Dice bene Aldo Varano su "L'Ora della Calabria" di oggi: la criminalità non è una piaga che riguarda solo il Mezzogiorno. Questa riflessione nasce osservando la distribuzione degli incarichi all'interno della segreteria politica di Matteo Renzi; l'assegnazione all'ottima Pina Picierno della doppia delega denominata "Legalità e Sud" è, infatti, chiaramente rivelatrice di un retropensiero che tende ad assimilare i due aspetti. Il messaggio, e vogliamo sperare che si tratti solo di un infortunio e non di una scelta meditata, è devastante: anche Matteo Renzi, il nuovo che avanza, tende a ridurre la Questione Meridionale a mera questione criminale. Buona parte del Paese e della vera sinistra italiana hanno affidato grandi aspettative e speranze a Renzi, ma la delusione sarebbe proporzionale alle aspettative se il nuovo PD non provvedesse subito a mettere in agenda il problema del Sud per farlo ripartire con, per usare ancora le parole di Varano, "strategie di innovazione e modernità che esaltino potenzialità, culture e vocazioni del suo territorio". Per quanto riguarda l'argomento legalità ci vuol poco, invece, a capire che si tratta di un problema di dimensioni nazionali (per non dire planetarie); il terreno di coltura della 'ndrangheta, e di tutta la criminalità organizzata, è il mondo degli affari, folle sarebbe, quindi, pensare di affrontare il problema rincorrendo i pastori di Platì e San Luca piuttosto che i fighetti di piazza San Babila. La nuova politica non deve fare lo stesso errore della magistratura, la quale in questi anni ha tentato di colmare il vuoto teorico ed operativo dei governi con un iperattivismo viziato da protagonismo narcisista. Non servono magistar, ma magistrati operativi, coraggiosi e liberi da ogni forma di condizionamento; quando Giovanni Falcone decise di affrontare seriamente il problema mafia a Palermo, si isolò dal resto del mondo e si rinchiuse dentro una caserma della guardia di finanza, lavorando instancabilmente giorno e notte rifuggendo telecamere e salotti televisivi. La lotta alla criminalità in Italia è ancora ferma al mito di Osso, Mastrosso e Carcagnosso e in Calabria c'è ancora chi crede seriamente che il capo della 'ndrangheta sia uno sfigato ultraottantenne arrestato mentre trasportava la frutta in motoape. Da Matteo Renzi e la sua squadra ci aspettiamo un intervento a 360 gradi che affronti radicalmente il problema criminalità organizzata sin dagli aspetti etimologici. Rivoluzionario sarebbe mettere al bando i termini mafia, 'ndrangheta e camorra che, anche grazie a certa pubblicistica perversa, rivestono un aspetto di sacralità che attrae morbosamente le fasce più ignoranti della popolazione. Altrettanto rivoluzionario sarebbe mettere al bando le associazioni antimafia e staccare le stellette dal petto dei professionisti del settore. In una società finalmente normale la legalità è una condizione naturale e non deve esistere commistione di ruoli tra carriere e professioni. La stessa abusata teoria dell'Area grigia deve essere riportata su un terreno sociologico e non giudiziario; non è possibile pretendere che un cittadino debba essere costretto a chiedere il certificato antimafia al meccanico a cui intende affidare la riparazione della sua vettura. Sarebbe interessante che qualcuno spiegasse ai cittadini se è più grave mangiare le frittole in un grande tavolo attorno al quale può capitare un pregiudicato, oppure frequentare consapevolmente personaggi come i Ligresti, protagonisti del malaffare che ha messo in ginocchio l'economia italiana. Il processo di rottamazione avviato da Matteo Renzi dunque è da considerarsi appena iniziato e ci auguriamo che proceda anche fuori dalle stanze del PD.
Franco Arcidiaco
lunedì 16 dicembre 2013
GRAMSCI, TOGLIATTI, LONGO, BERLINGUER E… RENZI
Chi pensa che la vittoria di Matteo Renzi rappresenti una sconfitta per gli eredi del PCI, non ha capito nulla non solo di quel partito ma di gran parte della storia italiana degli ultimi 80 anni. Sin dal lontano 21 gennaio del 1921, quando al Teatro San Marco di Livorno fu fondato il partito, il PCI ha costituito quello che il politologo pugliese Salvatore Speranza giustamente definisce “un paese nel Paese”, citando un pensiero di Pier Paolo Pasolini. E quel “paese” esiste ancora oggi ed è incarnato nei gangli più vitali e sani della politica italiana. E’ un “paese” abitato da persone perbene e pacifiche, animate da un fortissimo senso civico, ricche di valori basilari quali la solidarietà e il bene comune. Oggi quel “paese” si è schierato compatto al fianco di Renzi, con buona pace di quelli che pensano che il più grande partito della sinistra italiana abbia svoltato a destra. La parte migliore del PCI ed i suoi eredi oggi sono con Renzi, così come ieri erano con Enrico Berlinguer; la scellerata azione politica sfociata in quella tristemente famosa “svolta della Bolognina” ha avuto quantomeno il merito di fare uscire allo scoperto i sottoprodotti di una fantastica stagione politica (Occhetto, D’Alema, Veltroni e compagnia cantante) che militavano, per mero opportunismo, in un partito di cui non condividevano gli ideali.
I comunisti italiani, considerandosi parte fondante del patto costituzionale, erano caratterizzati da un roccioso senso dello Stato e delle Istituzioni. Sin dalle prime scelte di Togliatti, all’alba della Repubblica, fino alla determinante azione svolta negli anni del terrorismo, i comunisti sono stati in prima linea nella difesa delle istituzioni democratiche. La scuola politica del PCI ha dimostrato il suo grande valore nella gestione delle cosiddette “Regioni Rosse” ed ancora oggi Emilia Romagna, Toscana e Umbria costituiscono dei mirabili esempi di buona amministrazione locale, per non parlare della mitica stagione dei sindaci (Valenzi, Argan, Petroselli, Vetere, Novelli, Zangheri, Bonazzi, Falcomatà e tanti altri) che ha risvegliato nelle popolazioni l’amore per la propria città ed il rispetto per le istituzioni. L’azione di Napolitano in questi anni costituisce la fioritura di un destino politico (intriso di cultura dello Stato e amor di patria), e ridicolizza le tesi di chi aveva archiviato frettolosamente la storia del PCI attribuendogli colpe che non erano certo sue.
Quello che costituisce la migliore eredità del Pci e dei suoi settanta anni di vita e di lotta riguarda senz’altro la Costituzione e la democrazia italiana, i diritti dei lavoratori e lo stato sociale. Non c'è parola o gesto dei dirigenti comunisti italiani dei primi quarant'anni della Repubblica che non vada in direzione della difesa delle istituzioni democratiche, dell’arginamento dei sussulti populistici e delle tentazioni plebeistiche, pur nel rispetto di un operaismo maturo e consapevole. La scuola dei dirigenti comunisti fu severa nei confronti di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l'inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l'interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra, personaggi diversi per temperamento (basta confrontare Napolitano, Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao e Berlinguer), innamorati della politica, con una grande motivazione etica. La loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, la loro spinta verso l'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e il risultato che così si ottenne, in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentassero, costituirono il capolavoro politico di quegli anni bui. I comunisti italiani e la “via italiana al socialismo” si conquistarono il rispetto e l’attenzione del mondo intero. Nel 1978, al rientro da un viaggio negli USA dopo un ciclo di conferenze nelle principali università, Napolitano dichiarò profeticamente: “Queste questioni investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice". Oggi Giorgio Napolitano ha riscattato l’intera vicenda politica del Pci e l’ha consegnata alla storia nella sua giusta dimensione, quella, per dirla con Thomas Mann, della politica che «non potrà mai spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare la sua parte etica». Non è affatto un caso che questo comunista rigoroso, questo leader politico di grande caratura intellettuale si sia ritrovato oggi a reggere il timone di una nave in balia dei flutti, nel tentativo di salvare uno dei più importanti Paesi occidentali e dimostrando che la politica, quella seria, quella alla quale il berlusconismo ci aveva disabituato, ha bisogno di qualità che derivano dall’esperienza e da una sana formazione culturale.
Oggi il PD, guidato da Matteo Renzi, ha le carte in regola per raccogliere questa immensa eredità; determinante sarà la capacità di mantenerne il rigore morale e la forza decisionale. Il formidabile strumento che fece grande il PCI fu il “Centralismo Democratico” che, al contrario di quello che si vuol far pensare, non era bieco unanimismo opportunista, ma florido prodotto di articolate elaborazioni dialettiche che, seminate nell’humus delle sezioni, arrivavano al vertice e consentivano ai dirigenti di governare il Partito con fermezza. Questo è lo strumento di cui ha bisogno il PD di oggi e un leader carismatico e diretto come Renzi è la persona giusta per reinterpretarlo.
Franco Arcidiaco
I comunisti italiani, considerandosi parte fondante del patto costituzionale, erano caratterizzati da un roccioso senso dello Stato e delle Istituzioni. Sin dalle prime scelte di Togliatti, all’alba della Repubblica, fino alla determinante azione svolta negli anni del terrorismo, i comunisti sono stati in prima linea nella difesa delle istituzioni democratiche. La scuola politica del PCI ha dimostrato il suo grande valore nella gestione delle cosiddette “Regioni Rosse” ed ancora oggi Emilia Romagna, Toscana e Umbria costituiscono dei mirabili esempi di buona amministrazione locale, per non parlare della mitica stagione dei sindaci (Valenzi, Argan, Petroselli, Vetere, Novelli, Zangheri, Bonazzi, Falcomatà e tanti altri) che ha risvegliato nelle popolazioni l’amore per la propria città ed il rispetto per le istituzioni. L’azione di Napolitano in questi anni costituisce la fioritura di un destino politico (intriso di cultura dello Stato e amor di patria), e ridicolizza le tesi di chi aveva archiviato frettolosamente la storia del PCI attribuendogli colpe che non erano certo sue.
Quello che costituisce la migliore eredità del Pci e dei suoi settanta anni di vita e di lotta riguarda senz’altro la Costituzione e la democrazia italiana, i diritti dei lavoratori e lo stato sociale. Non c'è parola o gesto dei dirigenti comunisti italiani dei primi quarant'anni della Repubblica che non vada in direzione della difesa delle istituzioni democratiche, dell’arginamento dei sussulti populistici e delle tentazioni plebeistiche, pur nel rispetto di un operaismo maturo e consapevole. La scuola dei dirigenti comunisti fu severa nei confronti di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l'inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l'interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra, personaggi diversi per temperamento (basta confrontare Napolitano, Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao e Berlinguer), innamorati della politica, con una grande motivazione etica. La loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, la loro spinta verso l'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e il risultato che così si ottenne, in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentassero, costituirono il capolavoro politico di quegli anni bui. I comunisti italiani e la “via italiana al socialismo” si conquistarono il rispetto e l’attenzione del mondo intero. Nel 1978, al rientro da un viaggio negli USA dopo un ciclo di conferenze nelle principali università, Napolitano dichiarò profeticamente: “Queste questioni investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice". Oggi Giorgio Napolitano ha riscattato l’intera vicenda politica del Pci e l’ha consegnata alla storia nella sua giusta dimensione, quella, per dirla con Thomas Mann, della politica che «non potrà mai spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare la sua parte etica». Non è affatto un caso che questo comunista rigoroso, questo leader politico di grande caratura intellettuale si sia ritrovato oggi a reggere il timone di una nave in balia dei flutti, nel tentativo di salvare uno dei più importanti Paesi occidentali e dimostrando che la politica, quella seria, quella alla quale il berlusconismo ci aveva disabituato, ha bisogno di qualità che derivano dall’esperienza e da una sana formazione culturale.
Oggi il PD, guidato da Matteo Renzi, ha le carte in regola per raccogliere questa immensa eredità; determinante sarà la capacità di mantenerne il rigore morale e la forza decisionale. Il formidabile strumento che fece grande il PCI fu il “Centralismo Democratico” che, al contrario di quello che si vuol far pensare, non era bieco unanimismo opportunista, ma florido prodotto di articolate elaborazioni dialettiche che, seminate nell’humus delle sezioni, arrivavano al vertice e consentivano ai dirigenti di governare il Partito con fermezza. Questo è lo strumento di cui ha bisogno il PD di oggi e un leader carismatico e diretto come Renzi è la persona giusta per reinterpretarlo.
Franco Arcidiaco
giovedì 28 novembre 2013
ROCCO SCIARRONE E LA DEMOCRAZIA DELLA PATATA
Il consigliere provinciale Rocco Sciarrone, a riprova della sua grande sensibilità verso i gravi problemi sociali che affliggono il nostro territorio, ha pensato bene di gratificare un gruppo di giovani volenterosi, pescando of course dal suo bacino elettorale, spedendoli a Roma ad assistere Berlusconi nella sua agonia. Lo rivela il collega Nello Trocchia in un gustoso articolo su "Il Fatto Quotidiano" di oggi; "Non siamo iscritti, ma è tutto pagato pure l'albergo, tutto a gratis (sic)", hanno dichiarato allo stupefatto (ma non tanto) cronista, mentre intonavano l'inno coniato per l'occasione: "Viva la patata, viva la patata!". Gli stremati protagonisti di questo spontaneo "Tour per la Democrazia" hanno poi goduto il meritato riposo presso un mega albergo della capitale, nientemeno che lo "Sheraton golf club", un 4 stelle lusso. Un video sul "FattoquotidianoTV" documenta la loro magnifica avventura; quello che non è documentata è la delusione che hanno provato rientrando la sera nel grande albergo; memori delle mitiche "cene eleganti" di Arcore avevano cominciato a fantasticare sugli extra che certamente avrebbero trovato nelle loro camere, grande è stato il disappunto nel verificare che il pacchetto non prevedeva la "coperta" e finanche la paytv non era prevista tra i rimborsi. Munifico ma incauto il consigliere Sciarrone! E poi ci domandiamo perché i giovani si allontanano dalla politica…
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
martedì 26 novembre 2013
E' IL ROSSO MAGGIO IL MESE DI PASQUINO CRUPI!
Il mese di Maggio per Pasquino Crupi era un mese speciale: il corteo della Festa del Lavoro e, quattro giorni dopo, la processione di San Leo. Due eventi, di natura solo apparentemente opposta, che lo coinvolgevano da protagonista assoluto nella sua Bova. I primi giorni dello scorso mese di Aprile, il Professore mi convocò nel suo studio presso l' Università "Dante Alighieri", la malattia gli aveva risparmiato solo lo sguardo fiammeggiante e la verve umoristica, ma la sua voce era debole e lo stesso immancabile sigaro non aveva il profumo di sempre. Lo guardai bene dietro la coltre di fumo, mi ricambiò lo sguardo e mi gelò: "Direttore, si avvicina il tempo del mio ultimo Primo Maggio e della mia ultima processione di San Leo". Non trovai nemmeno la forza di schernirlo, i nostri occhi si inumidirono all'unisono e mi precipitai ad abbracciarlo senza fiatare. Ci conoscevamo da troppi anni e mai avevamo barato tra di noi, nemmeno in occasione delle innumerevoli dispute conseguenti alle sue imprevedibili e repentine scelte politiche che mi spiazzavano. Ci davamo rigorosamente il "Voi", lui, un gigante al mio cospetto, mi riservava un rispetto che mi metteva in imbarazzo. "Mi dovete pubblicare al più presto un librettino su San Leo", mi disse perentorio; trovai la forza di scherzare: "Professore, che fate vi buttate sotto le bandiere?", "Direttore, lo sapete, non potrei mai credere in un Dio onnipotente e, nel contempo, incapace di domare la scelleratezza dell'uomo e l'imperfezione della Natura. L'invenzione del libero arbitrio è la dimostrazione dell'incapacità della chiesa di dimostrare l'esistenza di Dio; ma c'è un angolo importante della mia anima che riservo alla Madonna di Polsi, a cui era devotissima mia madre, e al culto di San Leo, il Santo Operaio". Mettemmo subito in cantiere il "San Leo", che uscì qualche giorno prima della festa, ma poi le forze e gli ultimi sfibranti impegni non gli consentirono di riguardare il testo su Polsi. Nel rispetto della sua volontà, e con il consenso del figlio Vincenzo, ho chiesto a don Pino Strangio, rettore del Santuario di Polsi, di preparare una prefazione al volume che uscirà nei primi mesi del prossimo anno. Il 21 agosto era un giorno caldo con il cielo coperto, davanti al portone della chiesa, circondato da centinaia di persone, mi guardavo smarrito e cercavo di dare un senso a quella decisione dei suoi cari di far svolgere il funerale in chiesa; ci misi poco a rendermi conto che i presenti lo trovavano del tutto naturale. Pur nel massimo rispetto della decisione della moglie e dei figli, mi rimbombavano nella testa le chiare parole che, pochi mesi prima, il prof. mi aveva pronunciato e che io custodirò sempre come suo testamento spirituale. Nei giorni successivi alla sua morte, i media sono stati assaltati da "coccodrilli" di ogni specie. Tanti ricordi erano sinceri e pertinenti, altri artefatti e opportunisti. Ma quello che veramente è risultato offensivo, fatto salvo, onore al merito, il sincero omaggio tributato da dirigenti e militanti del PDCI, è stato il silenzio della Sinistra ufficiale, quel mondo, che Pasquino aveva incarnato e interpretato da protagonista, che non lo aveva mai amato veramente, spaventato probabilmente dal suo spirito eretico. E così il più grande interprete della cultura meridionalista, il più fervente cantore delle lotte del mondo operaio e contadino, brillante e corretto alfiere dell'edonismo laico, si è ritrovato ad essere celebrato prima tra le navate di una chiesa e subito dopo tra gli emicicli presidiati da una destra lontana mille miglia dalla sua storia e dalla sua cultura più profonda. Ironia della sorte e summa iniuria generata da questi tempi selvaggi.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
giovedì 21 novembre 2013
CHIESA, 'NDRANGHETA E MAGISTAR
Se Nicola Gratteri non fosse il più importante Procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, ma fosse un semplice scrittore-saggista, nessuno, a parte i più pignoli amanti del buon gusto, troverebbe niente da ridire sulle sue comparsate televisive e sulle interviste a effetto rilasciate a giornalisti compiacenti. Ci si potrebbe limitare a classificarle tra le normali attività di marketing che le grandi case editrici (e in questo la Mondadori di Marina Berlusconi è maestra) sviluppano all'uscita di un best seller. D'altra parte, nei giorni precedenti, abbiamo visto come i media, con in testa i soliti noti del Fatto Quotidiano, non si siano fatti scrupolo di rilanciare i deliri berlusconiani per promuovere l'ennesimo libro-panettone di Bruno Vespa. Ma proprio questo è il punto, Nicola Gratteri non è Bruno Vespa e i suoi libri fino ad oggi sono stati considerati delle pietre miliari per lo studio e l'interpretazione del fenomeno 'ndrangheta. Pertanto se un magistrato di quel livello scrive sulle pagine di un libro, destinato a vendere centinaia di migliaia di copie, che in Calabria la Chiesa è connivente con la mafia, arrivando a gettare ombre addirittura sulle figure di GianCarlo Bregantini e Giuseppe Morosini, è legittimo domandarsi per quale motivo abbia deciso di bruciare questo prezioso materiale di indagine gettandolo ai quattro venti e mettendo sull'avviso i principali sospettati. Non risulta, infatti, che in tanti anni di lotte alla 'ndrangheta sia mai emersa alcuna pista concreta che abbia portato gli investigatori non dico fino all'altare, ma nemmeno dentro la penombra della sagrestia. La stessa inchiesta sulle Cooperative della Valle del Buonamico fallì miseramente ed ebbe come unico effetto, guarda un po', il trasferimento del Vescovo Bregantini da Locri a Campobasso. L'8 ottobre del 2007, esattamente un mese prima di essere trasferito, padre Giancarlo "profeticamente" così scriveva dalle colonne de "Il Quotidiano": "Solo chi vince il male nella sua umanità può frenare la negatività attorno a sé. Di freni ha tanto bisogno, oggi, la nostra Calabria. Freni alle chiacchiere inutili. Freni alle invidie e alle gelosie. Freni ai sentimenti coltivati nel rancore che meditano vendette. Freni a trasmissioni televisive pensate non per informare ma per infangare. Freni alla vanità della mente e alla durezza del cuore! Questo perché mai dalla bassezza può nascere il futuro! ... è nel silenzio, nell'umiltà, nel perdono, nella bonitas che nasce l'uomo nuovo!". Aveva le idee chiare padre GianCarlo sulla Calabria e sui calabresi che lui, da trentino, aveva capito molto meglio di tanti di noi che qui siamo nati, viviamo e operiamo; e aveva le idee chiare anche sul ruolo dei preti. In uno dei tanti indimenticabili colloqui, in occasione della preparazione dei suoi tre libri pubblicati dalla mia casa editrice con la collaborazione di Ida Nucera, amava tratteggiare metaforicamente le figure dei Promessi Sposi, e sottolineava come Lucia, icona di luce ma attorniata dalle tenebre e assediata da Don Rodrigo, "esempio tragico di tutti i nostri mafiosi", fosse ben difesa da Fra Cristoforo e non da don Abbondio che lui definiva "prete ineccepibile sul piano formale, ma privo di luce profetica, perché chiuso nel buio delle sue paure". Quanti don Abbondio e quanti Fra Cristoforo ci sono in Calabria, dottor Gratteri? E anche ammesso che i primi fossero in soprannumero, se la sentirebbe di iscriverli tutti nella colonna dei cattivi? Non tutti i preti possono essere don Pino Puglisi o don Peppino Diana così come non tutti i magistrati possono essere Giovanni Falcone o Paolo Borsellino. Io che non sono nè cattolico nè credente sono in grado di stilare un lunghissimo elenco di preti di ogni ordine e grado che ogni giorno, con impegno ed abnegazione, assolvono alla loro funzione di stare al fianco degli ultimi; chè questo dev'essere il loro ruolo e non certo quello di fare il cane da guardia delle istituzioni. In una società civile e organizzata non ci deve essere frammistione di ruoli, esemplari in questo senso furono le parole che Italo Falcomatà rivolse serenamente, com'era suo costume, ad un altro magistrato di prima linea, quel dottor Salvatore Boemi che gli destinava decine di avvisi di garanzia : "Un sindaco non è un mafiologo nè un mafiografo... Il dottor Boemi, invece è d'altra pasta, ha il senso della prima linea, dove si sente il tuono del cannone, che il resto del paese, cui la guerra viene raccontata, non può avere. Io onoro questo combattente, non battendo lo stesso chiodo, ma indebolendo la durezza del legno". Dovremmo fare tutti tesoro dell'insegnamento di questo grande politico calabrese e rientrare tutti nei ranghi: i giornalisti a fare i giornalisti (e non la cassa di risonanza di chicchessia), i preti a curare le anime (e tralasciare i corpi), i politici a governare nell'interesse generale (e qui la vedo nera...), gli intellettuali a studiare e non tacere ed infine i magistrati e le forze dell'ordine a combattere il male e a... scrivere libri, ma solo dopo il pensionamento. Ritengo, infatti, che l'azione dei Magistar sia vissuta con gran disagio dal corpo della Magistratura, poichè rischia di produrre gli stessi effetti destabilizzanti che l'azione degli Archistar ha provocato nel campo dell'Architettura.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
IL COMUNISTA DEGLI ANNI DEL "SOLE NON QUIETO"
Nino Stillittano, scomparso lo scorso 30 luglio all’età di 94 anni, era l’archetipo del militante del PCI. Rigoroso, intransigente, preparato, instancabile e coraggioso ha segnato con la sua presenza la vita politica della provincia reggina. Il manifesto funebre lo ha indicato semplicemente come "insegnante elementare in pensione". Il figlio Elio, apprezzato primario di medicina interna all'ospedale di Melito Porto Salvo, ha voluto così rispettare la volontà del padre, la cui vita è sempre stata improntata dall'umiltà e dalla passione politica, e nel contempo fornire la mirabile sintesi della vita di un militante comunista che aveva la vocazione alla lotta e non alla carriera. Eppure il necrologio di Nino avrebbe potuto riempire parecchie pagine, tanti infatti erano stati i ruoli di primo piano che aveva rivestito e gli incarichi che aveva svolto nel corso della sua lunga vita, sempre in prima linea e con grande senso di responsabilità. Sul finire degli anni '90 aveva dato alle stampe con la mia casa editrice un volume che aveva un titolo dal sapore epico: "Era l'anno del sole non quieto"; si trattava di un libro di 500 pagine (e francamente stento a immaginare un altro politico in grado di produrre un resoconto della sua attività di questa portata) nel quale aveva inteso raccogliere una sterminata mole di documenti che testimoniavano la sua attività politica nel solo territorio della provincia di Reggio Calabria. Cinque anni dopo, di comune accordo, abbiamo estrapolato da quel lavoro la sezione che riguardava la rivolta del '70 e ne è scaturito un più agile volume dal titolo: "Reggio capoluogo, fu vero scippo?", arricchito da una vasta appendice di documenti. La tesi che ne scaturiva dimostrava inequivocabilmente che la città di Reggio non si poteva ritenere vittima dello scippo del titolo di capoluogo, per il semplice motivo che non lo aveva mai posseduto. Una tesi netta, derivante da una serena analisi dei documenti, coerente alla dottrina epistemologica di impronta marxista che orientava Nino Stillittano nei suoi studi di storia contemporanea. Sono stati cinque anni nei quali ho avuto modo di frequentare Nino abbastanza assiduamente, mi ha sempre manifestato una simpatia e una stima che affievolivano quel senso di soggezione che inevitabilmente la sua figura mi trasmetteva. Mi tornavano in mente i primi anni di militanza nel PCI, sul finire degli anni '70, nella storica sezione "Nino Battaglia" del quartiere Tremulini. Le interminabili e fumose riunioni che si svolgevano erano delle vere e proprie palestre di dialettica e di politica e, quando era prevista la presenza di un "compagno della Federazione", noi giovani passavamo la notte precedente a studiare e ripetere l'intervento che avevamo preparato. Chi come me ha avuto la fortuna di frequentare la scuola del Comunismo italiano, ha acquisito un bagaglio etico e culturale di valore inestimabile che ci ha permesso di mantenere la barra dritta nel corso di quella "tempesta perfetta" che è stato il ventennio berlusconiano, figlio della sciagurata stagione del tramonto delle ideologie. Qualcuno prima o poi dovrà trovare il coraggio e la serenità di scrivere la storia di quell'assurdo percorso, segnato da una forma di follia collettiva, che ha portato alla cosiddetta "svolta della Bolognina". Quando, il 12 novembre 1989, Achille Occhetto, improbabile successore di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer, avviò il percorso che avrebbe portato allo scioglimento del PCI, non tenne affatto in conto l'elemento cardine che fungeva da collante etico nel partito e che era costituito dal rispetto fideistico dei militanti (quel famoso "zoccolo duro") verso la linea politica ufficiale determinata dalla pratica del mai troppo rimpianto "Centralismo Democratico" (quanto ce ne sarebbe bisogno nel PD oggi...); il quale non era solo un geniale ossimoro, ma costituitiva l'espressione della parte più alta e nobile della politica, quella derivante dal più serrato confronto dialettico incuneato saldamente tra i binari dell'ideologia. Scrive, a questo proposito, il grande Pasquino Crupi nella sua prefazione a "Era l'anno del sole non quieto": "Nino Stillittano non era ortodosso per vocazione e conformismo, ma, poiché faceva parte del gruppo dirigente, l'etica del centralismo democratico voleva che egli celasse il suo punto di vista nel punto di vista della Segreteria", e ancora: "La discussione era quasi sempre aspra, ma il costume voleva: al di sopra di tutto l'unità del Partito e il documento unitario finale concludeva ogni volta il dibattito". Sono tanti gli episodi della vita di Nino che si potrebbero citare a riprova della sua tempra morale e politica, ma preferisco lasciare la parola ancora a Pasquino Crupi, per raccontare un episodio che descrive in modo folgorante l'uomo e il suo tempo: "Siamo a Piazza Duomo, a qualche mese di distanza dal luglio incendiato e incendiario. 10 luglio 1970 la sfida è lanciata. Parlano in piazza i socialisti e i comunisti. I fascisti erano orgogliosi di dirsi fascisti e mostravano che in effetti lo erano, tentando di impedire il comizio. Da Roma è venuto il vicesegretario del PSI Giovanni Mosca. È sul palco. Per i comunisti parla Nino Stillittano. Parla. I fascisti urlano. Urla di più Nino Stillittano, rivolto ai fascisti: <>. La strada a Giovanni Mosca è spianata. Il mito che a Reggio comunisti e socialisti non parleranno più è sfatato. Nino Stillittano, un comunista fatto di pasta speciale, è stato il protagonista della svolta, che lentamente porterà alla ripresa della vita democratica Reggio".
In realtà la ripresa della vita democratica a Reggio avrebbe tardato ancora a venire, sarebbe arrivata solo sul finire del '93 con l'avvento di Italo Falcomatà. Un sogno durato appena otto anni, troppo breve per una città complessa e problematica che deve il suo tragico destino proprio alla carenza di uomini di quel carisma.
Franco Arcidiaco
In realtà la ripresa della vita democratica a Reggio avrebbe tardato ancora a venire, sarebbe arrivata solo sul finire del '93 con l'avvento di Italo Falcomatà. Un sogno durato appena otto anni, troppo breve per una città complessa e problematica che deve il suo tragico destino proprio alla carenza di uomini di quel carisma.
Franco Arcidiaco
giovedì 19 settembre 2013
L’INFORMAZIONE NON E’ MAI TROPPA
Vittorio Sabadin nel saggio L'ultima copia del “New York Times”: il futuro dei giornali di carta, pubblicato da Donzelli nel 2007, ha fissato nel 2043 il momento nel quale l’ultimo vecchio e stanco lettore si recherà in edicola ad acquistare l’ultima copia di un giornale quotidiano. Non è certo questa drastica previsione che ha spinto me, e gli amici che mi affiancano in questa nuova avventura, a varare un nuovo giornale online nella nostra regione. I motivi della generale disaffezione che si è creata attorno al mondo della carta stampata e dell’informazione in generale sono molteplici e sicuramente non mancheremo di approfondirli in seguito, ma noi siamo certi che una voce in più, intanto, non potrà che aiutare a dissipare malumori e scetticismi. Certo, risuonano ancora nelle orecchie le parole pronunciate dal Procuratore Cafiero de Raho, il 2 luglio scorso all’apertura di Tabularasa, quando ha dichiarato testualmente che i giornali in genere “sono uno dei problemi di Reggio Calabria”; ha poi spiegato che si riferiva alla circostanza che nessuna “testata di carta stampata” ha sede a Reggio, “né locale né nazionale”. Francamente mi sento di tranquillizzare il Procuratore, la mia discreta esperienza (quarantennale), maturata nel mondo dell’informazione del centro sud, mi porta ad affermare che la qualità della stampa calabrese non è certamente seconda a quella delle altre regioni e lo dimostra il fatto che sono moltissimi i giornalisti calabresi e reggini ad avere un ruolo di primissimo piano nelle grandi testate nazionali.
CalabriaPost cercherà di ritagliarsi uno spazio originale, aprendo le sue colonne all’approfondimento e alla discussione aperta e leale. Politici, intellettuali, colleghi giornalisti, blogger e semplici cittadini troveranno qui una sorta di Hyde Park che consentirà loro di svolgere la funzione di homo civicus, dando sfogo a quella “ragionevole follia dei beni comuni” di cui parla Franco Cassano.
Nessuno si aspetti che CalabriaPost diventi un ulteriore ricettacolo di carte e dossier distribuiti a piene mani da avvocati e magistrati; oggi queste due categorie esercitano una pressione ad apparire sui giornali cui è difficile resistere, ma così si finisce per ridurre gli organi di stampa alla stregua di imbuti dai quali passa solo un certo tipo di informazione strumentale a certi interessi. Gli interventi sul nostro giornale saranno diretti e ognuno si dovrà assumere la responsabilità di ciò che scrive.
Oggi, l’uso che si tenta di fare dell’informazione nella Rete porta ad alimentare il qualunquismo e la disaffezione verso la politica; competenza, incompetenza e improvvisazione vanno a braccetto, a scapito della capacità di giudizio individuale e del senso di responsabilità. Paghiamo lo scotto di una comunicazione maturata nell’ultimo ventennio in modo strumentale al disegno di Berlusconi, teso ad abbassare il livello etico e culturale della nazione per renderla schiava degli interessi suoi e della sua casta.
E’ evidente che il nostro occhio sarà vigile e attento principalmente riguardo i problemi del nostro territorio, che noi riteniamo causati, in egual misura, dalla malapolitica e da una certa carenza di senso civico piuttosto diffusa tra alcuni strati della popolazione. E qui entra in gioco il ruolo delle cause e degli effetti, perché sin quando il potere risulterà espressione di quella parte di elettorato che intende la politica come il cassetto dei propri desideri, saremo condannati al degrado e al fallimento.
L’estate appena trascorsa va registrata nella categoria: “Un’altra estate da dimenticare”, violenza, degrado e disservizi sono stati ancora una volta la cifra dominante della vita sociale della nostra regione. La violenza e i disservizi gravano sulle spalle di imprenditori e cittadini, il degrado è sotto gli occhi di tutti; provate a mettervi su un treno in direzione Roma - Reggio Calabria e guardate dal finestrino, una volta entrati in Calabria noterete un brusco cambiamento del paesaggio: cemento, sporcizia, disordine, incuria e abbandono vi accompagneranno in un doloroso crescendo fino a Reggio. Paradossalmente i nostri amministratori, Governatore in testa, continuano a parlare di turismo come salvifica prospettiva di sviluppo, ma non riusciamo proprio a immaginare tour operator ed imprenditori alberghieri di un certo livello, alle prese con un contesto ambientale che è lontano anni luce da quello delle vere capitali del turismo. Il futuro della Calabria deve passare preliminarmente da una bonifica del territorio e, conseguentemente, del paesaggio; per raggiungere questo risultato nel breve periodo, sono necessarie precise volontà politiche che inevitabilmente debbono essere sostenute da un apparato legislativo che rivesta i caratteri dell’eccezionalità. La stessa eccezionalità riservata al giudizio dell’operato dei pubblici consessi, non si capisce perché non debba essere rivolta, per esempio, al recupero del paesaggio devastato e alla “riconquista della bellezza” del nostro territorio.
Il tema che riguarda le condizioni in cui versa la nostra città è ben trattato, in altra parte del giornale, da Peppe Basile; avremo modo di ritornarci in seguito, siamo, infatti, certi che il futuro di Reggio Calabria dipende strettamente dalla capacità dei cittadini di capire cosa effettivamente è accaduto negli anni sciagurati del cosiddetto “Modello Reggio”. Nostro compito sarà fugare il nemmeno tanto sottile tentativo, messo in atto dalla classe politica che ha causato questo disastro, di invertire i ruoli di vittima e carnefice.
Diciamo sin d’ora che non ci stiamo a essere classificati “nemici di Reggio” da chi ha messo la città a ferro e fuoco e oggi tenta, tanto disperatamente quanto maldestramente, di sfuggire dalle proprie responsabilità
Franco Arcidiaco
CalabriaPost cercherà di ritagliarsi uno spazio originale, aprendo le sue colonne all’approfondimento e alla discussione aperta e leale. Politici, intellettuali, colleghi giornalisti, blogger e semplici cittadini troveranno qui una sorta di Hyde Park che consentirà loro di svolgere la funzione di homo civicus, dando sfogo a quella “ragionevole follia dei beni comuni” di cui parla Franco Cassano.
Nessuno si aspetti che CalabriaPost diventi un ulteriore ricettacolo di carte e dossier distribuiti a piene mani da avvocati e magistrati; oggi queste due categorie esercitano una pressione ad apparire sui giornali cui è difficile resistere, ma così si finisce per ridurre gli organi di stampa alla stregua di imbuti dai quali passa solo un certo tipo di informazione strumentale a certi interessi. Gli interventi sul nostro giornale saranno diretti e ognuno si dovrà assumere la responsabilità di ciò che scrive.
Oggi, l’uso che si tenta di fare dell’informazione nella Rete porta ad alimentare il qualunquismo e la disaffezione verso la politica; competenza, incompetenza e improvvisazione vanno a braccetto, a scapito della capacità di giudizio individuale e del senso di responsabilità. Paghiamo lo scotto di una comunicazione maturata nell’ultimo ventennio in modo strumentale al disegno di Berlusconi, teso ad abbassare il livello etico e culturale della nazione per renderla schiava degli interessi suoi e della sua casta.
E’ evidente che il nostro occhio sarà vigile e attento principalmente riguardo i problemi del nostro territorio, che noi riteniamo causati, in egual misura, dalla malapolitica e da una certa carenza di senso civico piuttosto diffusa tra alcuni strati della popolazione. E qui entra in gioco il ruolo delle cause e degli effetti, perché sin quando il potere risulterà espressione di quella parte di elettorato che intende la politica come il cassetto dei propri desideri, saremo condannati al degrado e al fallimento.
L’estate appena trascorsa va registrata nella categoria: “Un’altra estate da dimenticare”, violenza, degrado e disservizi sono stati ancora una volta la cifra dominante della vita sociale della nostra regione. La violenza e i disservizi gravano sulle spalle di imprenditori e cittadini, il degrado è sotto gli occhi di tutti; provate a mettervi su un treno in direzione Roma - Reggio Calabria e guardate dal finestrino, una volta entrati in Calabria noterete un brusco cambiamento del paesaggio: cemento, sporcizia, disordine, incuria e abbandono vi accompagneranno in un doloroso crescendo fino a Reggio. Paradossalmente i nostri amministratori, Governatore in testa, continuano a parlare di turismo come salvifica prospettiva di sviluppo, ma non riusciamo proprio a immaginare tour operator ed imprenditori alberghieri di un certo livello, alle prese con un contesto ambientale che è lontano anni luce da quello delle vere capitali del turismo. Il futuro della Calabria deve passare preliminarmente da una bonifica del territorio e, conseguentemente, del paesaggio; per raggiungere questo risultato nel breve periodo, sono necessarie precise volontà politiche che inevitabilmente debbono essere sostenute da un apparato legislativo che rivesta i caratteri dell’eccezionalità. La stessa eccezionalità riservata al giudizio dell’operato dei pubblici consessi, non si capisce perché non debba essere rivolta, per esempio, al recupero del paesaggio devastato e alla “riconquista della bellezza” del nostro territorio.
Il tema che riguarda le condizioni in cui versa la nostra città è ben trattato, in altra parte del giornale, da Peppe Basile; avremo modo di ritornarci in seguito, siamo, infatti, certi che il futuro di Reggio Calabria dipende strettamente dalla capacità dei cittadini di capire cosa effettivamente è accaduto negli anni sciagurati del cosiddetto “Modello Reggio”. Nostro compito sarà fugare il nemmeno tanto sottile tentativo, messo in atto dalla classe politica che ha causato questo disastro, di invertire i ruoli di vittima e carnefice.
Diciamo sin d’ora che non ci stiamo a essere classificati “nemici di Reggio” da chi ha messo la città a ferro e fuoco e oggi tenta, tanto disperatamente quanto maldestramente, di sfuggire dalle proprie responsabilità
Franco Arcidiaco
mercoledì 7 agosto 2013
LA STELE DIVELTA
Incuria, degrado e indifferenza continuano a contraddistinguere la sciagurata stagione che sta attraversando la nostra città. A farne le spese sono anche i monumenti e lo testimonia la foto che ritrae una Stele, in pregiata pietra di Lazzaro, divelta e abbandonata presso un deposito all’aperto della Multiservizi. La Stele era stata collocata dalla Fondazione “Italo Falcomatà”, il 19 marzo del 2009, presso il giardino della sezione staccata dell’Eremo della Scuola Elementare intestata allo scomparso Sindaco della Primavera Reggina. La posa delle Stele era stata voluta dalla presidente della Fondazione Falcomatà, Rosa Neto, per commemorare il terremoto del 1908 a perenne ricordo dei morti e dei giusti che, accorrendo da ogni parte del mondo, avevano soccorso i nostri padri. Era stato scelto il periodo primaverile perché proprio nella primavera del 1909, pochi mesi dopo il tremendo sisma, la vita aveva cominciato a registrare segnali di ripresa sullo Stretto; si celebrava così la stagione della vita che rinasce, assieme alla speranza, nel cuore degli uomini, individuando nella primavera di cento anni dopo il periodo migliore. Accanto alla Stele, la Fondazione aveva messo a dimora un carrubbo per simboleggiare la vita che, radicata nella terra, trae forza e vigore, cresce e dà frutti. Il carrubbo è un albero semplice ma forte, maestoso ma non altisonante, chiede poco ma dà tanto e resiste alla siccità e all’inquinamento, ma purtroppo nulla può fare contro la stagione dei barbari. Alla cerimonia, svoltasi davanti a una sala stracolma, erano intervenuti tutti i rappresentanti delle autorità civili, militari e religiose ed era stata molto apprezzata la scelta della scuola che, come sottolineato nel discorso di Rosa Neto, “è il luogo dove i bimbi crescono e si preparano alla vita. Un posto che dovrebbe essere custodito come un santuario e protetto come un gioiello della corona, aiutato con tutto l’affetto e l’amore che ciascuno di noi riserva ai propri figli”. Oggi la sede staccata di quella scuola non c’è più e con essa è sparita la stele, senza che nessuno si sia degnato di avvisare la Fondazione e le autorità che tanto amore e interesse avevano manifestato il giorno della sua posa. La Fondazione “Italo Falcomatà”, in tutte le sue componenti, chiede alla Commissione straordinaria che regge il Comune, di porre riparo a questa grave ingiuria alla sensibilità di quella parte sana della città che ancora crede nel valore del ricordo e della memoria. Giungano a monito le parole del grande filosofo Blaise Pascal: “La memoria è necessaria per tutte le operazioni della ragione”.
Franco Arcidiaco, membro del Cda della Fondazione.
Franco Arcidiaco, membro del Cda della Fondazione.
venerdì 12 luglio 2013
LA CGIL E LA CAMPAGNA D'ASPROMONTE
L'economista Piero Ichino, già nel 2005, si domandava in suo famoso libro: "A che cosa serve il Sindacato?". I dirigenti della CGIL calabrese hanno dato finalmente una risposta convincente: serve a contestare duramente la nomina di un titolato e pacifico professore a presidente del Parco d'Aspromonte per sostenere, in alternativa, il rampollo di una blasonata famiglia democristiana, che ancora imperversa nella Locride tra i cascami della prima repubblica. In una regione in cui le emergenze sociali non si contano più, sono andato a vedere quante volte i dirigenti regionali della CGIL abbiano fatto sentire la loro voce, se non c'è un problema nei motori di ricerca pare che solo la nomina del prof. Bombino li abbia risvegliati da un incredibile torpore. È chiaro che, non essendo nato ieri, non penso affatto che la scelta (che tra l'altro giunge con un anno di ritardo) del neoministro dell'ambiente Andrea Orlando, sia stata dettata da una serena, obiettiva e imparziale valutazione dei curricula presentati dagli aspiranti al trono. Certamente la segnalazione al ministro sarà giunta direttamente dal governatore Scopelliti e, altrettanto certamente, avrà trovato il suo motore propulsivo nella veemente passione con la quale il prof. Giuseppe Bombino si è opposto al commissariamento del comune di Reggio Calabria. Quando, nel settembre del 2012, il prof. Bombino firmò il famoso Manifesto dei 500 contro lo scioglimento del Comune, fui tra i primi a replicare firmando il contromanifesto e motivando le mie ragioni con un articolo su strill.it.
Bombino rispose con un'intervista a Peppe Caridi su strettoweb.com nella quale spiegò pacatamente le sue ragioni: "Avvertivo un clima strano in città. Tutti si schieravano sul problema dello scioglimento del Comune in base a posizioni politiche, senza un vero dibattito cittadino. Da parte dei reggini vedevo un’attesa passiva, incompatibile con una città che è sempre stata protagonista attiva della sua storia, ha sempre sfornato grandi pensatori, idealisti, artisti, poeti, scrittori. Una città così importante come Reggio non può stare in silenzio ad aspettare in modo passivo una scelta così importante, con ansia inerme ma senza esprimersi". Bombino sosteneva che la sua iniziativa non era tesa a influenzare la decisione imminente ma serviva a creare "un'infrastruttura culturale per non subire passivamente decisioni calate dall'alto", e a "scardinare l'atteggiamento di ansia inerme" che attanaglia la nostra comunità. In sostanza Bombino aveva espresso un'istanza genuina, ma soprattutto aveva segnato un'inversione di tendenza nel rompere il disarmante silenzio degli intellettuali della nostra città. La città purtroppo, dopo quelle fiammate, sarebbe ripiombata nella sua solita abulia ma Bombino quantomeno ci aveva provato, stimolando un dibattito che mancava da decenni. Aveva ragione, tant'è vero che il manifesto fu firmato da molta gente di sinistra, a riprova che non era portatore di istanze politiche ben definite. Il centrodestra, naturalmente, non comprese la nobiltà dell'azione e strumentalizzò l'iniziativa di Bombino, il quale però ritornò imperturbabile ai suoi studi e alla sua cattedra forte del motto paolino: "Omnia munda mundis" ovvero "tutte le cose sono pure per i puri". Oggi è arrivata questa nomina prestigiosa e il prof. Giuseppe Bombino ha tutti i numeri per essere considerato l'uomo giusto al posto giusto. Un docente universitario serio e preparato, dalla condotta irreprensibile e, in più, fornito di una grande dose di umiltà. La sua predisposizione al dialogo gli consentirà di svolgere il difficile ruolo nel migliore dei modi, riportando il Parco ai fasti della gestione di un altro grande docente suo predecessore, il prof. Tonino Perna, il quale svolse un ruolo fondamentale per il riscatto di un territorio la cui fama, fino ad allora, era tristemente legata solo a episodi di cronaca nera; il tutto a riprova del fatto che la gestione di un Ente pubblico non è materia esclusiva dei professionisti della politica. In un recente colloquio il prof. Bombino mi ha manifestato, coerentemente con la sua vocazione umanistica, l'intenzione di rivitalizzare il Parco Letterario dell'Aspromonte. Tutti gli intellettuali calabresi hanno il dovere di sostenere questa iniziativa, per dare il giusto riconoscimento a un'area geografica che ha dato i natali a scrittori e intellettuali di enorme valore. Sarebbe bello se il presidente Bombino pianificasse la sua prima uscita ufficiale a San Luca, paese di Corrado Alvaro, tale visita rivestirebbe certamente un forte valore simbolico sul piano culturale. Altrettanto determinato il prof. Bombino è nei riguardi della promozione della mitica “Chanson d’Apremont”, una chanson de geste del XII secolo, portata alla luce dalla studiosa Carmelina Sicari oltre trent’anni fa, e mai valorizzata dalle istituzioni locali.
Franco Arcidiaco
Bombino rispose con un'intervista a Peppe Caridi su strettoweb.com nella quale spiegò pacatamente le sue ragioni: "Avvertivo un clima strano in città. Tutti si schieravano sul problema dello scioglimento del Comune in base a posizioni politiche, senza un vero dibattito cittadino. Da parte dei reggini vedevo un’attesa passiva, incompatibile con una città che è sempre stata protagonista attiva della sua storia, ha sempre sfornato grandi pensatori, idealisti, artisti, poeti, scrittori. Una città così importante come Reggio non può stare in silenzio ad aspettare in modo passivo una scelta così importante, con ansia inerme ma senza esprimersi". Bombino sosteneva che la sua iniziativa non era tesa a influenzare la decisione imminente ma serviva a creare "un'infrastruttura culturale per non subire passivamente decisioni calate dall'alto", e a "scardinare l'atteggiamento di ansia inerme" che attanaglia la nostra comunità. In sostanza Bombino aveva espresso un'istanza genuina, ma soprattutto aveva segnato un'inversione di tendenza nel rompere il disarmante silenzio degli intellettuali della nostra città. La città purtroppo, dopo quelle fiammate, sarebbe ripiombata nella sua solita abulia ma Bombino quantomeno ci aveva provato, stimolando un dibattito che mancava da decenni. Aveva ragione, tant'è vero che il manifesto fu firmato da molta gente di sinistra, a riprova che non era portatore di istanze politiche ben definite. Il centrodestra, naturalmente, non comprese la nobiltà dell'azione e strumentalizzò l'iniziativa di Bombino, il quale però ritornò imperturbabile ai suoi studi e alla sua cattedra forte del motto paolino: "Omnia munda mundis" ovvero "tutte le cose sono pure per i puri". Oggi è arrivata questa nomina prestigiosa e il prof. Giuseppe Bombino ha tutti i numeri per essere considerato l'uomo giusto al posto giusto. Un docente universitario serio e preparato, dalla condotta irreprensibile e, in più, fornito di una grande dose di umiltà. La sua predisposizione al dialogo gli consentirà di svolgere il difficile ruolo nel migliore dei modi, riportando il Parco ai fasti della gestione di un altro grande docente suo predecessore, il prof. Tonino Perna, il quale svolse un ruolo fondamentale per il riscatto di un territorio la cui fama, fino ad allora, era tristemente legata solo a episodi di cronaca nera; il tutto a riprova del fatto che la gestione di un Ente pubblico non è materia esclusiva dei professionisti della politica. In un recente colloquio il prof. Bombino mi ha manifestato, coerentemente con la sua vocazione umanistica, l'intenzione di rivitalizzare il Parco Letterario dell'Aspromonte. Tutti gli intellettuali calabresi hanno il dovere di sostenere questa iniziativa, per dare il giusto riconoscimento a un'area geografica che ha dato i natali a scrittori e intellettuali di enorme valore. Sarebbe bello se il presidente Bombino pianificasse la sua prima uscita ufficiale a San Luca, paese di Corrado Alvaro, tale visita rivestirebbe certamente un forte valore simbolico sul piano culturale. Altrettanto determinato il prof. Bombino è nei riguardi della promozione della mitica “Chanson d’Apremont”, una chanson de geste del XII secolo, portata alla luce dalla studiosa Carmelina Sicari oltre trent’anni fa, e mai valorizzata dalle istituzioni locali.
Franco Arcidiaco
sabato 22 giugno 2013
martedì 18 giugno 2013
LA GRANDE BELLEZZA (DI UN TRAILER LUNGO DUE ORE E MEZZA)
Alla fine ce la potremmo cavare con una proporzione multipla: "La grande bellezza" sta a "La dolce vita" come Paolo Sorrentino sta a Federico Fellini, come Toni Servillo sta a Marcello Mastroianni, come Anita Ekberg sta a Sabrina Ferilli. Ma sarebbe riduttivo e, soprattutto, non renderebbe onore ai tanti autorevoli critici, tra i quali il mio amico Paride Leporace, che hanno tessuto lodi sperticate verso l'ultimo film del nuovo regista di riferimento dell'intellighenzia italiana. Ma purtroppo anche il bravo Paolo Sorrentino è caduto nella tentazione fatale di superare "l'esame Fellini", a nulla gli è valso sapere che prima di lui ci avessero lasciato le penne, nello stesso vano tentativo, nomi del calibro di Nanni Moretti, Roberto Benigni e di un certo Woody Allen. Quando, nel 1981, uscì "Sogni d'oro" fu chiaro a tutti che Moretti aveva voluto, dall'alto della sua presuntuosa autoreferenzialità, tentare un iperbolico accostamento all' "Otto e mezzo" felliniano. Ci pensò Sergio Leone a metterlo a posto con la tagliente risposta alla domanda di un giornalista: "Fellini Otto e mezzo mi interessa, Moretti Uno e un quarto no!". Stessa sorte capitò al grande Roberto Benigni. È risaputo che tra i grandi progetti irrealizzati di Federico Fellini c'era il "Pinocchio"; finita la lavorazione de "La voce della luna" il Maestro si rivolse a Benigni e a Paolo Villaggio dicendo: "Siete due personaggi collodiani!". Incautamente Benigni la prese come un'investitura e, scomparso Fellini, si produsse, nel 2002, in quell'imbarazzante "Pinocchio" che gli è valso ben 5 nomination ai "Razzie Awards", che sarebbero gli Oscar dei peggiori film. Buon ultimo arriva, nel 2012, il mitico Woody Allen il quale, con la mente obnubilata dalla visione de "Lo sceicco bianco" e dalle scene immaginifiche, oniriche e provocatoriamente eterodosse di "Roma", realizza "To Rome with love" il suo film più sciatto e abbozzato, che costituisce una macchia indelebile nella sua peraltro splendida filmografia. E proprio a quest'ultimo film mi andava la mente, man mano che nello schermo scorrevano le immagini de "La grande bellezza". Eppure ero stato ben predisposto dall'iniziale citazione di Celine e del suo "Viaggio al termine della notte", salvo poi rendermi conto che Sorrentino aveva voluto, così, mettere in essere un'abile manovra autoassolutoria. I primi dieci minuti di un film sono come l'incipit di un romanzo, se non riesci a superarli molla tutto e passa ad altro! Con un libro è più facile, non devi dar conto a nessuno, lo metti da parte e ne prendi un altro; al cinema è più complicato, non sono mai riuscito a farlo, non me la sono mai sentita di infliggere quest'umiliazione pubblica alla "settima arte", anche se questa volta, confesso, la tentazione è stata forte. Per me il solo sfiorare Fellini è un delitto di lesa maestà, non ho mai perdonato a Goffredo Fofi la stroncatura di "Amarcord" (Quaderni Piacentini n. 55 del 1975) fu un vero e proprio pugno nello stomaco per uno come me che considerava le recensioni piacentiniane una bibbia; ci avrebbe messo quasi vent'anni a ricredersi Fofi, con un'incredibile giravolta, infatti, nella nuova edizione del suo libro "Strana gente" (Donzelli, 1992) arrivò a definire "Amarcord" e "Roma" "capisaldi di una lettura antropologica dell'Italia di cui l'Italia aveva assoluto bisogno". Paolo Sorrentino ha un bel dire che non pensava a Fellini, "non esiste alcuna relazione tra il mio film e La dolce vita", ha dichiarato a Cannes. Il suo film è impregnato dei tòpoi felliniani più scontati: nani, ballerine, cardinali mondani, suore improbabili, fatalone decadenti, dandy decaduti, luoghi urbani stranianti e animali esotici "fuori luogo". A proposito di questi ultimi, inutile dire che la sua giraffa risulta più fuori posto di quanto non risultasse il rinoceronte nella scialuppa di salvataggio de "La nave va" e i suoi orrendi fenicotteri digitali non evocano nemmeno lontanamente la magia, per esempio, delle cicogne di Marco Ferreri nella scena finale de "La carne". Lì era tutto surreale, qui al massimo è grottesco. Sorrentino sciorina un ributtante campionario freaks e lo inserisce in una soffocante atmosfera da girone dantesco a cinque stelle, creando un indigeribile pastone che trasmette una sgradevole sensazione di compilativo e raccogliticcio. Materiali di seconda mano assemblati da un collante narrativo che non riesce né ad emozionare né a far riflettere. L'immagine di Roma che ne deriva è assieme barocca e cafona, che sarà magari aderente alla realtà di oggi ma non merita certo di essere raccontata con uno spot autocompiaciuto lungo due ore e mezza! A proposito di spot, stendiamo un velo pietoso sulle innumerevoli marchette pubblicitarie di cui è infarcito il film, roba da cinepanettone! Per non parlare poi della recitazione, Toni Servillo farebbe bene a prendersi una pausa di riflessione, non è gigioneggiando che si corona una mirabile carriera, un velo pietoso su Carlo Verdone che quando non fa ridere risulta patetico, manieristico Roberto Herlitzka, penosa (a livello di caso umano) Serena Grandi. Giganteggia, il che è quanto dire, la sola Sabrina Ferilli. Paolo Sorrentino non subirà l'onta che toccò a Bernardo Bertolucci che si dovette sorbire "Ultimo tango a Zagarol", lui la parodia se l'è fatta da solo.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
venerdì 7 giugno 2013
domenica 26 maggio 2013
TENTATIVO DI BILANCIO POSITIVO DELLA PARTECIPAZIONE DELLA REGIONE CALABRIA AL SALONE DEL LIBRO
Tempo di bilanci al Salone del Libro, si chiude dopo cinque giorni intensi e fortemente partecipati. La cultura calabrese si è imposta alla grande, superando gli scetticismi anche di chi, come il sottoscritto, aveva sottolineato il ruolo marginale assegnato agli editori dagli organizzatori dello stand. Ma scetticismo non vuol dire disfattismo e penso di averlo dimostrato con la mia frenetica attività a sostegno delle varie iniziative che si sono svolte. Quello che non mi sta bene è lo squallido giochetto che è stato messo in piedi per tentare di farmi passare per un guastatore invidioso e opportunista. Sulle note de "L'Avvelenata" di Guccini, invito tutti i miei colleghi editori che, pur condividendo il mio pensiero, hanno taciuto e magari mi hanno pure parlato alle spalle, a cambiare mestiere; “l’amico”che è andato in giro a riferire che io sarei stato beneficiato dalle passate giunte regionali e provinciali di centrosinistra è invitato, invece, ad andare a leggere negli archivi dei giornali il trattamento che ho riservato ai vari Tripodi, Cersosimo, Principe e Gioffrè. Io non ho mai considerato la politica come il cassetto dei miei bisogni, ho chiesto e chiedo servizi e opportunità, così come pretendo che eventuali risorse economiche vengano elargite con criterio ed equità. Brecht stava dalla parte del torto, io sto sempre dalla parte dell'opposizione, chiunque si trovi al governo. Detto questo, confermo con soddisfazione che il livello culturale espresso da noi calabresi in questo Salone è stato elevatissimo, tra gli eventi più significativi mi piace segnalare l'interessantissima conferenza su un fondamentale incunabolo – ovvero un hand printed book di fine ’400 – oggi conservato nella Biblioteca Palatina di Parma ed esposto nello stand regionale per questa occasione. Si tratta dell’unico esemplare, pressoché integro, che si conservi al mondo del primo libro stampato in ebraico con data certa: il Commento al Pentateuco del noto erudito e talmudista Šelomoh ben Yiṣḥaq, stampato a Reggio Calabria il 18 febbraio 1475 dai torchi dell’israelita Avraham ben Garṭon. L’operazione fu patrocinata – 0 tempora, o mores! – dai ricchi mercanti di seta reggini. Eravamo davvero agli albori dell'epopea tipografica. Bene hanno fatto l'instancabile e appassionato Gilberto Floriani e l'assessore Mario Caligiuri, che ha partecipato a tutte le fasi salienti del Salone, a sottolineare il valore inestimabile di questo reperto, a dimostrazione del ruolo di primo piano svolto nei secoli dalla Calabria sul piano culturale. Non mi soffermerò sugli altri innumerevoli e interessanti eventi, poiché lo hanno già fatto i giovani colleghi che mi hanno affiancato, non posso però far passare inosservato un aspetto che covava sotto la cenere ma è cresciuto a tal punto da rivelarsi un evento: i reading estemporanei, che hanno occupato gli spazi vuoti che si creavano nel normale svolgimento del programma. Cose mai viste fino a oggi allo Stand della Regione Calabria, ma inusuali anche per il Salone nel suo complesso! Con la complicità di quattro autrici giovani e spregiudicate, abbiamo organizzato un FLASHMOB addirittura in due riprese! Lo avevamo annunciato e lo abbiamo fatto; gli spazi istituzionali sono un bene comune e nessuno può impedire che vengano utilizzati nel rispetto, naturalmente, delle stesse prerogative per tutti. Alle 12 e alle 14 di sabato una pattuglia "rosa", scortata dal sottoscritto, nella parte di editore senza cappa e senza spada, ha occupato per due frazioni da 20' ciascuna, lo spazio meeting della Regione. Martina Bertola, Ilaria Fusè e Mariacarla Marini Misterioso, autrici de "L'elenco, morire in diretta", con Margherita Catanzariti, autrice di "Segui sempre il gatto bianco" , hanno dato vita a una performance che ha coinvolto un vastissimo pubblico. Si è creata una situazione surreale nella quale quattro autrici esordienti e incredule sono state travolte da applausi scroscianti degni delle più celebrate star della letteratura. Altro evento estemporaneo e coinvolgente si è svolto ieri, quando ho avuto la possibilità, grazie alla disponibilità di Gliberto Floriani, di concedere lo spazio incontro a una giovane di Bovalino studentessa a Torino, Chiara Nirta, che mi era venuta a proporre un reading improvviso. Il candore veemente che ha messo in campo ha raccolto un foltissimo pubblico, al punto da richiamare l'attenzione dell'assessore Caligiuri che ha dialogato a lungo con i numerosi giovani presenti, riuscendo finanche a sostenere, con notevole aplomb, l'intemerata di un NOTAV fuori controllo. Un grande momento di partecipazione popolare nato da una felice congiunzione di apertura mentale e spirito democratico. A un altr'anno dunque con entusiasmo, nella speranza che si sappia far tesoro di quanto di positivo, nonostante tutto, si è riusciti a produrre.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
EDITORIA RESISTENTE AL SALONE DI TORINO
"Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola". Il celebre motto del politico nazista Baldur von Schirach, che erroneamente è sempre stato attribuito a Goebbels, non si addice certo a politici e burocrati della Regione Calabria. Loro piuttosto sfoderano proprio la cultura, salvo poi a utilizzarla per motivi bassamente clientelari. È normale, quindi, che in questo variopinto guazzabuglio di eventi messo in piedi per sostenere il progetto "Calabria Regione Ospite", si verifichino degli incontri di assoluto pregio e grande levatura culturale. D'altra parte quando scendono in campo personaggi del calibro di Vito Teti, Mimmo Gangemi, Carmine Abbate, Armando Vitale, Paola Bottero, Gianfranco Manfredi, Pino Rotta (per parlare solo di quelli incontrati nell'ultima mezz'ora) la partita la giochi sul velluto. Ma oggi ho preferito tenermi alla larga dallo stand della Regione, molti non hanno digerito la mia sortita sulla "deriva gastronomica" e non ho voluto creare ulteriori imbarazzi a quanti mi avevano dato ragione privatamente e non avevano alcuna voglia di farlo in pubblico. Sono andato allora alla ricerca di un editore "puro", per respirare una boccata di aria buona - tengo subito a precisare che la purezza in campo editoriale non attiene la sfera dei comportamenti etici personali -. Editore puro è il termine convenzionale con cui si designa l'editore di quotidiani, riviste, televisione e media in genere, quando tale attività sia esclusiva e non legata a gruppi finanziari che hanno interessi prevalenti in altri settori. Ma, secondo me, è anche "puro" l'editore di libri di medie e piccole dimensioni che ama il suo lavoro in modo viscerale e dalle istituzioni non pretende altro che servizi. Gli editori puri calabresi presenti con proprio stand al Salone sono meno delle dita di una mano, ci ho messo poco, quindi, a rintracciarne un esemplare. Michele Falco, figlio d'arte, "ma non figlio di papà" come tiene subito a precisare; titolare della Falco editore, ha un proprio stand, arioso e coloratissimo in posizione centrale. Sgombrando il campo da ogni equivoco, mi dice subito che ha speso una fortuna e nessuno gli rimborserà mai nulla; circostanza questa che ci porta entrambi a sottolineare, invece, come la Regione Piemonte sostenga economicamente gli editori che partecipano al Salone. "I soldi della Regione Calabria vanno a finire sempre nelle tasche dei soliti noti" dice Michele "mentre io ritengo che andrebbero sostenuti gli imprenditori che danno lustro alla Calabria". Entrambi rivolgiamo uno sguardo invidioso al vicino stand della Regione Puglia, enorme, ordinatissimo e soprattutto strapieno solo di libri. Michele, affiancato dalla sua attenta redattrice Erminia Madeo, mi parla con passione delle sue ultime creature. "Il coraggio di dire no" è la tragica storia di Lea Garofalo, che ha riempito le pagine di cronaca degli ultimi anni, scritta da un giornalista di Isernia, Paolo De Chiara. Michele, da editore di razza, ha commissionato il libro a questo bravo giornalista che gli era stato segnalato da Enrico Fierro (un nome una garanzia...). Tra la vasta e curatissima, anche dal punto di vista grafico, produzione di Falco mi intrigano altri due titoli; il primo si chiama "Morbi et Orbi", sottotitolo: Pedofilia, omosessualità e fede nella Chiesa di oggi. L'autore è il catanzarese Marco Angiletti, e la sua uscita fa iscrivere di diritto Michele nell'albo degli "editori coraggiosi". Caro Michele in quest'albo sono iscritto da un pezzo, ma solo per motivi anagrafici, anch'io. Ti debbo dire che mi sta sorgendo il dubbio che "coraggioso" per alcuni è inteso come sinonimo di "stupido"... Altro titolo intrigante è "Dieci misteri certosini", scritto dal giornalista Mirko Tassone; si tratta di un'antologia di tutte le storie, in gran parte bufale, che girano attorno alla Certosa di Serra San Bruno. Vere e proprie leggende metropolitane, tra le quali spicca quella riportata anche dal grande serrese Sharo Gambino che vorrebbe ospite della Certosa il pilota del bombardiere B29, il tristemente celebre Enola Gay, che avrebbe sganciato la bomba atomica su Hiroshima. Ieri mi domandavo di cosa parliamo quando parliamo di cultura, presso lo stand di Falco editore abbiamo trovato una prima risposta.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI CULTURA? (ovvero... Come la Regione Calabria intende il Salone del Libro)
Di cosa parliamo quando parliamo di cultura? Parafrasando il grande scrittore minimalista americano Raymond Carver, è questa la domanda che mi sono posto stamattina (ieri, per chi legge) appena trovatomi davanti al grande stand della Regione Calabria, che, non dimentichiamo, è la Regione Ospite di questa edizione del Salone del Libro di Torino. Ho già avuto modo di dire, dalle colonne di questo giornale, cosa penso del mancato coinvolgimento degli editori a un Salone del Libro, ma quello che ho visto oggi va al di là dell'umana immaginazione. Il sistema-Calabria ha ancora una volta dimostrato tutti i suoi limiti permeato, com'è, di provincialismo, supponenza, scarsa professionalità e clientelismo. Ti può capitare allora di arrivare allo Stand e pensare di aver sbagliato Fiera, ti aspetti di vedere scaffali colmi di libri e li trovi invece ricolmi di derrate alimentari e allora ti guardi in giro per vedere dove si è nascosto Franco Neri, magari sei capitato nel bel mezzo di una puntata di Zelig! Poi capisci che sei solo entrato dalla parte sbagliata; girato l'angolo, i libri li trovi pure, ma a quel punto ti sembrano quasi fuori posto. Ha ragione Paola Bottero, significa per caso che ci toccherà portare i libri al prossimo Salone del Gusto? Giovanni e Nunzio, loro sì veri professionisti, librai Ubikiani-resistenti, tengono le bocche rigorosamente chiuse anche se i loro sguardi smarriti sono eloquenti; ma la verità è sotto gli occhi di tutti: nemmeno un quinto del grande stand è occupato dai libri. Alla manifestazione inaugurale il Governatore, annunciato, non è pervenuto, pare si trovi in America (forse richiamato dai tour operator californiani che vogliono raccontata ancora una volta la storiella delle grandi navi da crociera nei porti (?!) calabresi). È toccato quindi all'assessore Mario Caligiuri che ha sciorinato i soliti numeri fantasmagorici sui risultati della politica culturale della Giunta, al collega Massimo Tigani Sava che tanto si sta impegnando per promuovere le eccellenze gastronomiche (?!) calabresi e a Giorgio Albertazzi, il quale a un certo punto, consapevole di trovarsi fuori posto, se ne è uscito sfoderando (da par suo) un argomento a piacere. Incrociando lo sguardo con una vecchia amica, storica rappresentante della società che organizza il Salone, ho capito che le perplessità non erano solo mie, questa "contaminazione gastronomica", fatto sicuramente inedito per la Fiera del Libro, è stata accolta con sorrisetti di scherno, tramutati ipocritamente in battute compiacenti a secondo dei casi. Un altro giro per lo stand mi ha consentito di completare il quadro della situazione: l'aberrante politica delle clientele ha avuto la meglio ancora una volta, e quella che doveva essere una grande opportunità per l'affermazione della vera cultura calabrese è stata trasformata nella solita sagra strapaesana che ha consentito ai politici (manuale Cencelli alla mano) di gratificare compari, comparelli e sodali di ogni tipo. Spazio dunque a una Fondazione (scelta come?), a una pittrice (scelta come?), a un' Associazione Onlus (scelta come?), a un grande artigiano (scelto come?). Beninteso si tratta di persone serie, ispirate certamente da nobilissime aspirazioni, alcune addirittura da tragiche vicende familiari, ma tutto questo cosa c'entra con la Cultura e con l'Editoria? La tragica vicenda della piccola Giulia, alla cui famiglia va tutta la mia sentita e concreta solidarietà, avrebbe meritato ben altre attenzioni dalla Regione Calabria; se qualcuno, così facendo, pensa di mettersi l'anima in pace si sbaglia di grosso. La politica calabrese è una storia di malversazioni, incapacità e malafede e non sarà mai purificata da clamorose operazioni di facciata come questa.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
mercoledì 8 maggio 2013
METTI UNA SERA A BOVA...
Metti una sera di maggio a Bova (454 anime, 820 m. s.l.m.) una conferenza sul grande filologo e glottologo tedesco Gerhard Rohlfs; metti che alla conferenza intervenga il fior fiore della cultura grecanica e un manipolo di intellettuali, nonché il figlio dello stesso filologo, Eckart, giunto appositamente dalla Germania; metti che il tutto si svolga all’interno di un Consiglio Comunale aperto, il cui Sindaco, Santo Casile, abbia deciso di intestare al Rohlfs il locale “Museo della Cultura e dell’Arte Contadina dei Greci di Calabria”; metti che l’assessore Mario Caligiuri sia stato impossibilitato a intervenire, ma abbia inviato un accorato augurio di buon lavoro; metti che complessivamente la sala ospiti poche decine di persone ma che la serata si riveli di straordinario interesse e di gran livello culturale. Rohlfs considerava Bova un “monumento nazionale della grecità” e oggi Bova lo ricambia con calore; è una di quelle occasioni in cui i palazzi-non-finiti, il mare inquinato, i cumuli di spazzatura, gli ospedali fatiscenti, le folle di disoccupati, i politici corrotti e incapaci, ti sembrano lontani mille miglia dalla tua vita. Ti chiedi quali potenti e nascoste forze possano indurre una terra senza redenzione a produrre cultura alta; e finisci con l’acquisire l’orgogliosa consapevolezza di vivere in una terra che ha prodotto più Storia di quanto non ne riesca a consumare e ti viene da sogghignare al pensiero di quei poveri Padani che sono costretti a inventare storie, tradizioni e riti che non hanno mai avuto. Rohlfs scoprì la Calabria e la sua lingua attraverso i prigionieri della Prima Guerra Mondiale ristretti nelle carceri tedesche; attratto dal fascino di quelli che considerava i discendenti dei coloni della Magna Grecia, cominciò, sin dal 1921 e per ben 60 anni, a visitare regolarmente la Calabria. Per dirla con Pasquino Crupi, “Rohlfs, tedesco meridionalista, interrompe la tradizione nefasta dei viaggiatori stranieri che dicevano che l’Europa finiva a Napoli”, anzi arriva a dichiarare, come riferisce il prof. Filippo Violi, che in 60 anni di viaggi nei luoghi più impervi e sperduti della Calabria, non ha mai avuto un benché minimo problema! Nell’ascoltare queste parole non ho potuto fare a meno di scambiare uno sguardo di compiacimento con il Commissario del Parco d’Aspromonte, Antonio Alvaro, che mi sedeva a fianco. Rohlfs difese sempre il prestigio della nostra regione. Nel 1921, appena giuntovi, avendo potuto costatare il contrasto tra la pessima fama e la reale situazione del vivere civile dei calabresi, così scrisse in un articolo apparso in Germania: “Calabria! Quali foschi e raccapriccianti ricordi non si destano in Germania al pronunziare del nome di questo estremo ed inaccessibile nido del brigantaggio! Quale ripugnanza ed orrore non persistono tuttavia, anche a Milano e a Roma, per questa terra famosa, dolorante e malnata; così miseramente ed ingiustamente dallo Stato negletta… In questa terra infiltrata della cultura di parecchi secoli, e in cui tante nazioni si avvicendarono l’una dopo l’altra, ogni fiume, ogni pietra, ogni paesello annidato su di una rupe rappresenta qualche cosa piena di memorie storiche; e da tutta la superficie sua, spira come un soffio di antico e venerabile tempo”. Gli altri relatori della serata sono stati il Conservatore di Beni Culturali Pasquale Faenza e lo studioso Franco Tuscano. E’ emersa la figura di Rohlfs quale “Archeologo della Lingua”, un’archeologia che marca la differenza tra la Grecità sepolta degli scavi e quella vivente “che puzza di capra”, per dirla col prof. Crupi. Il glottologo tedesco intendeva il Mezzogiorno come un “grande corpo di Civiltà”, un Meridionalismo Creativo il suo che, è ancora Pasquino Crupi a parlare: ”Ha inequivocabilmente il Popolo come fonte di ispirazione”. Tutti concordi nel sostenere che, dopo di lui, non è stato scoperto più nulla nel campo della filologia creativa. Tutto questo accadeva l’altra sera a Bova, nel frattempo sui media nazionali…
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
lunedì 29 aprile 2013
AL SALONE DI TORINO CALABRIA E CILE DALLA FINE DEL MONDO
Il Salone del libro di Torino, in programma dal 16 al 20 maggio prossimi, avrà come ospiti una nazione e una regione che arrivano entrambi, per usare l’espressione di Papa Francesco, dalla fine del mondo: il Cile e la Calabria. Lo ha annunciato, in pompa magna, il presidente della Fondazione per il Libro Rolando Picchioni, affiancato, nella conferenza stampa, dal nostro assessore regionale, Mario Caligiuri. Apprendiamo così che la Calabria, che già presiede la Commissione Cultura delle Regioni, ha collocato la cultura tra gli obiettivi primari della Giunta, “anche come azione di contrasto verso la criminalità organizzata attraverso il coinvolgimento dei giovani, chiamati a farsi protagonisti di un riscatto collettivo”. “Si punta sul dialogo con le scuole, su varie iniziative per la promozione della lettura, su cospicui investimenti nelle biblioteche e sulle tecnologie digitali per mettere in rete le risorse già disponibili e coinvolgere i ragazzi in un uso creativo dei nuovi linguaggi, tra valorizzazione del patrimonio esistente, inchieste e nuovi progetti”. Veniamo a sapere, inoltre, che “il calendario degli eventi che saranno ospitati nella cinque giorni del Lingotto, in uno spazio dedicato, toccherà tutti gli aspetti della cultura calabrese, dalla storia al patrimonio artistico e all'archeologia, dall'imprenditoria all'enogastronomia, dalla letteratura all'arte contemporanea. Sono previste mostre, e spettacoli teatrali e musicali”. Una dichiarazione di intenti veramente formidabile e stimolante, per illustrare un progetto che presenta un'unica enorme ed incredibile lacuna: ignora l'esistenza e il ruolo degli editori calabresi! Io non ho alcuna difficoltà ad ammettere di essere stato tra i primi a salutare con entusiasmo la nomina del prof. Mario Caligiuri ad assessore alla cultura. La sua preparazione, la sua competenza, la sua onestà mi erano parsi una garanzia per l'avvio di una fase diversa, in una Regione in cui il comparto culturale era stato storicamente trascurato (anche dalle giunte di centrosinistra). Oggi, a distanza di tre anni, non si può dire però che Caligiuri abbia modificato minimamente la situazione. Le case editrici calabresi versano in gravi difficoltà e si trovano anche costrette a fronteggiare la crisi delle librerie indipendenti che continuano a chiudere una dopo l'altra. Il comunicato parla di "cospicui investimenti nelle biblioteche", mi domando a cosa siano serviti questi investimenti se si considera che sono almeno cinque anni che la mia casa editrice (tra le prime della regione per catalogo e fatturato) non riceve un solo ordine di libri da alcuna biblioteca calabrese! La Legge 17, che consentiva alla Regione di acquistare i libri dagli editori per rifornire le Biblioteche di interesse pubblico, non è finanziata da più di cinque anni e gli editori continuano a ricevere dalle Biblioteche incessanti richieste di invio di libri in omaggio! Oggi la presenza della Calabria quale Regione ospite del Salone (evento che si ripeterà tra 20 anni), piuttosto che un'opportunità, rischia di trasformarsi in una beffa per gli editori e gli autori calabresi (fatti salvi, guarda caso, quei pochi fortunati che sono pubblicati dai grandi editori nazionali). Nessuno degli eventi programmati ufficialmente vede il coinvolgimento della case editrici calabresi, cioè di quegli imprenditori che investono e rischiano in prima persona per sviluppare e diffondere la cultura calabrese; manca meno di un mese all'inizio dell'evento e voglio ancora sperare che si apra uno spiraglio e si conceda agli editori l'opportunità di partecipare attivamente al Salone. La Città del sole edizioni invierà sicuramente i propri libri al bookshop che sarà allestito all'interno dello stand da un gruppo di seri professionisti (Gruppo Rubbettino e Librerie Ubik), ma, qualora non dovessero essere concessi gli spazi per le presentazioni dei libri dei propri autori, organizzerà degli eventi estemporanei ed improvvisi (quelli che gli anglosassoni chiamano "flash mob"); invito tutti i miei autori a recarsi al Salone del Libro per far sentire la propria voce. Sarebbe anche interessante sapere come sono stati impiegati i 254mila euro che il Fondo Unico per la Cultura 2013 ha destinato al Salone, considerato che questa cifra rappresenta il 50% delle intere risorse del Fondo stesso.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
giovedì 7 marzo 2013
IL LABORATORIO CIVICO DI ZOOMSUD
La stimolante iniziativa di Aldo Varano e Leo Pangallo, che hanno messo faccia e piedi a Zoomsud, è un'occasione che la società civile reggina non si deve far sfuggire e debbo dire che il risultato dei due primi incontri è senz'altro incoraggiante. Un conto, infatti, è pontificare dai tasti di un computer, un altro è mettere la faccia dietro un microfono e davanti a una platea. Detto questo ritengo, come ho già detto nei miei due interventi, che questi incontri debbano servire soprattutto per focalizzare i problemi della nostra città e indirizzare la politica locale, altrimenti si rischia di scadere in uno scimmiottamento delle varie Ballarò televisive. È evidente che non si possono ignorare i temi nazionali, specie quando si vive un periodo gravido di incertezze come questo, ma nel parlarne bisogna tenere presente sempre gli effetti che possono produrre alla nostra comunità. Detto questo ribadisco la mia convinzione che il risultato elettorale, che pur all'inizio avevo trovato deludente, è foriero di sviluppi inaspettati e si può rivelare una grande opportunità. Tra le innumerevoli sconfitte elettorali che ho accumulato nella mia storia di militante di sinistra, questa si potrebbe rivelare la meno amara. Ogni avvicinamento alle stanze del potere della vera sinistra italiana (ieri solo il PCI, oggi solo il PD) ha scatenato reazioni e complotti di ogni tipo. La mattina del 16 marzo 1978 la Camera era pronta a riunirsi per votare la fiducia al primo governo sostenuto dal PCI (badate bene era solo un governo guidato da Andreotti con appoggio esterno del PCI) e successe il finimondo con il sequestro di Aldo Moro; erano gli anni in cui le forze della reazione, sostenute dai Servizi occidentali, non si facevano scrupoli di insanguinare le piazze italiane pur di fermare il rinnovamento. Quanti giovani conoscono queste storie? A scuola si perdono mesi dietro le Guerre Puniche, nelle famiglie, quando si parla, si parla di ricariche telefoniche e pallone. Arrivando a tempi più recenti, abbiamo l'esempio dei due governi Prodi (certamente i migliori di tutta la Storia italiana, perché su quello di D'Alema stendo un velo pietoso) caduti per mano di Fausto Bertinotti e Clemente Mastella e, in questi giorni ne abbiamo la certezza, di Silvio Berlusconi con le sue opere di corruzione. E arrivo al punto: ma siamo proprio certi che Beppe Grillo sia peggio dei loschi figuri che ho appena nominato? Tutti i tentativi di fare passare le vere riforme negli anni passati, sono stati sempre bloccati dai ricatti della componente cattolica e dell'estrema sinistra che, solo per bassi interessi di bottega, sostenevano i nostri governi. Ma vi ricordate quanto abbiamo penato appresso ai DICO, chi se li ricorda più? Oggi Bersani, andando in Parlamento e proponendo l'approvazione non degli otto punti di cui ha farfugliato in direzione nazionale, ma dei cinque punti più ragionevoli del programma di Grillo (che sono cose di sinistra) può ribaltare la situazione avviando un'esperienza di governo fino a ieri inimmaginabile. Venendo al campo locale ribadisco la mia ferma convinzione che, preso atto dell'ineluttabilità di un lungo periodo di commissariamento, bisogna spingere per la creazione, mutuando il modello anglosassone, di un "Consiglio Comunale Ombra". Lo scioglimento ha spazzato via una classe politica in gran parte corrotta e incapace, ma non ha spostato una virgola nell'apparato burocratico che da un più di un decennio imperversa a Palazzo San Giorgio. I commissari, per quanto capaci e volenterosi, rischiano nella migliore delle ipotesi di impantanarsi nella routine della gestione quotidiana, nella peggiore di avallare scelte dannose per il futuro della città. La società civile, anche tramite il Laboratorio Civico di Zoomsud, deve svolgere il ruolo di Consiglio Comunale e avanzare di volta in volta ai Commissari le istanze della città. Già alla prossima riunione dobbiamo invitare il commissario Prefetto Vincenzo Panìco, al fine di avviare questo circolo virtuoso. Potremmo cominciare a parlare con lui, per esempio, della follia faraonica del progetto del Water front, quanti sanno che l'Archistar iraniana Zaha Hadid non ha tenuto conto, nel suo progetto, della prospettiva panoramica Lungomare-Etna? Vale a dire: lo sapete che la copertura a orecchie d'elefante dell'edificio da lei progettato, copre la visuale dell'Etna dall'inizio del Lungomare? E il Corso Garibaldi, lo sapete che il nuovo progetto prevede la rimozione del lastricato lavico e dei lampioni installati poco più di dieci anni fa? E Piazza Duomo, vi sta bene che sia ricoperta di cemento e privata degli alberi? E per finire, vi sta bene che tutti questi mega cantieri una volta aperti si traducano nell'ennesima incompiuta? Vale la pena parlarne? Non pensate che sia questo il ruolo della Società Civile? Non trovo, infine, un'eresia il cominciare a parlare delle prossime elezioni comunali, diciotto mesi passano presto e non possiamo pensare di scegliere il nostro candidato sindaco in Zona Cesarini; le nostre esitazioni, derivanti dalle solite diatribe intestine, ci porterebbero ancora una volta alla disfatta. Nel frattempo qualche altro soggetto non terrà le mani in mano, state pur certi che nel brodo di coltura della 'ndrangheta, che è sempre pronta a fiutare il vento di vittoria, starà già crescendo una leva di grillini.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
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