Nino Stillittano, scomparso lo scorso 30 luglio all’età di 94 anni, era l’archetipo del militante del PCI. Rigoroso, intransigente, preparato, instancabile e coraggioso ha segnato con la sua presenza la vita politica della provincia reggina. Il manifesto funebre lo ha indicato semplicemente come "insegnante elementare in pensione". Il figlio Elio, apprezzato primario di medicina interna all'ospedale di Melito Porto Salvo, ha voluto così rispettare la volontà del padre, la cui vita è sempre stata improntata dall'umiltà e dalla passione politica, e nel contempo fornire la mirabile sintesi della vita di un militante comunista che aveva la vocazione alla lotta e non alla carriera. Eppure il necrologio di Nino avrebbe potuto riempire parecchie pagine, tanti infatti erano stati i ruoli di primo piano che aveva rivestito e gli incarichi che aveva svolto nel corso della sua lunga vita, sempre in prima linea e con grande senso di responsabilità. Sul finire degli anni '90 aveva dato alle stampe con la mia casa editrice un volume che aveva un titolo dal sapore epico: "Era l'anno del sole non quieto"; si trattava di un libro di 500 pagine (e francamente stento a immaginare un altro politico in grado di produrre un resoconto della sua attività di questa portata) nel quale aveva inteso raccogliere una sterminata mole di documenti che testimoniavano la sua attività politica nel solo territorio della provincia di Reggio Calabria. Cinque anni dopo, di comune accordo, abbiamo estrapolato da quel lavoro la sezione che riguardava la rivolta del '70 e ne è scaturito un più agile volume dal titolo: "Reggio capoluogo, fu vero scippo?", arricchito da una vasta appendice di documenti. La tesi che ne scaturiva dimostrava inequivocabilmente che la città di Reggio non si poteva ritenere vittima dello scippo del titolo di capoluogo, per il semplice motivo che non lo aveva mai posseduto. Una tesi netta, derivante da una serena analisi dei documenti, coerente alla dottrina epistemologica di impronta marxista che orientava Nino Stillittano nei suoi studi di storia contemporanea. Sono stati cinque anni nei quali ho avuto modo di frequentare Nino abbastanza assiduamente, mi ha sempre manifestato una simpatia e una stima che affievolivano quel senso di soggezione che inevitabilmente la sua figura mi trasmetteva. Mi tornavano in mente i primi anni di militanza nel PCI, sul finire degli anni '70, nella storica sezione "Nino Battaglia" del quartiere Tremulini. Le interminabili e fumose riunioni che si svolgevano erano delle vere e proprie palestre di dialettica e di politica e, quando era prevista la presenza di un "compagno della Federazione", noi giovani passavamo la notte precedente a studiare e ripetere l'intervento che avevamo preparato. Chi come me ha avuto la fortuna di frequentare la scuola del Comunismo italiano, ha acquisito un bagaglio etico e culturale di valore inestimabile che ci ha permesso di mantenere la barra dritta nel corso di quella "tempesta perfetta" che è stato il ventennio berlusconiano, figlio della sciagurata stagione del tramonto delle ideologie. Qualcuno prima o poi dovrà trovare il coraggio e la serenità di scrivere la storia di quell'assurdo percorso, segnato da una forma di follia collettiva, che ha portato alla cosiddetta "svolta della Bolognina". Quando, il 12 novembre 1989, Achille Occhetto, improbabile successore di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer, avviò il percorso che avrebbe portato allo scioglimento del PCI, non tenne affatto in conto l'elemento cardine che fungeva da collante etico nel partito e che era costituito dal rispetto fideistico dei militanti (quel famoso "zoccolo duro") verso la linea politica ufficiale determinata dalla pratica del mai troppo rimpianto "Centralismo Democratico" (quanto ce ne sarebbe bisogno nel PD oggi...); il quale non era solo un geniale ossimoro, ma costituitiva l'espressione della parte più alta e nobile della politica, quella derivante dal più serrato confronto dialettico incuneato saldamente tra i binari dell'ideologia. Scrive, a questo proposito, il grande Pasquino Crupi nella sua prefazione a "Era l'anno del sole non quieto": "Nino Stillittano non era ortodosso per vocazione e conformismo, ma, poiché faceva parte del gruppo dirigente, l'etica del centralismo democratico voleva che egli celasse il suo punto di vista nel punto di vista della Segreteria", e ancora: "La discussione era quasi sempre aspra, ma il costume voleva: al di sopra di tutto l'unità del Partito e il documento unitario finale concludeva ogni volta il dibattito". Sono tanti gli episodi della vita di Nino che si potrebbero citare a riprova della sua tempra morale e politica, ma preferisco lasciare la parola ancora a Pasquino Crupi, per raccontare un episodio che descrive in modo folgorante l'uomo e il suo tempo: "Siamo a Piazza Duomo, a qualche mese di distanza dal luglio incendiato e incendiario. 10 luglio 1970 la sfida è lanciata. Parlano in piazza i socialisti e i comunisti. I fascisti erano orgogliosi di dirsi fascisti e mostravano che in effetti lo erano, tentando di impedire il comizio. Da Roma è venuto il vicesegretario del PSI Giovanni Mosca. È sul palco. Per i comunisti parla Nino Stillittano. Parla. I fascisti urlano. Urla di più Nino Stillittano, rivolto ai fascisti: <
>. La strada a Giovanni Mosca è spianata. Il mito che a Reggio comunisti e socialisti non parleranno più è sfatato. Nino Stillittano, un comunista fatto di pasta speciale, è stato il protagonista della svolta, che lentamente porterà alla ripresa della vita democratica Reggio".
In realtà la ripresa della vita democratica a Reggio avrebbe tardato ancora a venire, sarebbe arrivata solo sul finire del '93 con l'avvento di Italo Falcomatà. Un sogno durato appena otto anni, troppo breve per una città complessa e problematica che deve il suo tragico destino proprio alla carenza di uomini di quel carisma.
Franco Arcidiaco
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