunisti nella Guerra Civile spagnola e nella Rivoluzione cubana! Ferlinghetti cade addirittura nel ridicolo quando decide di affrontare un lunghissimo viaggio invernale in treno lungo la Siberia e si abbandona a questa considerazione: “Non c’è proprio da meravigliarsi se il comunismo ha avuto successo da queste parti, la gente deve desiderare in maniera matta e disperata che accada qualcosa; qualunque cosa in qualunque posto”; oppure quando parla dell’“enorme vacuità che fissa gli uomini sovietici dritto negli occhi!”. Questo cieco livore anticomunista lo porta addirittura a subire passivamente (nella Praga post-comunista) l’umiliazione, di “un paio di tassisti che si rifiutano di prenderlo a bordo perché non sembra abbastanza ricco”! Basterebbe solo un episodio come questo per dare il via alla scrittura di interi trattati su quello che veramente è stata l’esperienza dei Paesi comunisti, dalla Guerra fredda allo sciagurato trionfo del Consumismo sul Comunismo, seguito all’altrettanto sciagurato crollo del Muro di Berlino. Ma questa è (ma solo apparentemente) un’altra storia, e spero vivamente che prima o poi arrivi un’altra (o un altro) giovane altrettanto bravo come Giada Diano a scriverla.
Franco Arcidiaco
GIADA DIANO
IO SONO COME OMERO – Vita di Lawrence Ferlinghetti
Feltrinelli – Pagg. 220
Euro 15,00 - ISBN 978-88-07-49066-8
“Il messaggio è: allargate l’area della coscienza”, era il sottotitolo della raccolta e per coscienza non s’intendeva certo la sede dei doveri morali, ma la sede della consapevolezza, il campo dell’attività mentale consapevole. Era la quintessenza del pensiero di quel movimento che sarebbe passato alla storia come Beat generation. Non avevo ancora compiuto sedici anni, quella lettura costituì l’equivalente di un viaggio lisergico che mi spalancò le porte dell’anticonformismo, della controcultura, del libero pensiero e, per naturale estensione, della grande ideologia comunista che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Fantasticavo sulla figura di questo indomito poeta-editore disposto ad affrontare il carcere per pubblicare il libro proibito di un amico poeta; San Francisco era lontana mille miglia dalla mia Reggio Calabria, sud del sud, frontiera del nulla, culla del più retrivo conformismo piccolo borghese, i libri e i dischi bisognava ordinarli, sfidando lo sguardo severo di disapprovazione dei negozianti, e aspettare settimane per vederli arrivare; il massimo della trasgressione era andare in giro con i capelli più lunghi (fino a quando mio padre non mi trascinava di peso dal barbiere), con un paio di jeans e, d’inverno, con l’immancabile eskimo.
Eravamo quattro gatti e per giunta divisi, in quegli anni bastava poco per creare un gruppuscolo o un movimento antagonista, bastava un’antipatia personale, una ragazza contesa e la geografia politica delle città si arricchiva della presenza di una nuova aggregazione che si poneva subito all’avanguardia nella lotta alla borghesia. La rivolta per il capoluogo consegnò poi la città nelle mani della destra, molti andarono a studiare fuori, tanti restammo a sognare sui dischi, sulle riviste (Ciao Amici e Big su tutti), su qualche trasmissione radiofonica fuori dal coro (Alto Gradimento, Supersonic, Per voi giovani), sui libri. Ed ancora oggi ci domandiamo se ci voleva più coraggio ad andar via o a rimanere…
Trentasette anni dopo, una vita intera, quando la Beat generation non mi sembra altro che un pirotecnico tassello del mosaico della mia vita, apro il giornale e leggo di una ragazza, poco più che ventenne, di Lazzàro, provincia di Reggio Calabria, (Parallelo 38 come San Francisco, vorrà dire qualcosa?) che collabora con la City Lights di San Francisco, è amica personale di Lawrence Ferlinghetti, il quale è stato tra l’altro ospite in incognito della sua casa a Lazzàro, ed è in procinto di pubblicare, per Feltrinelli, la sua unica biografia autorizzata. La ragazza si chiama Giada Diano, il libro è uscito a giugno di quest’anno, s’intitola “Io sono come Omero. Vita di Lawrence Ferlinghetti”, ed io l’ho divorato in due giorni!
“Io sono come Omero, intendo come Omero il mio cane, sempre alla ricerca delle sue radici”. Lawrence Ferlinghetti, 89 anni, è l’ultimo testimone vivente della Beat generation, ed è certamente uno dei più significativi esponenti di una generazione che ha cambiato il mondo; Giada Diano, in realtà, attraverso la biografia di Ferlinghetti tesse le fila di tutto il movimento di cui egli è stato un indiscusso protagonista, ne viene fuori un coloratissimo arazzo, nel quale con estrema disinvoltura, incastona le figure di personaggi mitici quali Allen Ginsberg, Gregory Corso, Samuel Beckett, George Whitman, Dylan Thomas, William Carlos Williams, Jacques Prévert, Jean-Jacques Lebel, Harold Norse, William Burroughs, Alejandro Jodorowsky, Fernando Arrabal, Roland Topor, Salvatore Quasimodo, Pablo Neruda, Giancarlo Menotti, Evgenij Evtusenko, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Zoya Voznesenskij, Gary Snyder, Dario Bellezza, Dacia Maraini, Osvaldo Soriano, Ignazio Buttitta, Ken Kesey, Erich Fried, Ted Joans, Jack Kerouac, Josif Brodskij, Bohumil Hrabal, Amelia Rosselli, Ed Sanders, John Giorno, Jack Hirschman, Agneta Falk, Marty Matz e, last but not least, Fernanda Pivano, la madrina italiana della Beat generation. Non vi sembri azzardato l’accostamento, ma il lavoro svolto da Giada Diano è senza dubbio assimilabile a quello svolto dalla grande Fernanda; se quest’ultima, infatti, ha avuto il gran merito di aprire alla sonnacchiosa cultura italiana, appena uscita dal buio del ventennio, lo spettacolare proscenio della letteratura americana, Giada ha avuto il coraggio di tirar fuori dall’oblio, al quale sembrava irrimediabilmente condannato, il movimento della Beat generation (non dimentichiamo che ai suoi coetanei il massimo del brivido lo procurano i libri di Moccia); non solo, dopo aver studiato con passione l’argomento, è andata più volte a San Francisco a conoscerne di persona i superstiti e gli eredi, ed è riuscita ad organizzare, sponsor la giunta comunale di centrodestra, un reading di poesia di Jack Hirschman che, probabilmente, è l’unico essere vivente che si può considerare più a sinistra del sottoscritto. Non dimenticherò mai, e di questo sarò sempre grato a Giada, l’espressione imbarazzata e il dileguarsi furtivo dell’assessore Raffa, quando Jack ha cominciato ad inveire dal palco contro Bush! Per non parlare, poi, delle emozioni di cui ha inondato Piazza Castello, la scorsa estate, con i tre giorni di reading di poesia internazionale “militante”.
Il libro è anche, naturalmente, una puntuale ricostruzione della vita di Lawrence e dei suoi punti cardine: il servizio in Marina (sbarco in Normandia compreso), gli anni parigini, i lunghi vagabondaggi per il globo e la ricerca, spasmodica, estenuante e commovente, delle radici italiane.
La scrittura di Giada è limpida e discorsiva, la singolare amicizia sorta con il vecchio poeta beat, ha consentito alla giovanissima studentessa italiana di avere accesso a tantissimi materiali inediti e soprattutto di consultarne e tradurne i diari privati. Il libro è inoltre inframmezzato da abbondanti citazioni di scritti e versi di Ferlinghetti, e Giada è bravissima nell’utilizzarli per aprire “finestre” sulla vita del poeta, intercettando nella narrazione del vissuto le scintille dalle quali sono scaturiti i versi. Dal libro, ed era inevitabile che accadesse visto il suo rigore scientifico, si evince impietosamente la debolezza teorico-politica che caratterizzò il movimento della Beat generation; come lucidamente scrisse Fernanda Pivano, alla base di tutto c’era l’anarchismo, ma: “L’anarchismo dei beat era di tipo attivo: mirava alla vita, alla felicità, e il suo rifiuto delle strutture sociali o economiche precostituite aveva un fondamento pragmatistico e individualistico tipicamente americano”. (L’Europa letteraria, maggio 1960)
E proprio questo pragmatismo individualista (ma questo aspetto l’ho colto solo oggi, leggendo il libro), impediva a Ferlinghetti & C. di essere indulgenti nei confronti dei Paesi del cosiddetto “Socialismo reale”. Ogni qualvolta i Beat si trovano a contatto di queste esperienze le critiche intolleranti si levano impietose, arrivando addirittura a negare il ruolo positivo dei comunisti nella Guerra Civile spagnola e nella Rivoluzione cubana! Ferlinghetti cade addirittura nel ridicolo quando decide di affrontare un lunghissimo viaggio invernale in treno lungo la Siberia e si abbandona a questa considerazione: “Non c’è proprio da meravigliarsi se il comunismo ha avuto successo da queste parti, la gente deve desiderare in maniera matta e disperata che accada qualcosa; qualunque cosa in qualunque posto”; oppure quando parla dell’“enorme vacuità che fissa gli uomini sovietici dritto negli occhi!”. Questo cieco livore anticomunista lo porta addirittura a subire passivamente (nella Praga post-comunista) l’umiliazione, di “un paio di tassisti che si rifiutano di prenderlo a bordo perché non sembra abbastanza ricco”! Basterebbe solo un episodio come questo per dare il via alla scrittura di interi trattati su quello che veramente è stata l’esperienza dei Paesi comunisti, dalla Guerra fredda allo sciagurato trionfo del Consumismo sul Comunismo, seguito all’altrettanto sciagurato crollo del Muro di Berlino. Ma questa è (ma solo apparentemente) un’altra storia, e spero vivamente che prima o poi arrivi un’altra (o un altro) giovane altrettanto bravo come Giada Diano a scriverla.
Franco Arcidiaco
GIADA DIANO
IO SONO COME OMERO – Vita di Lawrence Ferlinghetti
Feltrinelli – Pagg. 220
Euro 15,00 - ISBN 978-88-07-49066-8
L’ARCIPELAGO DELLE MENZOGNE DI ALEKSANDR SOLZHENITSYN
La scomparsa di Solzhenitsyn segna l’uscita di scena di uno degli ultimi emblemi della Guerra Fredda scatenata dagli USA e dai suoi vassalli occidentali per contrastare e, in seguito, sconfiggere quello che Marx ed Engels, con lungimiranza, avevano definito più di un secolo prima “lo spettro del Comunismo” che si aggirava per l’Europa a spaventare le grandi potenze. L’“Operazione Solzhenitsyn” fu condotta dalla Cia, con l’appoggio dei circoli culturali occidentali e dei mass media anticomunisti, in modo magistrale: fu intercettato un mediocre scrittore, regolarmente pubblicato in Unione Sovietica tra l’indifferenza e il disprezzo generale, fu fatta leva sulle sue frustrazioni per la marginalità in cui languiva, fu generosamente finanziato e istigato a scrivere una serie di opere nelle quali veniva sapientemente inserita tutta la più bieca pubblicistica anticomunista ed antisovietica, infine, dopo la legittima reazione delle autorità sovietiche, fu trasformato in “vittima del regime”, addirittura assurto agli onori del Nobel e, una volta espulso (il 13 febbraio 1974) dal Paese che tanto aveva dimostrato di odiare, trasformato in una sorta di “Madonna Pellegrina” planetaria per diffondere il verbo dell’anticomunismo. Nell’ottobre 1969, l’allora prestigiosissimo quotidiano londinese Times (che non era certo sospettabile di filo comunismo) scriveva testualmente: “ Gli onorari delle sue opere vengono sistematicamente versati dalle case editrici occidentali sul fondo di un cosiddetto ‘Comitato internazionale d’assistenza’, il cui compito precipuo è l’organizzazione di azioni ostili contro l’URSS e i paesi della comunità socialista”. Quando, nel 1970, inopinatamente e tra lo stupore dei circoli culturali indipendenti, gli fu assegnato il Nobel per la Letteratura, la Literaturnaja gazeta, prestigioso e diffusissimo organo degli Scrittori Sovietici scrisse (edizione del 14 ottobre 1970): “E’ increscioso che il Comitato per i Premi Nobel si sia lasciato coinvolgere in un giuoco indegno, intrapreso non negli interessi dello sviluppo dei valori spirituali e delle tradizioni della letteratura, ma per considerazioni di speculazione politica”.
I libri “Agosto 1914” e “Arcipelago Gulag” (come del resto i precedenti “Il primo cerchio” e “Reparto cancro”) sono esplicitamente dei manifesti politici che perseguono il determinato scopo di negare il valore della Rivoluzione d’Ottobre, idealizzare il latifondo patriarcale della vecchia Russa zarista e denigrare la società e lo stato Sovietico.
“Agosto 1914” è un’opera apertamente antipatriottica ed antipopolare, dalla quale traspare il dispetto dell’autore contro la Rivoluzione che ha privato lui, rampollo di un grande proprietario terriero, dei privilegi ereditari e della ricchezza; dal libro emerge chiaramente la piattaforma politica di Solzhenitsyn quale sostenitore degli ordinamenti dei proprietari fondiari capitalistici e quale epigono dell’ideologia dei cadetti, disposto a prezzo del tradimento della Patria ad adoperarsi per la restaurazione dell’ordinamento borghese. Dopo l’uscita del libro, nel dicembre 1971, la rivista tedesca Stern (anche questa filocomunista?) pubblicò un ampio articolo nel quale ricostruì impietosamente la storia della famiglia Solzhenitsyn dimostrando il carattere autobiografico dell’opera, che l’autore intendeva invece negare.
“Arcipelago Gulag” non è un racconto né un romanzo e quindi, se parliamo delle forme letterarie, non lo possiamo ritenere una descrizione della realtà attraverso l’espressione artistica. Nel libro occupa un posto di rilievo la Seconda guerra mondiale. E’ ovvio che, parlando di questo periodo, non si può prescindere dal ricordare i 56 milioni di morti in Europa e in Asia, compresi i 20 milioni di caduti sovietici e i 6 milioni di ebrei bruciati dai nazisti nei crematori dei campi di concentramento. Questi sacrifici inauditi di una tragedia mondiale devono essere il punto di riferimento morale di ogni ricostruzione storica. Scrive lo scrittore Jurij Bondarev: “ La battaglia di Stalingrado, ove la mia generazione di diciottenni ebbe il battesimo del fuoco, e in sanguinosi combattimenti invecchiò di dieci anni, fu, com’è noto, la svolta definitiva del corso degli avvenimenti nella seconda guerra mondiale. Questo durissimo combattimento costò caro al nostro Paese, ai miei coetanei ed a me stesso. Troppe fosse comuni abbiamo lasciato presso il Volga, troppi sono mancati all’appello dopo la vittoria. Sulle alture presso il Don nei giorni afosi e polverosi di luglio e agosto, quando il sole scompariva nel tifone delle esplosioni, ci trattenevano nelle trincee l’odio e l’amore: l’odio per chi era venuto con le armi della Germania nazista per distruggere il nostro Stato e la nostra nazione e, nello stesso tempo, l’amore per ciò che nel linguaggio umano si designa come la madre, la casa, la pista di pattinaggio della propria scuola moscovita, le lame rigate dei pattini, lo stridore di un cancello in qualche posto di Jaroslavl, l’erba verde, la neve che cade, il primo bacio accanto a un portone coperto di neve. In guerra l’uomo prova per il passato i sentimenti più indistruttibili. Noi combattevamo nel presente per il passato, che ci sembrava irrepetibilmente felice. Lo sognavamo, volevamo tornarvi. Noi eravamo romantici: questa era la nostra purezza, la nostra fede, ciò che si può definire il senso della Patria”. Tutto questo per Solzhenitsyn non esiste, nel libro in questione minimizza la vittoria di Stalingrado e la attribuisce alle “Compagnie di correzione”, queste ultime erano delle truppe “forzate” costituite da detenuti per reati comuni, equipaggiate con artiglieria leggera e quindi non assolutamente in grado di frenare la pressione di un’armata corazzata dei tedeschi, i quali inoltre avevano concentrato venti divisioni di fanteria nei settori d’attacco. A questa prima assurda e grave menzogna, Solzhenitsyn aggiunge quella che riguarda la figura del famigerato generale Vlasov; si trattava di un personaggio squalificato, circondato dalla fama infame di un Erostrato, ossessionato dalla brama di successo era altezzoso e suscettibile, scrive ancora Bondarev: ”Non gli piaceva molto aver a che fare coi soldati e recarsi al punto d’osservazione esposto alle cannonate. Preferiva il profondo rifugio blindato del punto di comando, la luce delle batterie d’accumulazione, l’intimità degli acquartieramenti temporanei, ove si disponeva con comodità, senza risparmio e persino con un certo stile aristocratico”. Comandante di capacità medie, non aveva acutezza tattica e portò la seconda armata d’assalto, che egli comandava sul fronte del Volchov nel ’42, ad una penosa disfatta; il peso di questa sconfitta lo portò al passo fatale come testimonia ancora Bondarev: “Di notte, abbandonate le truppe che combattevano ancora, insieme con il suo aiutante andò nel villaggio di Staraja Polist, aperse la porta della prima isba occupata da soldati tedeschi addormentati e disse: ‘Non sparate sono il generale Vlasov”. Per Solzhenitsyn la resa e il tradimento di Vlasov furono il risultato di un fermo convincimento politico, non essendo d’accordo con le azioni di Stalin; tutti gli eroici combattenti della Guerra patriottica avrebbero dovuto seguire il suo esempio: lasciarsi sconfiggere, consegnare la patria ai nazisti per liberare la Madre Russia dal comunismo! Com’è noto, il calunniatore ha una propria logica: non si tormenta sul problema della verità, ma bada soprattutto a riuscire gradito a chi l’ha preso al proprio servizio. Esaltando Vlasov, i suoi accoliti e gli altri traditori della Patria sovietica, Solzhenitsyn parte dal principio per cui nella lotta contro il potere sovietico e il socialismo tutto è giustificato. Perciò egli glorifica i traditori che combatterono armi in pugno contro il loro popolo e non si preoccupa del fatto notorio che nel momento del pericolo mortale della Patria tutto il paese si levò alla guerra contro l’invasione nazista, che milioni di sovietici si batterono senza risparmio contro gli invasori al fronte e nelle retrovie, nei reparti e nelle formazioni partigiane, nel movimento clandestino nelle terre occupate dal nemico. Non gli interessano minimamente gli altri generali sovietici periti nei campi di concentramento nazisti senza calcare la via del tradimento; i suoi “eroi” e il suo “ideale” sono il traditore Vlasov e i vlasoviani, che egli esalta per avere odiato l’ordinamento sovietico al punto di combattere la Patria, e secondo quanto dice testualmente “avrebbero potuto riuscire se i nazisti li avessero organizzati meglio ed avessero accordato loro maggiore fiducia”. E chiaro che Solzhenitsyn affermando che qualsiasi tradimento è giustificato, chiunque lo compia e quale che ne sia la portata, tenta di giustificare anche il proprio. E le anime belle del comitato del Premio Nobel, che ne pensano di questa visione della storia che riabilita un personaggio come Vlasov che, al pari del capo dei fascisti norvegesi Quisling, è sinonimo universale di vile tradimento? Nella sua rabbia contro tutto ciò che è sovietico, ricorre ad ogni mezzo: all’inganno, alla calunnia, alle false manovre; si schiera apertamente finanche con la Gestapo che secondo lui “mirava soprattutto alla verità e rimetteva in libertà gli innocenti”! Il suo grande senso umanitario e libertario lo porta a glorificare un sabotatore nazista, che aveva danneggiato duemila paracadute in un magazzino sovietico, con queste parole: ” In tutta questa lunga cronaca carceraria non s’incontrerà più un eroe del genere”, un cinismo da malfattore capace di esaltarsi davanti alla morte di duemila compatrioti! E pensare che Solzhenitsyn riusciva ad accreditarsi come uno scrittore religioso ma, a rimettere le cose a posto ci pensò il Metropolita Serafim che, nel 1974, lo bollò con queste parole: “…Solzhenitsyn si è dimostrato nelle sue azioni un uomo moralmente degradato, che con odio sfrenato tenta di diffamare e calunniare la terra natale…solo un uomo come lui, per il quale non c’è nulla di sacro, può attribuire ai nazisti ‘uno spirito umanitario’…Sotto il cielo pacifico della nostra Patria lavorano oggi con abnegazione credenti e non credenti, accrescendo la fama e la potenza del nostro paese. Soltanto Solzhenitsyn non ha partecipato a questo lavoro. Egli, come il figliol prodigo, dopo aver ricevuto dalla Patria tutto quanto è utile e necessario per la vita, se n’è andato schierandosi coi nemici dell’ Unione Sovietica. Così doveva essere, poiché questa è la meta cui ha mirato per tutta la vita. Le sue azioni non erano soltanto un insulto al popolo ed alla Patria, ma erano dirette anche contro la distensione.”
Franco Arcidiaco
Fonti bibliografiche:
- Aleksandr Solzhenitsyn, Agosto 1914, Arnoldo Mondadori Editore 1971
- Aleksandr Solzhenitsyn, Arcipelago Gulag, Arnoldo Mondadori Editore 1974
- Pravda, 14 gennaio 1974, 14 febbraio 1974
- Agenzia Novosti aprile 1974
- Literaturnaja gazeta, 12 novembre 1969, 26 novembre 1969, 3 dicembre 1969, 14 ottobre 1970, 12 gennaio 1972, 23 gennaio 1974, 20 febbraio 1974
- Ciasovoj, ottobre 1970
- Stern, dicembre 1971
- New York Times, 14 dicembre 1972, 28 gennaio 1973, 9 marzo 1973, 27 gennaio 1974
- Agenzia United Press, 18 dicembre 1972
- Aa.Vv., Bitva za Leningrad, Ed. Voenizdat, 1964
- K. A. Meretskov, Nasluzhbe narodu, Ed. Politizdat, 1968
- Izvestia, 28 gennaio 1974
- Winston Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, Arnoldo Mondadori Editore, 1960
- New York Herald Tribune, 15 ottobre 1942
- L’Espresso, 3 marzo 1974
- Le Monde, 6 febbraio 1974
- Paese Sera, 28 febbraio 1974
- Settegiorni, 24 febbraio 1974
- The Times, 29 ottobre 1969.
I libri “Agosto 1914” e “Arcipelago Gulag” (come del resto i precedenti “Il primo cerchio” e “Reparto cancro”) sono esplicitamente dei manifesti politici che perseguono il determinato scopo di negare il valore della Rivoluzione d’Ottobre, idealizzare il latifondo patriarcale della vecchia Russa zarista e denigrare la società e lo stato Sovietico.
“Agosto 1914” è un’opera apertamente antipatriottica ed antipopolare, dalla quale traspare il dispetto dell’autore contro la Rivoluzione che ha privato lui, rampollo di un grande proprietario terriero, dei privilegi ereditari e della ricchezza; dal libro emerge chiaramente la piattaforma politica di Solzhenitsyn quale sostenitore degli ordinamenti dei proprietari fondiari capitalistici e quale epigono dell’ideologia dei cadetti, disposto a prezzo del tradimento della Patria ad adoperarsi per la restaurazione dell’ordinamento borghese. Dopo l’uscita del libro, nel dicembre 1971, la rivista tedesca Stern (anche questa filocomunista?) pubblicò un ampio articolo nel quale ricostruì impietosamente la storia della famiglia Solzhenitsyn dimostrando il carattere autobiografico dell’opera, che l’autore intendeva invece negare.
“Arcipelago Gulag” non è un racconto né un romanzo e quindi, se parliamo delle forme letterarie, non lo possiamo ritenere una descrizione della realtà attraverso l’espressione artistica. Nel libro occupa un posto di rilievo la Seconda guerra mondiale. E’ ovvio che, parlando di questo periodo, non si può prescindere dal ricordare i 56 milioni di morti in Europa e in Asia, compresi i 20 milioni di caduti sovietici e i 6 milioni di ebrei bruciati dai nazisti nei crematori dei campi di concentramento. Questi sacrifici inauditi di una tragedia mondiale devono essere il punto di riferimento morale di ogni ricostruzione storica. Scrive lo scrittore Jurij Bondarev: “ La battaglia di Stalingrado, ove la mia generazione di diciottenni ebbe il battesimo del fuoco, e in sanguinosi combattimenti invecchiò di dieci anni, fu, com’è noto, la svolta definitiva del corso degli avvenimenti nella seconda guerra mondiale. Questo durissimo combattimento costò caro al nostro Paese, ai miei coetanei ed a me stesso. Troppe fosse comuni abbiamo lasciato presso il Volga, troppi sono mancati all’appello dopo la vittoria. Sulle alture presso il Don nei giorni afosi e polverosi di luglio e agosto, quando il sole scompariva nel tifone delle esplosioni, ci trattenevano nelle trincee l’odio e l’amore: l’odio per chi era venuto con le armi della Germania nazista per distruggere il nostro Stato e la nostra nazione e, nello stesso tempo, l’amore per ciò che nel linguaggio umano si designa come la madre, la casa, la pista di pattinaggio della propria scuola moscovita, le lame rigate dei pattini, lo stridore di un cancello in qualche posto di Jaroslavl, l’erba verde, la neve che cade, il primo bacio accanto a un portone coperto di neve. In guerra l’uomo prova per il passato i sentimenti più indistruttibili. Noi combattevamo nel presente per il passato, che ci sembrava irrepetibilmente felice. Lo sognavamo, volevamo tornarvi. Noi eravamo romantici: questa era la nostra purezza, la nostra fede, ciò che si può definire il senso della Patria”. Tutto questo per Solzhenitsyn non esiste, nel libro in questione minimizza la vittoria di Stalingrado e la attribuisce alle “Compagnie di correzione”, queste ultime erano delle truppe “forzate” costituite da detenuti per reati comuni, equipaggiate con artiglieria leggera e quindi non assolutamente in grado di frenare la pressione di un’armata corazzata dei tedeschi, i quali inoltre avevano concentrato venti divisioni di fanteria nei settori d’attacco. A questa prima assurda e grave menzogna, Solzhenitsyn aggiunge quella che riguarda la figura del famigerato generale Vlasov; si trattava di un personaggio squalificato, circondato dalla fama infame di un Erostrato, ossessionato dalla brama di successo era altezzoso e suscettibile, scrive ancora Bondarev: ”Non gli piaceva molto aver a che fare coi soldati e recarsi al punto d’osservazione esposto alle cannonate. Preferiva il profondo rifugio blindato del punto di comando, la luce delle batterie d’accumulazione, l’intimità degli acquartieramenti temporanei, ove si disponeva con comodità, senza risparmio e persino con un certo stile aristocratico”. Comandante di capacità medie, non aveva acutezza tattica e portò la seconda armata d’assalto, che egli comandava sul fronte del Volchov nel ’42, ad una penosa disfatta; il peso di questa sconfitta lo portò al passo fatale come testimonia ancora Bondarev: “Di notte, abbandonate le truppe che combattevano ancora, insieme con il suo aiutante andò nel villaggio di Staraja Polist, aperse la porta della prima isba occupata da soldati tedeschi addormentati e disse: ‘Non sparate sono il generale Vlasov”. Per Solzhenitsyn la resa e il tradimento di Vlasov furono il risultato di un fermo convincimento politico, non essendo d’accordo con le azioni di Stalin; tutti gli eroici combattenti della Guerra patriottica avrebbero dovuto seguire il suo esempio: lasciarsi sconfiggere, consegnare la patria ai nazisti per liberare la Madre Russia dal comunismo! Com’è noto, il calunniatore ha una propria logica: non si tormenta sul problema della verità, ma bada soprattutto a riuscire gradito a chi l’ha preso al proprio servizio. Esaltando Vlasov, i suoi accoliti e gli altri traditori della Patria sovietica, Solzhenitsyn parte dal principio per cui nella lotta contro il potere sovietico e il socialismo tutto è giustificato. Perciò egli glorifica i traditori che combatterono armi in pugno contro il loro popolo e non si preoccupa del fatto notorio che nel momento del pericolo mortale della Patria tutto il paese si levò alla guerra contro l’invasione nazista, che milioni di sovietici si batterono senza risparmio contro gli invasori al fronte e nelle retrovie, nei reparti e nelle formazioni partigiane, nel movimento clandestino nelle terre occupate dal nemico. Non gli interessano minimamente gli altri generali sovietici periti nei campi di concentramento nazisti senza calcare la via del tradimento; i suoi “eroi” e il suo “ideale” sono il traditore Vlasov e i vlasoviani, che egli esalta per avere odiato l’ordinamento sovietico al punto di combattere la Patria, e secondo quanto dice testualmente “avrebbero potuto riuscire se i nazisti li avessero organizzati meglio ed avessero accordato loro maggiore fiducia”. E chiaro che Solzhenitsyn affermando che qualsiasi tradimento è giustificato, chiunque lo compia e quale che ne sia la portata, tenta di giustificare anche il proprio. E le anime belle del comitato del Premio Nobel, che ne pensano di questa visione della storia che riabilita un personaggio come Vlasov che, al pari del capo dei fascisti norvegesi Quisling, è sinonimo universale di vile tradimento? Nella sua rabbia contro tutto ciò che è sovietico, ricorre ad ogni mezzo: all’inganno, alla calunnia, alle false manovre; si schiera apertamente finanche con la Gestapo che secondo lui “mirava soprattutto alla verità e rimetteva in libertà gli innocenti”! Il suo grande senso umanitario e libertario lo porta a glorificare un sabotatore nazista, che aveva danneggiato duemila paracadute in un magazzino sovietico, con queste parole: ” In tutta questa lunga cronaca carceraria non s’incontrerà più un eroe del genere”, un cinismo da malfattore capace di esaltarsi davanti alla morte di duemila compatrioti! E pensare che Solzhenitsyn riusciva ad accreditarsi come uno scrittore religioso ma, a rimettere le cose a posto ci pensò il Metropolita Serafim che, nel 1974, lo bollò con queste parole: “…Solzhenitsyn si è dimostrato nelle sue azioni un uomo moralmente degradato, che con odio sfrenato tenta di diffamare e calunniare la terra natale…solo un uomo come lui, per il quale non c’è nulla di sacro, può attribuire ai nazisti ‘uno spirito umanitario’…Sotto il cielo pacifico della nostra Patria lavorano oggi con abnegazione credenti e non credenti, accrescendo la fama e la potenza del nostro paese. Soltanto Solzhenitsyn non ha partecipato a questo lavoro. Egli, come il figliol prodigo, dopo aver ricevuto dalla Patria tutto quanto è utile e necessario per la vita, se n’è andato schierandosi coi nemici dell’ Unione Sovietica. Così doveva essere, poiché questa è la meta cui ha mirato per tutta la vita. Le sue azioni non erano soltanto un insulto al popolo ed alla Patria, ma erano dirette anche contro la distensione.”
Franco Arcidiaco
Fonti bibliografiche:
- Aleksandr Solzhenitsyn, Agosto 1914, Arnoldo Mondadori Editore 1971
- Aleksandr Solzhenitsyn, Arcipelago Gulag, Arnoldo Mondadori Editore 1974
- Pravda, 14 gennaio 1974, 14 febbraio 1974
- Agenzia Novosti aprile 1974
- Literaturnaja gazeta, 12 novembre 1969, 26 novembre 1969, 3 dicembre 1969, 14 ottobre 1970, 12 gennaio 1972, 23 gennaio 1974, 20 febbraio 1974
- Ciasovoj, ottobre 1970
- Stern, dicembre 1971
- New York Times, 14 dicembre 1972, 28 gennaio 1973, 9 marzo 1973, 27 gennaio 1974
- Agenzia United Press, 18 dicembre 1972
- Aa.Vv., Bitva za Leningrad, Ed. Voenizdat, 1964
- K. A. Meretskov, Nasluzhbe narodu, Ed. Politizdat, 1968
- Izvestia, 28 gennaio 1974
- Winston Churchill, Storia della seconda guerra mondiale, Arnoldo Mondadori Editore, 1960
- New York Herald Tribune, 15 ottobre 1942
- L’Espresso, 3 marzo 1974
- Le Monde, 6 febbraio 1974
- Paese Sera, 28 febbraio 1974
- Settegiorni, 24 febbraio 1974
- The Times, 29 ottobre 1969.
sabato 24 gennaio 2009
CRISI REALE O CRISI PERCEPITA?
Pesa più la crisi reale, o il contagio psicologico che scaturisce dalla lettura dei giornali e dall’ascolto dei notiziari radiofonici e televisivi? Lungi da me il voler ridurre la crisi alla stregua di una leggenda metropolitana; ma, volendo mutuare un termine usato ed abusato in meteorologia, ritengo che ci si debba attrezzare per operare una distinzione tra crisi “reale” e crisi “percepita”. E’ chiaro che il discorso non riguarda i numerosi lavoratori che hanno perso il posto di lavoro, loro gli effetti della crisi li hanno subiti sulla propria pelle e su quella delle loro famiglie e sono rimasti vittima, nella maggior parte dei casi, dell’avidità e dell’ inconscienza di un padronato senza scrupoli sempre pronto a far ricadere sui lavoratori gli effetti di crisi vere o presunte. Le famiglie, invece, che non hanno problemi di occupazione, e sono la stragrande maggioranza, non hanno alcun motivo di percepire la crisi; i salari non hanno subito alcuna riduzione, l’inflazione è scesa ai minimi storici, il costo del denaro e gli interessi bancari non sono stati mai così bassi, il prezzo del petrolio è crollato vertiginosamente ed i negozi sono stracolmi di merci a prezzi assolutamente calmierati. Il commercio, pertanto, si dovrebbe trovare in una condizione ideale, eppure i negozi appaiono desolatamente vuoti e gli esercenti parlano di situazione allarmante. E’ evidente, dunque, che ci si trova al cospetto di una situazione paradossale che genera una contrazione dei consumi, mentre si registra la fase congiunturale più favorevole della storia della nostra nazione, almeno per quanto riguarda il settore commerciale. E’ auspicabile pertanto, e una volta tanto non esitiamo a sottoscrivere l’appello dell’inquilino di Palazzo Chigi, che gli italiani approfittino di questo stato di cose e si approvvigionino tranquillamente di beni di consumo necessari al benessere delle proprie famiglie; questo, oltre a dare una salutare boccata d’ossigeno alla filiera del commercio, servirà a fugare le crisi “percepite” ed a rivolgere uno sguardo meno impaurito ad un futuro più o meno vicino in cui la crisi potrebbe diventare reale.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
CRISI COME OPPORTUNITA'
Gli osservatori economici, quelli veri non quelli che sfornano opinioni su commissione, sono tutti concordi nel ritenere che l’economia reale i problemi veri li avrà l’anno prossimo. Il 2009 sarà certamente peggiore del 2008 e tutti ci dovremo confrontare con la difficoltà di far quadrare i conti, mentre le imprese dovranno fare di tutto per mantenere un certo grado di profittabilità. Ma una buona regola da tener presente è che i periodi di peggior crisi possono essere anche occasione di opportunità, è il momento di applicare nelle aziende l’aurea legge di Darwin: chi vince la sfida del cambiamento, sopravvive più forte di prima. Gli imprenditori illuminati pertanto non faranno l’errore di rintanarsi aspettando tempi migliori, ma investiranno nel cambiamento e nella comunicazione, pronti a raccogliere i frutti quando l’emergenza finirà. E, per quanto riguarda la comunicazione, mai come oggi è valida la massima di Henry Ford: “Chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi, è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo”. E’ fondamentale quindi, e questo vale anche per il cittadino comune e non solo per gli imprenditori, affrontare questa fase senza perdere la calma cercando di comprendere quali sono le cause reali di questo stato di cose. Bisogna capire la lezione, di portata storica, che c’è dietro il grande crack che, subito dopo l’estate, ha fatto crollare i castelli di cartapesta della finanza creativa: i mutui subprime, i derivati, i debiti venduti come crediti, “tutti figli dell’avidità senza limiti dei manager delle banche d’affari e di una globalizzazione finanziaria esplosa come una colossale vescica infetta”, come ha detto il finanziere Francesco Micheli in un’intervista. Potrebbe essere l’occasione storica per inventare un modello nuovo di capitalismo, che sappia fare a meno dei mega-manager che si sono arricchiti con stock option e bonus miliardari, e che punti invece sullo sviluppo dell’economia più che della finanza, rendendo competitive le grandi strutture pubbliche e associative e il settore della cultura e dell’università. I piccoli investitori che non riescono a stare lontani dalla Borsa, possono approfittare, invece, delle quotazioni ormai raso-terra acquistando azioni di Società sane e consolidate. Le famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese, dovranno, oltre che sperare nel buon senso dei governanti, attuare una seria politica di risparmio domestico tagliando le spese superflue e riservando ogni risorsa possibile alla formazione culturale e professionale dei propri figli, nella consapevolezza che il mercato del lavoro sarà sempre più esigente nel richiedere preparazione e specializzazione e che i tempi dell’assistenzialismo, delle assunzioni clientelari e del posto fisso sono definitivamente destinati a scomparire.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
I CENTRI COMMERCIALI SONO L'INDUSTRIA DEL NOSTRO TEMPO
Tutto potevamo aspettarci, quando ci siamo accomodati nella splendida sala del Warner Village del Due Mari ospiti del convegno del CNCC (Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali), fuorché di dover ricevere una vera e propria iniezione di ottimismo circa il futuro di queste attività che, come ha dichiarato a chiare lettere il presidente del CNCC Pietro Malaspina; svolgono ai giorni nostri le stesse funzioni che svolsero le fabbriche ai tempi della rivoluzione industriale. Con la differenza, aggiungeremmo noi, che i lavoratori di oggi operano in condizioni assolutamente ottimali rispetto a quelle degli operai di oltre un secolo fa. I parchi commerciali, per citare ancora Malaspina :”non sono una macchina adibita a semplice consumo e smaccata vendita, ma incrocio suburbano di qualità ambientale, accessibilità, efficienza energetica ed esposizione permanente di merci e servizi.” Tutti gli interventi che si sono succeduti hanno concordato sull’enorme potenzialità di sviluppo del nostro territorio e sull’appetibilità che esso riveste per i grandi investitori del settore: “Il Cristo dei centri commerciali non si è fermato ad Eboli” è stata la frase ad effetto di Enrico Biasi del comitato direttivo, ed effettivamente, valutando quello che si è creato e quello che è in fase di realizzazione, il Mezzogiorno appare come l’Eldorado del retail. E’ chiaro che non è tutto rose e fiori, la burocrazia, male endemico del Mezzogiorno, costituisce certamente un ostacolo; il costo elevato per la realizzazione di alcune strutture sovradimensionate, scarica gli effetti sul consumatore finale che si ritrova prezzi più alti rispetto al Nord, per non parlare dei problemi “ambientali” sui quali il convegno ha preferito glissare, ma che aleggiavano tra i commenti del pubblico in sala. Ad ogni buon conto, l’ombra della recessione è lungi dallo sfiorare l’Area del Due Mari ed unanime e convinto è stato il riconoscimento delle grandi qualità professionali ed umane della famiglia Perri che in dieci anni ha trasformato un’area agricolo-pastorale del territorio di Maida nel parco commerciale più importante della Calabria, volano dello sviluppo di tutta l’area che va dal Golfo di Sant’Eufemia a quello di Squillace.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
PER "REPUBBLICA" LA GUERRA FREDDA NON E' FINITA
Qualcuno informi Andrea Tarquini che la Guerra fredda è finita da un pezzo e, tra le sue tante ombre, si è portata via l’ennesima montatura antisovietica costruita attorno al penoso suicidio di Jan Palach. La storia del giovane, presunta “Torcia numero uno” di un inesistente movimento di estrema protesta contro il legittimo intervento sovietico in Cecoslovacchia, è già stata demolita dalla Storia; il fratello stesso, più volte ha ridimensionato il gesto del povero Jan ad una sfera assolutamente privata. Se Tarquini si fosse presa la briga di svolgere un’indagine seria su quegli anni avrebbe scoperto che oggi la maggioranza della popolazione dei Paesi dell’Est rimpiange l’Unione Sovietica e che la vera storia del Comunismo sovietico si potrà scrivere solo dopo aver svolto una rigorosa indagine sui metodi con i quali i Servizi dei Paesi occidentali hanno tenuto sotto scacco il blocco sovietico con la famigerata Guerra fredda.
Franco Arcidiaco, Reggio Calabria
Ho inviato questa lettera a Repubblica la sera stessa della pubblicazione del pezzo (11/1/2009) di Tarquini, un servizio assurdo pieno di luoghi comuni e di livore anticomunista; la classica gita spensierata dell'inviato che, tra un bagordo e l'altro, confeziona l'articolo adatto a "non disturbare il manovratore".
Franco Arcidiaco, Reggio Calabria
Ho inviato questa lettera a Repubblica la sera stessa della pubblicazione del pezzo (11/1/2009) di Tarquini, un servizio assurdo pieno di luoghi comuni e di livore anticomunista; la classica gita spensierata dell'inviato che, tra un bagordo e l'altro, confeziona l'articolo adatto a "non disturbare il manovratore".
giovedì 15 gennaio 2009
Buongiorno
L'articolo d'esordio del mio blog è un caldo saluto a tutti i miei amici ed in particolare a Giuseppe che mi ha aiutato a crearlo.
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