Frequento con Antonella le Fiere del libro da tempo immemorabile; gli anni d’oro del Salone di Torino, quando ancora si teneva nei vecchi padiglioni della Fiera lungo il Po nel Parco del Valentino, rimangono indimenticabili. Alloggiavamo nel dirimpettaio Tourin Palace e la sera al ristorante ci divertivamo a individuare gli scrittori famosi che si avvicinavano a ossequiare il mitico Mario Soldati che cenava solitario nel suo solito tavolo d’angolo.
Non era ancora il tempo degli scrittori usa e getta, dei ghost writer e dei best seller dalla vita media di quaranta giorni e nelle fiere ti capitava di ascoltare memorabili conferenze e incontrare i più importanti autori di mezzo mondo.
Da quasi vent’anni, invece, andiamo alle Fiere per motivi professionali e abbiamo purtroppo poco tempo da dedicare agli eventi che sono, comunque, riservati più ai “fenomeni” televisivi che ai veri talenti narrativi: gli effetti perversi della savianizzazione della cultura.
La Fiera di Roma, Più Libri Più Liberi, ha festeggiato il suo quindicesimo compleanno; il meraviglioso Palazzo dei Congressi dell’EUR, trionfo del razionalismo architettonico, la ospita ininterrottamente e noi da altrettanti anni ci ritroviamo puntuali nel nostro stand B29. È la Fiera riservata agli editori piccoli e medi ed è meno inquinata dai fenomeni di cui sopra. L’altro giorno, per esempio, è arrivato il grande etnologo francese Marc Augé per presentare il suo ultimo libro “Le tre parole che cambiarono il mondo” (vedi la mia recensione sul blog “Franco Arcidiaco Sovietico”) nel quale immagina che la prossima Pasqua il papa si affacci alla finestra del Vaticano dichiarando ai fedeli: “Dio non esiste!”.
Marc Augé è senza alcun dubbio uno degli intellettuali contemporanei più lucidi e liberi che esistano; alfiere del razionalismo non esita a lanciare i suoi strali contro le derive integraliste, palesi o camuffate, delle religioni monoteiste. In un salone affollatissimo ha dialogato con il giornalista dell’Espresso Gigi Riva (solo omonimo del mitico bomber) dispensando illuminanti (e…illuministiche) chiavi di lettura degli eventi dei nostri giorni. “Tutte le religioni che pensano alla salvezza dell’individuo perdono molto della loro connotazione sociale”. La sua parola d’ordine è “scoprire il dovere della conoscenza”, l’emergenza è promuovere l’educazione e la conoscenza. Il Cristianesimo lo liquida in poche battute: “L’Occidente ha perso molto quando il cristianesimo ha soffocato le ultime velleità del paganesimo… La caduta dell’Impero Romano da questo punto di vista è stata una catastrofe storica”, “La Storia parla della persecuzione dei cristiani ma sorvola su quella dei pagani…”.
Considera il monoteismo una sciagura e arriva a chiedersi se sia più auspicabile un ritorno al politeismo o al razionalismo. Dio non è una necessità, “se ai bambini nessuno parlasse di Dio la religione svanirebbe come neve al sole”. Al pubblico che lo ascoltava a bocca aperta tra applausi scroscianti, Gigi Riva ha dato la possibilità di intervenire; quando è arrivato il mio turno mi sono seduto al suo fianco e gli ho chiesto se in qualche modo la figura di Papa Francesco avesse condizionato questo suo pamphlet, lo ha escluso ma senza molta convinzione. Quando poi gli ho detto che secondo me Papa Francesco potrebbe avere per il Vaticano lo stesso effetto dirompente che avuto Gorbaciov per l’Unione Sovietica (un mio tweet del giorno dopo la fumata bianca), mi ha guardato scrutandomi a fondo e mi ha detto: “ Beh pensandoci bene la perestrojka si sa dove comincia ma non si sa dove finisce…”.
Franco Arcidiaco
giovedì 15 dicembre 2016
domenica 11 dicembre 2016
L’AFFONDO RAZIONALISTA DI MARC AUGÉ
Con questo suo recente pamphlet, il grande etnologo Marc Augé catapulta il lettore in un sogno proibito. Tutto ha inizio in una Pasqua prossima ventura quando, dalla solita finestra del Vaticano, Papa Francesco informa, con voce chiara e netta, i fedeli assiepati in piazza San Pietro, che Dio non è mai esistito.
Dio non esiste: tre parole che equivalgono a una deflagrazione culturale di dimensioni planetarie; una verità svelata col candore del bambino della fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore”.
Senza timore alcuno, Papa Francesco prospetta ai suoi fedeli lo scenario di un mondo senza Dio. Naturalmente la rivelazione scatena il putiferio, dibattiti giornalistici e capannelli improvvisati radunano gente sbigottita che si ritrova orfana di un'idea che era al contempo scrigno di speranze e ragione di vita. È l’inizio di una settimana folle, che incendierà il pianeta e spazzerà via ogni sentimento religioso.
La rivelazione di Papa Francesco, che torna a chiamarsi Jorge Mario Bergoglio, infatti, oltre a destabilizzare i cattolici, innesca una micidiale reazione da parte dei fedeli delle altre religioni monoteiste che colgono al volo l’occasione per debellare il Cristianesimo e la sua ambizione di universalità. Gli islamici scatenano attentati per conquistare l’Occidente, i cinesi tramano per affermare il confucianesimo e i cattolici sono pressati da mezzo mondo affinché si affrettino a scegliersi una nuova religione…
In realtà però, la decisione del Papa non è genuina, dietro essa si cela il piano segreto di un movimento dal nome “Librement: movimento per la libertà e la resistenza mentali”. Lo scopo di “Librement” è quello “di donare a qualunque essere umano un'arma che elimini -una volta per tutte- quei cortocircuiti e quegli angoli oscuri che paralizzano il suo pensiero. Gli offriamo la possibilità di posare sul mondo uno sguardo sereno, curioso e attento e di godere senza remore delle sua capacità intellettuali e del piacere di vivere”. Gli scienziati vicini al movimento hanno isolato le basi neuronali dell’oscurantismo, considerato alla stregua di una sindrome degenerativa, e reso disponibile un farmaco che elimina istantaneamente e per sempre «le sensazioni di confusione mentale che sono all’origine di qualunque esperienza cosiddetta religiosa». Il movimento Librement dispone di una sostanza che si scioglie in acqua e che arriva a diffondersi come una silenziosa epidemia inarrestabile.
“Vedi, la gente ha capito che dietro la parola Dio si nascondeva quanto di migliore custodiscono in sé gli esseri umani: la loro piena consapevolezza della vita”.
Scopriremo tutto questo grazie a un personaggio che fa visita di tanto in tanto a Augé, si tratta di un certo Théo, un biologo genetista puro e duro che solo alla fine apprenderemo essere il figlio dell’autore.
Una favola contemporanea, visionaria e dissacrante, che in tempi di massacri nel nome della religione, tenendo il lettore con il fiato sospeso, lascia trasparire gli accenti di una fede razionalista: forse, senza la violenza che permea il sentimento religioso, la fratellanza tra gli esseri umani non sarà più un’utopia.
Franco Arcidiaco
Marc Augé
Le tre parole che cambiarono il mondo
Raffaello Cortina editore 2016
Dio non esiste: tre parole che equivalgono a una deflagrazione culturale di dimensioni planetarie; una verità svelata col candore del bambino della fiaba “I vestiti nuovi dell’imperatore”.
Senza timore alcuno, Papa Francesco prospetta ai suoi fedeli lo scenario di un mondo senza Dio. Naturalmente la rivelazione scatena il putiferio, dibattiti giornalistici e capannelli improvvisati radunano gente sbigottita che si ritrova orfana di un'idea che era al contempo scrigno di speranze e ragione di vita. È l’inizio di una settimana folle, che incendierà il pianeta e spazzerà via ogni sentimento religioso.
La rivelazione di Papa Francesco, che torna a chiamarsi Jorge Mario Bergoglio, infatti, oltre a destabilizzare i cattolici, innesca una micidiale reazione da parte dei fedeli delle altre religioni monoteiste che colgono al volo l’occasione per debellare il Cristianesimo e la sua ambizione di universalità. Gli islamici scatenano attentati per conquistare l’Occidente, i cinesi tramano per affermare il confucianesimo e i cattolici sono pressati da mezzo mondo affinché si affrettino a scegliersi una nuova religione…
In realtà però, la decisione del Papa non è genuina, dietro essa si cela il piano segreto di un movimento dal nome “Librement: movimento per la libertà e la resistenza mentali”. Lo scopo di “Librement” è quello “di donare a qualunque essere umano un'arma che elimini -una volta per tutte- quei cortocircuiti e quegli angoli oscuri che paralizzano il suo pensiero. Gli offriamo la possibilità di posare sul mondo uno sguardo sereno, curioso e attento e di godere senza remore delle sua capacità intellettuali e del piacere di vivere”. Gli scienziati vicini al movimento hanno isolato le basi neuronali dell’oscurantismo, considerato alla stregua di una sindrome degenerativa, e reso disponibile un farmaco che elimina istantaneamente e per sempre «le sensazioni di confusione mentale che sono all’origine di qualunque esperienza cosiddetta religiosa». Il movimento Librement dispone di una sostanza che si scioglie in acqua e che arriva a diffondersi come una silenziosa epidemia inarrestabile.
“Vedi, la gente ha capito che dietro la parola Dio si nascondeva quanto di migliore custodiscono in sé gli esseri umani: la loro piena consapevolezza della vita”.
Scopriremo tutto questo grazie a un personaggio che fa visita di tanto in tanto a Augé, si tratta di un certo Théo, un biologo genetista puro e duro che solo alla fine apprenderemo essere il figlio dell’autore.
Una favola contemporanea, visionaria e dissacrante, che in tempi di massacri nel nome della religione, tenendo il lettore con il fiato sospeso, lascia trasparire gli accenti di una fede razionalista: forse, senza la violenza che permea il sentimento religioso, la fratellanza tra gli esseri umani non sarà più un’utopia.
Franco Arcidiaco
Marc Augé
Le tre parole che cambiarono il mondo
Raffaello Cortina editore 2016
mercoledì 30 novembre 2016
ADDIO FIDEL. CONTRO REVISIONISTI E POPULISTI DI OGNI RISMA.
Fidel Castro è stato un grande protagonista della Storia mondiale, la sua morte archivia definitivamente il Novecento e i sogni e le speranze incarnati dai grandi movimenti rivoluzionari. Le controspinte reazionarie hanno avuto la meglio e molte delle conquiste delle rivoluzioni sono state vanificate o addirittura stravolte. La reazione ha molti volti e non tutti violenti, i più efficaci sono subdoli e agiscono con le armi della provocazione e della disinformazione. Oggi non è più tempo di rivoluzioni ma è indispensabile completare l'edificazione della stagione delle riforme. Le forze reazionarie oggi assumono fisionomie populiste ma le armi sono sempre le stesse: provocazione e disinformazione. Sconfiggere la burocrazia e liberare la democrazia dalle sue spire mortali è il grande compito dei riformisti di oggi. La variegata accozzaglia che sostiene il no al prossimo referendum istituzionale è l'emblema del modo di agire della reazione, che si erge addirittura a paladina di una Costituzione che ha sempre oltraggiato e calpestato. Votare Sì è anche questo: liberare l'agire democratico dai lacci e lacciuoli che imbrigliano il rinnovamento e smascherare i conservatori e i reazionari travestiti da populisti.
domenica 20 novembre 2016
MILOSEVIC: IL TRIBUNALE DELL'AJA, DOPO AVERLO UCCISO IN CARCERE, LO SCAGIONA DA OGNI ACCUSA
Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia (ICTY) dell'Aia ha stabilito alla fine, che il Presidente jugoslavo e serbo Slobodan Milosevic, non era stato responsabile per i crimini di guerra commessi durante la guerra in Bosnia nel 1992-1995.
Con una sentenza conclusiva, la Camera di primo grado del TPI dell’Aja ha unanimemente sentenziato che Slobodan Milosevic non era parte di una "impresa criminale congiunta" per perseguitare musulmani e croati durante la guerra in Bosnia.
Il giudizio del 24 marzo 2016 afferma che "la Camera ha stabilito che non vi erano prove sufficienti presentate in questo caso, per stabilire che Slobodan Milosevic fosse parte di un progetto per scacciare i musulmani bosniaci e i croati bosniaci dal territorio serbo-bosniaco…”.
I giudici hanno sottolineato che Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic avessero all’inizio della guerra, operato per la conservazione della Jugoslavia e che Milosevic era sempre schierato su questa posizione. La Camera del TPI ha stabilito che “… Slobodan Milosevic ha sempre perseguito questo obiettivo ed era contro la secessione della Bosnia-Erzegovina… ".
La Camera ha rilevato che "…la auto proclamazione di sovranità da parte dell'Assemblea della BiH in assenza dei delegati serbo-bosniaci il 15 ottobre 1991, fece precipitare la situazione…", e che Milosevic aveva una posizione cauta circa la costituzione della Republika Srpska come risposta.
La sentenza afferma che nelle comunicazioni intercettate con Radovan Karadzic, "…Milosevic era dubbioso se fosse stato saggio usare ‘un atto illegittimo in risposta ad un altro atto illegittimo’ e messo in discussione la legittimità di formare un'Assemblea serbo bosniaco..."
I giudici hanno anche scoperto che "…Slobodan Milosevic aveva espresso le sue riserve su come un'Assemblea serbo-bosniaco potesse escludere i musulmani che erano 'per la Jugoslavia'..."
Il giudizio osserva che in incontri con i serbi e funzionari serbo bosniaci "…Slobodan Milosevic aveva dichiarato che “ …i membri di altre nazioni ed etnie dovevano essere protetti e che l’' interesse nazionale dei serbi non era la discriminazione...". Inoltre è provato che "…Milosevic aveva sempre ribadito che qualsiasi atto criminale doveva essere combattuto con decisione...".
La Camera di primo grado ha osservato che "…in riunioni private, Milosevic era estremamente arrabbiato con la leadership serbo-bosniaca che voleva respingere il piano Vance-Owen...".E’ stato anche determinato che "…Milosevic ha cercato di ragionare con i serbi bosniaci dicendo che capiva le loro preoccupazioni e ragioni, ma che la cosa più importante era porre fine alla guerra…e incoraggiava per un accordo politico… ". Nel corso di una riunione del Consiglio Supremo di Difesa, Milosevic aveva sottolineato che i leader serbo bosniaci, non avevano il diritto di chiedere più di metà del territorio in Bosnia-Erzegovina, affermando che “…non si deve avere più di ciò che ci appartiene. Poiché, rappresentiamo un terzo della popolazione. [...] Noi non abbiamo diritto a oltre la metà del territorio e non si deve strappare via qualcosa che appartiene a qualcun altro! [...] Come si può immaginare che due terzi della popolazione possano essere stipati nel 30% del territorio, mentre il 50% è troppo poco per voi ?! E' umano, è giusto ?!'… ".
In altri incontri con i funzionari serbi e serbo-bosniaci, la sentenza osserva che Milosevic aveva ripetutamente dichiarato che bisognava porre fine alla guerra e che il più grande errore dei serbo bosniaci era quello di “… cercare una completa sconfitta dei musulmani bosniaci… mentre era necessario ricercare e accettare proposte di pace… ".
“…Vistosamente in silenzio dal marzo 2016, giorno del verdetto dell’Aia, sono il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times, la CNN e il Times di Londra per citarne solo alcuni, dei giornali partigiani della “democrazia e della giustizia” che hanno partecipato alle campagne contro Slobodan Milosevic e al suo diritto a una "giustizia secondo la legge", come inciso sopra l’ingresso della Corte Suprema degli Stati Uniti.
Dove sono le voci di Christiane Amanpour della CNN, Roy Gutman e John Burns, che hanno ricevuto un Pulitzer per le loro menzogne e inganni in Bosnia? Dove è Nicholas Burns e il marito della Amanpour James Rubin, che regolarmente sulla CNN vomitavano menzogne contro Milosevic per 8 anni? Dove è Carla Del Ponte, quando c’è bisogno di lei? Dove è Joan Phillips e Charles Lane che hanno avanzato nella loro carriera, con il loro lavoro di propaganda e falsità?
Dove è James Harf PR della Ruder / Finn, che ha incassato milioni di dollari promuovendo menzogne e immaginazioni per i governi croati e bosniaci musulmani? Dov'è Chris Hedges, Charlene Hunter Galt, ciarlatani dei media come Maggie O'Kane della stampa britannica ...
Dove è Tom Post che ha scritto l'articolo infame di prima pagina su Newsweek, circa "50.000 stupri di donne musulmane bosniache"? Dove è Sylvia Poggioli che abilmente ha scritto un saggio di disinformazione nella Relazione Neiman ad Harvard? Dove è John Pomfret del Washington Post che ha sostenuto di aver visto "4.000 uomini e ragazzi di Srebrenica che si erano salvati a Tuzla"?
Dove è David Rohde i cui libri e articoli hanno demonizzato il popolo serbo con grande astuzia? E dove è Carol Williams del Los Angeles Times che ha scritto in un anno il giornalismo più odioso, anti-ortodosso e intriso di dogmatismo cattolico, di quanto la maggior parte dei giornalisti potrebbero fare in un decennio?
E, infine, dove sono creature come Minna Schrag, terza procuratrice americana che è stata in prestito al Tribunale dell'Aja, da uno studio legale di New York, e che ha detto agli studiosi di diritto internazionale che: "…E 'stata una nuova esperienza che deve essere un precedente, di poter decidere prima sulle regole delle prove ed alla procedura, di decisioni prese in conversazioni improvvisate nei corridoi del Tribunale Penale per la Jugoslavia.. "?
Se i media e il sistema giuridico sono questi, corrotti e disonesti, i serbi devono correre ai ripari dalla verità, e hanno diritto di poter disprezzare un mondo…che deliberatamente ha manipolato i fatti per demonizzare il popolo serbo con una colpa collettiva, non visto in Europa dal tempo di Hitler, questi sono mostri che hanno fatto della parola "serba" sinonimo di male, un processo inumano in uso ancora oggi…
Che possano marcire all'inferno per questa orribile farsa legale, la Madeleine Albright, il direttore di scena, che dovrebbe essere in piedi sul banco degli imputati all'Aja, insieme con il generale Wesley Clark e William Jefferson Clinton….”…Si chiede su beoforum, W. Dorich
Milosevic non colpevole. M. Albright colpevole di una impresa criminale
(W. Dorich è un autore di numerosi libri sulla storia dei Balcani)
“ …Non sono qui davanti ad un Tribunale illegittimo e illegale, che non riconosco, per difendere Slobodan Milosevic, ma solo per difendere la Jugoslavia e la dignità del popolo serbo, e con essi la verità e la giustizia dei popoli, contro l’arroganza e l’arbitrio dei potenti della terra, che hanno devastato e distrutto il mio paese, e umiliato il mio popolo…”. ( S. Milosevic, L’)
Slobodan Milosevic, prima di morire ha dovuto trascorrere gli ultimi cinque anni della sua vita in carcere, difendendo caparbiamente se stesso e la Serbia dalle false accuse di crimini di guerra nel corso di una guerra, che ora rivelano, stava cercando di fermare. Le accuse più gravi che Milosevic ha dovuto affrontare, tra cui l'accusa di genocidio, erano tutte in relazione alla Bosnia. Ora, dieci anni dopo la sua morte, il TPI dell’Aja ha ammesso che non era colpevole.
Il 30 ottobre 2005 lo stesso Milosevic aveva osservato con grande realismo: “…se questo Tribunale per quanto illegale, riesce anche a ignorare le falsità clamorose contenute negli atti di incriminazione… tanto vale che leggiate la sentenza contro di me, la sentenza che siete stati istruiti ad emettere… Se la Corte non si rende conto dell’assurdità del rinvio a giudizio letto ieri in aula, dove si sostiene che la Jugoslavia non è stata vittima di un attacco della NATO, ma ha aggredito sé stessa, è consigliabile risparmiare tempo e passare direttamente alla sentenza. Leggetela e non mi annoiate…”.
Il TPI ha cercato di non pubblicizzare il fatto che Milosevic era stato giudicato estraneo a crimini di guerra ed alla loro pianificazione. Il Tribunale confidava che le 1.303 pagine riguardanti il presidente jugoslavo e serbo, sepolte tra le 2.590 pagine del verdetto Karadzic, sarebbero rimaste ignorate. Infatti è stato solo grazie a siti serbi e russi, e ad una delle poche eccezioni in occidente, rappresentata dal sito del giornale inglese The Guardian, che questa notizia si è diffusa a livello internazionale.
Occorre ricordare che Slobodan Milosevic è morto per un attacco di cuore appena due settimane dopo che il Tribunale gli aveva negato la sua richiesta di sottoporsi ad un intervento chirurgico al cuore in Russia. E’ stato trovato morto nella sua cella, meno di 72 ore dopo che il suo avvocato aveva consegnato una lettera al Ministero degli Esteri russo in cui denunciava il timore di essere stato avvelenato.
Il rapporto ufficiale del Tribunale sulla motivazione circa la morte, ha confermato che " nel campione di sangue prelevato da Milosevic il 12 gennaio 2006, era stato trovato del Rifamicin (un farmaco non prescritto per le sue cure), e che per intoppi burocratici non era stato comunicato a Milosevic fino al 3 marzo 2006. La presenza di Rifamicin nel sangue di Milosevic avrebbe contrastato il farmaco per l’alta pressione del sangue che egli stava prendendo, aumentando così il rischio di attacco di cuore che alla fine l'ha ucciso.
Il TPI non ha mai effettuato alcuna indagine adeguata ed indipendente, sulle reali cause della morte del presidente Milosevic, i risultati delle indagini interne svolte dal tribunale stesso, sono state bocciate con una riserva della Russia nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, basata su una serie di accertamenti medici, dove è chiaro che al Presidente Milosevic è stato rifiutato un trattamento adeguato, quando a causa della sua malattia, la sua vita era gravemente a rischio, e quindi, che il Tribunale abbia commesso almeno un omicidio giudiziario.
Molti esperti e studiosi internazionali hanno denunciato tutto questo, come un disegno che potenti interessi geopolitici preferivano non far arrivare vivo Milosevic alla fine del suo processo, con la possibilità che finisse assolto e le loro criminali menzogne rivelate. Intercettazioni prese al Dipartimento di Stato USA svelate da Wikileaks, confermano che il Tribunale dell’Aja ha discusso lo stato di salute di Milosevic e le sue cartelle cliniche, con il personale dell'ambasciata degli Stati Uniti all'Aia senza informare nessuno. Perché?
E ORA? Tralasciando alle loro miserie morali e professionali i disinformatori di professione al servizio dei potenti e delle logiche imperialiste occidentali…., cosa faranno i disinformatori sempre opportunamente schierati in linea con il “politicamente corretto” e i disinformatori in buona fede, solo perché “ignoranti”, cioè ignoravano atti e fatti ma sentenziavano e aizzavano contro “Hitler Milosevic”, il “ macellaio dei balcani”, il “criminale genocida”, demonizzandolo come un mostro, diffondendo falsità, menzogne, infamità. Migliaia di giornalisti, politici, esponenti di ONG falsamente umanitarie, pacifinti e utili idioti.
Tutti costoro che sui media sono stati giudici, giuria e boia di Slobodan Milosevic… ORA, CHIEDERANNO SCUSA? Avranno un sussulto etico morale e di coscienza? Abbasseranno il capo e con onestà intellettuale renderanno onore alle centinaia di migliaia di vittime della guerra di Bosnia, si indigneranno per essere stati usati dalla propaganda mediatica di guerra, contribuendo informativamente e oggettivamente alle tragedie e al dolore subito dai popoli di bosniaci e per tutto lo spargimento di sangue in Bosnia? E al popolo serbo e jugoslavo, che, come conseguenza ha subito un criminale embargo e sanzioni durate anni, che hanno immiserito e devastato socialmente e umanamente la propria gente? Staremo a vedere.
Egli è morto lontano dalla sua terra, dal suo paese, dai suoi affetti più cari, dal suo popolo, che solo fino a poche ore prima, aveva ancora fermamente e orgogliosamente difeso dalle menzogne e falsità dei padroni del mondo.
Egli resterà come un simbolo storico del suo popolo, un simbolo di difesa della libertà, della verità, della giustizia, del socialismo serbo e jugoslavo; di difesa dell’indipendenza e dignità nazionali, della resistenza dei popoli all’arroganza e al nuovo fascismo dell’imperialismo.
Un simbolo di onore e dignità, di cui ogni serbo e ogni jugoslavo di oggi e delle future generazioni potrà sempre esserne fiero, potendo guardare chiunque negli occhi con orgoglio, e a testa alta di fronte al mondo ed alla storia.
Cercavano e avrebbero voluto un uomo implorante, supino, arreso e vinto, avrebbero voluto un mercante pronto a barattare la propria vita e la propria storia per una manciata di dollari o euro, o un brandello di futuro. Ma si sono trovati davanti un gigante, un patriota e un combattente fiero e in piedi di fronte a loro, che li ha fronteggiati senza tregua e timori, …e hanno perso, loro.
“…Io sono il vincitore morale! – ha detto Milosevic all’Aia il 30 ottobre 2001. Io sono fiero di ogni cosa da me fatta, perché sempre fatta per il mio popolo ed il mio paese, ed in modo onesto. Io ho solo esercitato il diritto di ogni cittadino a difendere il proprio paese, e questo è il vero motivo per cui mi hanno illegalmente arrestato. Se voi state cercando dei criminali di guerra l’indirizzo non è qui a Scheveningen (il carcere olandese dov’era detenuto, Ndt) ma al Quartier Generale della Nato e nelle capitali occidentali, dove è stata pianificata la distruzione del mio paese, la Jugoslavia, e del mio popolo…. Noi non abbiamo attaccato o aggredito nessuno, ma ci hanno costretto a combattere a casa nostra, per difendere il nostro paese e la nostra terra…
Questo abbiamo fatto e lo rifaremmo perché questa non è un’infamia ma un onore per qualsiasi popolo e uomo…”.
(Slobodan Milosevic 30/08/2001)
A cura di Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado Italia – Agosto 2016
Alla luce di quanto accaduto, si vogliono riportare in evidenza due articoli scritti tempo addietro, ma utili all’informazione:
Presidente Slobodan Milosevic, Ad Memoriam, Enrico Vigna
Slobodan Milosevic era nato il 20 agosto 1941 a Pozarevac, Serbia. Sì è laureato in Legge all’università di Belgrado nel 1964.Fu prima militante e poi dirigente della Lega dei Comunisti della Jugoslavia e poi del Partito Socialista di Serbia, di cui fu tra i fondatori. A partire dagli anni ottanta era considerato uno dei migliori e più capaci amministratori e funzionari dello Stato della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia.Nell’Aprile 1984 fu nominato Segretario della Federazione di Belgrado della Lega dei Comunisti; dal Maggio 1986 al Maggio 1989 fu presidente del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti e al primo Congresso del Partito Socialista di Serbia nel Luglio 1990 venne eletto Presidente del Partito, che era nato dall’unificazione della Lega dei Comunisti e dall’Unione degli operai e dei socialisti della Serbia.
http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=854:presidente-slobodan-milosevic-ad-memoriam&catid
11 Marzo 2006, Slobodan Milosevic fatto morire dal Tribunale Penale Internazionale della Nato all'Aja
http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=853:11-marzo-2016-noi-non-dimentichiamo&catid
Con una sentenza conclusiva, la Camera di primo grado del TPI dell’Aja ha unanimemente sentenziato che Slobodan Milosevic non era parte di una "impresa criminale congiunta" per perseguitare musulmani e croati durante la guerra in Bosnia.
Il giudizio del 24 marzo 2016 afferma che "la Camera ha stabilito che non vi erano prove sufficienti presentate in questo caso, per stabilire che Slobodan Milosevic fosse parte di un progetto per scacciare i musulmani bosniaci e i croati bosniaci dal territorio serbo-bosniaco…”.
I giudici hanno sottolineato che Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic avessero all’inizio della guerra, operato per la conservazione della Jugoslavia e che Milosevic era sempre schierato su questa posizione. La Camera del TPI ha stabilito che “… Slobodan Milosevic ha sempre perseguito questo obiettivo ed era contro la secessione della Bosnia-Erzegovina… ".
La Camera ha rilevato che "…la auto proclamazione di sovranità da parte dell'Assemblea della BiH in assenza dei delegati serbo-bosniaci il 15 ottobre 1991, fece precipitare la situazione…", e che Milosevic aveva una posizione cauta circa la costituzione della Republika Srpska come risposta.
La sentenza afferma che nelle comunicazioni intercettate con Radovan Karadzic, "…Milosevic era dubbioso se fosse stato saggio usare ‘un atto illegittimo in risposta ad un altro atto illegittimo’ e messo in discussione la legittimità di formare un'Assemblea serbo bosniaco..."
I giudici hanno anche scoperto che "…Slobodan Milosevic aveva espresso le sue riserve su come un'Assemblea serbo-bosniaco potesse escludere i musulmani che erano 'per la Jugoslavia'..."
Il giudizio osserva che in incontri con i serbi e funzionari serbo bosniaci "…Slobodan Milosevic aveva dichiarato che “ …i membri di altre nazioni ed etnie dovevano essere protetti e che l’' interesse nazionale dei serbi non era la discriminazione...". Inoltre è provato che "…Milosevic aveva sempre ribadito che qualsiasi atto criminale doveva essere combattuto con decisione...".
La Camera di primo grado ha osservato che "…in riunioni private, Milosevic era estremamente arrabbiato con la leadership serbo-bosniaca che voleva respingere il piano Vance-Owen...".E’ stato anche determinato che "…Milosevic ha cercato di ragionare con i serbi bosniaci dicendo che capiva le loro preoccupazioni e ragioni, ma che la cosa più importante era porre fine alla guerra…e incoraggiava per un accordo politico… ". Nel corso di una riunione del Consiglio Supremo di Difesa, Milosevic aveva sottolineato che i leader serbo bosniaci, non avevano il diritto di chiedere più di metà del territorio in Bosnia-Erzegovina, affermando che “…non si deve avere più di ciò che ci appartiene. Poiché, rappresentiamo un terzo della popolazione. [...] Noi non abbiamo diritto a oltre la metà del territorio e non si deve strappare via qualcosa che appartiene a qualcun altro! [...] Come si può immaginare che due terzi della popolazione possano essere stipati nel 30% del territorio, mentre il 50% è troppo poco per voi ?! E' umano, è giusto ?!'… ".
In altri incontri con i funzionari serbi e serbo-bosniaci, la sentenza osserva che Milosevic aveva ripetutamente dichiarato che bisognava porre fine alla guerra e che il più grande errore dei serbo bosniaci era quello di “… cercare una completa sconfitta dei musulmani bosniaci… mentre era necessario ricercare e accettare proposte di pace… ".
“…Vistosamente in silenzio dal marzo 2016, giorno del verdetto dell’Aia, sono il New York Times, il Washington Post, il Los Angeles Times, la CNN e il Times di Londra per citarne solo alcuni, dei giornali partigiani della “democrazia e della giustizia” che hanno partecipato alle campagne contro Slobodan Milosevic e al suo diritto a una "giustizia secondo la legge", come inciso sopra l’ingresso della Corte Suprema degli Stati Uniti.
Dove sono le voci di Christiane Amanpour della CNN, Roy Gutman e John Burns, che hanno ricevuto un Pulitzer per le loro menzogne e inganni in Bosnia? Dove è Nicholas Burns e il marito della Amanpour James Rubin, che regolarmente sulla CNN vomitavano menzogne contro Milosevic per 8 anni? Dove è Carla Del Ponte, quando c’è bisogno di lei? Dove è Joan Phillips e Charles Lane che hanno avanzato nella loro carriera, con il loro lavoro di propaganda e falsità?
Dove è James Harf PR della Ruder / Finn, che ha incassato milioni di dollari promuovendo menzogne e immaginazioni per i governi croati e bosniaci musulmani? Dov'è Chris Hedges, Charlene Hunter Galt, ciarlatani dei media come Maggie O'Kane della stampa britannica ...
Dove è Tom Post che ha scritto l'articolo infame di prima pagina su Newsweek, circa "50.000 stupri di donne musulmane bosniache"? Dove è Sylvia Poggioli che abilmente ha scritto un saggio di disinformazione nella Relazione Neiman ad Harvard? Dove è John Pomfret del Washington Post che ha sostenuto di aver visto "4.000 uomini e ragazzi di Srebrenica che si erano salvati a Tuzla"?
Dove è David Rohde i cui libri e articoli hanno demonizzato il popolo serbo con grande astuzia? E dove è Carol Williams del Los Angeles Times che ha scritto in un anno il giornalismo più odioso, anti-ortodosso e intriso di dogmatismo cattolico, di quanto la maggior parte dei giornalisti potrebbero fare in un decennio?
E, infine, dove sono creature come Minna Schrag, terza procuratrice americana che è stata in prestito al Tribunale dell'Aja, da uno studio legale di New York, e che ha detto agli studiosi di diritto internazionale che: "…E 'stata una nuova esperienza che deve essere un precedente, di poter decidere prima sulle regole delle prove ed alla procedura, di decisioni prese in conversazioni improvvisate nei corridoi del Tribunale Penale per la Jugoslavia.. "?
Se i media e il sistema giuridico sono questi, corrotti e disonesti, i serbi devono correre ai ripari dalla verità, e hanno diritto di poter disprezzare un mondo…che deliberatamente ha manipolato i fatti per demonizzare il popolo serbo con una colpa collettiva, non visto in Europa dal tempo di Hitler, questi sono mostri che hanno fatto della parola "serba" sinonimo di male, un processo inumano in uso ancora oggi…
Che possano marcire all'inferno per questa orribile farsa legale, la Madeleine Albright, il direttore di scena, che dovrebbe essere in piedi sul banco degli imputati all'Aja, insieme con il generale Wesley Clark e William Jefferson Clinton….”…Si chiede su beoforum, W. Dorich
Milosevic non colpevole. M. Albright colpevole di una impresa criminale
(W. Dorich è un autore di numerosi libri sulla storia dei Balcani)
“ …Non sono qui davanti ad un Tribunale illegittimo e illegale, che non riconosco, per difendere Slobodan Milosevic, ma solo per difendere la Jugoslavia e la dignità del popolo serbo, e con essi la verità e la giustizia dei popoli, contro l’arroganza e l’arbitrio dei potenti della terra, che hanno devastato e distrutto il mio paese, e umiliato il mio popolo…”. ( S. Milosevic, L’)
Slobodan Milosevic, prima di morire ha dovuto trascorrere gli ultimi cinque anni della sua vita in carcere, difendendo caparbiamente se stesso e la Serbia dalle false accuse di crimini di guerra nel corso di una guerra, che ora rivelano, stava cercando di fermare. Le accuse più gravi che Milosevic ha dovuto affrontare, tra cui l'accusa di genocidio, erano tutte in relazione alla Bosnia. Ora, dieci anni dopo la sua morte, il TPI dell’Aja ha ammesso che non era colpevole.
Il 30 ottobre 2005 lo stesso Milosevic aveva osservato con grande realismo: “…se questo Tribunale per quanto illegale, riesce anche a ignorare le falsità clamorose contenute negli atti di incriminazione… tanto vale che leggiate la sentenza contro di me, la sentenza che siete stati istruiti ad emettere… Se la Corte non si rende conto dell’assurdità del rinvio a giudizio letto ieri in aula, dove si sostiene che la Jugoslavia non è stata vittima di un attacco della NATO, ma ha aggredito sé stessa, è consigliabile risparmiare tempo e passare direttamente alla sentenza. Leggetela e non mi annoiate…”.
Il TPI ha cercato di non pubblicizzare il fatto che Milosevic era stato giudicato estraneo a crimini di guerra ed alla loro pianificazione. Il Tribunale confidava che le 1.303 pagine riguardanti il presidente jugoslavo e serbo, sepolte tra le 2.590 pagine del verdetto Karadzic, sarebbero rimaste ignorate. Infatti è stato solo grazie a siti serbi e russi, e ad una delle poche eccezioni in occidente, rappresentata dal sito del giornale inglese The Guardian, che questa notizia si è diffusa a livello internazionale.
Occorre ricordare che Slobodan Milosevic è morto per un attacco di cuore appena due settimane dopo che il Tribunale gli aveva negato la sua richiesta di sottoporsi ad un intervento chirurgico al cuore in Russia. E’ stato trovato morto nella sua cella, meno di 72 ore dopo che il suo avvocato aveva consegnato una lettera al Ministero degli Esteri russo in cui denunciava il timore di essere stato avvelenato.
Il rapporto ufficiale del Tribunale sulla motivazione circa la morte, ha confermato che " nel campione di sangue prelevato da Milosevic il 12 gennaio 2006, era stato trovato del Rifamicin (un farmaco non prescritto per le sue cure), e che per intoppi burocratici non era stato comunicato a Milosevic fino al 3 marzo 2006. La presenza di Rifamicin nel sangue di Milosevic avrebbe contrastato il farmaco per l’alta pressione del sangue che egli stava prendendo, aumentando così il rischio di attacco di cuore che alla fine l'ha ucciso.
Il TPI non ha mai effettuato alcuna indagine adeguata ed indipendente, sulle reali cause della morte del presidente Milosevic, i risultati delle indagini interne svolte dal tribunale stesso, sono state bocciate con una riserva della Russia nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, basata su una serie di accertamenti medici, dove è chiaro che al Presidente Milosevic è stato rifiutato un trattamento adeguato, quando a causa della sua malattia, la sua vita era gravemente a rischio, e quindi, che il Tribunale abbia commesso almeno un omicidio giudiziario.
Molti esperti e studiosi internazionali hanno denunciato tutto questo, come un disegno che potenti interessi geopolitici preferivano non far arrivare vivo Milosevic alla fine del suo processo, con la possibilità che finisse assolto e le loro criminali menzogne rivelate. Intercettazioni prese al Dipartimento di Stato USA svelate da Wikileaks, confermano che il Tribunale dell’Aja ha discusso lo stato di salute di Milosevic e le sue cartelle cliniche, con il personale dell'ambasciata degli Stati Uniti all'Aia senza informare nessuno. Perché?
E ORA? Tralasciando alle loro miserie morali e professionali i disinformatori di professione al servizio dei potenti e delle logiche imperialiste occidentali…., cosa faranno i disinformatori sempre opportunamente schierati in linea con il “politicamente corretto” e i disinformatori in buona fede, solo perché “ignoranti”, cioè ignoravano atti e fatti ma sentenziavano e aizzavano contro “Hitler Milosevic”, il “ macellaio dei balcani”, il “criminale genocida”, demonizzandolo come un mostro, diffondendo falsità, menzogne, infamità. Migliaia di giornalisti, politici, esponenti di ONG falsamente umanitarie, pacifinti e utili idioti.
Tutti costoro che sui media sono stati giudici, giuria e boia di Slobodan Milosevic… ORA, CHIEDERANNO SCUSA? Avranno un sussulto etico morale e di coscienza? Abbasseranno il capo e con onestà intellettuale renderanno onore alle centinaia di migliaia di vittime della guerra di Bosnia, si indigneranno per essere stati usati dalla propaganda mediatica di guerra, contribuendo informativamente e oggettivamente alle tragedie e al dolore subito dai popoli di bosniaci e per tutto lo spargimento di sangue in Bosnia? E al popolo serbo e jugoslavo, che, come conseguenza ha subito un criminale embargo e sanzioni durate anni, che hanno immiserito e devastato socialmente e umanamente la propria gente? Staremo a vedere.
Egli è morto lontano dalla sua terra, dal suo paese, dai suoi affetti più cari, dal suo popolo, che solo fino a poche ore prima, aveva ancora fermamente e orgogliosamente difeso dalle menzogne e falsità dei padroni del mondo.
Egli resterà come un simbolo storico del suo popolo, un simbolo di difesa della libertà, della verità, della giustizia, del socialismo serbo e jugoslavo; di difesa dell’indipendenza e dignità nazionali, della resistenza dei popoli all’arroganza e al nuovo fascismo dell’imperialismo.
Un simbolo di onore e dignità, di cui ogni serbo e ogni jugoslavo di oggi e delle future generazioni potrà sempre esserne fiero, potendo guardare chiunque negli occhi con orgoglio, e a testa alta di fronte al mondo ed alla storia.
Cercavano e avrebbero voluto un uomo implorante, supino, arreso e vinto, avrebbero voluto un mercante pronto a barattare la propria vita e la propria storia per una manciata di dollari o euro, o un brandello di futuro. Ma si sono trovati davanti un gigante, un patriota e un combattente fiero e in piedi di fronte a loro, che li ha fronteggiati senza tregua e timori, …e hanno perso, loro.
“…Io sono il vincitore morale! – ha detto Milosevic all’Aia il 30 ottobre 2001. Io sono fiero di ogni cosa da me fatta, perché sempre fatta per il mio popolo ed il mio paese, ed in modo onesto. Io ho solo esercitato il diritto di ogni cittadino a difendere il proprio paese, e questo è il vero motivo per cui mi hanno illegalmente arrestato. Se voi state cercando dei criminali di guerra l’indirizzo non è qui a Scheveningen (il carcere olandese dov’era detenuto, Ndt) ma al Quartier Generale della Nato e nelle capitali occidentali, dove è stata pianificata la distruzione del mio paese, la Jugoslavia, e del mio popolo…. Noi non abbiamo attaccato o aggredito nessuno, ma ci hanno costretto a combattere a casa nostra, per difendere il nostro paese e la nostra terra…
Questo abbiamo fatto e lo rifaremmo perché questa non è un’infamia ma un onore per qualsiasi popolo e uomo…”.
(Slobodan Milosevic 30/08/2001)
A cura di Enrico Vigna, portavoce del Forum Belgrado Italia – Agosto 2016
Alla luce di quanto accaduto, si vogliono riportare in evidenza due articoli scritti tempo addietro, ma utili all’informazione:
Presidente Slobodan Milosevic, Ad Memoriam, Enrico Vigna
Slobodan Milosevic era nato il 20 agosto 1941 a Pozarevac, Serbia. Sì è laureato in Legge all’università di Belgrado nel 1964.Fu prima militante e poi dirigente della Lega dei Comunisti della Jugoslavia e poi del Partito Socialista di Serbia, di cui fu tra i fondatori. A partire dagli anni ottanta era considerato uno dei migliori e più capaci amministratori e funzionari dello Stato della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia.Nell’Aprile 1984 fu nominato Segretario della Federazione di Belgrado della Lega dei Comunisti; dal Maggio 1986 al Maggio 1989 fu presidente del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti e al primo Congresso del Partito Socialista di Serbia nel Luglio 1990 venne eletto Presidente del Partito, che era nato dall’unificazione della Lega dei Comunisti e dall’Unione degli operai e dei socialisti della Serbia.
http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=854:presidente-slobodan-milosevic-ad-memoriam&catid
11 Marzo 2006, Slobodan Milosevic fatto morire dal Tribunale Penale Internazionale della Nato all'Aja
http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=853:11-marzo-2016-noi-non-dimentichiamo&catid
venerdì 18 novembre 2016
LA SINDROME DI UNA CERTA SINISTRA CHE LAVORA PER IL RE DI PRUSSIA
La sindrome risale al 1757, quando Charles de Rohan principe di Soubise, condusse le truppe austro-francesi a una disastrosa sconfitta nella battaglia di Rossbach, in Sassonia, contro i prussiani del re Federico II il Grande, e diventò il simbolo di chi si dà da fare inutilmente, a proprio danno o, peggio, a vantaggio della parte avversa. In tempi più recenti la sindrome è degenerata in “bertinottite” con la scellerata decisione di sfiduciare il governo Prodi, spianando la strada al ventennio berlusconiano. Oggi, il comportamento degli oppositori di Renzi dentro il PD, rischia di favorire pericolosamente la tragica vittoria di un Salvini o di un Grillo. Questi “compagni che sbagliano” non vogliono capire che Renzi non è un politico alieno che, per chissà quale artificio, si è appropriato del nostro partito e che bisogna quindi combattere con tutti i mezzi possibili. È il lavoro fatto ieri dai dirigenti del partito che ha portato Renzi alla segreteria e al governo; non esistendo altre forze alternative di sinistra, Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico. Come si può mai pensare che pattuglie sbandate di compagni indignati “a prescindere”, possano rappresentare “l’alternativa”? Nessuna analisi, nessun progetto, la solita infima minoranza senza alcuna credibilità e radicamento nelle masse popolari e, soprattutto, senza alcuna possibilità di intercettare le speranze e la forza dei nostri militanti e dei nostri elettori. Le loro parole d’ordine, non a caso, coincidono con quelle dei Cobas e degli autonomi.
Il rischio è, al solito, quello di generare amarezza, scoramento e qualunquismo; è un’azione questa che, per dirla con il politologo Nunzio Mastrolia, sta provocando l’impoverimento del ceto medio che “si è degradato da popolo a folla”, il che vuol dire che attraverso gli strumenti della democrazia diretta si rischia di non esprimere “il volere di un popolo sovrano, ma gli umori, le pulsioni, gli scatti, il muggito della folla”. Tra popolo (demos) e folla (oclos), il rischio è l’avvento di un’oscurantista oclocrazia.
Oggi la vera Sinistra vota Sì al referendum; vota Sì perché la semplificazione del sistema istituzionale è indispensabile; vota Sì perché è giusto che ci sia una sola Camera che dà la fiducia; vota Sì per ridurre drasticamente i costi della politica; vota Sì perché non è pensabile che uno stato moderno ed efficiente cambi governo ogni anno; vota Sì per rendere meno soffocante la burocrazia; vota Sì perchè in Europa questa riforma, se passa, viene letta come la continuazione di un tentativo dell'Italia di riformarsi e questo può aprire le strade a una maggiore flessibilità nei conti, un'azione più spinta verso gli investimenti.
La Sinistra che vota no è la sinistra che gioca a perdere, quella che ha paura di governare che si accontenta delle miserevoli rendite di posizione fornite dal ribellismo viscerale. Alle nostre latitudini poi, esiste una certa sinistra che cerca di confondere le acque dicendo che se vince il Sì vincono le banche e, ironia del destino, in banca ci lavora… che abusa del glorioso simbolo del PCI mentre farebbe meglio a rivolgersi alle amorevoli cure del WWF, e da una patetica pattuglia di presunti militanti dell’Anpi che, in evidente stato confusionale, agitano fantasmi che ormai allignano esclusivamente nelle loro stanche menti.
Franco Arcidiaco
Il rischio è, al solito, quello di generare amarezza, scoramento e qualunquismo; è un’azione questa che, per dirla con il politologo Nunzio Mastrolia, sta provocando l’impoverimento del ceto medio che “si è degradato da popolo a folla”, il che vuol dire che attraverso gli strumenti della democrazia diretta si rischia di non esprimere “il volere di un popolo sovrano, ma gli umori, le pulsioni, gli scatti, il muggito della folla”. Tra popolo (demos) e folla (oclos), il rischio è l’avvento di un’oscurantista oclocrazia.
Oggi la vera Sinistra vota Sì al referendum; vota Sì perché la semplificazione del sistema istituzionale è indispensabile; vota Sì perché è giusto che ci sia una sola Camera che dà la fiducia; vota Sì per ridurre drasticamente i costi della politica; vota Sì perché non è pensabile che uno stato moderno ed efficiente cambi governo ogni anno; vota Sì per rendere meno soffocante la burocrazia; vota Sì perchè in Europa questa riforma, se passa, viene letta come la continuazione di un tentativo dell'Italia di riformarsi e questo può aprire le strade a una maggiore flessibilità nei conti, un'azione più spinta verso gli investimenti.
La Sinistra che vota no è la sinistra che gioca a perdere, quella che ha paura di governare che si accontenta delle miserevoli rendite di posizione fornite dal ribellismo viscerale. Alle nostre latitudini poi, esiste una certa sinistra che cerca di confondere le acque dicendo che se vince il Sì vincono le banche e, ironia del destino, in banca ci lavora… che abusa del glorioso simbolo del PCI mentre farebbe meglio a rivolgersi alle amorevoli cure del WWF, e da una patetica pattuglia di presunti militanti dell’Anpi che, in evidente stato confusionale, agitano fantasmi che ormai allignano esclusivamente nelle loro stanche menti.
Franco Arcidiaco
domenica 11 settembre 2016
CALABRIA LETTERARIA. Editoriale
Partiamo con una nuova avventura editoriale ancorata, però, a radici consolidate.
Memori dell’ammonimento del matematico e scrittore inglese, reverendo Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carroll che, nel suo celeberrimo Alice nel paese delle meraviglie, ammoniva: «No, no! prima le avventure. Le spiegazioni sono lungaggini noiose», non vi annoieremo con dissertazioni motivazionali e ci limiteremo a chiedervi di intraprendere al nostro fianco quest’avventura.
Calabria Letteraria rinasce, dunque, dalle sue ceneri con una nuova e più moderna veste grafica, con una compagine redazionale nuova di zecca, affidata alla giovane e brava scrittrice Federica Legato, ma sempre sotto la guida sicura di Franco Del Buono e la spiritual-guidance del mitico Emilio Frangella che la fondò nel 1952 e la diresse per oltre mezzo secolo fino al giorno della sua scomparsa nel 2008.
La Nuova Calabria Letteraria rivolgerà uno sguardo attento alla produzione editoriale regionale, ma non disdegnerà incursioni nelle vaste praterie della letteratura nazionale e mondiale. Troveranno spazio nella rivista anche contributi saggistici di carattere socio-antropologico e storico, purché attinenti con il tema centrale che è la Letteratura assieme alla sua “nobile porzione”, la Poesia, per dirla con Giovanni Andrés che, nel primo volume della sua opera fondamentale Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, apparso in Parma nel 1782, aggiungeva: “La poesia, prima letteratura ‘de Greci, si può considerare come figlia o sorella della Musica”.
La veste grafica e l’impaginazione sono state completamente rinnovate, un restyling necessario al fine di rendere la rivista più maneggevole e vicina ai gusti dei “nativi digitali”; non crediamo affatto che le nuove generazioni disdegnino la carta, ci rendiamo conto però che è cambiato il modo di accostarsi alla lettura e intendiamo quindi favorire la “leggibilità” del nostro prodotto editoriale. Manteniamo, invece, la tradizione di ospitare in copertina una foto d’autore raffigurante un luogo della nostra regione; in questo primo numero troverete un’immagine classica del lungomare Italo Falcomatà di Reggio, opera di Giuseppe Vizzari, grande foto reporter reggino più volte ospite delle pagine del National Geographic.
La Nuova Calabria Letteraria manterrà la periodicità trimestrale e sarà distribuita in tutte le librerie e le edicole-librarie calabresi; i nostri distributori di Firenze e Torino ne garantiranno inoltre la presenza su tutto il territorio nazionale. Per quanto riguarda il mercato digitale sarà facilmente acquistabile sul nostro sito www.cdse.it e su tutte le principali librerie online. Contiamo molto sulla campagna abbonamenti, che è indispensabile per la nostra indipendenza economica; spediremo questo numero a tutti i vecchi abbonati con una vantaggiosa proposta di rinnovo dell’abbonamento.
La pubblicità rispetterà rigorosamente il vincolo settoriale e saranno riservate condizioni particolarmente vantaggiose agli editori calabresi. Riconosciamo il ruolo fondamentale degli Editori per lo sviluppo e la diffusione della cultura e, per questo motivo, seguendo l’ammonimento di Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault , non troveranno spazio nelle nostre pagine i libri realizzati in self-publishing sia diretto che indiretto, tramite, cioè, gli editori a pagamento (quelli che nei paesi anglosassoni chiamano Vanity-press). In quelle pagine Eco rammenta quanto lungo sia il cammino perché ci si possa davvero definire Scrittore; non sbeffeggia i dilettanti ma pone loro un punto di riferimento verso l’alto. Crea due sigle editoriali fittizie la Garamond e la Manuzio che non sono metafore, ma corrispondono a concrete realtà: colui che si crede Scrittore a dispetto di ogni ragionevole evidenza, merita di essere punito dal meccanismo dell’editoria a pagamento, e l’unico titolo di cui potrà fregiarsi sarà quello di APS, Autore Proprie Spese. Che tutti i Manuzio del mondo gli estorcano una quantità di denaro proporzionata alla presunzione! Al contrario, chi con volontà e senso critico si accosta alla Scrittura, venga accolto e pubblicato da una Garamond qualsiasi, magari non diventerà una star, ma la sua capacità verrà premiata.
Il nostro auspicio è che finalmente veda la luce una legge regionale che disciplini il settore dell’editoria calabrese e che riconosca il ruolo fondamentale degli Editori, con l’istituzione di un apposito albo professionale. Auspichiamo inoltre una politica di indirizzo verso le Istituzioni Scolastiche, affinché trovino spazio tra i banchi di scuola la Letteratura e la Storia calabrese, colpevolmente ignorate da un corpo insegnante affetto da sindrome colonialista che ha di fatto marginalizzato la nostra cultura sottraendo a intere generazioni la possibilità di accostarvisi.
La collaborazione alla rivista è volontaria e gratuita e la pubblicazione dei pezzi è ad esclusiva discrezione del direttore editoriale Franco Del Buono al quale sin d’ora va il nostro ringraziamento e un sentito Buon lavoro!
Franco Arcidiaco e Antonella Cuzzocrea
Memori dell’ammonimento del matematico e scrittore inglese, reverendo Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carroll che, nel suo celeberrimo Alice nel paese delle meraviglie, ammoniva: «No, no! prima le avventure. Le spiegazioni sono lungaggini noiose», non vi annoieremo con dissertazioni motivazionali e ci limiteremo a chiedervi di intraprendere al nostro fianco quest’avventura.
Calabria Letteraria rinasce, dunque, dalle sue ceneri con una nuova e più moderna veste grafica, con una compagine redazionale nuova di zecca, affidata alla giovane e brava scrittrice Federica Legato, ma sempre sotto la guida sicura di Franco Del Buono e la spiritual-guidance del mitico Emilio Frangella che la fondò nel 1952 e la diresse per oltre mezzo secolo fino al giorno della sua scomparsa nel 2008.
La Nuova Calabria Letteraria rivolgerà uno sguardo attento alla produzione editoriale regionale, ma non disdegnerà incursioni nelle vaste praterie della letteratura nazionale e mondiale. Troveranno spazio nella rivista anche contributi saggistici di carattere socio-antropologico e storico, purché attinenti con il tema centrale che è la Letteratura assieme alla sua “nobile porzione”, la Poesia, per dirla con Giovanni Andrés che, nel primo volume della sua opera fondamentale Dell'origine, progressi e stato attuale d'ogni letteratura, apparso in Parma nel 1782, aggiungeva: “La poesia, prima letteratura ‘de Greci, si può considerare come figlia o sorella della Musica”.
La veste grafica e l’impaginazione sono state completamente rinnovate, un restyling necessario al fine di rendere la rivista più maneggevole e vicina ai gusti dei “nativi digitali”; non crediamo affatto che le nuove generazioni disdegnino la carta, ci rendiamo conto però che è cambiato il modo di accostarsi alla lettura e intendiamo quindi favorire la “leggibilità” del nostro prodotto editoriale. Manteniamo, invece, la tradizione di ospitare in copertina una foto d’autore raffigurante un luogo della nostra regione; in questo primo numero troverete un’immagine classica del lungomare Italo Falcomatà di Reggio, opera di Giuseppe Vizzari, grande foto reporter reggino più volte ospite delle pagine del National Geographic.
La Nuova Calabria Letteraria manterrà la periodicità trimestrale e sarà distribuita in tutte le librerie e le edicole-librarie calabresi; i nostri distributori di Firenze e Torino ne garantiranno inoltre la presenza su tutto il territorio nazionale. Per quanto riguarda il mercato digitale sarà facilmente acquistabile sul nostro sito www.cdse.it e su tutte le principali librerie online. Contiamo molto sulla campagna abbonamenti, che è indispensabile per la nostra indipendenza economica; spediremo questo numero a tutti i vecchi abbonati con una vantaggiosa proposta di rinnovo dell’abbonamento.
La pubblicità rispetterà rigorosamente il vincolo settoriale e saranno riservate condizioni particolarmente vantaggiose agli editori calabresi. Riconosciamo il ruolo fondamentale degli Editori per lo sviluppo e la diffusione della cultura e, per questo motivo, seguendo l’ammonimento di Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault , non troveranno spazio nelle nostre pagine i libri realizzati in self-publishing sia diretto che indiretto, tramite, cioè, gli editori a pagamento (quelli che nei paesi anglosassoni chiamano Vanity-press). In quelle pagine Eco rammenta quanto lungo sia il cammino perché ci si possa davvero definire Scrittore; non sbeffeggia i dilettanti ma pone loro un punto di riferimento verso l’alto. Crea due sigle editoriali fittizie la Garamond e la Manuzio che non sono metafore, ma corrispondono a concrete realtà: colui che si crede Scrittore a dispetto di ogni ragionevole evidenza, merita di essere punito dal meccanismo dell’editoria a pagamento, e l’unico titolo di cui potrà fregiarsi sarà quello di APS, Autore Proprie Spese. Che tutti i Manuzio del mondo gli estorcano una quantità di denaro proporzionata alla presunzione! Al contrario, chi con volontà e senso critico si accosta alla Scrittura, venga accolto e pubblicato da una Garamond qualsiasi, magari non diventerà una star, ma la sua capacità verrà premiata.
Il nostro auspicio è che finalmente veda la luce una legge regionale che disciplini il settore dell’editoria calabrese e che riconosca il ruolo fondamentale degli Editori, con l’istituzione di un apposito albo professionale. Auspichiamo inoltre una politica di indirizzo verso le Istituzioni Scolastiche, affinché trovino spazio tra i banchi di scuola la Letteratura e la Storia calabrese, colpevolmente ignorate da un corpo insegnante affetto da sindrome colonialista che ha di fatto marginalizzato la nostra cultura sottraendo a intere generazioni la possibilità di accostarvisi.
La collaborazione alla rivista è volontaria e gratuita e la pubblicazione dei pezzi è ad esclusiva discrezione del direttore editoriale Franco Del Buono al quale sin d’ora va il nostro ringraziamento e un sentito Buon lavoro!
Franco Arcidiaco e Antonella Cuzzocrea
domenica 28 agosto 2016
TIZIANEDDA: BLOGGER O SCRITTRICE COI FIOCCHI?
Non nutro alcun dubbio: Marcello Marchesi, dalla nuvoletta modello Lavazza sulla quale si trova appollaiato dal 1978, non potrà che essere orgoglioso di questa sua discepola Tizianeda che lo annovera tra i suoi numi ispiratori (vedi titolo del blog e del libro e citazione in epigrafe nel frontespizio) e ne ha incarnata la freschezza umoristica, geniale e lapidaria, della scrittura. Confesso di non amare molto i blog, soprattutto quelli tenuti da scrittori (Marchesi si farebbe una risata a sentir parlare di blogger); considero la narrativa una faccenda molto seria, una delle ragioni della mia vita, e non mi piace spiluccare le pietanze degli scrittori, lo trovo riduttivo e semplicistico; come, d’altra parte, detesto le apericene, le quali, oltre che un orrendo neologismo, sono la vera piaga dei nostri tempi. Il mio blog, e lo dico solo per prevenire qualche obiezione, è semplicemente un archivio-armadio dei miei scritti, e poi… non sono nemmeno uno scrittore. Riserverò, pertanto, a Tiziana Calabrò poche cliccate, ma sono già in coda fuori dalla libreria per aspettare l’uscita del suo prossimo libro.
“La medaglia del rovescio”, pubblicato dal mio grande (in tutti sensi) amico Paolo Falzea, è un libro godibilissimo scritto magnificamente da una scrittrice che possiede le tre principali doti
del grande umorista: la sagacia psicologica, l'ironica indulgenza e la tenera malinconia, in più fatemi sdoganare, e tra un po’capirete perché, la tanto bistrattata nostalgia che ormai, chissà perché, è relegata nell’elenco delle pratiche da evitare. Le pagine di Tizianeda mi hanno fatto riaffiorare alla mente l'agilità, l'entusiasmo e la verve di una grande giornalista, Donata Kalliany, oggi pimpante settantaseienne, che negli anni ’80 tenne rubriche memorabili su “Amica”, “King” e “Moda”. Tra le sue parole, intrise di scoppiettante quotidianità, affiorano i ricordi, i fatti, le dinamiche di un invidiabile rapporto di coppia (mitica la figura dello “sposo errante”) e numerosi irresistibili sketch di vicende infantili e adolescenziali. La sua scrittura in prima persona prende forma narrativa e, tra battute, gag e calembour, la funambola (come ama definirsi, anche ossessivamente, Tiziana) diventa una scrittrice coi fiocchi che consegna alle stampe un irresistibile monologo-fiume comico, tenero, dissennato, umano. Memore dell’ammonimento del nostro grande maestro Marcello Marchesi (“È sbagliato raccontar le favole ai bambini per ingannarli, bisogna raccontarle ai grandi per consolarli”), Tiziana si guarda bene dal cadere nella classica trappola della mamma-scrittrice-modello-inventa-favole, e si rivolge a tutti i lettori, ai quali, come diceva Umberto Eco, bisogna dare ciò che non sanno di volere. Tra i compiti dello scrittore c’è anche quello di inventare nuovi linguaggi che, però, non debbono crearsi meccanicamente sulla base di chissà quali analisi astruse; è sufficiente che siano espressione dell’unico gusto che lo scrittore può conoscere davvero, cioè il suo proprio. Ed il gusto di Tiziana è raffinatissimo, a prova di palati esigenti. Il successo di questo libro, che supera con nonchalance anche l’handicap di una copertina non proprio fulminante, dimostra che per uno scrittore che narra col cuore e con mano libera e serena, c’è sempre la possibilità di pubblico, senza bisogno di ricorrere agli artifizi di maghi e maghetti o alle sfumature multicolori intrise di scene bollenti di matrice catto-pornografica. E veniamo ora alla parte più difficile di questa recensione e a quella nostalgia di cui parlavo prima; in questo libro ci sono io e non metaforicamente, ma in carne ed ossa. Conosco bene la famiglia d’origine (ramo materno, ma anche un po’ quello paterno) di Tiziana, ma la differenza d’età intercorrente tra noi non mi faceva nemmeno immaginare che potessero esistere ricordi comuni così vividi. Grande è stata l’emozione quando la coinvolgente penna di Tiziana mi ha catapultato dentro Casa Scalfari di via Marvasi, dentro la quale sono materialmente nato (negli anni ’50 si nasceva ancora tra le mura domestiche, e i miei genitori erano inquilini degli Scalfari), facendo materializzare davanti ai miei occhi, come un ologramma, la figura di sua nonna Bianca e della figlia Mara, madre di Tiziana, con tutti i profumi e le atmosfere e, soprattutto, con quella statuetta di San Francesco di Paola inserita dentro una campana di vetro e posta sopra una colonna al fianco di un enorme armadio a specchio “…che se aprivi l’anta cigolava… uno specchio che deforma la figura e la nonna diceva che se ci guardavi troppo, potevi vedere il diavolo”. Tiziana dice che il diavolo non l’ha mai visto nessuno lì dentro, ma a me quello che faceva paura davvero non era il diavolo, ma proprio quel San Francesco, che mi veniva indicato come l’inesorabile e spietato giudice della mia discolaggine. Impareggiabile anche la descrizione del quartiere, nel quale “si conoscevano tutti e tutti avevano rapporti cordiali” e la figura mitica (almeno per me e Aldo Varano, altro abitante del quartiere, con il quale ne abbiamo parlato di recente) di “una prostituta ormai in pensione”. “Era lì da sempre. Il mestiere della donna, i nipoti della nonna Bianca, lo hanno scoperto molti anni dopo. Per loro era solo una donna dagli orecchini d’oro che le pendevano dai lobi molli tirati giù dalla vecchiaia, i capelli ostinatamente neri, il viso lungo e ossuto, le labbra cadenti e violacee, la pelle spessa e scura e una voce che pareva arrivasse da mondi lontani e di tenebra”. Se Tiziana avesse pubblicato una foto di quella donna, non avrebbe sortito lo stesso realistico effetto, “La sua casa era una stanza di oggetti e mobili ammassati, con un letto enorme e prepotente a occupare quasi l’intero spazio. C’era sempre un odore strano, di polvere e muffa, un odore di scatola di cartone bagnato, incollato alle cose e alla carta da parato fiorata. Il quartiere era accogliente e le donne timorate di Dio e frequentatrici assidue di chiese e rosari, mostravano affetto e solidarietà per quella donna così diversa da loro e con una vita affatto scontata, che aveva conosciuto le nudità di molti uomini”. Tiziana maneggia abilmente la forza evocatrice della grande narrativa a conferma delle sue grandi doti di scrittrice e fa bene a prendere le distanze da quella “rovina famiglie” di Virginia Woolf quando, a pagina 35, scrive della possibilità di “essere donna senza una stanza tutta per sé dentro la quale a volte scomparire… insomma, dentro questo frullatore (della quotidianità), il prodigio succede”.
Franco Arcidiaco
Tiziana Calabrò, La medaglia del rovescio, Falzea Editore, 2016.
“La medaglia del rovescio”, pubblicato dal mio grande (in tutti sensi) amico Paolo Falzea, è un libro godibilissimo scritto magnificamente da una scrittrice che possiede le tre principali doti
del grande umorista: la sagacia psicologica, l'ironica indulgenza e la tenera malinconia, in più fatemi sdoganare, e tra un po’capirete perché, la tanto bistrattata nostalgia che ormai, chissà perché, è relegata nell’elenco delle pratiche da evitare. Le pagine di Tizianeda mi hanno fatto riaffiorare alla mente l'agilità, l'entusiasmo e la verve di una grande giornalista, Donata Kalliany, oggi pimpante settantaseienne, che negli anni ’80 tenne rubriche memorabili su “Amica”, “King” e “Moda”. Tra le sue parole, intrise di scoppiettante quotidianità, affiorano i ricordi, i fatti, le dinamiche di un invidiabile rapporto di coppia (mitica la figura dello “sposo errante”) e numerosi irresistibili sketch di vicende infantili e adolescenziali. La sua scrittura in prima persona prende forma narrativa e, tra battute, gag e calembour, la funambola (come ama definirsi, anche ossessivamente, Tiziana) diventa una scrittrice coi fiocchi che consegna alle stampe un irresistibile monologo-fiume comico, tenero, dissennato, umano. Memore dell’ammonimento del nostro grande maestro Marcello Marchesi (“È sbagliato raccontar le favole ai bambini per ingannarli, bisogna raccontarle ai grandi per consolarli”), Tiziana si guarda bene dal cadere nella classica trappola della mamma-scrittrice-modello-inventa-favole, e si rivolge a tutti i lettori, ai quali, come diceva Umberto Eco, bisogna dare ciò che non sanno di volere. Tra i compiti dello scrittore c’è anche quello di inventare nuovi linguaggi che, però, non debbono crearsi meccanicamente sulla base di chissà quali analisi astruse; è sufficiente che siano espressione dell’unico gusto che lo scrittore può conoscere davvero, cioè il suo proprio. Ed il gusto di Tiziana è raffinatissimo, a prova di palati esigenti. Il successo di questo libro, che supera con nonchalance anche l’handicap di una copertina non proprio fulminante, dimostra che per uno scrittore che narra col cuore e con mano libera e serena, c’è sempre la possibilità di pubblico, senza bisogno di ricorrere agli artifizi di maghi e maghetti o alle sfumature multicolori intrise di scene bollenti di matrice catto-pornografica. E veniamo ora alla parte più difficile di questa recensione e a quella nostalgia di cui parlavo prima; in questo libro ci sono io e non metaforicamente, ma in carne ed ossa. Conosco bene la famiglia d’origine (ramo materno, ma anche un po’ quello paterno) di Tiziana, ma la differenza d’età intercorrente tra noi non mi faceva nemmeno immaginare che potessero esistere ricordi comuni così vividi. Grande è stata l’emozione quando la coinvolgente penna di Tiziana mi ha catapultato dentro Casa Scalfari di via Marvasi, dentro la quale sono materialmente nato (negli anni ’50 si nasceva ancora tra le mura domestiche, e i miei genitori erano inquilini degli Scalfari), facendo materializzare davanti ai miei occhi, come un ologramma, la figura di sua nonna Bianca e della figlia Mara, madre di Tiziana, con tutti i profumi e le atmosfere e, soprattutto, con quella statuetta di San Francesco di Paola inserita dentro una campana di vetro e posta sopra una colonna al fianco di un enorme armadio a specchio “…che se aprivi l’anta cigolava… uno specchio che deforma la figura e la nonna diceva che se ci guardavi troppo, potevi vedere il diavolo”. Tiziana dice che il diavolo non l’ha mai visto nessuno lì dentro, ma a me quello che faceva paura davvero non era il diavolo, ma proprio quel San Francesco, che mi veniva indicato come l’inesorabile e spietato giudice della mia discolaggine. Impareggiabile anche la descrizione del quartiere, nel quale “si conoscevano tutti e tutti avevano rapporti cordiali” e la figura mitica (almeno per me e Aldo Varano, altro abitante del quartiere, con il quale ne abbiamo parlato di recente) di “una prostituta ormai in pensione”. “Era lì da sempre. Il mestiere della donna, i nipoti della nonna Bianca, lo hanno scoperto molti anni dopo. Per loro era solo una donna dagli orecchini d’oro che le pendevano dai lobi molli tirati giù dalla vecchiaia, i capelli ostinatamente neri, il viso lungo e ossuto, le labbra cadenti e violacee, la pelle spessa e scura e una voce che pareva arrivasse da mondi lontani e di tenebra”. Se Tiziana avesse pubblicato una foto di quella donna, non avrebbe sortito lo stesso realistico effetto, “La sua casa era una stanza di oggetti e mobili ammassati, con un letto enorme e prepotente a occupare quasi l’intero spazio. C’era sempre un odore strano, di polvere e muffa, un odore di scatola di cartone bagnato, incollato alle cose e alla carta da parato fiorata. Il quartiere era accogliente e le donne timorate di Dio e frequentatrici assidue di chiese e rosari, mostravano affetto e solidarietà per quella donna così diversa da loro e con una vita affatto scontata, che aveva conosciuto le nudità di molti uomini”. Tiziana maneggia abilmente la forza evocatrice della grande narrativa a conferma delle sue grandi doti di scrittrice e fa bene a prendere le distanze da quella “rovina famiglie” di Virginia Woolf quando, a pagina 35, scrive della possibilità di “essere donna senza una stanza tutta per sé dentro la quale a volte scomparire… insomma, dentro questo frullatore (della quotidianità), il prodigio succede”.
Franco Arcidiaco
Tiziana Calabrò, La medaglia del rovescio, Falzea Editore, 2016.
domenica 14 agosto 2016
CHI ERA VERAMENTE WILLIAM SHAKESPEARE?
I misteri che girano attorno a William Shakespeare rappresentano una faccenda molto complessa e meritano ancora approfondimenti e studi seri e storicamente attendibili anche perché i loro effetti potrebbero risultare dirompenti. D’altra parte provate a immaginare cosa potrebbe succedere se si scoprisse che l’uomo che si faceva chiamare William Shakespeare, l’autore più famoso al mondo, in realtà era un impostore? E che i capolavori passati alla storia sotto il suo nome non erano frutto del suo ingegno? Insomma, cosa accadrebbe se si venisse a sapere, a quattrocento anni dalla sua morte, che il Bardo “rubava” le opere altrui? Praticamente, una sorta di produttore truffaldino che firmava in prima persona le commedie, le tragedie e i sonetti che aveva commissionato ad altri. Una teoria sconvolgente, che molti – da Samuel Taylor Coleridge a Mark Twain, da Charles Dickens a Henry James – hanno sostenuto in passato, e che, più recentemente, ha trovato in due siciliani, Domenico Seminerio e Martino Iuvara, gli studiosi più tenaci che hanno prodotto i lavori più credibili e più godibili anche dal punto di vista letterario. Il lavoro di Domenico Seminerio, “Il manoscritto di Shakespeare”, è stato pubblicato da Sellerio, quello di Martino Iuvara “Shakespeare era italiano” è stato pubblicato in proprio nel 2002, ma sarà ripubblicato entro la fine di quest’anno dalla mia casa editrice. In circolazione ci sono parecchi altri libri, tutti con un taglio da thriller o da spy story, perché naturalmente la materia è ghiotta e i vari emuli di Dan Brown non si lasciano scappare l’occasione di accalappiare lettori appassionati di misteriosi intrighi pseudo storici. Ci sono cascato anch’io con un certo John Underwood che ha pubblicato, per Newton Compton, “Il libro segreto di Shakespeare”. Mi sono lasciato ingannare dalla veste grafica accattivante e dall’argomento che è oggetto della mia attenzione per i motivi di cui sopra. L’ho abbandonato alle prime pagine, illeggibile per l’impostazione confusionaria e per i continui flashback che ne appesantiscono inutilmente la lettura. Domenico Seminerio ha dato ben altra prova di scrittura ed è stato veramente magistrale e coinvolgente nell’imbastire una vicenda con riferimenti storici credibili.
domenica 24 luglio 2016
NANNI, UN SOGNATORE IN BILICO TRA PIAZZA MAGGIORE E IL CIMITERO DI ARCHI
Con un’equazione imperfetta potremmo dire che Bologna non sta ad Archi come invece Stefano Benni sta a Nanni Barbaro.
In queste pagine, che fluttuano disinvoltamente tra il surreale e il beffardo senza disdegnare qualche puntatina sul tragico, Nanni esprime chiaramente lo stupore di chi torna a fare i conti con il proprio luogo natio e si rende conto, invece, che quei conti non hanno proprio nessuna voglia di… tornare.
Luoghi e personaggi, che probabilmente solo il fuoco evocativo della nostalgia aveva reso ammalianti e fantastici, si mostrano nella loro vera essenza e mettono lo scrittore nella cruda necessità di descriverli in modo impietoso. È a questo punto che viene fuori l’estro del narratore e Nanni riesce con maestria a dipanare i racconti mischiando sapientemente echi benniani e gucciniani (la Archi di Nanni ne ricorda un po’ il West domestico modenese, di “Tra la via Emilia e il West”), sotto l’occhio vigile del suo amato Faber.
Assolutamente esilaranti le historie de li Santi Frati Liquiriziani Larenzu et Limitri scritte in un farsesco slang che sembra discendere direttamente dalle lingue d’oc e d’oïl e dalla musicalità del volgare italiano dantesco.
Bravo Nanni che, incapace di sfuggire al fatale fascino ammaliatore delle sirene dello Stretto, “Sulle sponde dello Stretto mi sono seduto e ho riso”, è riuscito a rivestire di un’indulgente coltre fantastica e poetica la cruda realtà di una terra come la nostra ospitale solo con i forestieri ma matrigna dei suoi figli.
In queste pagine, che fluttuano disinvoltamente tra il surreale e il beffardo senza disdegnare qualche puntatina sul tragico, Nanni esprime chiaramente lo stupore di chi torna a fare i conti con il proprio luogo natio e si rende conto, invece, che quei conti non hanno proprio nessuna voglia di… tornare.
Luoghi e personaggi, che probabilmente solo il fuoco evocativo della nostalgia aveva reso ammalianti e fantastici, si mostrano nella loro vera essenza e mettono lo scrittore nella cruda necessità di descriverli in modo impietoso. È a questo punto che viene fuori l’estro del narratore e Nanni riesce con maestria a dipanare i racconti mischiando sapientemente echi benniani e gucciniani (la Archi di Nanni ne ricorda un po’ il West domestico modenese, di “Tra la via Emilia e il West”), sotto l’occhio vigile del suo amato Faber.
Assolutamente esilaranti le historie de li Santi Frati Liquiriziani Larenzu et Limitri scritte in un farsesco slang che sembra discendere direttamente dalle lingue d’oc e d’oïl e dalla musicalità del volgare italiano dantesco.
Bravo Nanni che, incapace di sfuggire al fatale fascino ammaliatore delle sirene dello Stretto, “Sulle sponde dello Stretto mi sono seduto e ho riso”, è riuscito a rivestire di un’indulgente coltre fantastica e poetica la cruda realtà di una terra come la nostra ospitale solo con i forestieri ma matrigna dei suoi figli.
sabato 2 luglio 2016
ENZO LACARIA MAESTRO DI GIORNALISMO
Se io dico che Enzo Lacaria (il compagno Enzo Lacaria) era un maestro di giornalismo, lo dico per un semplice motivo: Enzo Lacaria è stato il mio maestro di giornalismo, in quei formidabili anni in cui a Reggio è esistita la redazione di Paese Sera. Lidia Rossi mi telefonò una sera per dirmi che sarebbe presto partita per un viaggio in Perù (un viaggio maledetto dal quale sarebbe poi ritornata devastata) e mi offrì il suo posto in redazione. Arrivai in quel prestigioso giornale con alle spalle solo qualche esperienza di fogli ciclostilati e di giornalini scolastici. Enzo mi insegnò mille cose, e soprattutto mi insegnò che le inchieste si fanno cercando fonti dirette e scarpinando sui marciapiedi e non certo riciclando le veline di inquirenti compiacenti e interessati. A te il compito, caro Enzo, di stabilire da lassù se esiste ancora qualche flebile traccia del tuo giornalismo.
domenica 19 giugno 2016
NIENTE LACRIME PER GLI INUIT
Ho finito di leggere “Prima di domani” di Jørn Riel e vorrei che qualcuno mi spiegasse perché mai dovremmo strapparci i capelli per la scomparsa del popolo Inuit. Un popolo di violenti selvaggi trogloditi che passava il suo tempo a sterminare ferocemente innocui animali, a stuprare donne e a massacrare antagonisti per futili motivi; per non parlare dell’abitudine, nei tempi di carestia, di esporre le neonate femmine, nude, sul terreno ghiacciato. Frequenti erano, inoltre, gli episodi di cannibalismo.
Tutto questo viene narrato, con ammirato candore, dal nostro ineffabile autore evidentemente inebetito da un senso di incredibile nostalgia. Una natura meravigliosa e incontaminata, devastata da un’etnia che non è stata capace di superare il primo gradino dello stato evolutivo e si è auto-cancellata dalla faccia della terra. E non stiamo parlando della preistoria, Riel colloca la scomparsa dell’ultima Inuit nel 1860!
È incredibile costatare il livello di degrado raggiunto da certa pubblicistica pseudo-ambientalista che, obnubilata da cieco furore ideologico, persegue disinvoltamente e irresponsabilmente l’eterogenesi dei fini, impedendo di analizzare serenamente e scientificamente le dinamiche storico-antropologiche che regolano la storia dell’umanità.
Questa casa editrice “Iperborea” ad ogni libro letto si rivela un bluff ed una promessa mancata, per non parlare della scomodità del formato della sua collana più diffusa e della scarsa qualità delle traduzioni e dell’editing.
Jørn Riel, Prima di domani, Iperborea 2009
Tutto questo viene narrato, con ammirato candore, dal nostro ineffabile autore evidentemente inebetito da un senso di incredibile nostalgia. Una natura meravigliosa e incontaminata, devastata da un’etnia che non è stata capace di superare il primo gradino dello stato evolutivo e si è auto-cancellata dalla faccia della terra. E non stiamo parlando della preistoria, Riel colloca la scomparsa dell’ultima Inuit nel 1860!
È incredibile costatare il livello di degrado raggiunto da certa pubblicistica pseudo-ambientalista che, obnubilata da cieco furore ideologico, persegue disinvoltamente e irresponsabilmente l’eterogenesi dei fini, impedendo di analizzare serenamente e scientificamente le dinamiche storico-antropologiche che regolano la storia dell’umanità.
Questa casa editrice “Iperborea” ad ogni libro letto si rivela un bluff ed una promessa mancata, per non parlare della scomodità del formato della sua collana più diffusa e della scarsa qualità delle traduzioni e dell’editing.
Jørn Riel, Prima di domani, Iperborea 2009
venerdì 13 maggio 2016
È ANTONIO CALABRÒ L'EREDE DI MARIO LA CAVA
Stimo tanto Antonio da perdonargli i Ray-Ban a specchio che sfoggia nella foto del libro e soprattutto la sua condizione di astemio, che rimarca più volte nelle pagine di questo suo bellissimo romanzo. Lo conosco da un paio di decenni, abbiamo in comune Marina di San Lorenzo come buen retiro, e apprezzo la sua scrittura da quando si cimentava sui vari giornali nelle colonne delle “Lettere al direttore” e collaborava al mio “Laltrareggio”. I suoi editoriali su ZoomSud, al netto di qualche rigurgito incontrollato di antipolitica, sono quanto di più serio, illuminante e appassionato si possa leggere oggi tra le colonne di un giornale, online o cartaceo, locale o nazionale che sia. La sua attività culturale, con la rassegna “Calabria d’autore”, ha portato una ventata di freschezza nello stagnante e polveroso mondo dei salotti culturali cittadini.
Questi “Viaggi calabresi di un capotreno esistenziale”, come recita il sottotitolo del volume edito dalla Disoblio di Salvatore Bellantone, sono una vera chicca e meriterebbero di trovare spazio nelle case di riggitani e reggini di ogni età e ceto e, soprattutto, tra i banchi di scuola.
Lo dovrebbero leggere principalmente i giovani, quei giovani tanto apprezzati dall’autore al punto da considerarli (anche quando svolge la sua professione di capotreno) una specie protetta. “Si dovrebbero proteggere questi giovani degli anni duemila. Proteggere dai loro desideri indotti, quegli schifosissimi desideri frutto del bombardamento culturale che ormai da decenni infuria sulle nostre teste”. Anche se, con amarezza, Antonio (“Un passato da bastaso da difendere”) è costretto a sottolineare “la nuova mutazione del ragazzo calabrese, che aggiunge all’arroganza di una volontà di potenza plastificata anche il suo retaggio di violenza e di falso onore”; la chiosa che ne consegue è drammatica: “Il ragno invisibile che non è la ‘ndrangheta badate bene. Semmai è la necessità della ‘ndrangheta. Quello fa paura”, per chiudere: “Siamo spacciati, mi verrebbe da dire”.
Ma Antonio ha le idee chiare sulle cause di tutto ciò, emarginazione e sottosviluppo sopra tutte: “L’ingiustizia è così palese che non c’è neanche bisogno di spiegarla, ci vorrebbe una svolta autentica, ci vorrebbero ricette anche drammaticamente di rottura, restando così il futuro è un pozzo nero, un incubo di ibridazioni tra il peggio della modernità e il peggio della tradizione”.
L’espediente narrativo utilizzato dall’autore, oltre ad essere spontaneo e naturale, considerata appunto la sua professione, racchiude la quintessenza della più classica delle metafore: il viaggio in treno, che è appunto il simbolo per eccellenza della metafora della vita.
Cesare Pavese nel suo diario “Il Mestiere di vivere”, il 2 giugno 1946 annotò questo pensiero: “Il fascino del viaggiare è lo sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe essere nostra e passar oltre, da gran signore”.
E sentite Marino Moretti, il poeta crepuscolare per eccellenza, come si cimenta sulla metafora del treno in arrivo come fine corsa della nostra vita: “E ora che avevo cominciato a capire il paesaggio: si scende, dice il capotreno, è finito il viaggio”. Nessun altro meglio di lui, ritengo, ha saputo descrivere lo stupore, la delusione, il dolore della morte.
Il capotreno Antonio Calabrò nel suo “trolley salvifico” porta sempre qualche libro ma, evidentemente, non ha mai mancato di portare con sé il suo diario nel quale ha annotato le suggestioni che ci regala in questo delizioso volume. Gli suggerisco, da oggi in poi di mettere nella borsa una copia di “Chiudi e vai”, emulando così il mitico Oscar Wilde che, nel suo romanzo “L'importanza di chiamarsi Ernesto", scrisse: “Non viaggio mai senza il mio diario. Bisogna sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno”.
Chiudo questa lunga parentesi sul treno e le stazioni come metafora, dedicando ad Antonio e a tutti i suoi colleghi ferrovieri la mirabolante e immaginifica ode al treno di Filippo Tommaso Marinetti, tratta dal Manifesto del Futurismo del 1909: “ .... canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi ....”.
Antonio costella il suo racconto, oltre che di gustosi aneddoti tratti di peso dalle scene di vita quotidiana che ogni giorno si riversa sui treni dei pendolari, di sapienti e sagaci riflessioni filosofico-esistenziali. Una per tutte: “L’uomo può aggrapparsi a qualsiasi cosa, quando avverte il rintocco della morte. Per sé o per i suoi cari. La disperazione ha una chiave che si chiama fede. Forse un inghippo, forse no. Sono solo un capotreno, non ho mezzi sufficienti per stabilirlo. Ho una chiave quadra, una lanterna rossa o verde, un bel cappello blu e un fischietto. Troppo poco per decidere se Dio esista o no”.
È naturale che le lunghe ore di viaggio di un capotreno comportino una commistione tra pubblico e privato, e così nel bel mezzo di una sosta a Paola, nel piccolo bosco di San Francesco, laicamente ritrova l’amore per il padre. Ne consegue una lapidaria considerazione: “Cazzo, se non aveva ragione!”.
La grande letteratura è fatta anche di definizioni azzeccate e di descrizioni struggenti e questo libro ne abbonda: “Triste come la buccia di un’anguria”, “L’odore della strada bagnata è una malinconia invisibile”, “Ubriaconi abituali dispersi nel loro dolore e adagiati come salme su panchine dure come la loro esistenza”, “A Capo Spartivento il mare è un blocco di blu immobile e funge da specchio alla tavolozza impazzita… (il sole) è una bolla di sapone piena di lava, una biglia arroventata che custodisce la potenza di tutti gli dei mai pregati sinora”, “Questa Calabria, benedetta nella sua bellezza e maledetta nel suo abbandono”, “Uno dei momenti più emozionanti del mio lavoro, l’alba sullo Jonio. Mi spiace cari italiani, ma l’Aurora come questa ve la sognate”. Come ben dice Antonio: “La potenza della letteratura non smetterà mai di sorprenderci” ed infatti il libro sciorina sorprese e meraviglie a profusione.
Il cruccio principale del nostro autore, che è poi l’essenza del triste destino che lo accomuna agli altri intellettuali calabresi, è la consapevolezza della discrasia tra la bellezza della nostra terra e la condizione di degrado ambientale e sociale in cui versa; cruccio che diventa ancora più insopportabile nel momento in cui siamo costretti a riconoscerne la causa endogena.
Questa estate tornerò a pendolare per un paio di mesi sul treno della Jonica dalla Stazione di Condofuri a Reggio; non sarà come gli anni scorsi, ci sono le nuove carrozze, viaggerò certamente con meno disagio. Le suggestioni evocatemi da Antonio Calabrò costituiranno la colonna sonora di ogni viaggio e m’immergerò voluttuosamente nelle “albe strappate direttamente dalla fantasia degli dèi antichi, che ancora regnano sovrani in questi luoghi”, mentre dal finestrino, in perenne contrasto, scorreranno le immagini della mia “povera Calabria, ridotta come un circo di periferia tra saltimbanchi ingessati e domatori graffiati, il telone rappezzato e le gabbie arrugginite, squattrinata e luccicante di orpelli casalinghi cuciti da sartine dei bassifondi. Povera la mia Calabria così grandiosamente bella nella sua solitudine selvaggia, nella sua natura contaminata da grezzi gesti di noncuranza”.
Grande Antonio, scrittore dalla straordinaria umanità e dalla formidabile penna, degno erede di quel grande cantore jonico dei nostri “Caratteri” e del nostro destino che fu Mario La Cava.
Antonio Calabrò, Chiudi e vai! Viaggi calabresi di un capotreno esistenziale, Disoblio edizioni, 2015
Questi “Viaggi calabresi di un capotreno esistenziale”, come recita il sottotitolo del volume edito dalla Disoblio di Salvatore Bellantone, sono una vera chicca e meriterebbero di trovare spazio nelle case di riggitani e reggini di ogni età e ceto e, soprattutto, tra i banchi di scuola.
Lo dovrebbero leggere principalmente i giovani, quei giovani tanto apprezzati dall’autore al punto da considerarli (anche quando svolge la sua professione di capotreno) una specie protetta. “Si dovrebbero proteggere questi giovani degli anni duemila. Proteggere dai loro desideri indotti, quegli schifosissimi desideri frutto del bombardamento culturale che ormai da decenni infuria sulle nostre teste”. Anche se, con amarezza, Antonio (“Un passato da bastaso da difendere”) è costretto a sottolineare “la nuova mutazione del ragazzo calabrese, che aggiunge all’arroganza di una volontà di potenza plastificata anche il suo retaggio di violenza e di falso onore”; la chiosa che ne consegue è drammatica: “Il ragno invisibile che non è la ‘ndrangheta badate bene. Semmai è la necessità della ‘ndrangheta. Quello fa paura”, per chiudere: “Siamo spacciati, mi verrebbe da dire”.
Ma Antonio ha le idee chiare sulle cause di tutto ciò, emarginazione e sottosviluppo sopra tutte: “L’ingiustizia è così palese che non c’è neanche bisogno di spiegarla, ci vorrebbe una svolta autentica, ci vorrebbero ricette anche drammaticamente di rottura, restando così il futuro è un pozzo nero, un incubo di ibridazioni tra il peggio della modernità e il peggio della tradizione”.
L’espediente narrativo utilizzato dall’autore, oltre ad essere spontaneo e naturale, considerata appunto la sua professione, racchiude la quintessenza della più classica delle metafore: il viaggio in treno, che è appunto il simbolo per eccellenza della metafora della vita.
Cesare Pavese nel suo diario “Il Mestiere di vivere”, il 2 giugno 1946 annotò questo pensiero: “Il fascino del viaggiare è lo sfiorare innumerevoli scene ricche e sapere che ognuna potrebbe essere nostra e passar oltre, da gran signore”.
E sentite Marino Moretti, il poeta crepuscolare per eccellenza, come si cimenta sulla metafora del treno in arrivo come fine corsa della nostra vita: “E ora che avevo cominciato a capire il paesaggio: si scende, dice il capotreno, è finito il viaggio”. Nessun altro meglio di lui, ritengo, ha saputo descrivere lo stupore, la delusione, il dolore della morte.
Il capotreno Antonio Calabrò nel suo “trolley salvifico” porta sempre qualche libro ma, evidentemente, non ha mai mancato di portare con sé il suo diario nel quale ha annotato le suggestioni che ci regala in questo delizioso volume. Gli suggerisco, da oggi in poi di mettere nella borsa una copia di “Chiudi e vai”, emulando così il mitico Oscar Wilde che, nel suo romanzo “L'importanza di chiamarsi Ernesto", scrisse: “Non viaggio mai senza il mio diario. Bisogna sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno”.
Chiudo questa lunga parentesi sul treno e le stazioni come metafora, dedicando ad Antonio e a tutti i suoi colleghi ferrovieri la mirabolante e immaginifica ode al treno di Filippo Tommaso Marinetti, tratta dal Manifesto del Futurismo del 1909: “ .... canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi ....”.
Antonio costella il suo racconto, oltre che di gustosi aneddoti tratti di peso dalle scene di vita quotidiana che ogni giorno si riversa sui treni dei pendolari, di sapienti e sagaci riflessioni filosofico-esistenziali. Una per tutte: “L’uomo può aggrapparsi a qualsiasi cosa, quando avverte il rintocco della morte. Per sé o per i suoi cari. La disperazione ha una chiave che si chiama fede. Forse un inghippo, forse no. Sono solo un capotreno, non ho mezzi sufficienti per stabilirlo. Ho una chiave quadra, una lanterna rossa o verde, un bel cappello blu e un fischietto. Troppo poco per decidere se Dio esista o no”.
È naturale che le lunghe ore di viaggio di un capotreno comportino una commistione tra pubblico e privato, e così nel bel mezzo di una sosta a Paola, nel piccolo bosco di San Francesco, laicamente ritrova l’amore per il padre. Ne consegue una lapidaria considerazione: “Cazzo, se non aveva ragione!”.
La grande letteratura è fatta anche di definizioni azzeccate e di descrizioni struggenti e questo libro ne abbonda: “Triste come la buccia di un’anguria”, “L’odore della strada bagnata è una malinconia invisibile”, “Ubriaconi abituali dispersi nel loro dolore e adagiati come salme su panchine dure come la loro esistenza”, “A Capo Spartivento il mare è un blocco di blu immobile e funge da specchio alla tavolozza impazzita… (il sole) è una bolla di sapone piena di lava, una biglia arroventata che custodisce la potenza di tutti gli dei mai pregati sinora”, “Questa Calabria, benedetta nella sua bellezza e maledetta nel suo abbandono”, “Uno dei momenti più emozionanti del mio lavoro, l’alba sullo Jonio. Mi spiace cari italiani, ma l’Aurora come questa ve la sognate”. Come ben dice Antonio: “La potenza della letteratura non smetterà mai di sorprenderci” ed infatti il libro sciorina sorprese e meraviglie a profusione.
Il cruccio principale del nostro autore, che è poi l’essenza del triste destino che lo accomuna agli altri intellettuali calabresi, è la consapevolezza della discrasia tra la bellezza della nostra terra e la condizione di degrado ambientale e sociale in cui versa; cruccio che diventa ancora più insopportabile nel momento in cui siamo costretti a riconoscerne la causa endogena.
Questa estate tornerò a pendolare per un paio di mesi sul treno della Jonica dalla Stazione di Condofuri a Reggio; non sarà come gli anni scorsi, ci sono le nuove carrozze, viaggerò certamente con meno disagio. Le suggestioni evocatemi da Antonio Calabrò costituiranno la colonna sonora di ogni viaggio e m’immergerò voluttuosamente nelle “albe strappate direttamente dalla fantasia degli dèi antichi, che ancora regnano sovrani in questi luoghi”, mentre dal finestrino, in perenne contrasto, scorreranno le immagini della mia “povera Calabria, ridotta come un circo di periferia tra saltimbanchi ingessati e domatori graffiati, il telone rappezzato e le gabbie arrugginite, squattrinata e luccicante di orpelli casalinghi cuciti da sartine dei bassifondi. Povera la mia Calabria così grandiosamente bella nella sua solitudine selvaggia, nella sua natura contaminata da grezzi gesti di noncuranza”.
Grande Antonio, scrittore dalla straordinaria umanità e dalla formidabile penna, degno erede di quel grande cantore jonico dei nostri “Caratteri” e del nostro destino che fu Mario La Cava.
Antonio Calabrò, Chiudi e vai! Viaggi calabresi di un capotreno esistenziale, Disoblio edizioni, 2015
domenica 1 maggio 2016
UN BLUFF DI NOME LORIANO MACCHIAVELLI
È raro che io interrompa la lettura di un libro; l'avevo comprato d'impulso, tradito dalla bellissima copertina e dall’attrazione che esercita su di me la collana di Einaudi "Stile libero". Ma mi sa che all'Einaudi hanno preso un po' troppo alla lettera questo concetto dello “Stile libero” che rischia di diventare un calderone nel quale farci entrare di tutto un po’…
Dicevo che è raro che io interrompa una lettura, convinto come sono che anche un pessimo libro possa nascondere un tesoro o rivelarti una verità, ma questo “Noi che gridammo al vento” mi ha fatto proprio innervosire, perché si tratta di una vera e propria occasione mancata. La strage di Portella della Ginestra è uno dei (purtroppo tanti) misteri d’Italia; la prima di quella che poi sarebbe diventata una lunga serie di “Stragi di Stato”, e non mi sembrava vero che qualcuno ci avesse messo finalmente mano, per tentare di squarciare un velo che ci impedisce di scorgere la verità. Ma quello che è successo in Italia dal dopoguerra alla fine degli anni ’80, ha una dimensione sovranazionale ed è parte integrante di quella Guerra Fredda che aveva come unico obiettivo la destabilizzazione dell’Unione Sovietica e il blocco della diffusione delle idee comuniste nel mondo. L’obiettivo è stato raggiunto ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Questo inutile e patetico lavoro di Macchiavelli mi ricorda quell’altrettanto deludente (ma in quel caso c’erano in più ipocrisia e malafede) promessa di Massimo D’Alema di “aprire gli armadi del Viminale” per rivelare i segreti delle Stragi di Stato. I faldoni custoditi negli armadi si rivelarono tragicamente vuoti e l’illusione della verità si volatilizzò di colpo; D’Alema pagò cara quell’incauta mossa, gli americani gli imposero una prova di fedeltà e lui andò allegramente a bombardare Belgrado, distruggendo definitivamente quello che restava della Sinistra italiana.
Ma questo libro di Macchiavelli non è solo un’occasione mancata, è anche e soprattutto la dimostrazione di cosa non dovrebbe essere un libro che, per giunta, ha anche la pretesa di lavorare sul terreno della ricostruzione storica; siamo al cospetto di un lavoro pretenzioso, confusionario e inconsistente. Un pasticcio di generi senza costrutto, intriso di banalità e frasi fatte a profusione. Sullo stile e la scrittura stendo un altro velo pietoso, basti dire che non c’è un solo tempo di verbo azzeccato. Povera Einaudi!
Dicevo che è raro che io interrompa una lettura, convinto come sono che anche un pessimo libro possa nascondere un tesoro o rivelarti una verità, ma questo “Noi che gridammo al vento” mi ha fatto proprio innervosire, perché si tratta di una vera e propria occasione mancata. La strage di Portella della Ginestra è uno dei (purtroppo tanti) misteri d’Italia; la prima di quella che poi sarebbe diventata una lunga serie di “Stragi di Stato”, e non mi sembrava vero che qualcuno ci avesse messo finalmente mano, per tentare di squarciare un velo che ci impedisce di scorgere la verità. Ma quello che è successo in Italia dal dopoguerra alla fine degli anni ’80, ha una dimensione sovranazionale ed è parte integrante di quella Guerra Fredda che aveva come unico obiettivo la destabilizzazione dell’Unione Sovietica e il blocco della diffusione delle idee comuniste nel mondo. L’obiettivo è stato raggiunto ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Questo inutile e patetico lavoro di Macchiavelli mi ricorda quell’altrettanto deludente (ma in quel caso c’erano in più ipocrisia e malafede) promessa di Massimo D’Alema di “aprire gli armadi del Viminale” per rivelare i segreti delle Stragi di Stato. I faldoni custoditi negli armadi si rivelarono tragicamente vuoti e l’illusione della verità si volatilizzò di colpo; D’Alema pagò cara quell’incauta mossa, gli americani gli imposero una prova di fedeltà e lui andò allegramente a bombardare Belgrado, distruggendo definitivamente quello che restava della Sinistra italiana.
Ma questo libro di Macchiavelli non è solo un’occasione mancata, è anche e soprattutto la dimostrazione di cosa non dovrebbe essere un libro che, per giunta, ha anche la pretesa di lavorare sul terreno della ricostruzione storica; siamo al cospetto di un lavoro pretenzioso, confusionario e inconsistente. Un pasticcio di generi senza costrutto, intriso di banalità e frasi fatte a profusione. Sullo stile e la scrittura stendo un altro velo pietoso, basti dire che non c’è un solo tempo di verbo azzeccato. Povera Einaudi!
1946: DUE SIGNORINE QUINDICENNI SUL CORSO GARIBALDI
È il 12 dicembre del 1946, la guerra è finita da più di un anno; c'è in giro tanta voglia di vivere, la ripresa si respira nell'aria. Sul Corso Garibaldi due signorine (allora si chiamavano così) quindicenni, passeggiano allegre e spensierate, libri sottobraccio, e si offrono disinvolte all'obiettivo del fotografo. Sono evidentemente due giovani donne moderne e disinibite; l'una è Eleonora (alias Elia) Volpe l'altra è Lucia Franco. Lucia Franco è mia madre, è morta ieri; ha realizzato i suoi sogni, ha vissuto una vita lunga e ricca di gratificazioni, poco o niente scalfita da qualche tormento di troppo. Amavo tantissimo di mia madre l'umorismo e quel modo tutto suo di essere dissacrante e anticonformista.
MUMBLE, MUMBLE...
Faccio parte di una generazione che riteneva la scoperta di un giacimento di petrolio un colpo di fortuna, oggi dovrei convincermi che si tratti invece di un colpo di sfiga...
giovedì 31 marzo 2016
DIAMO A TONINO QUEL CHE E' DI TONINO
Scusate non so se l'ha fatto già qualche altro, ma, senza nulla togliere all'opera meritoria e appassionata di Domenico Lucano, vorrei ricordare sommessamente che l'idea originaria del Sistema-Badolato, poi diventato Sistema-Riace, va attribuita a Tonino Perna; ai tempi del mitico Cric, l'idea di fare dei borghi abbandonati luoghi di accoglienza per i migranti, fu suggerita proprio da Tonino al sindaco di Badolato e da lì si generò tutto. Ecco come lo stesso Tonino Perna ha raccontato, qualche tempo addietro, la storia dalle colonne del Manifesto:
"Il 26 dicembre del 1997 arrivava sulla spiaggia di Badolato marina un barcone con più di 800 curdi. La popolazione li accolse e li portò nel vecchio paese, a cinque chilometri di distanza, in alto su una collina dove il vecchio paese era stato in gran parte abbandonato. Li ospitarono nelle loro case, gli portarono stufe e coperte, e fecero a gara nell' offrirgli da mangiare.
Il sindaco di Badolato mi chiamò, in qualità di responsabile del Cric, una Ong molto attiva in quegli anni, per avere un aiuto nella gestione di questa insolita situazione per un piccolo paese meridionale. Nacque così l’idea che gli immigrati potessero far rinascere i paesi abbandonati della Calabria, e non solo. Con i curdi che decisero di restare a Badolato vennero aperte botteghe artigianali, un grande ristorante curdo, e soprattutto vennero ristrutturate una trentina di casette che dovevano servire per una forma ancora sperimentale di 'turismo solidale'.
Grazie all’appoggio delle reti di economia solidale, di tante associazioni, e di Longo Mai, una comunità anarchica della Provenza, arrivarono migliaia di turisti solidali che fecero rivivere il paese per qualche tempo. Fu durante quella bella esperienza che incontrai un giovane, Domenico Lucano, che venne a Badolato con i membri della sua associazione proponendoci di dare una mano per fare anche di Riace un centro per accogliere gli immigrati.
Cinque anni dopo Domenico Lucano divenne sindaco di Riace e dopo qualche anno di straordinaria attività di accoglienza, arrivò anche il famoso Wim Wenders che si innamorò di questa esperienza e girò “Il volo”. Lo stesso Wenders nel 2009, di fronte alla presenza di dieci Nobel per la pace, disse che la vera civiltà era quella che lui aveva trovato in un paesino della Calabria, Riace."
"Il 26 dicembre del 1997 arrivava sulla spiaggia di Badolato marina un barcone con più di 800 curdi. La popolazione li accolse e li portò nel vecchio paese, a cinque chilometri di distanza, in alto su una collina dove il vecchio paese era stato in gran parte abbandonato. Li ospitarono nelle loro case, gli portarono stufe e coperte, e fecero a gara nell' offrirgli da mangiare.
Il sindaco di Badolato mi chiamò, in qualità di responsabile del Cric, una Ong molto attiva in quegli anni, per avere un aiuto nella gestione di questa insolita situazione per un piccolo paese meridionale. Nacque così l’idea che gli immigrati potessero far rinascere i paesi abbandonati della Calabria, e non solo. Con i curdi che decisero di restare a Badolato vennero aperte botteghe artigianali, un grande ristorante curdo, e soprattutto vennero ristrutturate una trentina di casette che dovevano servire per una forma ancora sperimentale di 'turismo solidale'.
Grazie all’appoggio delle reti di economia solidale, di tante associazioni, e di Longo Mai, una comunità anarchica della Provenza, arrivarono migliaia di turisti solidali che fecero rivivere il paese per qualche tempo. Fu durante quella bella esperienza che incontrai un giovane, Domenico Lucano, che venne a Badolato con i membri della sua associazione proponendoci di dare una mano per fare anche di Riace un centro per accogliere gli immigrati.
Cinque anni dopo Domenico Lucano divenne sindaco di Riace e dopo qualche anno di straordinaria attività di accoglienza, arrivò anche il famoso Wim Wenders che si innamorò di questa esperienza e girò “Il volo”. Lo stesso Wenders nel 2009, di fronte alla presenza di dieci Nobel per la pace, disse che la vera civiltà era quella che lui aveva trovato in un paesino della Calabria, Riace."
domenica 27 marzo 2016
FINAL CUT
"La gente è disposta a pagare per l'assenza di coraggio, è disposta a pagare se può evitare il dolore, è disposta a pagare pur di non guardare in faccia il fallimento".
Vins Gallico, reggino di nascita, tedesco e romano di formazione, ha molte buone letture alle spalle; libraio professionista, ama i libri e la lettura in modo viscerale. Questo suo romanzo non mi è piaciuto, forse perché l'ho trovato molto drammaticamente aderente a questo nostro tempo dentro il quale navigo come un pesce fuor d'acqua. L'idea di delegare, per giunta a pagamento, la gestione di uno dei momenti più drammatici e coinvolgenti della nostra vita, quale la conclusione di una relazione amorosa, l'ho trovata di un cinismo post moderno lontano anni luce dalla mia cultura romantico-ottocentesca. Senza per questo voler offendere la capacità narrativa dell'amico Vins, direi che ci troviamo al cospetto della convincente relazione descrittiva di una startup innovativa, più che di un buon romanzo.
La colonna sonora dell'ultimo omonimo album dei Pink Floyd è assolutamente calzante e ringrazio Vins di avermelo fatto (ri)scoprire. Lo ringrazio inoltre per avermi ricordato la tragico-grottesca intervista in cui Salvador Allende indica il generale Augusto Pinochet come persona affidabilissima.
Citazione memorabile: "Riconosco la descrizione della burrasca ormonale, che innesca mille promesse al momento del decollo ed è causa di mille delusioni poco prima dello schianto: una sindrome largamente diffusa presso i miei clienti...".
Vins Gallico, Final Cut, Fandango Libri, 2015.
Vins Gallico, reggino di nascita, tedesco e romano di formazione, ha molte buone letture alle spalle; libraio professionista, ama i libri e la lettura in modo viscerale. Questo suo romanzo non mi è piaciuto, forse perché l'ho trovato molto drammaticamente aderente a questo nostro tempo dentro il quale navigo come un pesce fuor d'acqua. L'idea di delegare, per giunta a pagamento, la gestione di uno dei momenti più drammatici e coinvolgenti della nostra vita, quale la conclusione di una relazione amorosa, l'ho trovata di un cinismo post moderno lontano anni luce dalla mia cultura romantico-ottocentesca. Senza per questo voler offendere la capacità narrativa dell'amico Vins, direi che ci troviamo al cospetto della convincente relazione descrittiva di una startup innovativa, più che di un buon romanzo.
La colonna sonora dell'ultimo omonimo album dei Pink Floyd è assolutamente calzante e ringrazio Vins di avermelo fatto (ri)scoprire. Lo ringrazio inoltre per avermi ricordato la tragico-grottesca intervista in cui Salvador Allende indica il generale Augusto Pinochet come persona affidabilissima.
Citazione memorabile: "Riconosco la descrizione della burrasca ormonale, che innesca mille promesse al momento del decollo ed è causa di mille delusioni poco prima dello schianto: una sindrome largamente diffusa presso i miei clienti...".
Vins Gallico, Final Cut, Fandango Libri, 2015.
lunedì 7 marzo 2016
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI CULTURA
L’anima di Raymond Carver e il suo neo-editore italiano Einaudi, non me ne vorranno se mi sono lasciato ispirare, per il titolo di questo editoriale, dalla celeberrima raccolta di racconti del grande scrittore statunitense. D’altra parte è appena arrivato in libreria, per i tipi di Rubbettino, il volume di Francesco Bevilacqua sulla letteratura calabrese intitolato, guarda un po’, “Lettere Meridiane”. Corsi e ricorsi letterari che sono il pane quotidiano per chi, come noi, pone la lettura al centro della propria vita.
Chi avrà la pazienza di leggermi rintraccerà tra queste righe le note evidenti di un disturbo bipolare: è il minimo che possa accadere a chi tocca intonare il de produndis a una propria creatura editoriale e, contemporaneamente, inneggiare all’uscita di un numero celebrativo monografico che è questo che vi ritrovate tra le mani.
Il nostro “Lettere Meridiane”, portato avanti faticosamente per vent’anni grazie all’impegno di tre bravissime creature femminili, le giornaliste Oriana Schembari e Federica Legato e la grafica Piera Ruggeri, cessa infatti l’uscita nella forma di giornale cartaceo per proseguire l’avventura tra le fredde colonne di giornale digitale.
Non sarà la stessa cosa, ne son certo, il lutto per la perdita della carta non troverà mai piena elaborazione nel cuore di un intellettuale degno di questo nome.
Penso che sia meglio, allora, parlare delle sorti della Cultura alle nostre latitudini e per farlo attingerò a piene mani all’interessante e documentato articolo di Filippo Veltri su “Il Quotidiano del Sud”, intitolato “Cultura, quel che si dovrebbe davvero fare” che riporta i risultati di un rapporto sulla cultura e sull’industria culturale promosso da alcune Regioni italiane e sostenuto da enti pubblici e privati; il rapporto si chiama Symbola ed è giunto alla sesta edizione. Veltri giustamente sostiene: “Sarebbe il caso che nella nostra Regione qualcuno se lo faccia mandare, gli dia un’occhiata, giusto per capire come organizzare davvero, in maniera seria e sistematica, questo comparto. Mettendo da parte visioni sporadiche, velleitarie, provincialistiche e prive di costrutto”.
Il rapporto mette in luce aspetti quali il crescente successo del “Made in Italy”; il record di turisti extraeuropei che visitano il nostro Paese; l’attenzione verso la sostenibilità ambientale, che cresce a livello globale e sta permeando il nostro sistema industriale; la voglia del cibo italiano, della creatività dei nostri produttori, della bellezza dei nostri prodotti, del potere attrattivo dei nostri beni culturali.
Emerge con evidenza che il futuro dell’Italia è strettamente connesso alla capacità di puntare sui talenti che il mondo ci riconosce, di rinnovare le nostre tradizioni col linguaggio dell’innovazione; di guardare all’estero tenendo ben saldi i piedi nei territori, nelle comunità e nei distretti. “Solo cioè scegliendo la bellezza e la cultura, l’Italia avrà un futuro alla sua altezza. E la Calabria non ha altra strada”.
"Io sono cultura", arrivato alla quinta edizione e realizzato da Fondazione Symbola e da Unioncamere racconta un pezzo di questa Italia. “Un’Italia che punta sulla cultura e la creatività per rafforzare le manifatture, come già fanno altri Paesi e che dimostra, bilanci alla mano, che con la cultura si mangia, eccome”. E si costruisce il futuro. Alle imprese del sistema produttivo culturale italiano si devono, infatti, oggi 78,6 miliardi di euro (5,4% della ricchezza prodotta in Italia). Che arrivano a 84 circa (il 5,8% dell’economia nazionale) se includiamo istituzioni pubbliche e non profit.
Ma il valore trainante della cultura non si limita a questo. Contamina, invece, il resto dell’economia, con un effetto moltiplicatore pari a 1,7: per ogni euro prodotto dalla cultura, cioè, se ne attivano 1,7 in altri settori. Gli 84 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 143, per arrivare a 226,9 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano.
Le sole imprese del sistema produttivo culturale (443.208, il 7,3% del totale delle imprese italiane) danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,9% del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,3%, se includiamo pubblico e non profit).
Per non parlare delle ricadute occupazionali - difficilmente misurabili ma indiscutibili - su altri settori, come il turismo.
La cultura e la creatività, inoltre, mettono il turbo alle nostre imprese: infatti chi ha investito in creatività (impiegando professionalità creative o stimolando la creatività del personale aziendale) ha visto il proprio fatturato salire del 3,2% tra il 2013 e il 2014; mentre tra chi non lo ha fatto il fatturato è sceso dello 0,9%.
“Io sono cultura” è una sorta di annuario, per numeri e storie, realizzato anche grazie al contributo di circa 40 personalità di punta nei diversi settori analizzati e le tendenze mostrano una filiera che resiste ai morsi della crisi.
Esemplare in questo caso è risultata la sfida lanciata dal percorso di candidatura che ha portato Matera ad essere nominata Capitale Europea della Cultura per il 2019.
In Calabria su questo si deve lavorare, mettendo al bando le azioni dispersive, i mille rivoli, i provincialismi, le gelosie e le invidie, le clientele, le cialtronate che portano solo all’assenza di una visione e di un’azione di sistema, per traghettare tutto il nostro territorio su un’azione che trasversalmente tenga insieme i vari luoghi, le comunità, le imprese, il non profit, le istituzioni locali. Cioè: passare da iniziative a macchia di leopardo - a volte lodevoli, ma perlopiù individuali - a una vera e propria missione di tutta la politica regionale. Questo significa fare cultura e certo non conforta la decisione del presidente Mario Oliverio di non nominare un assessore al ramo evitando di tracciare, a quindici mesi dall’insediamento, le linee guida della sua politica culturale.
Franco Arcidiaco
Chi avrà la pazienza di leggermi rintraccerà tra queste righe le note evidenti di un disturbo bipolare: è il minimo che possa accadere a chi tocca intonare il de produndis a una propria creatura editoriale e, contemporaneamente, inneggiare all’uscita di un numero celebrativo monografico che è questo che vi ritrovate tra le mani.
Il nostro “Lettere Meridiane”, portato avanti faticosamente per vent’anni grazie all’impegno di tre bravissime creature femminili, le giornaliste Oriana Schembari e Federica Legato e la grafica Piera Ruggeri, cessa infatti l’uscita nella forma di giornale cartaceo per proseguire l’avventura tra le fredde colonne di giornale digitale.
Non sarà la stessa cosa, ne son certo, il lutto per la perdita della carta non troverà mai piena elaborazione nel cuore di un intellettuale degno di questo nome.
Penso che sia meglio, allora, parlare delle sorti della Cultura alle nostre latitudini e per farlo attingerò a piene mani all’interessante e documentato articolo di Filippo Veltri su “Il Quotidiano del Sud”, intitolato “Cultura, quel che si dovrebbe davvero fare” che riporta i risultati di un rapporto sulla cultura e sull’industria culturale promosso da alcune Regioni italiane e sostenuto da enti pubblici e privati; il rapporto si chiama Symbola ed è giunto alla sesta edizione. Veltri giustamente sostiene: “Sarebbe il caso che nella nostra Regione qualcuno se lo faccia mandare, gli dia un’occhiata, giusto per capire come organizzare davvero, in maniera seria e sistematica, questo comparto. Mettendo da parte visioni sporadiche, velleitarie, provincialistiche e prive di costrutto”.
Il rapporto mette in luce aspetti quali il crescente successo del “Made in Italy”; il record di turisti extraeuropei che visitano il nostro Paese; l’attenzione verso la sostenibilità ambientale, che cresce a livello globale e sta permeando il nostro sistema industriale; la voglia del cibo italiano, della creatività dei nostri produttori, della bellezza dei nostri prodotti, del potere attrattivo dei nostri beni culturali.
Emerge con evidenza che il futuro dell’Italia è strettamente connesso alla capacità di puntare sui talenti che il mondo ci riconosce, di rinnovare le nostre tradizioni col linguaggio dell’innovazione; di guardare all’estero tenendo ben saldi i piedi nei territori, nelle comunità e nei distretti. “Solo cioè scegliendo la bellezza e la cultura, l’Italia avrà un futuro alla sua altezza. E la Calabria non ha altra strada”.
"Io sono cultura", arrivato alla quinta edizione e realizzato da Fondazione Symbola e da Unioncamere racconta un pezzo di questa Italia. “Un’Italia che punta sulla cultura e la creatività per rafforzare le manifatture, come già fanno altri Paesi e che dimostra, bilanci alla mano, che con la cultura si mangia, eccome”. E si costruisce il futuro. Alle imprese del sistema produttivo culturale italiano si devono, infatti, oggi 78,6 miliardi di euro (5,4% della ricchezza prodotta in Italia). Che arrivano a 84 circa (il 5,8% dell’economia nazionale) se includiamo istituzioni pubbliche e non profit.
Ma il valore trainante della cultura non si limita a questo. Contamina, invece, il resto dell’economia, con un effetto moltiplicatore pari a 1,7: per ogni euro prodotto dalla cultura, cioè, se ne attivano 1,7 in altri settori. Gli 84 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 143, per arrivare a 226,9 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano.
Le sole imprese del sistema produttivo culturale (443.208, il 7,3% del totale delle imprese italiane) danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,9% del totale degli occupati in Italia (1,5 milioni, il 6,3%, se includiamo pubblico e non profit).
Per non parlare delle ricadute occupazionali - difficilmente misurabili ma indiscutibili - su altri settori, come il turismo.
La cultura e la creatività, inoltre, mettono il turbo alle nostre imprese: infatti chi ha investito in creatività (impiegando professionalità creative o stimolando la creatività del personale aziendale) ha visto il proprio fatturato salire del 3,2% tra il 2013 e il 2014; mentre tra chi non lo ha fatto il fatturato è sceso dello 0,9%.
“Io sono cultura” è una sorta di annuario, per numeri e storie, realizzato anche grazie al contributo di circa 40 personalità di punta nei diversi settori analizzati e le tendenze mostrano una filiera che resiste ai morsi della crisi.
Esemplare in questo caso è risultata la sfida lanciata dal percorso di candidatura che ha portato Matera ad essere nominata Capitale Europea della Cultura per il 2019.
In Calabria su questo si deve lavorare, mettendo al bando le azioni dispersive, i mille rivoli, i provincialismi, le gelosie e le invidie, le clientele, le cialtronate che portano solo all’assenza di una visione e di un’azione di sistema, per traghettare tutto il nostro territorio su un’azione che trasversalmente tenga insieme i vari luoghi, le comunità, le imprese, il non profit, le istituzioni locali. Cioè: passare da iniziative a macchia di leopardo - a volte lodevoli, ma perlopiù individuali - a una vera e propria missione di tutta la politica regionale. Questo significa fare cultura e certo non conforta la decisione del presidente Mario Oliverio di non nominare un assessore al ramo evitando di tracciare, a quindici mesi dall’insediamento, le linee guida della sua politica culturale.
Franco Arcidiaco
giovedì 25 febbraio 2016
CORRADO ALVARO È DI TUTTI
Stasera nella sala conferenze della Biblioteca De Nava abbiamo parlato di Corrado Alvaro; la Biblioteca si è finalmente aperta in modo organico alla città, grazie all'impegno dell'Assessora alla cultura Patrizia Nardi e alla collaborazione entusiasta di Maria Pia Mazzitelli e Ninetta Bellantoni.
Oriana Schembari e Stefano Iorfida, presidente dell'Anassilaos, hanno coordinato e preceduto la lectio magistralis della studiosa italo-francese di Alvaro, Anne Christine Faitrop-Porta e la relazione della critica letteraria Francesca Neri.
La sala era stracolma, ed unanime è stato l'apprezzamento nei confronti delle due relatrici. La prof. Faitrop e la prof. Neri hanno dimostrato quanto sia opportuno e urgente liberare la cultura dalle grinfie delle conventicole malmostose e autoreferenziali. Corrado Alvaro è il più grande scrittore calabrese e i calabresi hanno il dovere di valorizzarlo e di diffonderne quanto più possibile il pensiero e l'opera. Quest'anno ricorre il 60° anniversario della morte, il 2016 può essere l'anno del riscatto alvariano. La squadra che abbiamo messo in campo si è dimostrata vincente, ma è necessaria la più ampia collaborazione. Rivolgiamo un appello in tal senso agli intellettuali che hanno a cuore sinceramente le sorti della civiltà e della cultura calabrese; noi non nutriamo gelosie e non rivendichiamo primogeniture, ma non tollereremo intralci e scorrettezze, né arroccamenti accademici. A giorni diffonderemo una prima bozza del nostro programma che sarà aperto al contributo di quanti vorranno condividere lo spirito della nostra iniziativa.
Oriana Schembari e Stefano Iorfida, presidente dell'Anassilaos, hanno coordinato e preceduto la lectio magistralis della studiosa italo-francese di Alvaro, Anne Christine Faitrop-Porta e la relazione della critica letteraria Francesca Neri.
La sala era stracolma, ed unanime è stato l'apprezzamento nei confronti delle due relatrici. La prof. Faitrop e la prof. Neri hanno dimostrato quanto sia opportuno e urgente liberare la cultura dalle grinfie delle conventicole malmostose e autoreferenziali. Corrado Alvaro è il più grande scrittore calabrese e i calabresi hanno il dovere di valorizzarlo e di diffonderne quanto più possibile il pensiero e l'opera. Quest'anno ricorre il 60° anniversario della morte, il 2016 può essere l'anno del riscatto alvariano. La squadra che abbiamo messo in campo si è dimostrata vincente, ma è necessaria la più ampia collaborazione. Rivolgiamo un appello in tal senso agli intellettuali che hanno a cuore sinceramente le sorti della civiltà e della cultura calabrese; noi non nutriamo gelosie e non rivendichiamo primogeniture, ma non tollereremo intralci e scorrettezze, né arroccamenti accademici. A giorni diffonderemo una prima bozza del nostro programma che sarà aperto al contributo di quanti vorranno condividere lo spirito della nostra iniziativa.
martedì 23 febbraio 2016
MEMORIE DI ADRIANO E IL FASCINO DELLA STORIA DI ROMA
La grande lezione di Marguerite Yourcenar: insegnare la Storia attraverso la potenza coinvolgente della Narrativa e il fascino della Poesia.
Sono tornato a questo libro straordinario, dopo tantissimi anni, in seguito alla visione della riduzione teatrale di Giorgio Albertazzi, prodotta in dvd da Minimum Fax, che, sia pur eccellente, non marcia con lo stesso passo del libro. Il potente e suggestivo monologo, la cui prima edizione risale al 1951, trova la sua giusta dimensione più tra le pagine di un libro che tra le assi di un palcoscenico. Il merito va soprattutto all’incredibile capacità della scrittrice che, in un fittissimo tessuto narrativo di ben trecento pagine, riesce a tener ben desta l’attenzione del lettore senza un solo attimo di stanchezza. Adriano, sessantenne alle soglie della morte, si rivolge all’erede designato Marc’Aurelio e gli sciorina la storia della sua vita, strettamente intrecciata a una delle fasi più cruciali della storia dell’Impero Romano. Ne vengono fuori delle pagine intense che spaziano dalla felicità al dolore, dalla dissolutezza all’austerità, dalla tenerezza più sublime alla crudeltà più spietata, dalle nebbie della stregoneria alla luce abbagliante della ragione, dal dramma alla festa, dalla serenità della pace alla tensione della guerra, dalla contemplazione delle meraviglie della natura allo smarrimento di fronte ai misteri della vita. I crucci e i problemi che si pone questo grande personaggio sono quelli degli uomini di ogni tempo ed è sorprendente notare come anche i temi geopolitici più scottanti (Iraq, Medioriente, Balcani, Nordafrica) del secondo secolo siano gli stessi del ventunesimo, così come le difficoltà delle campagne d’Asia (Daci, Sarmati, etc), con la gestione mirata e alternata delle varie bande etniche, richiamano gli sciagurati interventi occidentali in Afghanistan dei nostri giorni.
Adriano conglobava in sé la sapienza e la sensibilità della cultura greca (“Quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”) e il concreto e spietato realismo della cultura latina (“L’impero l’ho governato in latino… ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto” “La dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate” “Roma… l’atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, …il cigolio stesso degli organi della macchina del potere”). Era consapevole del ruolo che Roma aveva e avrebbe avuto per sempre nella Storia; la grandezza di Roma era testimoniata dalla sua docile mutevolezza: “Qualsiasi creazione umana che pretenda all’eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri”. “… altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo”. Sapeva benissimo che quello che Roma aveva seminato nel mondo in termini di civiltà, avrebbe costituito per tutti i popoli a venire le basi del progresso: “Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all’anarchia, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l’ultima città degli uomini”.
Adriano, su questo gran parte degli storici concordano, fu il migliore tra gli imperatori Romani; in un’epoca in cui il principale divertimento erano gli spettacoli sanguinolenti che si svolgevano al Colosseo, lui si poneva il problema di “leggi misurate in termini umane”; mitigò gli aspetti più violenti e odiosi della schiavitù e fece del rispetto delle opinioni altrui una ragione della sua vita e una regola del suo governo.
Giaceva indifferentemente con donne e uomini, ma l’amore vero lo provò solo verso l’adolescente Antinoo (“La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto”), che elevò, dopo la prematura morte, alle soglie della deità.
L’amore delle donne lo trovava fatuo e interessato (“… sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto”) e trovava limitata la loro visuale, duro il loro senso pratico, grigio il loro cielo “non appena cessa di ridervi l’amore”; come dargli torto, soprattutto considerando che queste parole gliele mette in bocca proprio una donna…
Riconosceva però un grande valore al ruolo della donna nella famiglia e nella casa, della quale doveva essere “la regnante dal potere illimitato”; promulgò leggi contro la violenza sulle donne e contro il matrimonio non consensuale.
Abile e coraggioso al fronte, sceglieva le truppe in base a quella che lui riteneva la più alta forma di virtù: “la ferma determinazione di essere utile”. Incarnava virtuosamente quella concezione della guerra che è propria di tutti i sovrani, ma alla quale solo pochi illuminati hanno creduto veramente: preparare la guerra per giungere alla pace più duratura.
Non aveva smanie di grandezza e valutava tutto sulla base della realpolitik (“Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell’impero, mi faceva l’effetto d’una escrescenza malsana, un cancro, un’idropisia che avrebbe finito per ucciderci”), (“A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?); era però perfettamente cosciente del suo ruolo e della sua funzione (“La mia vita privata mi commuoveva meno della Storia”) e si sentiva responsabile dei crimini di cui si erano macchiati alcuni dei suoi predecessori, Nerone in primis.
In campo religioso, lungimirante, e direi preveggente, detestava i cristiani (“Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta…”); guarda caso, la diffusione del loro credo sarebbe stata una delle principali cause del crollo dell’impero. Non era tenero nemmeno con gli ebrei, era convinto che il loro eterno conflitto con gli arabi fosse causato dai loro “furori religiosi”, dalla loro “liturgia singolare” e dall’“intransigenza del loro Dio”. Non gli riuscì il disegno di fare di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; “dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest’ultimo prevalga”.
Ricordo che siamo nel secondo secolo dc, e gli ebrei zeloti svolgono nei confronti dei romani lo stesso identico ruolo che oggi svolgono i palestinesi nei loro confronti; appare incredibile leggere questa frase: “… l’ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare”, stiamo parlando della striscia di Gaza!
Profetico, si lascia andare: “Se sedici anni del regno d’un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro”.
Adriano amava le religioni romane “vaghe e venerabili”, purificate da intransigenze e riti tribali, che avevano il merito di associare misteriosamente la gente ai sogni più antichi dell’uomo e della terra ma “senza inibirci una spiegazione laica dei fatti, un’intuizione razionale della condotta umana”.
Rivoluzionaria era la sua concezione della Giustizia: “Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione, … se troppo complicate sono rese inefficaci dall’ingegnosità umana”. “Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici”. “Le leggi mutano meno rapidamente dei costumi, pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli”, “Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva…”.
Era convinto che i cattivi si potessero rendere “inoffensivi a forza di bontà” e arrivò a perdonare uno schiavo che aveva tentato di pugnalarlo a tradimento, dopo averlo disarmato a mani nude non esitò a liberarlo.
Anticipò di parecchi secoli la riforma agraria, “Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d’ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all’agricoltore che s’incaricherà di trarne buon partito”.
Incentivò le cooperative degli artigiani e assegnò alle truppe di frontiera il ruolo di educatori delle popolazioni confinanti.
Grande viaggiatore, creò un efficientissimo sistema di corriere postale a staffetta che gli consentiva di governare da ogni angolo dell’impero; quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, si definiva “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”.
Cultore della bellezza (“Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”), poneva gran cura nelle costruzioni e nelle ricostruzioni delle terre devastate dalle guerre o dalle calamità naturali. “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. “Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le biblioteche facevano venire in mente ad Adriano l’amata imperatrice Plotina, moglie del suo predecessore Traiano, che aveva istituito in pieno Foro Traiano una grande biblioteca e l’aveva denominata “Ospedale dell’anima”.
“Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre, il segreto delle sorgenti”.
“La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie piene di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d’un porticato…”.
La grande villa di Tivoli, che divenne la sua vera reggia, rappresentò l’apoteosi delle sue idee in materia di bellezza architettonica.
Gli inglesi, che se la tirano tanto, senza l’opera di Adriano, avrebbero ben poco da raccontare in termini di sviluppo civile, “Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa… io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell’isola situata ai confini del mondo conosciuto”. “… Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l’ipotesi d’uno Stato accentrato in Occidente, d’un mondo atlantico…”. Qualcuno lo racconti a Cameron e ai fautori della Brexit…
Il tramonto e la fine di Adriano si mantennero in linea con il personaggio, surrogò la mancanza di eredi naturali nominando il figlio adottivo del probo dignitario Antonino, che nel frattempo aveva lui stesso adottato; si trattava di quel Marc’Aurelio che governò per un ventennio, ma del quale rimangono notizie storiche e personali frammentarie e incerte.
Spirò a Baia, una frazione di Bacoli nel napoletano, il 10 luglio del 138; vi era stato condotto nella speranza che l’aria del mare alleviasse i suoi problemi respiratori.
“Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non essere destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri”.
Di fronte a un’opera di questo tipo, superata la fase dell’ammirazione e dello stupore, può legittimamente levarsi il dubbio che l’autore possa avere abusato di una certa discrezionalità, nel riportare così minuziosamente il pensiero del protagonista. Marguerite Yourcenar ha impiegato più di vent’anni a completare questo suo capolavoro; sono stati anni di studio e ricerca condotti con scrupolo e pazienza certosina. Bene ha fatto la Einaudi ad aggiungere in questa edizione del 1981 i “Taccuini di appunti” che, uniti a una ricca nota, consentono all’autrice di chiarire tutti i dubbi dei lettori più pignoli e pedanti.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi 1981
Giorgio Albertazzi, Memorie di Adriano. La voce dell'imperatore dal romanzo di Marguerite Yourcenar, Minimum Fax 2007
Sono tornato a questo libro straordinario, dopo tantissimi anni, in seguito alla visione della riduzione teatrale di Giorgio Albertazzi, prodotta in dvd da Minimum Fax, che, sia pur eccellente, non marcia con lo stesso passo del libro. Il potente e suggestivo monologo, la cui prima edizione risale al 1951, trova la sua giusta dimensione più tra le pagine di un libro che tra le assi di un palcoscenico. Il merito va soprattutto all’incredibile capacità della scrittrice che, in un fittissimo tessuto narrativo di ben trecento pagine, riesce a tener ben desta l’attenzione del lettore senza un solo attimo di stanchezza. Adriano, sessantenne alle soglie della morte, si rivolge all’erede designato Marc’Aurelio e gli sciorina la storia della sua vita, strettamente intrecciata a una delle fasi più cruciali della storia dell’Impero Romano. Ne vengono fuori delle pagine intense che spaziano dalla felicità al dolore, dalla dissolutezza all’austerità, dalla tenerezza più sublime alla crudeltà più spietata, dalle nebbie della stregoneria alla luce abbagliante della ragione, dal dramma alla festa, dalla serenità della pace alla tensione della guerra, dalla contemplazione delle meraviglie della natura allo smarrimento di fronte ai misteri della vita. I crucci e i problemi che si pone questo grande personaggio sono quelli degli uomini di ogni tempo ed è sorprendente notare come anche i temi geopolitici più scottanti (Iraq, Medioriente, Balcani, Nordafrica) del secondo secolo siano gli stessi del ventunesimo, così come le difficoltà delle campagne d’Asia (Daci, Sarmati, etc), con la gestione mirata e alternata delle varie bande etniche, richiamano gli sciagurati interventi occidentali in Afghanistan dei nostri giorni.
Adriano conglobava in sé la sapienza e la sensibilità della cultura greca (“Quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”) e il concreto e spietato realismo della cultura latina (“L’impero l’ho governato in latino… ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto” “La dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate” “Roma… l’atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, …il cigolio stesso degli organi della macchina del potere”). Era consapevole del ruolo che Roma aveva e avrebbe avuto per sempre nella Storia; la grandezza di Roma era testimoniata dalla sua docile mutevolezza: “Qualsiasi creazione umana che pretenda all’eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri”. “… altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo”. Sapeva benissimo che quello che Roma aveva seminato nel mondo in termini di civiltà, avrebbe costituito per tutti i popoli a venire le basi del progresso: “Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all’anarchia, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l’ultima città degli uomini”.
Adriano, su questo gran parte degli storici concordano, fu il migliore tra gli imperatori Romani; in un’epoca in cui il principale divertimento erano gli spettacoli sanguinolenti che si svolgevano al Colosseo, lui si poneva il problema di “leggi misurate in termini umane”; mitigò gli aspetti più violenti e odiosi della schiavitù e fece del rispetto delle opinioni altrui una ragione della sua vita e una regola del suo governo.
Giaceva indifferentemente con donne e uomini, ma l’amore vero lo provò solo verso l’adolescente Antinoo (“La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto”), che elevò, dopo la prematura morte, alle soglie della deità.
L’amore delle donne lo trovava fatuo e interessato (“… sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto”) e trovava limitata la loro visuale, duro il loro senso pratico, grigio il loro cielo “non appena cessa di ridervi l’amore”; come dargli torto, soprattutto considerando che queste parole gliele mette in bocca proprio una donna…
Riconosceva però un grande valore al ruolo della donna nella famiglia e nella casa, della quale doveva essere “la regnante dal potere illimitato”; promulgò leggi contro la violenza sulle donne e contro il matrimonio non consensuale.
Abile e coraggioso al fronte, sceglieva le truppe in base a quella che lui riteneva la più alta forma di virtù: “la ferma determinazione di essere utile”. Incarnava virtuosamente quella concezione della guerra che è propria di tutti i sovrani, ma alla quale solo pochi illuminati hanno creduto veramente: preparare la guerra per giungere alla pace più duratura.
Non aveva smanie di grandezza e valutava tutto sulla base della realpolitik (“Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell’impero, mi faceva l’effetto d’una escrescenza malsana, un cancro, un’idropisia che avrebbe finito per ucciderci”), (“A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?); era però perfettamente cosciente del suo ruolo e della sua funzione (“La mia vita privata mi commuoveva meno della Storia”) e si sentiva responsabile dei crimini di cui si erano macchiati alcuni dei suoi predecessori, Nerone in primis.
In campo religioso, lungimirante, e direi preveggente, detestava i cristiani (“Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta…”); guarda caso, la diffusione del loro credo sarebbe stata una delle principali cause del crollo dell’impero. Non era tenero nemmeno con gli ebrei, era convinto che il loro eterno conflitto con gli arabi fosse causato dai loro “furori religiosi”, dalla loro “liturgia singolare” e dall’“intransigenza del loro Dio”. Non gli riuscì il disegno di fare di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; “dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest’ultimo prevalga”.
Ricordo che siamo nel secondo secolo dc, e gli ebrei zeloti svolgono nei confronti dei romani lo stesso identico ruolo che oggi svolgono i palestinesi nei loro confronti; appare incredibile leggere questa frase: “… l’ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare”, stiamo parlando della striscia di Gaza!
Profetico, si lascia andare: “Se sedici anni del regno d’un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro”.
Adriano amava le religioni romane “vaghe e venerabili”, purificate da intransigenze e riti tribali, che avevano il merito di associare misteriosamente la gente ai sogni più antichi dell’uomo e della terra ma “senza inibirci una spiegazione laica dei fatti, un’intuizione razionale della condotta umana”.
Rivoluzionaria era la sua concezione della Giustizia: “Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione, … se troppo complicate sono rese inefficaci dall’ingegnosità umana”. “Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici”. “Le leggi mutano meno rapidamente dei costumi, pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli”, “Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva…”.
Era convinto che i cattivi si potessero rendere “inoffensivi a forza di bontà” e arrivò a perdonare uno schiavo che aveva tentato di pugnalarlo a tradimento, dopo averlo disarmato a mani nude non esitò a liberarlo.
Anticipò di parecchi secoli la riforma agraria, “Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d’ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all’agricoltore che s’incaricherà di trarne buon partito”.
Incentivò le cooperative degli artigiani e assegnò alle truppe di frontiera il ruolo di educatori delle popolazioni confinanti.
Grande viaggiatore, creò un efficientissimo sistema di corriere postale a staffetta che gli consentiva di governare da ogni angolo dell’impero; quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, si definiva “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”.
Cultore della bellezza (“Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”), poneva gran cura nelle costruzioni e nelle ricostruzioni delle terre devastate dalle guerre o dalle calamità naturali. “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. “Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le biblioteche facevano venire in mente ad Adriano l’amata imperatrice Plotina, moglie del suo predecessore Traiano, che aveva istituito in pieno Foro Traiano una grande biblioteca e l’aveva denominata “Ospedale dell’anima”.
“Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre, il segreto delle sorgenti”.
“La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie piene di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d’un porticato…”.
La grande villa di Tivoli, che divenne la sua vera reggia, rappresentò l’apoteosi delle sue idee in materia di bellezza architettonica.
Gli inglesi, che se la tirano tanto, senza l’opera di Adriano, avrebbero ben poco da raccontare in termini di sviluppo civile, “Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa… io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell’isola situata ai confini del mondo conosciuto”. “… Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l’ipotesi d’uno Stato accentrato in Occidente, d’un mondo atlantico…”. Qualcuno lo racconti a Cameron e ai fautori della Brexit…
Il tramonto e la fine di Adriano si mantennero in linea con il personaggio, surrogò la mancanza di eredi naturali nominando il figlio adottivo del probo dignitario Antonino, che nel frattempo aveva lui stesso adottato; si trattava di quel Marc’Aurelio che governò per un ventennio, ma del quale rimangono notizie storiche e personali frammentarie e incerte.
Spirò a Baia, una frazione di Bacoli nel napoletano, il 10 luglio del 138; vi era stato condotto nella speranza che l’aria del mare alleviasse i suoi problemi respiratori.
“Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non essere destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri”.
Di fronte a un’opera di questo tipo, superata la fase dell’ammirazione e dello stupore, può legittimamente levarsi il dubbio che l’autore possa avere abusato di una certa discrezionalità, nel riportare così minuziosamente il pensiero del protagonista. Marguerite Yourcenar ha impiegato più di vent’anni a completare questo suo capolavoro; sono stati anni di studio e ricerca condotti con scrupolo e pazienza certosina. Bene ha fatto la Einaudi ad aggiungere in questa edizione del 1981 i “Taccuini di appunti” che, uniti a una ricca nota, consentono all’autrice di chiarire tutti i dubbi dei lettori più pignoli e pedanti.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi 1981
Giorgio Albertazzi, Memorie di Adriano. La voce dell'imperatore dal romanzo di Marguerite Yourcenar, Minimum Fax 2007
giovedì 18 febbraio 2016
RIZZOLI, LA VERA STORIA DI UNA GRANDE FAMIGLIA ITALIANA
Al di la delle vicissitudini tremende che hanno portato al crollo di quello che per anni è stato il più grande gruppo editoriale d'Europa, il comm. Angelo Rizzoli è stato il capostipite della dinastia che meglio ha incarnato l'imprenditoria italiana del '900. Il Commenda, come tutti lo chiamavano, era cresciuto nell'orfanotrofio dei Martinitt ma, una volta conseguita la licenza elementare e imparato il mestiere di tipografo, dimostrò subito le sue grandi doti imprenditoriali avviando una tipografia che presto sarebbe diventata un impero. Il libro scritto in forma epistolare dai due nipoti Nicola e Alberto che, assieme al più famoso fratello di quest'ultimo Angelo, lo hanno seguito nell'avventura imprenditoriale, ripercorre tutte le vicende della famiglia e dell'impresa.
Il loro racconto delinea perfettamente, a volte anche in modo impietoso, il carattere di tutti i protagonisti e alterna gustose scene di vita familiare ad altrettanti gustosi aneddoti e particolari di vita aziendale. I due non nascondono certo i vezzi da miliardari che hanno contrassegnato la loro vita, e Alberto ci avrebbe potuto risparmiare quella disgustosa foto che lo ritrae sulla carcassa di un elefante appena ucciso in un Safari. Il libro comunque è godibilissimo perché dentro c'è gran parte della storia del novecento anche se vista da una posizione privilegiata. Il Commenda non dimenticò mai la sua origine e per tutta la vita si comportò da gran benefattore; ebbe la fortuna di non assistere al crollo del suo impero e pertanto il bilancio della sua vita fu veramente entusiasmante. Il suo motto era: "La ricchezza bisogna farsela perdonare". Angelo Rizzoli fu l'alfiere dell'editoria "pura", infatti non concepiva minimamente l'idea che l'industriale di un altro settore potesse diventare editore di libri e giornali; aveva visto benissimo, dopo la sua morte il settore finì nelle mani rapaci dei grandi manager che, nell'intento di piegare gli organi di stampa ai loro interessi, snaturarono e travolsero il mondo dell'editoria. La parte del libro in cui gli autori non hanno brillato è quella, guarda un po', che riguarda la ricostruzione dei fatti che portarono al coinvolgimento della famiglia nella vicenda della P2 di Licio Gelli e che fu preludio del crollo dell'impero. Bruno Tassan Din appare quasi come un personaggio marginale ed è nominato solamente due volte di soppiatto. Povero Commenda vaglielo a dire che oggi siamo arrivati al punto che la sua casa editrice è stata inglobata dalla Mondadori di quella famiglia Berlusconi, che è esattamente il simbolo di un modo di fare imprenditoria che lui detestava. A proposito: avete visto chi è l'editore di questo libro?
RIZZOLI, La vera storia di una grande famiglia italiana
di Nicola Carraro e Alberto Rizzoli
Mondadori, 2015
Il loro racconto delinea perfettamente, a volte anche in modo impietoso, il carattere di tutti i protagonisti e alterna gustose scene di vita familiare ad altrettanti gustosi aneddoti e particolari di vita aziendale. I due non nascondono certo i vezzi da miliardari che hanno contrassegnato la loro vita, e Alberto ci avrebbe potuto risparmiare quella disgustosa foto che lo ritrae sulla carcassa di un elefante appena ucciso in un Safari. Il libro comunque è godibilissimo perché dentro c'è gran parte della storia del novecento anche se vista da una posizione privilegiata. Il Commenda non dimenticò mai la sua origine e per tutta la vita si comportò da gran benefattore; ebbe la fortuna di non assistere al crollo del suo impero e pertanto il bilancio della sua vita fu veramente entusiasmante. Il suo motto era: "La ricchezza bisogna farsela perdonare". Angelo Rizzoli fu l'alfiere dell'editoria "pura", infatti non concepiva minimamente l'idea che l'industriale di un altro settore potesse diventare editore di libri e giornali; aveva visto benissimo, dopo la sua morte il settore finì nelle mani rapaci dei grandi manager che, nell'intento di piegare gli organi di stampa ai loro interessi, snaturarono e travolsero il mondo dell'editoria. La parte del libro in cui gli autori non hanno brillato è quella, guarda un po', che riguarda la ricostruzione dei fatti che portarono al coinvolgimento della famiglia nella vicenda della P2 di Licio Gelli e che fu preludio del crollo dell'impero. Bruno Tassan Din appare quasi come un personaggio marginale ed è nominato solamente due volte di soppiatto. Povero Commenda vaglielo a dire che oggi siamo arrivati al punto che la sua casa editrice è stata inglobata dalla Mondadori di quella famiglia Berlusconi, che è esattamente il simbolo di un modo di fare imprenditoria che lui detestava. A proposito: avete visto chi è l'editore di questo libro?
RIZZOLI, La vera storia di una grande famiglia italiana
di Nicola Carraro e Alberto Rizzoli
Mondadori, 2015
mercoledì 3 febbraio 2016
UNO SPETTRO SI AGGIRA PER LA CITTÀ…
…è lo spettro del Comunismo; è agitato da due cavalieri senza macchia e senza paura, uno biondo e l’altro bruno che, dopo aver assistito con regale indifferenza al saccheggio della città da parte delle bande neofasciste, hanno ripreso il tradizionale ruolo di guastatori della Sinistra. La sindrome da cui sono affetti è conosciuta ed è stata studiata a lungo in questi anni, si tratta di una forma di “Bertinottite” acuta, che porta chi ne è colpito a combattere aspramente gli esponenti del proprio schieramento che hanno l’ardire di voler governare, nel tentativo di favorirne la sconfitta e il conseguente trionfo degli avversari. Questi due ormai attempati giovanotti, che elettoralmente hanno costituito sempre un problema per gli uffici della prefettura, costretti a tarare i computer su parametri infinitesimali, indignati e incazzati “a prescindere” per ovvi motivi, sono convinti di rappresentare “l’alternativa”. Ma alternativa a che? Che analisi hanno fatto? Che progetto hanno? Le loro parole d’ordine coincidono sindacalmente con quelle dei Cobas e degli autonomi e politicamente con quelle dei grillini e dei leghisti.
Allora mi chiedo: che senso ha fare una guerriglia interna alla Sinistra quando non si hanno obiettivi su cui spostare l’opinione, le speranze e la forza dei militanti e degli elettori? Tenere sulla graticola Giuseppe Falcomatà, ignorando l’immane e proficuo lavoro che in poco più di un anno di governo ha consentito di gettare le basi per una rinascita duratura della città, è un’operazione irresponsabile che, qualora i nostri avessero conservato un pizzico di credibilità, rischierebbe di generare solo amarezza, scoramento e qualunquismo.
Ma per fortuna, come dicevo, le uscite di questi comunisti abusivi, amplificate strumentalmente da chi ancora non ha digerito il nuovo corso, cadono nel vuoto e servono solo a confermare l’ammonimento del vecchio Lenin: “Estremismo malattia infantile del comunismo”, anche se nel caso dei nostri due lo stato di infantilismo ha assunto le dimensioni di un’era geologica.
Guido Della Preda
Allora mi chiedo: che senso ha fare una guerriglia interna alla Sinistra quando non si hanno obiettivi su cui spostare l’opinione, le speranze e la forza dei militanti e degli elettori? Tenere sulla graticola Giuseppe Falcomatà, ignorando l’immane e proficuo lavoro che in poco più di un anno di governo ha consentito di gettare le basi per una rinascita duratura della città, è un’operazione irresponsabile che, qualora i nostri avessero conservato un pizzico di credibilità, rischierebbe di generare solo amarezza, scoramento e qualunquismo.
Ma per fortuna, come dicevo, le uscite di questi comunisti abusivi, amplificate strumentalmente da chi ancora non ha digerito il nuovo corso, cadono nel vuoto e servono solo a confermare l’ammonimento del vecchio Lenin: “Estremismo malattia infantile del comunismo”, anche se nel caso dei nostri due lo stato di infantilismo ha assunto le dimensioni di un’era geologica.
Guido Della Preda
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