domenica 8 novembre 2020
VINI VITI VINCI versus VENI VIDI VICI
Le suggestioni evocate da un vino possono essere molteplici, soprattutto se si sanno cogliere le coincidenze che ci presenta la vita quotidiana. Tirar fuori dalla cantina un rosso francese non è attività di ogni giorno, ma se ti ritrovi a stappare un vino della cantina “Vini Viti Vinci” di Avallon il giorno dopo la morte di Albert Uderzo, qualche domanda sulla terza dimensione te la devi porre per forza. Il vino in questione, un Irancy del 2017, come recita la sua scheda è un: “rosso ottenuto da uve di Pinot Noir in purezza. L’uva fermenta in tonneaux in semi-macerazione carbonica. Affina in legno per nove mesi. Irancy è un vino dal colore rosso rubino. Al naso spiccano note di frutta rossa e di fave di cacao. Bocca dinamica e fresca con una profonda mineralità. Beva incontrollabile”. La cantina “Vini Viti Vinci” è situata ad Avallon, nel nord della Borgogna ed è stata fondata da Nicolas Vauthier, che prima d'intraprendere la vita di vignaiolo ha gestito per alcuni anni uno dei più importanti bar di vini naturali in Francia, per poi abbandonarlo e lanciarsi nella sua nuova avventura di produttore. I vini sono il riflesso della sua filosofia, ovvero agricoltura biodinamica, raccolta manuale ed interventi ridotti al minimo in vinificazione. Nascono così i suoi piccoli capolavori, sempre piacevoli e scorrevoli, ma mai banali e che ne hanno fatto ben presto uno dei punti fermi dei territori di Chitry, Irancy Èpineuil, dove coltiva principalmente Pinot Nero, Chardonnay ed altre varietà locali.
L’altro protagonista di questa suggestione è Albert Uderzo, nato Alberto Aleandro Uderzo, morto il 24 marzo di quest’anno, grande fumettista francese. Figlio di genitori italiani, nella sua straordinaria carriera ha realizzato fumetti avventurosi ed umoristici, giungendo alla consacrazione ed alla celebrità grazie alla serie Asterix, co-prodotta assieme a René Goscinny.
Asterix e Obelix sono i protagonisti dell’epica e eterna resistenza ipersciovinista di un piccolo villaggio gallico in Armorica (l’odierna Bretagna) che, grazie alla pozione magica creata dal druido Panoramix, contrastano l’invasione dei Romani di Giulio Cesare.
C’è da domandarsi quanto gli schiaffoni di Giulio Cesare abbiano inciso sul DNA dei francesi al punto di indurre un vignaiolo emergente a parodiare uno dei suoi motti più famosi e utilizzarlo per denominare la sua cantina, vuoi vedere che Irancy era il nome della pozione magica di Panoramix?
martedì 19 maggio 2020
L'UNIONE SOVIETICA FU L'ARTEFICE DELLA VITTORIA CONTRO IL NAZIFASCISMO
Cari compagni! Cittadini russi! Cittadini di tutta l'Unione Sovietica!
Oggi questa festa è arrivata a noi, a 75 anni della Grande Vittoria del popolo sovietico sulla peste bruna del ventesimo secolo, il nazifascismo. Sull'altare della Vittoria sono andate 27 milioni di vite dei nostri amici e parenti. Eterno a loro il nostro ricordo riconoscente!
Quel tempo fantastico è cambiato. Sembra che recentemente la memoria di quelle ultime battaglie della guerra si sia estinta, anche se ci sono ancora testimoni viventi: i veterani della Grande Guerra Patriottica, quando l'Europa, liberata dai fascisti, incontrò il soldato liberatore sovietico con i fiori.
Ma oggi l'atmosfera nel mondo è diversa, si celebra questo anniversario in diversi modi. In Occidente, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, hanno annunciato di aver sconfitto loro la Germania. La medaglia internazionale emessa per il
75° anniversario della Vittoria non ha considerato necessario rappresentare la bandiera dell'URSS tra le bandiere dei paesi vittoriosi, sebbene fu l'Unione Sovietica guidata da Stalin a sostenere il peso della lotta contro il blocco fascista della Germania e dei suoi satelliti dell'Europa occidentale. Più di 3/4 del numero totale di divisioni nemiche combatterono sul fronte sovietico-tedesco. Fu sul territorio dell'URSS che si verificarono gli eventi più tragici e determinanti della guerra. A Praga, per l'anniversario, decisero di rimuovere il monumento al maresciallo I.S. Konev, le cui truppe salvarono questa città dalla completa distruzione. In Ucraina, sono stati attaccati e vandalizzati non solo i monumenti dei nostri illustri comandanti, ma anche dei semplici soldati liberatori, tra cui una parte significativa erano gli stessi ucraini. Alle nuove generazioni ucraine viene insegnato che la libertà e l'indipendenza dell'Ucraina sono state difese da Bandera nella lotta contro il bolscevismo, i selvaggi e i carnefici della loro gente, diventano eroi.
75 anni fa, i nostri padri, nonni, bisnonni difendevano la libertà e l'indipendenza della Patria sovietica, dandole un cielo sereno sopra la testa e la fiducia nel domani. Noi, oggi viventi, dobbiamo ricordare che nelle nostre anime vivono i cuori di coloro che hanno dato la vita per il nostro futuro pacifico. Questi sono i cuori di coloro che sono periti, ma ci sono vicini e in unione, da Brest a Minsk, da Mosca a Leningrado, Stalingrado, Sebastopoli, a Odessa e Novorossijsk, Kerch e Murmansk, sul Dnepr, sul Buh, Nistro, Danubio, a Varsavia, Budapest, Vienna e Praga e che, nei giorni di maggio del 1945, issarono lo stendardo della nostra Vittoria sul sconfitto Reichstag, nella tana fascista della nemica Berlino. Ed è proprio questa Bandiera che sventolerà nella libera Russia socialista.
Il Presidium del Consiglio centrale degli"Scienziati socialisti russi”
A cura di Enrico Vigna
Oggi questa festa è arrivata a noi, a 75 anni della Grande Vittoria del popolo sovietico sulla peste bruna del ventesimo secolo, il nazifascismo. Sull'altare della Vittoria sono andate 27 milioni di vite dei nostri amici e parenti. Eterno a loro il nostro ricordo riconoscente!
Quel tempo fantastico è cambiato. Sembra che recentemente la memoria di quelle ultime battaglie della guerra si sia estinta, anche se ci sono ancora testimoni viventi: i veterani della Grande Guerra Patriottica, quando l'Europa, liberata dai fascisti, incontrò il soldato liberatore sovietico con i fiori.
Ma oggi l'atmosfera nel mondo è diversa, si celebra questo anniversario in diversi modi. In Occidente, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, hanno annunciato di aver sconfitto loro la Germania. La medaglia internazionale emessa per il
75° anniversario della Vittoria non ha considerato necessario rappresentare la bandiera dell'URSS tra le bandiere dei paesi vittoriosi, sebbene fu l'Unione Sovietica guidata da Stalin a sostenere il peso della lotta contro il blocco fascista della Germania e dei suoi satelliti dell'Europa occidentale. Più di 3/4 del numero totale di divisioni nemiche combatterono sul fronte sovietico-tedesco. Fu sul territorio dell'URSS che si verificarono gli eventi più tragici e determinanti della guerra. A Praga, per l'anniversario, decisero di rimuovere il monumento al maresciallo I.S. Konev, le cui truppe salvarono questa città dalla completa distruzione. In Ucraina, sono stati attaccati e vandalizzati non solo i monumenti dei nostri illustri comandanti, ma anche dei semplici soldati liberatori, tra cui una parte significativa erano gli stessi ucraini. Alle nuove generazioni ucraine viene insegnato che la libertà e l'indipendenza dell'Ucraina sono state difese da Bandera nella lotta contro il bolscevismo, i selvaggi e i carnefici della loro gente, diventano eroi.
75 anni fa, i nostri padri, nonni, bisnonni difendevano la libertà e l'indipendenza della Patria sovietica, dandole un cielo sereno sopra la testa e la fiducia nel domani. Noi, oggi viventi, dobbiamo ricordare che nelle nostre anime vivono i cuori di coloro che hanno dato la vita per il nostro futuro pacifico. Questi sono i cuori di coloro che sono periti, ma ci sono vicini e in unione, da Brest a Minsk, da Mosca a Leningrado, Stalingrado, Sebastopoli, a Odessa e Novorossijsk, Kerch e Murmansk, sul Dnepr, sul Buh, Nistro, Danubio, a Varsavia, Budapest, Vienna e Praga e che, nei giorni di maggio del 1945, issarono lo stendardo della nostra Vittoria sul sconfitto Reichstag, nella tana fascista della nemica Berlino. Ed è proprio questa Bandiera che sventolerà nella libera Russia socialista.
Il Presidium del Consiglio centrale degli"Scienziati socialisti russi”
A cura di Enrico Vigna
domenica 26 aprile 2020
QUESTO LUNGOMARE S'HA DA FARE
Spett. direzione Il Quotidiano del Sud
Periodicamente appaiono sul Quotidiano appelli di fantomatici movimenti ambientalisti a sostegno di un’assurda battaglia volta a bloccare i lavori di completamento del lungomare di Marina di San Lorenzo, località balneare in provincia di Reggio.
Marina è una frazione dell’antico Borgo di San Lorenzo che, pur avendo condiviso il destino di abbandono di gran parte dei nostri paesi montani, mantiene una certa vitalità grazie a un’amministrazione retta dal sindaco Bernardo Russo, attivo e molto amato dalla popolazione, coadiuvato dalla giovanissima Carmela Battaglia, preparata e combattiva vicesindaco. Entrambi sono calunniati e sbeffeggiati da un gruppo di personaggi malmostosi e in malafede che si spacciano per ambientalisti.
Le dico solo che nel borgo montano sede del Municipio (dei 2.500 abitanti complessivi del Comune, solo 180 risiedono nel borgo) è stato realizzato un Palazzo della Cultura che ospita una fornitissima biblioteca-emeroteca comunale e due associazioni culturali molto attive nel territorio.
Purtroppo anche questo territorio risente dei mali endemici della nostra regione, che il suo giornale non ha mai esitato a denunciare e condannare, sapendo bene che tutti noi viviamo sulla nostra pelle le terribili conseguenze dell’estremo degrado al quale è stato condannato il nostro territorio da decenni di politiche scellerate.
Veda caro direttore, io sono però convinto che nessun calabrese si possa ritenere indenne da responsabilità, men che meno gli ambientalisti veri o presunti, che non hanno mai saputo esprimere una seria azione di contrasto, ma hanno subìto sempre passivamente, limitandosi a strillare di tanto in tanto. Levare legittimamente la voce contro l’ipotesi della centrale a carbone a Saline Joniche e chiudere gli occhi sulle condizioni di estremo degrado in cui versa tutto quel territorio da cinquant’anni, ha il sapore dell’ignavia o peggio della connivenza. Mai una proposta concreta è pervenuta circa lo smantellamento dello stabilimento della Liquichimica, la salvaguardia del Pantano, la demolizione degli ecomostri e il disinsabbiamento del porto. L’intero territorio calabrese è costellato di ecomostri, siamo conosciuti in tutto il mondo come terra del “non finito” e le nostre frazioni collinari e marine sono orrendamente deturpate da questo fenomeno; mari e corsi d’acqua risentono dell’assenza di un sistema efficiente di depurazione, il nostro meraviglioso paesaggio è solo un ricordo o una finzione da Photoshop.
La invito a fare un giro in auto sulla vecchia statale 18 da Tropea a San Ferdinando di Rosarno, si tratta di 39,2 chilometri di meraviglia assoluta se guardi verso il mare e altrettanti di orrore se guardi alla tua sinistra. Il tratto di costa più bello del mondo non ospita una sola struttura ricettiva, né uno stabilimento balneare, ma solo sporcizia, degrado, vegetazione incolta e qualche rudere. Questo è l’emblema della follia della Calabria.
Dove non si è riusciti a edificare ecomostri ci si è rassegnati all’abbandono e all’incuria. Nessuna traccia di bellezza. In ossequio a una logica ambientalista provinciale e stracciona, una politica incapace e pavida non è riuscita a pianificare un modello di sviluppo basato sull’edificazione di villaggi turistici, complessi alberghieri e stabilimenti balneari.
Marina di San Lorenzo non fa purtroppo eccezione, la costa Jonica è stata in parte protetta dalla cortina di ferro della ferrovia ma, prima della famosa Legge Ferrara, in tutti i paesi rivieraschi sono sorte ville (la maggior parte di pessimo gusto) che ospitano d’estate i villeggianti reggini, proprietari o inquilini rigorosamente in nero. Queste abitazioni sono state in parte condonate, ma sono tutte addossate alla ferrovia e ne impediscono tra l’altro il raddoppiamento e l’elettrificazione dei binari, le motrici vanno ancora a gasolio. Una di queste ville di Marina di San Lorenzo è di proprietà di una famiglia, il cui rampollo è uno degli alfieri della squallida sceneggiata pseudo ambientalista contro il sindaco Russo. Davanti alle ville corre il lungomare e si stende quella che è stata, fino a un decennio addietro, una splendida spiaggia, larghissima e ricca di finissima sabbia e di dune naturali; oggi è diventata una striscia striminzita anche in conseguenza della mancata manutenzione del porto di Saline Joniche. D’estate, Marina di San Lorenzo è sempre stata tra le spiagge più frequentate della provincia reggina e dopo gli anni bui della guerra di mafia che coinvolse anche alcuni aspiranti operatori turistici, sono apparse delle strutture balneari organizzate e realizzate secondo le norme vigenti, escluso una, enorme e diventata subito popolare, che però dopo un paio d’anni di attività è stata dichiarata abusiva per molti aspetti, inoltre si è scoperto essere realizzata su enormi strutture di cemento edificate sulla spiaggia. Di questo gli “ambientalisti” non si erano mai accorti, ma ci ha pensato, guarda un po’, proprio il sindaco Russo a completare l’attività dell’autorità giudiziaria e giungere alla confisca e alla demolizione integrale della struttura. Compiuta quest’azione virtuosa, lo stesso sindaco ha stabilito che in quell’area debba sorgere una rotonda pubblica intestata al giudice Antonino Scopelliti fornendo un chiaro e coraggioso segnale di contrapposizione alla criminalità organizzata. Nel contempo, però, quando gli arredi e gli strumenti dello stabilimento sono stati messi all’asta, se li è aggiudicati una cooperativa sociale che gravita nel presunto movimento ambientalista di cui sopra.
Per arrivare al punto cruciale deve sapere che lo stesso sindaco ha deciso di completare i lavori di sistemazione del lungomare, che era stato realizzato al 50% e lasciato incompiuto dalla precedente amministrazione sciolta per mafia, reperendo i fondi e avviando i lavori in ossequio a tutte le normative vigenti. Consideri che la parte rimasta incompleta era degradata, senza marciapiedi e pista ciclabile, in terra battuta quindi polverosa e sporca nella stagione estiva e preda dei marosi nelle altre stagioni; il completamento quindi è stato disposto in totale aderenza al progetto originario e non poteva essere altrimenti, pena la perdita del finanziamento. I lavori sono, per fortuna, a buon punto e già sono stati sistemati tutti i sottoservizi stradali. Mi chiederà il perché di questo accanimento, intanto le premetto che moltissimi firmatari dei farneticanti appelli hanno aderito per forza di inerzia, la loro buona fede è stata irretita dalla stringente retorica che i movimenti ambientalisti sanno tirar fuori quando decidono di intraprendere una battaglia. Ho provato a dialogare con alcuni di questi personaggi che politicamente non mi sono nemmeno distanti; le assicuro che nel discuterci è sopraggiunto in me un senso di avvilimento, per la delirante demagogia che li porta a negare anche le più chiare evidenze. Concludo chiedendo al suo giornale di mantenere alta l’attenzione, per evitare che anche questo meraviglioso tratto di costa sia condannato a marcire nel degrado e nel sottosviluppo.
Franco Arcidiaco
Periodicamente appaiono sul Quotidiano appelli di fantomatici movimenti ambientalisti a sostegno di un’assurda battaglia volta a bloccare i lavori di completamento del lungomare di Marina di San Lorenzo, località balneare in provincia di Reggio.
Marina è una frazione dell’antico Borgo di San Lorenzo che, pur avendo condiviso il destino di abbandono di gran parte dei nostri paesi montani, mantiene una certa vitalità grazie a un’amministrazione retta dal sindaco Bernardo Russo, attivo e molto amato dalla popolazione, coadiuvato dalla giovanissima Carmela Battaglia, preparata e combattiva vicesindaco. Entrambi sono calunniati e sbeffeggiati da un gruppo di personaggi malmostosi e in malafede che si spacciano per ambientalisti.
Le dico solo che nel borgo montano sede del Municipio (dei 2.500 abitanti complessivi del Comune, solo 180 risiedono nel borgo) è stato realizzato un Palazzo della Cultura che ospita una fornitissima biblioteca-emeroteca comunale e due associazioni culturali molto attive nel territorio.
Purtroppo anche questo territorio risente dei mali endemici della nostra regione, che il suo giornale non ha mai esitato a denunciare e condannare, sapendo bene che tutti noi viviamo sulla nostra pelle le terribili conseguenze dell’estremo degrado al quale è stato condannato il nostro territorio da decenni di politiche scellerate.
Veda caro direttore, io sono però convinto che nessun calabrese si possa ritenere indenne da responsabilità, men che meno gli ambientalisti veri o presunti, che non hanno mai saputo esprimere una seria azione di contrasto, ma hanno subìto sempre passivamente, limitandosi a strillare di tanto in tanto. Levare legittimamente la voce contro l’ipotesi della centrale a carbone a Saline Joniche e chiudere gli occhi sulle condizioni di estremo degrado in cui versa tutto quel territorio da cinquant’anni, ha il sapore dell’ignavia o peggio della connivenza. Mai una proposta concreta è pervenuta circa lo smantellamento dello stabilimento della Liquichimica, la salvaguardia del Pantano, la demolizione degli ecomostri e il disinsabbiamento del porto. L’intero territorio calabrese è costellato di ecomostri, siamo conosciuti in tutto il mondo come terra del “non finito” e le nostre frazioni collinari e marine sono orrendamente deturpate da questo fenomeno; mari e corsi d’acqua risentono dell’assenza di un sistema efficiente di depurazione, il nostro meraviglioso paesaggio è solo un ricordo o una finzione da Photoshop.
La invito a fare un giro in auto sulla vecchia statale 18 da Tropea a San Ferdinando di Rosarno, si tratta di 39,2 chilometri di meraviglia assoluta se guardi verso il mare e altrettanti di orrore se guardi alla tua sinistra. Il tratto di costa più bello del mondo non ospita una sola struttura ricettiva, né uno stabilimento balneare, ma solo sporcizia, degrado, vegetazione incolta e qualche rudere. Questo è l’emblema della follia della Calabria.
Dove non si è riusciti a edificare ecomostri ci si è rassegnati all’abbandono e all’incuria. Nessuna traccia di bellezza. In ossequio a una logica ambientalista provinciale e stracciona, una politica incapace e pavida non è riuscita a pianificare un modello di sviluppo basato sull’edificazione di villaggi turistici, complessi alberghieri e stabilimenti balneari.
Marina di San Lorenzo non fa purtroppo eccezione, la costa Jonica è stata in parte protetta dalla cortina di ferro della ferrovia ma, prima della famosa Legge Ferrara, in tutti i paesi rivieraschi sono sorte ville (la maggior parte di pessimo gusto) che ospitano d’estate i villeggianti reggini, proprietari o inquilini rigorosamente in nero. Queste abitazioni sono state in parte condonate, ma sono tutte addossate alla ferrovia e ne impediscono tra l’altro il raddoppiamento e l’elettrificazione dei binari, le motrici vanno ancora a gasolio. Una di queste ville di Marina di San Lorenzo è di proprietà di una famiglia, il cui rampollo è uno degli alfieri della squallida sceneggiata pseudo ambientalista contro il sindaco Russo. Davanti alle ville corre il lungomare e si stende quella che è stata, fino a un decennio addietro, una splendida spiaggia, larghissima e ricca di finissima sabbia e di dune naturali; oggi è diventata una striscia striminzita anche in conseguenza della mancata manutenzione del porto di Saline Joniche. D’estate, Marina di San Lorenzo è sempre stata tra le spiagge più frequentate della provincia reggina e dopo gli anni bui della guerra di mafia che coinvolse anche alcuni aspiranti operatori turistici, sono apparse delle strutture balneari organizzate e realizzate secondo le norme vigenti, escluso una, enorme e diventata subito popolare, che però dopo un paio d’anni di attività è stata dichiarata abusiva per molti aspetti, inoltre si è scoperto essere realizzata su enormi strutture di cemento edificate sulla spiaggia. Di questo gli “ambientalisti” non si erano mai accorti, ma ci ha pensato, guarda un po’, proprio il sindaco Russo a completare l’attività dell’autorità giudiziaria e giungere alla confisca e alla demolizione integrale della struttura. Compiuta quest’azione virtuosa, lo stesso sindaco ha stabilito che in quell’area debba sorgere una rotonda pubblica intestata al giudice Antonino Scopelliti fornendo un chiaro e coraggioso segnale di contrapposizione alla criminalità organizzata. Nel contempo, però, quando gli arredi e gli strumenti dello stabilimento sono stati messi all’asta, se li è aggiudicati una cooperativa sociale che gravita nel presunto movimento ambientalista di cui sopra.
Per arrivare al punto cruciale deve sapere che lo stesso sindaco ha deciso di completare i lavori di sistemazione del lungomare, che era stato realizzato al 50% e lasciato incompiuto dalla precedente amministrazione sciolta per mafia, reperendo i fondi e avviando i lavori in ossequio a tutte le normative vigenti. Consideri che la parte rimasta incompleta era degradata, senza marciapiedi e pista ciclabile, in terra battuta quindi polverosa e sporca nella stagione estiva e preda dei marosi nelle altre stagioni; il completamento quindi è stato disposto in totale aderenza al progetto originario e non poteva essere altrimenti, pena la perdita del finanziamento. I lavori sono, per fortuna, a buon punto e già sono stati sistemati tutti i sottoservizi stradali. Mi chiederà il perché di questo accanimento, intanto le premetto che moltissimi firmatari dei farneticanti appelli hanno aderito per forza di inerzia, la loro buona fede è stata irretita dalla stringente retorica che i movimenti ambientalisti sanno tirar fuori quando decidono di intraprendere una battaglia. Ho provato a dialogare con alcuni di questi personaggi che politicamente non mi sono nemmeno distanti; le assicuro che nel discuterci è sopraggiunto in me un senso di avvilimento, per la delirante demagogia che li porta a negare anche le più chiare evidenze. Concludo chiedendo al suo giornale di mantenere alta l’attenzione, per evitare che anche questo meraviglioso tratto di costa sia condannato a marcire nel degrado e nel sottosviluppo.
Franco Arcidiaco
CON LA MATITA ROSSA E BLU HANNO ATTIZZATO IL FUOCO...
Con la matita rossa e blu hanno attizzato il fuoco…
Davanti alla porta aperta chiaramente forzata, mi sono fermato sulla soglia per aspettare la polizia, ho sbirciato dentro ed è stato un tuffo al cuore; appena arrivati gli agenti, ho chiesto di poter salire al piano di sopra, mi sono precipitato nella stanza dove è ricostruito lo studio di Italo… avevo un presentimento… sul tavolo affianco alla macchina da scrivere ho cercato la matita rossa e blu e non era al suo posto, addirittura alla povera Olivetti hanno divelto e accartocciato i martelletti dei caratteri, gli occhiali sono volati in un angolo, la borsa di cuoio capovolta, le bretelle rosse e la cravatta ridotte a uno straccio, i cassetti sul pavimento, le carte sparse a terra… i libri non li hanno toccati, sono rimasti, come per incanto, immobili sugli scaffali, la cornice di un quadro appesa e la foto scomparsa… metodo o stupida follia?
Mi sono riavvicinato alla scrivania e sul ripiano ho visto miracolosamente illeso il cartoncino quotidiano di Italo. Italo, tutti i santi giorni, appena alzato prendeva un cartoncino 12x17 lo intestava “Il mestiere di sindaco”, segnava la data del giorno e poi annotava con la matita rossa e blu (in base all’importanza) gli impegni che lo attendevano. Ho cercato ancora concitatamente la matita ma non c’era traccia, sono andato in segreteria, dove un agente stava esaminando lo sfacelo di una coltre di foto e documenti bruciacchiati e sparsi sul pavimento; la scientifica mi ha detto che non dovevo toccar nulla ma in un angolo ho scorto un legnetto rosso bruciacchiato ai lati, quel che era rimasto della matita rossa e blu!
Non ci avete fatto niente maledetti, andremo avanti più forti e determinati di prima. Quel che conta è l’esempio, notoriamente costituito da materiale ignifugo.
“L’esempio è la forza del pensiero successivo”. Italo Falcomatà
Franco Arcidiaco, Sede Fondazione “Italo Falcomatà” 24 aprile 2020 Reggio Calabria
Davanti alla porta aperta chiaramente forzata, mi sono fermato sulla soglia per aspettare la polizia, ho sbirciato dentro ed è stato un tuffo al cuore; appena arrivati gli agenti, ho chiesto di poter salire al piano di sopra, mi sono precipitato nella stanza dove è ricostruito lo studio di Italo… avevo un presentimento… sul tavolo affianco alla macchina da scrivere ho cercato la matita rossa e blu e non era al suo posto, addirittura alla povera Olivetti hanno divelto e accartocciato i martelletti dei caratteri, gli occhiali sono volati in un angolo, la borsa di cuoio capovolta, le bretelle rosse e la cravatta ridotte a uno straccio, i cassetti sul pavimento, le carte sparse a terra… i libri non li hanno toccati, sono rimasti, come per incanto, immobili sugli scaffali, la cornice di un quadro appesa e la foto scomparsa… metodo o stupida follia?
Mi sono riavvicinato alla scrivania e sul ripiano ho visto miracolosamente illeso il cartoncino quotidiano di Italo. Italo, tutti i santi giorni, appena alzato prendeva un cartoncino 12x17 lo intestava “Il mestiere di sindaco”, segnava la data del giorno e poi annotava con la matita rossa e blu (in base all’importanza) gli impegni che lo attendevano. Ho cercato ancora concitatamente la matita ma non c’era traccia, sono andato in segreteria, dove un agente stava esaminando lo sfacelo di una coltre di foto e documenti bruciacchiati e sparsi sul pavimento; la scientifica mi ha detto che non dovevo toccar nulla ma in un angolo ho scorto un legnetto rosso bruciacchiato ai lati, quel che era rimasto della matita rossa e blu!
Non ci avete fatto niente maledetti, andremo avanti più forti e determinati di prima. Quel che conta è l’esempio, notoriamente costituito da materiale ignifugo.
“L’esempio è la forza del pensiero successivo”. Italo Falcomatà
Franco Arcidiaco, Sede Fondazione “Italo Falcomatà” 24 aprile 2020 Reggio Calabria
domenica 19 aprile 2020
LOUISIANA RED, MIDNIGHT RAMBLER - IL BLUES È SEMPLICITÀ di ARMANDO CEREOLI
È stato detto molto su questo nobile genere musicale. È stato rinnegato dalla chiesa, disconosciuto da tanti sedicenti critici musicali (non ultimo un cronista del Tg1 che non ha trovato nulla di meglio che identificare Zucchero come il "Re del Blues"!!!), snobbato dal grande pubblico, confuso con manifestazioni musicali completamente diverse.
L'essenza del Blues rimane forse in una frase pronunciata da Mario Insegna, potente batterista dei partenopei Blue Stuff: "Il Blues è semplicità". Punto. Non si tratta di fare discriminazioni sul colore della pelle o sul paese di provenienza del musicista; è vero che i neri, soprattutto se americani, possono suonare blues meglio di chiunque altro, ma chiunque nell'animo abbia semplicità e sensibilità da vendere può fare suo il blues, amarlo e viverlo.
Una sera di Capodanno del 31 dicembre 1999 al Big Mama si è perpetuata nuovamente questa tradizione; Louisiana Red, uno dei suoi più significativi sostenitori, ha prestato sentimenti e chitarre al più genuino saluto di millennio cui potessi pensare di partecipare. Più di sei ore di musica continua, un paio di pause, tanto sudore e gioia di vivere. Una gioia che non è stata intaccata da un'infanzia infelice, dal ricordo di un padre assassinato dal Ku Klux Clan, ma anzi che ha tratto linfa vitale e tanto ottimismo proprio dalle difficoltà della vita. Anche questo è Blues.
Guarda caso Mario Insegna era proprio il batterista prescelto per accompagnare Louisiana. Lo abbiamo fermato durante una pausa io e i miei amici per trovare risposta ad un quesito che ci eravamo posti: avevano forse fatto qualche prova per quella serata? La risposta del grande Mario: niente, solo un paio d'ore prima dell'inizio della maratona per mettere a punto forse qualche idea che Louisiana aveva in testa e che poi puntualmente non ha tirato fuori durante la serata, trascinato da se stesso in un impeto inimmaginabile. Più semplice di così...
Due parole biascicate al microfono in uno slang quasi incomprensibile, una specie di monologo interiore in cui ogni tanto si distinguevano nomi come Muddy Waters, Buddy Guy, un collo di bottiglia all'anulare della sinistra, ed ecco che parte il riff su sei corde quasi straziate con il pollice e l'indice della destra; 3, 4, lo stacco di Mario e via in dodici ottavi a tutta birra. Tre quarti d'ora come niente, la durata tipica di uno dei suoi blues, improvvisazione, improvvisazione, ma anche tanto spazio ai suoi compagni d'avventura.
Basta un suo gesto della sinistra, che abbandona per un istante il manico della chitarra, ed è il finale del brano, un ammiccamento con la testa ed è il momento dell'assolo per gli altri, nessuna regola e al contempo una precisione cronometrica, roba da far impallidire qualsiasi megaproduzione live.
Ma chi erano in confronto quei quattro cafoni pompati da decine di migliaia di watt che quella notte starnazzavano tra San Pietro e Piazza del Popolo? Restassero pure là, da parte del sottoscritto nessun invito nè a loro nè ai loro adepti a condividere simili emozioni, perchè Louisiana e tutti quelli come lui sono solo per pochi intimi, affollarsi davanti a loro in qualche migliaio significa... perderli. Ed anche questo è Blues.
Di lui Eric Clapton ha detto che è l'unico musicista capace di suonare 48 ore di seguito senza fermarsi, e come non crederci a vederlo? Da parte sua nessun atteggiamento da star o peggio ancora da grande vecchio del mondo che ha vissuto. Il suo modo di adagiare il suo corpaccione da bluesman nero incallito ricorda un pò quello di John Lee Hooker o di Ray Charles; due impenetrabili occhiali scuri fissi sul naso, testa bassa sulla sei corde, labbro inferiore pendente e il tacco della scarpa sinistra sempre a pestare sul pavimento.
Migliaia di anni luce lontano da qualsiasi millennium bug, da qualsiasi marketing, da ogni ansia da consumismo o da palinsesto televisivo, forse lo stesso scatto di millennio lo tocca come un moschino che si posa sul suo naso. Al di sopra di tutto, ma non distaccato, con poche semplici parole potrebbe raccontare molto di più del mondo lui che il miglior reporter vivente e forse anche piangere lacrime più sincere delle nostre nel vederne brutture e meschinità. Anche questo è Blues. Così ho cominciato il 2000, oserei dire con qualcosa di più nel cuore e di certo con la voglia di prendere ad esempio una persona. Il mondo è così pieno di eroi fasulli che ogni tanto incontrarne qualcuno autentico, che non abbia né lustrini né plastica intorno a sé, ma che si presenta solamente come un uomo qualunque seduto su una sedia con la sua chitarra, è ossigeno per l'anima.
Questo è Louisiana Red, questo è il Blues. Grazie di esserci, ad entrambi.
Armando Cereoli
BIOGRAFIA di LOUISIANA RED
Iverson Minter, noto come Louisiana Red (da non confondere con i chitarristi Paul Johnson e Vincent Duling, che adottarono anch'essi lo pseudonimo di Lousiana Red), incise con i nomi di Walkin Slim, Guitar Red, Crying Redm Rocky Fuller, Playboy Fuller.
In seguito alla morte della madre pochi giorni dopo il parto e all'assassinio di suo padre per mano del Ku Klux Klan, vive un'infanzia traumatica e viene allevato da una lontana parente a New Orleans, dove impara a suonare l'armonica.
All'età di 10 anni, trasferitosi a Pittsburgh, riceve in regalo la sua prima chitarra, e poco tempo dopo è in grado di mantenersi suonando agli angoli delle strade, dove viene notato e ingaggiato per alcuni Blues Shows dai responsabili di una radio locale.
Cominciano poi i suoi vagabondaggi solitari (o insieme a oscuri compagni di avventure come Joshua Tanner e Orville Witt). Nel 1949 Lousiana Red è a Chicago, dove si fa notare grazie a uno stile "bottleneck" grezzo e impreciso ma molto caldo e coinvolgente, suonando con Muddy Waters, John Lee Hooker e Jimmy Red. Incide quindi un singolo per la Checker di Philip Chess (accompagnato da Walter Horton) sotto lo pseudonimo di "Rocky Fuller", e finalmente nel '60 sfonda con lo pseudonimo che lo renderà famoso.
Propone un vasto repertorio che comprende brani quali Thirty Dirty Women (una delle innumerevoli variazioni del classico di Speckled Red Dirty Dozen), Keep Your Hands Off My Woman, too Poor to Die, Working Man Blues - ma lo scarso successo commerciale, a dispetto della popolarità, lo spinge ad allontanarsi temporaneamente dall'ambiente musicale.
Si trasferisce in Georgia, dove lavorerà come raccoglitore di arance insieme al fratello, rimanendo indelebilmente segnato dalla morte di quest'ultimo (nel '72 travolto e ucciso da una macchina agricola); Herb Abaramson lo riporta in sala di incisione per la Atco, ma ben presto sorgono intricati problemi legali con la casa discografica stessa: così Lousiana Red inizia una indipendente e frenetica attività dal vivo, accompagnato dal gruppo The Bluesettes, i cui momenti topici sono gli annuali Folk Festival di Philadelphia, di Montreux, di Nancy e il classico Henry Blues Festival.
Dal sito “Blues&Blues”
L'essenza del Blues rimane forse in una frase pronunciata da Mario Insegna, potente batterista dei partenopei Blue Stuff: "Il Blues è semplicità". Punto. Non si tratta di fare discriminazioni sul colore della pelle o sul paese di provenienza del musicista; è vero che i neri, soprattutto se americani, possono suonare blues meglio di chiunque altro, ma chiunque nell'animo abbia semplicità e sensibilità da vendere può fare suo il blues, amarlo e viverlo.
Una sera di Capodanno del 31 dicembre 1999 al Big Mama si è perpetuata nuovamente questa tradizione; Louisiana Red, uno dei suoi più significativi sostenitori, ha prestato sentimenti e chitarre al più genuino saluto di millennio cui potessi pensare di partecipare. Più di sei ore di musica continua, un paio di pause, tanto sudore e gioia di vivere. Una gioia che non è stata intaccata da un'infanzia infelice, dal ricordo di un padre assassinato dal Ku Klux Clan, ma anzi che ha tratto linfa vitale e tanto ottimismo proprio dalle difficoltà della vita. Anche questo è Blues.
Guarda caso Mario Insegna era proprio il batterista prescelto per accompagnare Louisiana. Lo abbiamo fermato durante una pausa io e i miei amici per trovare risposta ad un quesito che ci eravamo posti: avevano forse fatto qualche prova per quella serata? La risposta del grande Mario: niente, solo un paio d'ore prima dell'inizio della maratona per mettere a punto forse qualche idea che Louisiana aveva in testa e che poi puntualmente non ha tirato fuori durante la serata, trascinato da se stesso in un impeto inimmaginabile. Più semplice di così...
Due parole biascicate al microfono in uno slang quasi incomprensibile, una specie di monologo interiore in cui ogni tanto si distinguevano nomi come Muddy Waters, Buddy Guy, un collo di bottiglia all'anulare della sinistra, ed ecco che parte il riff su sei corde quasi straziate con il pollice e l'indice della destra; 3, 4, lo stacco di Mario e via in dodici ottavi a tutta birra. Tre quarti d'ora come niente, la durata tipica di uno dei suoi blues, improvvisazione, improvvisazione, ma anche tanto spazio ai suoi compagni d'avventura.
Basta un suo gesto della sinistra, che abbandona per un istante il manico della chitarra, ed è il finale del brano, un ammiccamento con la testa ed è il momento dell'assolo per gli altri, nessuna regola e al contempo una precisione cronometrica, roba da far impallidire qualsiasi megaproduzione live.
Ma chi erano in confronto quei quattro cafoni pompati da decine di migliaia di watt che quella notte starnazzavano tra San Pietro e Piazza del Popolo? Restassero pure là, da parte del sottoscritto nessun invito nè a loro nè ai loro adepti a condividere simili emozioni, perchè Louisiana e tutti quelli come lui sono solo per pochi intimi, affollarsi davanti a loro in qualche migliaio significa... perderli. Ed anche questo è Blues.
Di lui Eric Clapton ha detto che è l'unico musicista capace di suonare 48 ore di seguito senza fermarsi, e come non crederci a vederlo? Da parte sua nessun atteggiamento da star o peggio ancora da grande vecchio del mondo che ha vissuto. Il suo modo di adagiare il suo corpaccione da bluesman nero incallito ricorda un pò quello di John Lee Hooker o di Ray Charles; due impenetrabili occhiali scuri fissi sul naso, testa bassa sulla sei corde, labbro inferiore pendente e il tacco della scarpa sinistra sempre a pestare sul pavimento.
Migliaia di anni luce lontano da qualsiasi millennium bug, da qualsiasi marketing, da ogni ansia da consumismo o da palinsesto televisivo, forse lo stesso scatto di millennio lo tocca come un moschino che si posa sul suo naso. Al di sopra di tutto, ma non distaccato, con poche semplici parole potrebbe raccontare molto di più del mondo lui che il miglior reporter vivente e forse anche piangere lacrime più sincere delle nostre nel vederne brutture e meschinità. Anche questo è Blues. Così ho cominciato il 2000, oserei dire con qualcosa di più nel cuore e di certo con la voglia di prendere ad esempio una persona. Il mondo è così pieno di eroi fasulli che ogni tanto incontrarne qualcuno autentico, che non abbia né lustrini né plastica intorno a sé, ma che si presenta solamente come un uomo qualunque seduto su una sedia con la sua chitarra, è ossigeno per l'anima.
Questo è Louisiana Red, questo è il Blues. Grazie di esserci, ad entrambi.
Armando Cereoli
BIOGRAFIA di LOUISIANA RED
Iverson Minter, noto come Louisiana Red (da non confondere con i chitarristi Paul Johnson e Vincent Duling, che adottarono anch'essi lo pseudonimo di Lousiana Red), incise con i nomi di Walkin Slim, Guitar Red, Crying Redm Rocky Fuller, Playboy Fuller.
In seguito alla morte della madre pochi giorni dopo il parto e all'assassinio di suo padre per mano del Ku Klux Klan, vive un'infanzia traumatica e viene allevato da una lontana parente a New Orleans, dove impara a suonare l'armonica.
All'età di 10 anni, trasferitosi a Pittsburgh, riceve in regalo la sua prima chitarra, e poco tempo dopo è in grado di mantenersi suonando agli angoli delle strade, dove viene notato e ingaggiato per alcuni Blues Shows dai responsabili di una radio locale.
Cominciano poi i suoi vagabondaggi solitari (o insieme a oscuri compagni di avventure come Joshua Tanner e Orville Witt). Nel 1949 Lousiana Red è a Chicago, dove si fa notare grazie a uno stile "bottleneck" grezzo e impreciso ma molto caldo e coinvolgente, suonando con Muddy Waters, John Lee Hooker e Jimmy Red. Incide quindi un singolo per la Checker di Philip Chess (accompagnato da Walter Horton) sotto lo pseudonimo di "Rocky Fuller", e finalmente nel '60 sfonda con lo pseudonimo che lo renderà famoso.
Propone un vasto repertorio che comprende brani quali Thirty Dirty Women (una delle innumerevoli variazioni del classico di Speckled Red Dirty Dozen), Keep Your Hands Off My Woman, too Poor to Die, Working Man Blues - ma lo scarso successo commerciale, a dispetto della popolarità, lo spinge ad allontanarsi temporaneamente dall'ambiente musicale.
Si trasferisce in Georgia, dove lavorerà come raccoglitore di arance insieme al fratello, rimanendo indelebilmente segnato dalla morte di quest'ultimo (nel '72 travolto e ucciso da una macchina agricola); Herb Abaramson lo riporta in sala di incisione per la Atco, ma ben presto sorgono intricati problemi legali con la casa discografica stessa: così Lousiana Red inizia una indipendente e frenetica attività dal vivo, accompagnato dal gruppo The Bluesettes, i cui momenti topici sono gli annuali Folk Festival di Philadelphia, di Montreux, di Nancy e il classico Henry Blues Festival.
Dal sito “Blues&Blues”
giovedì 9 aprile 2020
SUGAR BLUE: LA RIVOLUZIONE NELL’ARMONICA di RICCARDO GROSSO
Riascoltando un vecchio CD ho ritrovato un mago dell'armonica; per parlarvi del grande Sugar Blue ho preso in prestito questo pezzo di Riccardo Grosso, che ringrazio, vero competente in materia:
Sugar Blue (nome d’arte del newyorchese James Joshua “Jimmie” Whiting) è un armonicista che ha decisamente rivoluzionato l’armonica come strumento nella Blues music e aperto i limiti supposti dello strumento stesso. Probabilmente il riconoscimento dal grande pubblico è per il riff del singolo dei Rolling Stones intitolato “Miss You” ma considerarlo solo per questo sarebbe limitativo e irrispettoso per l’importanza di questo armonicista. Amato dai musicisti, soprattutto dall’approccio moderno, quanto – purtroppo – spesso snobbato dai puristi del Blues, Sugar Blue rappresenta una delle pietre miliari dell’armonica perché ha saputo elaborarne lo stile, inserendo influenze jazz e una tecnica raffinata, partendo dal Blues ed espandendosi al Rock e ad un sound moderno, volutamente diverso dalla tradizione, per poter supportare uno stile tanto musicale quanto elaborato. Nel corso della sua carriera, Sugar Blue suona con Johnny Shines, Roosevelt Sykes e Louisiana Red. Secondo Ronnie Wood, Blue Sugar fu trovato da Mick Jagger mentre faceva busking sulle vie di Parigi e venne ingaggiato per suonare su diverse tracce degli Stones: “Some girl”, “Send it to me” e “Miss You”.
La sua voglia di rimanere nel Blues e imparare direttamente di maestri lo fa rifiutare di unirsi agli Stones, dopo queste registrazioni. Il trombonista Mike Zwerin suonò su Crossroads (1979) album di debutto di Sugar Blue. L’armonicista fu parte della Willie Dixon’s Chicago Blues All Stars. Capacissimo di suonare il Blues tradizionale, Sugar Blue nel 1985 vince un Grammy per il “miglior album blues tradizionale”, due anni dopo è nel film Angel Heart a fianco di Brownie McGhee.
Devi capire che la musica che stai suonando è una cornice. La cornice del quadro. Il vero quadro, la vera immagine del Blues sono le canzoni che scrivi. Sugar Blue
Suona principalmente in seconda e terza posizione e usa alcuni lick in entrambe le posizioni. Suona tutto in tongue-blocking, fatto che rende il suo modo di suonare, così veloce, articolato e se vogliamo indecifrabile, ancora più straordinario.
Uno degli elementi del suo stile è la scelta di note non standard in momenti precisi e l’uso di arpeggi fuori dallo standard Blues, quando suona in seconda posizione. In pratica suona come faceva Charlie Parker, inserendo l’estensione degli accordi: l’undicesima, la tredicesima, passando per il primo grado. Un’idea tipica del bebop, che proietta anche sull’ottava alta dell’armonica e suonano con un sapore decisamente differente sul Blues.
Il suono amplificato è carico di compressione, che facilita l’uso dell’ottava alta, e usa un riverbero abbastanza presente.
Non dimentichiamo, però, che Sugar Blue è un maestro della tecnica, ha grandiosa musicalità ed è geniale anche quando si tratta di suonare nello stile tradizionale: pur rimanendo nel linguaggio tipico del genere, lascia trasparire la sua personalità senza uscire dal contesto musicale.
Riccardo Grosso
Sugar Blue (nome d’arte del newyorchese James Joshua “Jimmie” Whiting) è un armonicista che ha decisamente rivoluzionato l’armonica come strumento nella Blues music e aperto i limiti supposti dello strumento stesso. Probabilmente il riconoscimento dal grande pubblico è per il riff del singolo dei Rolling Stones intitolato “Miss You” ma considerarlo solo per questo sarebbe limitativo e irrispettoso per l’importanza di questo armonicista. Amato dai musicisti, soprattutto dall’approccio moderno, quanto – purtroppo – spesso snobbato dai puristi del Blues, Sugar Blue rappresenta una delle pietre miliari dell’armonica perché ha saputo elaborarne lo stile, inserendo influenze jazz e una tecnica raffinata, partendo dal Blues ed espandendosi al Rock e ad un sound moderno, volutamente diverso dalla tradizione, per poter supportare uno stile tanto musicale quanto elaborato. Nel corso della sua carriera, Sugar Blue suona con Johnny Shines, Roosevelt Sykes e Louisiana Red. Secondo Ronnie Wood, Blue Sugar fu trovato da Mick Jagger mentre faceva busking sulle vie di Parigi e venne ingaggiato per suonare su diverse tracce degli Stones: “Some girl”, “Send it to me” e “Miss You”.
La sua voglia di rimanere nel Blues e imparare direttamente di maestri lo fa rifiutare di unirsi agli Stones, dopo queste registrazioni. Il trombonista Mike Zwerin suonò su Crossroads (1979) album di debutto di Sugar Blue. L’armonicista fu parte della Willie Dixon’s Chicago Blues All Stars. Capacissimo di suonare il Blues tradizionale, Sugar Blue nel 1985 vince un Grammy per il “miglior album blues tradizionale”, due anni dopo è nel film Angel Heart a fianco di Brownie McGhee.
Devi capire che la musica che stai suonando è una cornice. La cornice del quadro. Il vero quadro, la vera immagine del Blues sono le canzoni che scrivi. Sugar Blue
Suona principalmente in seconda e terza posizione e usa alcuni lick in entrambe le posizioni. Suona tutto in tongue-blocking, fatto che rende il suo modo di suonare, così veloce, articolato e se vogliamo indecifrabile, ancora più straordinario.
Uno degli elementi del suo stile è la scelta di note non standard in momenti precisi e l’uso di arpeggi fuori dallo standard Blues, quando suona in seconda posizione. In pratica suona come faceva Charlie Parker, inserendo l’estensione degli accordi: l’undicesima, la tredicesima, passando per il primo grado. Un’idea tipica del bebop, che proietta anche sull’ottava alta dell’armonica e suonano con un sapore decisamente differente sul Blues.
Il suono amplificato è carico di compressione, che facilita l’uso dell’ottava alta, e usa un riverbero abbastanza presente.
Non dimentichiamo, però, che Sugar Blue è un maestro della tecnica, ha grandiosa musicalità ed è geniale anche quando si tratta di suonare nello stile tradizionale: pur rimanendo nel linguaggio tipico del genere, lascia trasparire la sua personalità senza uscire dal contesto musicale.
Riccardo Grosso
venerdì 3 aprile 2020
DALLA PARTE DELL'EDITORE
Dalla parte dell’editore - Diario in Corona Virus F.U.I.S.
Una situazione certamente inedita quella che stiamo vivendo costretti dalla pandemia, uno scenario distopico da videogame o da bmovie genere catastrofico. Naturalmente le reazioni individuali sono tra le più disparate e, apparentemente, quelle meno scomposte dovrebbero pervenire dalle classi intellettuali. Chi trae reddito dal leggere o dallo scrivere non può che ottenere beneficio da un “soggiorno obbligato” temporaneo in casa; questo discorso vale in parte, ma solo in parte, anche per un editore. Faccio parte della “mitica” categoria degli “editori indipendenti” e da trent’anni, con mia moglie Antonella, svolgo la missione impossibile di mantenere attivo il bilancio di un’azienda editoriale in una realtà in cui parlare di “indici di lettura” equivale a un eufemismo. La terziarizzazione del lavoro è una pratica molto diffusa nel settore e di conseguenza il telelavoro (oggi “Smart working”) è prassi abituale. In questi giorni, quindi, riusciamo a svolgere normalmente e regolarmente la fase di prestampa, vale a dire quella parte di lavoro che concerne la valutazione del testo, l’editing, la grafica, l’impaginazione e la realizzazione della copertina. Una volta completata questa fase e ottenuto il “Visto si stampi” dall’autore, il testo passa in tipografia, da questa passa al nostro magazzino di spedizione, quindi al distributore, da qui in libreria e… finalmente al lettore. Per noi comincia da questo momento la fase della post-produzione e della promozione del volume. In condizioni normali la vera lotta inizia appena fuori dal nostro magazzino, ed è già una lotta ìmpari; la filiera della distribuzione, infatti, è saldamente nelle mani di un micidiale cartello costituito dai grandi editori, che impongono i loro prodotti alle librerie, riducendo al lumicino i margini di trattativa e quindi d’ingresso nel punto vendita dei libri prodotti dagli editori medio-piccoli. L’unica possibilità che hanno quindi gli editori di questa fascia, che poi, attenzione, sono quelli che pubblicano i libri di qualità, è di tessere una fitta rete di relazioni con associazioni culturali, gruppi di lettura e librerie indipendenti (non di “catena”), per organizzare presentazioni pubbliche dei volumi in maniera capillare in tutto il territorio nazionale; indispensabile in questo meccanismo è il ruolo dell’autore, vero fulcro attorno al quale girano tutti gli ingranaggi. Siamo arrivati dunque al nocciolo del problema: con il logico e sacrosanto divieto di riunione e la meno logica e meno sacrosanta chiusura delle librerie, i nostri libri rimangono tristemente impacchettati in magazzino. Finanche Amazon e IBS hanno
smesso di ordinare (complice anche la promulgazione della legge che impedisce di praticare sconti selvaggi sui libri), preferendo dedicarsi alla vendita di prodotti più richiesti dal momento contingente. E l’eBook direte voi? Il mercato dell’eBook è praticamente inesistente, i grandi lettori, che poi sono quelli che reggono il mercato (falsando anche le statistiche modello “pollo di Trilussa”) non riescono ad abbandonare la carta e comunque anche l’eBook risente del problema della distribuzione, che in questo caso significa scarsa o inesistente visibilità nelle varie piattaforme.
Permanendo questo stato di cose, il suggerimento che fornisco ad autori e editori è di approfittare di questa pausa forzata per tirar fuori i “manoscritti” dai cassetti, completare la fase di prestampa, consegnare in tipografia per acquisire la priorità di stampa ed immettersi nel mercato appena si sbloccherà la situazione, giocando d’anticipo sui grandi che, inevitabilmente, si dovranno muovere con meno agilità.
Per quanto riguarda i riflessi sociali della pandemia che ha costretto tutti noi a rintanarci tra le mura domestiche, bisogna tener conto che questa quotidianità inedita è vissuta dalla popolazione con gli stati d’animo e le reazioni psicologiche più disparate. Stiamo vivendo le conseguenze di un cambiamento a dir poco epocale del nostro stile di vita e delle nostre abitudini; la reazione al cambiamento è di tipo soprattutto emotivo e genera reazioni diverse, legate alla personalità del singolo e al suo vissuto intimo. È necessaria pertanto una chiave di lettura saggia e serena dei sentimenti generati da questo cambiamento che ci consenta di gestirlo senza traumi e con proficui risultati in termini pratici, di benessere interiore e di qualità relazionale. Di concerto con un’associazione culturale e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, abbiamo pensato che la poesia può aiutare a gestire l’emotività, controllandone gli effetti ed arginandone la deriva patologica. La nostra casa può diventare l’angolo di cui parlavano i Latini per indicare un luogo protettivo e appartato riservato alla meditazione. Per Orazio l’angulus è una dimensione fondamentale, luogo simbolo della sua esistenza, deputato al canto e generatore di poesia, dove il poeta si può ritirare anche con le persone care. Nell’angulus, proprio come in questo caso, da soli o circondati dal calore dei nostri conviventi, possiamo creare un terreno fertile per la poesia. Da queste considerazioni è nato il Premio di Poesia Angulus Ridet, il cui bando troverete anche all’interno del sito della FUIS, che ringrazio per l’ospitalità e per l’instancabile ruolo che svolge per la diffusione della cultura nel nostro Paese.
Franco Arcidiaco, Città del Sole edizioni
Una situazione certamente inedita quella che stiamo vivendo costretti dalla pandemia, uno scenario distopico da videogame o da bmovie genere catastrofico. Naturalmente le reazioni individuali sono tra le più disparate e, apparentemente, quelle meno scomposte dovrebbero pervenire dalle classi intellettuali. Chi trae reddito dal leggere o dallo scrivere non può che ottenere beneficio da un “soggiorno obbligato” temporaneo in casa; questo discorso vale in parte, ma solo in parte, anche per un editore. Faccio parte della “mitica” categoria degli “editori indipendenti” e da trent’anni, con mia moglie Antonella, svolgo la missione impossibile di mantenere attivo il bilancio di un’azienda editoriale in una realtà in cui parlare di “indici di lettura” equivale a un eufemismo. La terziarizzazione del lavoro è una pratica molto diffusa nel settore e di conseguenza il telelavoro (oggi “Smart working”) è prassi abituale. In questi giorni, quindi, riusciamo a svolgere normalmente e regolarmente la fase di prestampa, vale a dire quella parte di lavoro che concerne la valutazione del testo, l’editing, la grafica, l’impaginazione e la realizzazione della copertina. Una volta completata questa fase e ottenuto il “Visto si stampi” dall’autore, il testo passa in tipografia, da questa passa al nostro magazzino di spedizione, quindi al distributore, da qui in libreria e… finalmente al lettore. Per noi comincia da questo momento la fase della post-produzione e della promozione del volume. In condizioni normali la vera lotta inizia appena fuori dal nostro magazzino, ed è già una lotta ìmpari; la filiera della distribuzione, infatti, è saldamente nelle mani di un micidiale cartello costituito dai grandi editori, che impongono i loro prodotti alle librerie, riducendo al lumicino i margini di trattativa e quindi d’ingresso nel punto vendita dei libri prodotti dagli editori medio-piccoli. L’unica possibilità che hanno quindi gli editori di questa fascia, che poi, attenzione, sono quelli che pubblicano i libri di qualità, è di tessere una fitta rete di relazioni con associazioni culturali, gruppi di lettura e librerie indipendenti (non di “catena”), per organizzare presentazioni pubbliche dei volumi in maniera capillare in tutto il territorio nazionale; indispensabile in questo meccanismo è il ruolo dell’autore, vero fulcro attorno al quale girano tutti gli ingranaggi. Siamo arrivati dunque al nocciolo del problema: con il logico e sacrosanto divieto di riunione e la meno logica e meno sacrosanta chiusura delle librerie, i nostri libri rimangono tristemente impacchettati in magazzino. Finanche Amazon e IBS hanno
smesso di ordinare (complice anche la promulgazione della legge che impedisce di praticare sconti selvaggi sui libri), preferendo dedicarsi alla vendita di prodotti più richiesti dal momento contingente. E l’eBook direte voi? Il mercato dell’eBook è praticamente inesistente, i grandi lettori, che poi sono quelli che reggono il mercato (falsando anche le statistiche modello “pollo di Trilussa”) non riescono ad abbandonare la carta e comunque anche l’eBook risente del problema della distribuzione, che in questo caso significa scarsa o inesistente visibilità nelle varie piattaforme.
Permanendo questo stato di cose, il suggerimento che fornisco ad autori e editori è di approfittare di questa pausa forzata per tirar fuori i “manoscritti” dai cassetti, completare la fase di prestampa, consegnare in tipografia per acquisire la priorità di stampa ed immettersi nel mercato appena si sbloccherà la situazione, giocando d’anticipo sui grandi che, inevitabilmente, si dovranno muovere con meno agilità.
Per quanto riguarda i riflessi sociali della pandemia che ha costretto tutti noi a rintanarci tra le mura domestiche, bisogna tener conto che questa quotidianità inedita è vissuta dalla popolazione con gli stati d’animo e le reazioni psicologiche più disparate. Stiamo vivendo le conseguenze di un cambiamento a dir poco epocale del nostro stile di vita e delle nostre abitudini; la reazione al cambiamento è di tipo soprattutto emotivo e genera reazioni diverse, legate alla personalità del singolo e al suo vissuto intimo. È necessaria pertanto una chiave di lettura saggia e serena dei sentimenti generati da questo cambiamento che ci consenta di gestirlo senza traumi e con proficui risultati in termini pratici, di benessere interiore e di qualità relazionale. Di concerto con un’associazione culturale e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, abbiamo pensato che la poesia può aiutare a gestire l’emotività, controllandone gli effetti ed arginandone la deriva patologica. La nostra casa può diventare l’angolo di cui parlavano i Latini per indicare un luogo protettivo e appartato riservato alla meditazione. Per Orazio l’angulus è una dimensione fondamentale, luogo simbolo della sua esistenza, deputato al canto e generatore di poesia, dove il poeta si può ritirare anche con le persone care. Nell’angulus, proprio come in questo caso, da soli o circondati dal calore dei nostri conviventi, possiamo creare un terreno fertile per la poesia. Da queste considerazioni è nato il Premio di Poesia Angulus Ridet, il cui bando troverete anche all’interno del sito della FUIS, che ringrazio per l’ospitalità e per l’instancabile ruolo che svolge per la diffusione della cultura nel nostro Paese.
Franco Arcidiaco, Città del Sole edizioni
giovedì 2 aprile 2020
LA GUERRA FREDDA PER LA STAMPA NON È FINITA
Dichiarazione del portavoce del Ministero della Difesa maggior generale Igor Konashenkov:
Abbiamo prestato attenzione agli incessanti tentativi che già da due settimane il quotidiano La Stampa sta mettendo in campo per screditare la missione dei russi che si sono mobilizzati per prestare aiuto agli italiani in difficoltà.
Nascondendosi dietro agli ideali della libertà di parola e del pluralismo di opinioni, La Stampa sta alimentando fake news russofobiche da guerra fredda rimandando a “opinioni” espresse da anonimi “alti funzionari”.
La Stampa, inoltre, non teme di utilizzare tutto ciò che gli autori riescono a inventarsi sulla base delle raccomandazioni che hanno trovato sui libri, a quanto pare ancora validi, di propaganda antisovietica.
Ad esempio, La Stampa ha subito definito “inutile” il materiale russo inviato in Italia per affrontare l’emergenza infettiva, riferendo le opinioni di un qualche maresciallo che sognava disperatamente la vittoria. La maggior parte dei medici e degli epidemiologi russi sono stati definiti dal quotidiano come esperti di guerra biologica. Coloro i quali non hanno avuto l’onore di rientrare in questa categoria sono finiti tra i membri dell’intelligence militare russa.
Tuttavia, sullo sfondo di tali speculazioni, nonostante i sospetti sensazionalistici de La Stampa, invece di condurre una guerra biologica gli epidemiologi giunti in Italia per combattere il coronavirus assieme ai propri colleghi italiani stanno debellando il Covid-19 in 65 case di riposo di Bergamo. I medici militari russi quotidianamente fianco a fianco dei militari italiani stanno edificando i reparti di terapia intensiva per salvare i cittadini italiani contagiati dal virus nel nuovo ospedale di emergenza di Bergamo. E tutto ciò viene fatto mediante la strumentazione russa definita inutile dal quotidiano La Stampa. Nonostante le fake news diramate da La Stampa, gli obiettivi della missione russa a Bergamo per l’anno 2020 sono evidenti, concreti e trasparenti. Si tratta di un’assistenza gratuita al popolo italiano che si è trovato colpito dalla pandemia di Covid-19. Il premio per gli sforzi profusi dagli esperti militari russi saranno le vite salvate e la salute del maggior numero di cittadini dell’eterna Repubblica Italiana.
Nella realizzazione di questa missione umanitaria nessuna aggressione ci distoglierà dall’obiettivo e non farà vacillare la nostra sicurezza nel fatto che stiamo agendo in buona fede. Per quanto riguarda i rapporti con i reali committenti della russofobia de La Stampa, i quali sono a noi noti, raccomandiamo loro di fare propria un’antica massima: Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita). Per essere più chiari: Bad penny always comes back.
Abbiamo prestato attenzione agli incessanti tentativi che già da due settimane il quotidiano La Stampa sta mettendo in campo per screditare la missione dei russi che si sono mobilizzati per prestare aiuto agli italiani in difficoltà.
Nascondendosi dietro agli ideali della libertà di parola e del pluralismo di opinioni, La Stampa sta alimentando fake news russofobiche da guerra fredda rimandando a “opinioni” espresse da anonimi “alti funzionari”.
La Stampa, inoltre, non teme di utilizzare tutto ciò che gli autori riescono a inventarsi sulla base delle raccomandazioni che hanno trovato sui libri, a quanto pare ancora validi, di propaganda antisovietica.
Ad esempio, La Stampa ha subito definito “inutile” il materiale russo inviato in Italia per affrontare l’emergenza infettiva, riferendo le opinioni di un qualche maresciallo che sognava disperatamente la vittoria. La maggior parte dei medici e degli epidemiologi russi sono stati definiti dal quotidiano come esperti di guerra biologica. Coloro i quali non hanno avuto l’onore di rientrare in questa categoria sono finiti tra i membri dell’intelligence militare russa.
Tuttavia, sullo sfondo di tali speculazioni, nonostante i sospetti sensazionalistici de La Stampa, invece di condurre una guerra biologica gli epidemiologi giunti in Italia per combattere il coronavirus assieme ai propri colleghi italiani stanno debellando il Covid-19 in 65 case di riposo di Bergamo. I medici militari russi quotidianamente fianco a fianco dei militari italiani stanno edificando i reparti di terapia intensiva per salvare i cittadini italiani contagiati dal virus nel nuovo ospedale di emergenza di Bergamo. E tutto ciò viene fatto mediante la strumentazione russa definita inutile dal quotidiano La Stampa. Nonostante le fake news diramate da La Stampa, gli obiettivi della missione russa a Bergamo per l’anno 2020 sono evidenti, concreti e trasparenti. Si tratta di un’assistenza gratuita al popolo italiano che si è trovato colpito dalla pandemia di Covid-19. Il premio per gli sforzi profusi dagli esperti militari russi saranno le vite salvate e la salute del maggior numero di cittadini dell’eterna Repubblica Italiana.
Nella realizzazione di questa missione umanitaria nessuna aggressione ci distoglierà dall’obiettivo e non farà vacillare la nostra sicurezza nel fatto che stiamo agendo in buona fede. Per quanto riguarda i rapporti con i reali committenti della russofobia de La Stampa, i quali sono a noi noti, raccomandiamo loro di fare propria un’antica massima: Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita). Per essere più chiari: Bad penny always comes back.
lunedì 16 marzo 2020
L’INVENTARIO ESISTENZIALE DI TONINO PERNA
Tonino Perna, economista e professore ordinario di Sociologia economica, è stato presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte, del Comitato Etico di Banca Etica, assessore alla cultura del Comune di Messina (sindaco Renato Accorinti), ha co-fondato la ong Cric, l’Osservatorio sui Balcani di Trento e la rivista Altraeconomia di Milano. Oggi è presidente del parco ludico-culturale Ecolandia. Autore di numerosi saggi e di diverse opere letterarie, collabora come editorialista con Il Manifesto e Il Quotidiano del Sud; appassionato del “teatro dell’assurdo” è stato apprezzato autore di testi teatrali che ha anche interpretato con compagnie amatoriali. Protagonista di mille battaglie sociali e politiche, Tonino Perna è uno dei principali punti di riferimento culturale e politico di almeno due generazioni di attivisti disseminati nel variegato mondo della sinistra, tra cui il sottoscritto.
Nel febbraio del 2019 è uscito in sordina, in una dimessa e malmessa edizione di Castelvecchi, questo “Con beneficio d’inventario” una sorta di autobiografia parziale, dal tono a metà tra il canzonatorio e l’immaginifico, intrisa dell’aura stralunata, direi Jannacciana, tipica di Tonino.
Il prologo è un testo, tratto dal volume “Visioni dello Stretto” (Rubbettino editore), che correda i disegni di un altro fantastico visionario, Gianfranco Neri, prorettore della Mediterranea, struggente omaggio di entrambi alla grande passione che li unisce.
“Io vivo in un posto unico al mondo dove abita un Gigante maestoso che qualche volta si arrabbia e sputa sangue caliente che brucia la pelle della terra e dei suoi abitanti. Io vivo in questa terra da più di sessant’anni e non sono riuscito a scappare, non sono riuscito a fuggire dagli occhi profondi dello Stromboli, dalle spine profumate dell’Aspromonte, dalla zagara e dal gelsomino, dall’odore penetrante del bergamotto che scompare, dalla Fata Morgana che compare all’alba nelle acque morbide dello Stretto. Io vivo così, come tanti, tra speranze e rimpianti in questa terra dove la Storia è passata di rado e ha lasciato piaghe infette perché da queste parti la Storia ha l’alito puzzolente degli dèi degli Abissi”.
Il prologo delinea lo scenario che fa da sfondo alla narrazione: quello Stretto che il protagonista, voce narrante, ha solcato da pendolare quotidianamente per decenni; bellissime, a questo proposito, le scene del calo della Lupa, il nebbione che un paio di volte l’anno ammanta lo Stretto, e delle “avventure in aliscafo” che mettono a dura prova nervi e stomaci dei passeggeri durante le sciroccate.
Il racconto di Tonino comincia una notte di maggio quando, appena rientrato da un viaggio in treno da Roma, lo coglie la notizia della morte del padre. La prima reazione è di smarrimento che gli impedisce di “accettare che un dialogo così difficile s’interrompesse. Quante cose avrei dovuto ancora discutere con lui, dopo tanti anni di silenzi, di lotta e d’incomprensione reciproca”. Il padre, armiere e militarista convinto, era titolare di un’avviata fabbrica di cartucce, circostanza questa che aveva sempre provocato un forte disagio in Tonino, pacifista militante, al punto di portarlo ad allontanarsi per lunghi anni dalla famiglia. Scomparso il padre, il protagonista si trova costretto ad aiutare i familiari a districarsi tra i grovigli burocratici che regolano la messa in liquidazione dell’azienda e la disciplina dell’asse ereditario. Si apre una scena surreale che vede Tonino alle prese con l’inventario dei beni, a cominciare dagli arredi e dagli effetti personali. Si tratta di un espediente narrativo, mutuato interamente dalla realtà, che consente a Tonino di sciorinare tutto il suo estro fantastico. La narrazione diventa sincopata e dispensa frequenti battute di rimbalzo, che proiettano la scena in dimensioni temporali diverse. Appaiono personaggi persi nella notte dei tempi, parenti eccentrici, baruffe tra fratelli, quadretti di vita familiare, evocati dagli innumerevoli oggetti che via via saltano fuori da cassetti e scatole. S’intersecano naturalmente storie di vita cittadina compresa quella, dal sapore felliniano, raccontata da una nonna, di giovani “arrampicati sui rami dei pini marittimi lungo la collina di Pentimele” per osservare la fantastica scena dell’arrivo della luce elettrica nella dirimpettaia Messina; scene di gioia e incredulo stupore che, per una tremenda beffa della storia, si svolgono la sera del 27 dicembre 1908, vale a dire la vigilia del tremendo terremoto che avrebbe distrutto le due città sorelle.
Appaiono foto di compagni di scuola ricordati con il nomignolo derivante dalla condizione familiare; uno fra tutti, che ricordo anch’io, era “Il figlio delle banane”, il cui padre “aveva un negozio sul Corso Garibaldi, che tutti i bambini negli anni Cinquanta adoravano perché solo lì potevi comprare datteri e banane…”.
Salta fuori da un cassetto un “calendarietto dei barbieri”, che ha conservato incredibilmente il caratteristico profumo dopo tantissimo tempo (vero, è successo anche a me!), e dà la stura al ricordo di uno dei tanti siparietti, dal tono pecoreccio, che si svolgevano tra i clienti e il barbiere, dei quali eravamo testimoni quando i nostri padri ci portavano, la domenica mattina, per il taglio dei capelli.
Il susseguirsi dei ricordi porta via via sulla scena personaggi che hanno segnato la vita cittadina e la storia della nostra generazione, uno tra tutti il mitico Sebastiano Di Marco, presidente del Circolo del Cinema, maestro di vita di noi giovani degli anni settanta, evocato da un cartoncino d’invito alla proiezione di Dillinger è morto di Marco Ferreri la sera del 7 aprile 1970 al cinema Ariston.
Il protagonista vive in pieno l’atmosfera di quegli anni formidabili (per dirla con Mario Capanna), agevolato anche dalla condizione benestante della famiglia. I viaggi avvengono in Fiat500, rigorosamente decapottabile, e la meta sono sempre i paesi dell’Est o del Nord al perenne inseguimento del mito delle “ragazze facili”. Anche un semplice elenco degli oggetti è di per sé evocativo di un’epoca: un gettone telefonico, un pacchetto di Phenelgol, una boccetta d’inchiostro blu Must the Cartier, un flacone di DDT Super Faust (“non addormenta, fulmina”), un battipanni di legno di castagno (“l’arma fatale che usava mia madre”), un mangiadischi, un pastore del presepe (“u maravigghiatu ra rutta”), un televisore Minerva, una sputacchiera dorata, un pacchetto di sigarette Macedonia e uno di Mercedes, un proiettore “Super8”; uno scatolone colorato colmo di foto della rivolta per Reggio Capoluogo, che Tonino definisce “L’ultima grande rivolta popolare del Sud e la prima guerriglia su basi identitarie”.
Nei sette capitoli in cui è diviso il volume, oltre l’aspetto centrale che riguarda l’eredità, risolto, appunto, con l’accettazione “con beneficio d’inventario” e con il surreale colloquio con il Giudice fallimentare (che potrebbe essere benissimo il soggetto di una commedia); l’autore-protagonista, si sofferma, opportunamente, sulla trattazione di alcuni argomenti chiave della storia cittadina che hanno costituito, a tutti gli effetti, il passaggio della linea d’ombra (quella che, per dirla con Conrad, “ci avvisa che bisogna lasciarsi alle spalle anche la regione della prima giovinezza”) per la nostra generazione.
“Ogni generazione vive un momento come questo, ma noi eravamo una generazione speciale che viveva una fase unica della Storia”.
Irrompe sulla scena la rivolta di Reggio del ‘70/71 con le violente cariche dei celerini, l’acre odore dei lacrimogeni e le microstorie della vita quotidiana in quell’anno e mezzo di follia collettiva, ma soprattutto irrompe la drammatica vicenda dei “Cinque anarchici del Sud”, che Tonino ha vissuto sulla propria pelle, poiché uno di essi era suo cugino Gianni Aricò e gli altri amici cari. La vicenda ha segnato drammaticamente quella che, per tutti noi, sarebbe dovuta essere la stagione del divertimento e della spensieratezza. Rappresentazione della “fine dell’innocenza” più plasticamente figurata di quella, non poteva esserci per nessuno di noi.
Anni dopo, nel 2001, decisi che quella storia non doveva rimanere sepolta nella nostra memoria e che quel lutto andava elaborato; ne parlai con Tonino e gli proposi di ricostruire la storia e pubblicare un libro con la mia casa editrice. In redazione frequentava un giovane volenteroso, aspirante poeta, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, era quel Fabio Cuzzola, oggi rinomato affabulatore. Tonino ed io gli raccontammo la vicenda e lui fu bravo a trascriverla e completarla con documenti d’archivio e testimonianze di nostri amici e conoscenti. La prefazione di Tonino ha impreziosito un volume che ha riscontrato un clamoroso successo in tutta Italia. Oggi, passati ben cinquant’anni, è forse il caso che Tonino, magari con la mia collaborazione, rimetta mano a ricordi e carte e realizzi un affresco, con tutti crismi della Storia, di quella stagione straordinaria, questo bel libro è senz’altro un’ottima traccia.
Il libro si conclude alla Ninello Nerpa (lo pseudonimo che Tonino ha utilizzato per pubblicare la sua raccolta di testi teatrali “Il teatro dell’identità” e l’esilarante “Il pernacchione” con la mia casa editrice “Città del Sole edizioni”).
Intendo dire che, nell’ultimo capitolo, l’autore stravolge il piano narrativo e sciogliendo la sua vena immaginifica, fa vivere al personaggio un fantastico sogno che lo porta a trasfigurare le due città della sua vita fino a farle diventare un luogo unico che, secondo i progetti che ha esposto proprio in questi giorni assieme allo storico Daniele Castrizio, costituisce qualcosa di più di un sogno: la “Città dello Stretto” che consentirà finalmente alle due sponde di toccarsi grazie al solo scorrere di un “tempo interiore”!
Franco Arcidiaco
Tonino Perna, Con beneficio d’inventario, Castelvecchi 2019, pagg. 140, € 17,50.
Nel febbraio del 2019 è uscito in sordina, in una dimessa e malmessa edizione di Castelvecchi, questo “Con beneficio d’inventario” una sorta di autobiografia parziale, dal tono a metà tra il canzonatorio e l’immaginifico, intrisa dell’aura stralunata, direi Jannacciana, tipica di Tonino.
Il prologo è un testo, tratto dal volume “Visioni dello Stretto” (Rubbettino editore), che correda i disegni di un altro fantastico visionario, Gianfranco Neri, prorettore della Mediterranea, struggente omaggio di entrambi alla grande passione che li unisce.
“Io vivo in un posto unico al mondo dove abita un Gigante maestoso che qualche volta si arrabbia e sputa sangue caliente che brucia la pelle della terra e dei suoi abitanti. Io vivo in questa terra da più di sessant’anni e non sono riuscito a scappare, non sono riuscito a fuggire dagli occhi profondi dello Stromboli, dalle spine profumate dell’Aspromonte, dalla zagara e dal gelsomino, dall’odore penetrante del bergamotto che scompare, dalla Fata Morgana che compare all’alba nelle acque morbide dello Stretto. Io vivo così, come tanti, tra speranze e rimpianti in questa terra dove la Storia è passata di rado e ha lasciato piaghe infette perché da queste parti la Storia ha l’alito puzzolente degli dèi degli Abissi”.
Il prologo delinea lo scenario che fa da sfondo alla narrazione: quello Stretto che il protagonista, voce narrante, ha solcato da pendolare quotidianamente per decenni; bellissime, a questo proposito, le scene del calo della Lupa, il nebbione che un paio di volte l’anno ammanta lo Stretto, e delle “avventure in aliscafo” che mettono a dura prova nervi e stomaci dei passeggeri durante le sciroccate.
Il racconto di Tonino comincia una notte di maggio quando, appena rientrato da un viaggio in treno da Roma, lo coglie la notizia della morte del padre. La prima reazione è di smarrimento che gli impedisce di “accettare che un dialogo così difficile s’interrompesse. Quante cose avrei dovuto ancora discutere con lui, dopo tanti anni di silenzi, di lotta e d’incomprensione reciproca”. Il padre, armiere e militarista convinto, era titolare di un’avviata fabbrica di cartucce, circostanza questa che aveva sempre provocato un forte disagio in Tonino, pacifista militante, al punto di portarlo ad allontanarsi per lunghi anni dalla famiglia. Scomparso il padre, il protagonista si trova costretto ad aiutare i familiari a districarsi tra i grovigli burocratici che regolano la messa in liquidazione dell’azienda e la disciplina dell’asse ereditario. Si apre una scena surreale che vede Tonino alle prese con l’inventario dei beni, a cominciare dagli arredi e dagli effetti personali. Si tratta di un espediente narrativo, mutuato interamente dalla realtà, che consente a Tonino di sciorinare tutto il suo estro fantastico. La narrazione diventa sincopata e dispensa frequenti battute di rimbalzo, che proiettano la scena in dimensioni temporali diverse. Appaiono personaggi persi nella notte dei tempi, parenti eccentrici, baruffe tra fratelli, quadretti di vita familiare, evocati dagli innumerevoli oggetti che via via saltano fuori da cassetti e scatole. S’intersecano naturalmente storie di vita cittadina compresa quella, dal sapore felliniano, raccontata da una nonna, di giovani “arrampicati sui rami dei pini marittimi lungo la collina di Pentimele” per osservare la fantastica scena dell’arrivo della luce elettrica nella dirimpettaia Messina; scene di gioia e incredulo stupore che, per una tremenda beffa della storia, si svolgono la sera del 27 dicembre 1908, vale a dire la vigilia del tremendo terremoto che avrebbe distrutto le due città sorelle.
Appaiono foto di compagni di scuola ricordati con il nomignolo derivante dalla condizione familiare; uno fra tutti, che ricordo anch’io, era “Il figlio delle banane”, il cui padre “aveva un negozio sul Corso Garibaldi, che tutti i bambini negli anni Cinquanta adoravano perché solo lì potevi comprare datteri e banane…”.
Salta fuori da un cassetto un “calendarietto dei barbieri”, che ha conservato incredibilmente il caratteristico profumo dopo tantissimo tempo (vero, è successo anche a me!), e dà la stura al ricordo di uno dei tanti siparietti, dal tono pecoreccio, che si svolgevano tra i clienti e il barbiere, dei quali eravamo testimoni quando i nostri padri ci portavano, la domenica mattina, per il taglio dei capelli.
Il susseguirsi dei ricordi porta via via sulla scena personaggi che hanno segnato la vita cittadina e la storia della nostra generazione, uno tra tutti il mitico Sebastiano Di Marco, presidente del Circolo del Cinema, maestro di vita di noi giovani degli anni settanta, evocato da un cartoncino d’invito alla proiezione di Dillinger è morto di Marco Ferreri la sera del 7 aprile 1970 al cinema Ariston.
Il protagonista vive in pieno l’atmosfera di quegli anni formidabili (per dirla con Mario Capanna), agevolato anche dalla condizione benestante della famiglia. I viaggi avvengono in Fiat500, rigorosamente decapottabile, e la meta sono sempre i paesi dell’Est o del Nord al perenne inseguimento del mito delle “ragazze facili”. Anche un semplice elenco degli oggetti è di per sé evocativo di un’epoca: un gettone telefonico, un pacchetto di Phenelgol, una boccetta d’inchiostro blu Must the Cartier, un flacone di DDT Super Faust (“non addormenta, fulmina”), un battipanni di legno di castagno (“l’arma fatale che usava mia madre”), un mangiadischi, un pastore del presepe (“u maravigghiatu ra rutta”), un televisore Minerva, una sputacchiera dorata, un pacchetto di sigarette Macedonia e uno di Mercedes, un proiettore “Super8”; uno scatolone colorato colmo di foto della rivolta per Reggio Capoluogo, che Tonino definisce “L’ultima grande rivolta popolare del Sud e la prima guerriglia su basi identitarie”.
Nei sette capitoli in cui è diviso il volume, oltre l’aspetto centrale che riguarda l’eredità, risolto, appunto, con l’accettazione “con beneficio d’inventario” e con il surreale colloquio con il Giudice fallimentare (che potrebbe essere benissimo il soggetto di una commedia); l’autore-protagonista, si sofferma, opportunamente, sulla trattazione di alcuni argomenti chiave della storia cittadina che hanno costituito, a tutti gli effetti, il passaggio della linea d’ombra (quella che, per dirla con Conrad, “ci avvisa che bisogna lasciarsi alle spalle anche la regione della prima giovinezza”) per la nostra generazione.
“Ogni generazione vive un momento come questo, ma noi eravamo una generazione speciale che viveva una fase unica della Storia”.
Irrompe sulla scena la rivolta di Reggio del ‘70/71 con le violente cariche dei celerini, l’acre odore dei lacrimogeni e le microstorie della vita quotidiana in quell’anno e mezzo di follia collettiva, ma soprattutto irrompe la drammatica vicenda dei “Cinque anarchici del Sud”, che Tonino ha vissuto sulla propria pelle, poiché uno di essi era suo cugino Gianni Aricò e gli altri amici cari. La vicenda ha segnato drammaticamente quella che, per tutti noi, sarebbe dovuta essere la stagione del divertimento e della spensieratezza. Rappresentazione della “fine dell’innocenza” più plasticamente figurata di quella, non poteva esserci per nessuno di noi.
Anni dopo, nel 2001, decisi che quella storia non doveva rimanere sepolta nella nostra memoria e che quel lutto andava elaborato; ne parlai con Tonino e gli proposi di ricostruire la storia e pubblicare un libro con la mia casa editrice. In redazione frequentava un giovane volenteroso, aspirante poeta, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, era quel Fabio Cuzzola, oggi rinomato affabulatore. Tonino ed io gli raccontammo la vicenda e lui fu bravo a trascriverla e completarla con documenti d’archivio e testimonianze di nostri amici e conoscenti. La prefazione di Tonino ha impreziosito un volume che ha riscontrato un clamoroso successo in tutta Italia. Oggi, passati ben cinquant’anni, è forse il caso che Tonino, magari con la mia collaborazione, rimetta mano a ricordi e carte e realizzi un affresco, con tutti crismi della Storia, di quella stagione straordinaria, questo bel libro è senz’altro un’ottima traccia.
Il libro si conclude alla Ninello Nerpa (lo pseudonimo che Tonino ha utilizzato per pubblicare la sua raccolta di testi teatrali “Il teatro dell’identità” e l’esilarante “Il pernacchione” con la mia casa editrice “Città del Sole edizioni”).
Intendo dire che, nell’ultimo capitolo, l’autore stravolge il piano narrativo e sciogliendo la sua vena immaginifica, fa vivere al personaggio un fantastico sogno che lo porta a trasfigurare le due città della sua vita fino a farle diventare un luogo unico che, secondo i progetti che ha esposto proprio in questi giorni assieme allo storico Daniele Castrizio, costituisce qualcosa di più di un sogno: la “Città dello Stretto” che consentirà finalmente alle due sponde di toccarsi grazie al solo scorrere di un “tempo interiore”!
Franco Arcidiaco
Tonino Perna, Con beneficio d’inventario, Castelvecchi 2019, pagg. 140, € 17,50.
domenica 15 marzo 2020
UN LIBRO INEDITO (ANCORA PER POCO) DI FRANCESCO VILLARI
Ciao Francesco, il 6 novembre scorso mi hai inviato il tuo lavoro via email, chiedendomi semplicemente di essere spietato nel valutarlo; me ne avevi parlato qualche giorno prima fuori da Spazio Open con fare disincantato, io, certo che mi sarei ritrovato tra le mani “roba forte”, mi ero riproposto di riservargli un’attenzione particolare. Appena arrivata la mail ho subito stampato il manoscritto, l’ho infilato in un folder e l’ho riposto nella mia inseparabile vecchia bridge nella stessa tasca dove quotidianamente, dopo averla compilata in modo maniacale, ripongo la mia quovadis prenote. In tutti questi mesi ho letto, come al solito, migliaia di pagine sia per lavoro che per diletto, scegliendo tra i manoscritti che arrivano in casa editrice (che mi rifila Antonella) e le montagne di libri che circondano il mio angulus ridet, vale a dire la mia poltrona affiancata dallo scaffale mobile, traboccante di libri che periodicamente tiro fuori dalla mia biblioteca o che ho acquistato recentemente.
Ieri mi sono ritirato nel mio studio per sistemare appunti e carte, avevo tante cose da fare e sono caduto preda dell’abituale ansia paranoica che si manifesta nel momento in cui devo decidere da dove cominciare… ho messo la mano nella tasca della bridge per tirare fuori la quovadis prenote (che in questi casi svolge il ruolo di Virgilio) e… ho tirato fuori il folder con il tuo manoscritto. L’ho posato sulla scrivania ho pareggiato i fogli e ho cominciato a leggerli.
Mi è venuto in mente il modo in cui ci siamo conosciuti; ero venuto a trovarti (diciamo 20 anni fa?) nel tuo ufficio di contrada Gagliardi con il prof. Amato, nella tua qualità di possibile sponsor del Premio Nosside, di cui editavo l’antologia. Quel giorno ho scoperto una realtà inimmaginabile: un angolo di Silicon Valley, distonicamente incastonato nell'orrendo scorcio degradato di una delle nostre tante periferie. Un effetto straniante reso ancor più tale dalla tua impeccabile figura di manager; se non ci fossimo stretti la mano, ti avrei considerato alla stregua di un ologramma, tanto incongruo mi appariva il contesto.
Non potevo sapere che quel giorno ero venuto a contatto di solo una, e nemmeno tra le più importanti credo, delle tue tante vite. Ci siamo ritrovati, diciamo dieci anni dopo, nella mia casa editrice e ti sei presentato stavolta nelle vesti di scrittore abile e immaginifico, appassionato di biliardo. Quell’incontro ha prodotto la pubblicazione con la mia Città del sole edizioni, del romanzo “L’ottavina di Dio” che hai scritto a quattro mani con Marco Di Grazia. Un pugno di anni ancora e ti ho ritrovato musicologo e cinefilo di straordinario livello, affabulatore seducente, nonché “socialcomunicatore” decisamente fuori dalla norma. Quando mi confronto con te su queste nostre comuni passioni mi autoriduco alla stregua di un dilettante, d’altra parte la tua cultura musicale si fonda su solide basi tecniche, come ben si evince da questo nuovo straordinario tuo romanzo.
Tra ieri pomeriggio e stamattina posso finalmente dire di averti conosciuto nella tua interezza e ti ringrazio per avermene dato l’opportunità.
Intanto Arles… è uno dei pochi luoghi che ha messo in crisi il mio razionalismo, città magica e ruffiana come nessun’altra. Se il genius loci è Van Gogh non ti puoi aspettare altro; ci siamo capitati Antonella ed io con una coppia di amici e rispettivi figli, in un memorabile trentun dicembre di non so quanti anni fa, ospiti del Nord-Pinus. Sotto lo sguardo curioso dei viaggiatori che ci avevano preceduto, ritratti nella galleria fotografica dal tono a metà tra l’esotico e il dandy, tra scene di caccia, corride e favolosi bestiari, abbiamo trascorso la serata nel leggendario caffè dell’hotel, per poi immergerci nella mitica Place du Forum per ricalcare i passi di Vincent. Abbiamo atteso la mezzanotte tra giri di valzer (io che ho la grazia di un orso, ma il pastis e l’assenzio fanno miracoli…) al suono di un organino apparso dal nulla ai bordi della piazza, sfidando un freddo polare. Anche noi come te (pardon, come il tuo Ludovico, il cui nome scopriremo però solo nelle ultime righe del libro) in quei giorni ci siamo “sentiti a casa nella stanza di Van Gogh”!
Con queste premesse non ho potuto che procedere spedito e mi sono trovato letteralmente rapito dalla tua scrittura coinvolgente, come solo una buona narrazione in prima persona sa essere. L’espediente narrativo della sordità (per questo hai voluto fortemente che lo leggessi?) che hai usato, è semplicemente geniale e ti ha consentito di svolgere la trama in modo sorprendentemente credibile. D’altra parte, come dice il tuo personaggio, il genio di Van Gogh era bene in grado di dipingere il silenzio.
Pur intriso di passioni e temi cruciali, il romanzo risulta accattivante e scorrevole, svolto con maestria da gran narratore. Il tuo sconfinato amore per la musica ti consente di far svolgere abilmente al tuo personaggio la grande impresa di comprendere la musica senza bisogno di sentirla attraverso un suono. Il biliardo, tema ricorrente nella tua ars narrandi, viene proposto qui come prodotto dell’armonia musicale e della filosofia matematica, non so se nessuno mai si è spinto su questi sentieri, personalmente li trovo affascinanti e originali.
All’amore guardi con il tuo tipico disincanto esistenziale, trovo acuta e condivisibile la tua riflessione sulla felicità e la tristezza, come ingredienti di una forma di masochismo generalizzato “che preferisce la certezza della pena all’ipotesi della gioia”. Per non parlare poi della dotta disquisizione sull’amore che può dirsi compiuto solo una volta finito; della separazione decodificata dal sapore/colore degli arredi e delle suppellettili; della fine del matrimonio visto come una forma di disinvestimento (time to market): l’amore come market dei sentimenti!
All’irrompere di Chloée nella vita del protagonista, il romanzo imbocca la sua strada maestra.
Una donna straordinaria (rendi bene l’idea accostandola alla Fanny Ardant di Truffaut) che inevitabilmente lo pone in stato di sudditanza intellettuale, sia per la sua competenza in materia di arte (Van Gogh è il loro galeotto), musica (è un’eccellente pianista), cocktail (Bloody Mary in primis) e crostacei (i percebes, preistorici eroi), sia per la sua profonda concezione filosofica del primato della memoria nella vita dell’uomo. L’affascinante tesi che fai esporre alla tua Chloée, riguarda la possibilità di isolare la memoria umana come chiave della vita eterna; un processo di back up della nostra vita che, nel momento in cui il nostro corpo dovesse risultare inservibile, si potrebbe installare in un clone. “Se la memoria si potesse isolare genererebbe un essere immortale”, è la stupefacente chiosa di Chloée. Tesi assolutamente non peregrina, suffragata dagli studi del famoso scienziato informatico americano Raymond Kurzweil, che è convinto delle capacità delle nanotecnologie di sconfiggere la morte. Il romanzo si dispiega e conclude con dei credibili e appropriati colpi di scena che avvincono mirabilmente il lettore.
Inutile dire che mi hai fatto innamorare perdutamente, non me ne volere, di Chloée e ti ringrazio soprattutto per il “lieto fine”, non sopportavo l’idea di averla persa per sempre.
Ciao, tuo Franco Arcidiaco
Ieri mi sono ritirato nel mio studio per sistemare appunti e carte, avevo tante cose da fare e sono caduto preda dell’abituale ansia paranoica che si manifesta nel momento in cui devo decidere da dove cominciare… ho messo la mano nella tasca della bridge per tirare fuori la quovadis prenote (che in questi casi svolge il ruolo di Virgilio) e… ho tirato fuori il folder con il tuo manoscritto. L’ho posato sulla scrivania ho pareggiato i fogli e ho cominciato a leggerli.
Mi è venuto in mente il modo in cui ci siamo conosciuti; ero venuto a trovarti (diciamo 20 anni fa?) nel tuo ufficio di contrada Gagliardi con il prof. Amato, nella tua qualità di possibile sponsor del Premio Nosside, di cui editavo l’antologia. Quel giorno ho scoperto una realtà inimmaginabile: un angolo di Silicon Valley, distonicamente incastonato nell'orrendo scorcio degradato di una delle nostre tante periferie. Un effetto straniante reso ancor più tale dalla tua impeccabile figura di manager; se non ci fossimo stretti la mano, ti avrei considerato alla stregua di un ologramma, tanto incongruo mi appariva il contesto.
Non potevo sapere che quel giorno ero venuto a contatto di solo una, e nemmeno tra le più importanti credo, delle tue tante vite. Ci siamo ritrovati, diciamo dieci anni dopo, nella mia casa editrice e ti sei presentato stavolta nelle vesti di scrittore abile e immaginifico, appassionato di biliardo. Quell’incontro ha prodotto la pubblicazione con la mia Città del sole edizioni, del romanzo “L’ottavina di Dio” che hai scritto a quattro mani con Marco Di Grazia. Un pugno di anni ancora e ti ho ritrovato musicologo e cinefilo di straordinario livello, affabulatore seducente, nonché “socialcomunicatore” decisamente fuori dalla norma. Quando mi confronto con te su queste nostre comuni passioni mi autoriduco alla stregua di un dilettante, d’altra parte la tua cultura musicale si fonda su solide basi tecniche, come ben si evince da questo nuovo straordinario tuo romanzo.
Tra ieri pomeriggio e stamattina posso finalmente dire di averti conosciuto nella tua interezza e ti ringrazio per avermene dato l’opportunità.
Intanto Arles… è uno dei pochi luoghi che ha messo in crisi il mio razionalismo, città magica e ruffiana come nessun’altra. Se il genius loci è Van Gogh non ti puoi aspettare altro; ci siamo capitati Antonella ed io con una coppia di amici e rispettivi figli, in un memorabile trentun dicembre di non so quanti anni fa, ospiti del Nord-Pinus. Sotto lo sguardo curioso dei viaggiatori che ci avevano preceduto, ritratti nella galleria fotografica dal tono a metà tra l’esotico e il dandy, tra scene di caccia, corride e favolosi bestiari, abbiamo trascorso la serata nel leggendario caffè dell’hotel, per poi immergerci nella mitica Place du Forum per ricalcare i passi di Vincent. Abbiamo atteso la mezzanotte tra giri di valzer (io che ho la grazia di un orso, ma il pastis e l’assenzio fanno miracoli…) al suono di un organino apparso dal nulla ai bordi della piazza, sfidando un freddo polare. Anche noi come te (pardon, come il tuo Ludovico, il cui nome scopriremo però solo nelle ultime righe del libro) in quei giorni ci siamo “sentiti a casa nella stanza di Van Gogh”!
Con queste premesse non ho potuto che procedere spedito e mi sono trovato letteralmente rapito dalla tua scrittura coinvolgente, come solo una buona narrazione in prima persona sa essere. L’espediente narrativo della sordità (per questo hai voluto fortemente che lo leggessi?) che hai usato, è semplicemente geniale e ti ha consentito di svolgere la trama in modo sorprendentemente credibile. D’altra parte, come dice il tuo personaggio, il genio di Van Gogh era bene in grado di dipingere il silenzio.
Pur intriso di passioni e temi cruciali, il romanzo risulta accattivante e scorrevole, svolto con maestria da gran narratore. Il tuo sconfinato amore per la musica ti consente di far svolgere abilmente al tuo personaggio la grande impresa di comprendere la musica senza bisogno di sentirla attraverso un suono. Il biliardo, tema ricorrente nella tua ars narrandi, viene proposto qui come prodotto dell’armonia musicale e della filosofia matematica, non so se nessuno mai si è spinto su questi sentieri, personalmente li trovo affascinanti e originali.
All’amore guardi con il tuo tipico disincanto esistenziale, trovo acuta e condivisibile la tua riflessione sulla felicità e la tristezza, come ingredienti di una forma di masochismo generalizzato “che preferisce la certezza della pena all’ipotesi della gioia”. Per non parlare poi della dotta disquisizione sull’amore che può dirsi compiuto solo una volta finito; della separazione decodificata dal sapore/colore degli arredi e delle suppellettili; della fine del matrimonio visto come una forma di disinvestimento (time to market): l’amore come market dei sentimenti!
All’irrompere di Chloée nella vita del protagonista, il romanzo imbocca la sua strada maestra.
Una donna straordinaria (rendi bene l’idea accostandola alla Fanny Ardant di Truffaut) che inevitabilmente lo pone in stato di sudditanza intellettuale, sia per la sua competenza in materia di arte (Van Gogh è il loro galeotto), musica (è un’eccellente pianista), cocktail (Bloody Mary in primis) e crostacei (i percebes, preistorici eroi), sia per la sua profonda concezione filosofica del primato della memoria nella vita dell’uomo. L’affascinante tesi che fai esporre alla tua Chloée, riguarda la possibilità di isolare la memoria umana come chiave della vita eterna; un processo di back up della nostra vita che, nel momento in cui il nostro corpo dovesse risultare inservibile, si potrebbe installare in un clone. “Se la memoria si potesse isolare genererebbe un essere immortale”, è la stupefacente chiosa di Chloée. Tesi assolutamente non peregrina, suffragata dagli studi del famoso scienziato informatico americano Raymond Kurzweil, che è convinto delle capacità delle nanotecnologie di sconfiggere la morte. Il romanzo si dispiega e conclude con dei credibili e appropriati colpi di scena che avvincono mirabilmente il lettore.
Inutile dire che mi hai fatto innamorare perdutamente, non me ne volere, di Chloée e ti ringrazio soprattutto per il “lieto fine”, non sopportavo l’idea di averla persa per sempre.
Ciao, tuo Franco Arcidiaco
sabato 14 marzo 2020
SCHIZOFRENIA NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE
Son giorni in cui è fondamentale che la buona informazione giunga rapidamente e integralmente a lettori di giornali e libri e agli utenti dei mezzi di radio e tele comunicazione. Vediamo come reagisce il settore:
1) APPREZZABILE il DPCM che autorizza le edicole a rimanere aperte.
2) DETESTABILE la decisione di alcuni quotidiani, non tutti per fortuna, di pubblicizzare nei “piedoni” pubblicitari della prima pagina cartacea la versione digitale!
3) APPREZZABILE la decisione di alcuni quotidiani digitali di “liberare” gran parte dei contenuti.
4) DETESTABILE la campagna di riduzione dei prezzi degli abbonamenti digitali approfittando di questa emergenza, è una forma di sciacallaggio ammantata di magnanimità.
5) DETESTABILE l’incredibile comportamento di RAIPLAY che ha inserito nell’APP una miriade di spot pubblicitari che interrompono continuamente addirittura i titoli dei telegiornali di Rainews24.
6) DETESTABILE la campagna di ilmiolibro.it che aggrava le condizioni di un settore in agonia, offrendo agli aspiranti scrittori la possibilità di stamparsi gratis una copia del loro libro.
Per stasera mi fermo qui ma temo che sarò costretto ad aggiornare il report giorno per giorno.
1) APPREZZABILE il DPCM che autorizza le edicole a rimanere aperte.
2) DETESTABILE la decisione di alcuni quotidiani, non tutti per fortuna, di pubblicizzare nei “piedoni” pubblicitari della prima pagina cartacea la versione digitale!
3) APPREZZABILE la decisione di alcuni quotidiani digitali di “liberare” gran parte dei contenuti.
4) DETESTABILE la campagna di riduzione dei prezzi degli abbonamenti digitali approfittando di questa emergenza, è una forma di sciacallaggio ammantata di magnanimità.
5) DETESTABILE l’incredibile comportamento di RAIPLAY che ha inserito nell’APP una miriade di spot pubblicitari che interrompono continuamente addirittura i titoli dei telegiornali di Rainews24.
6) DETESTABILE la campagna di ilmiolibro.it che aggrava le condizioni di un settore in agonia, offrendo agli aspiranti scrittori la possibilità di stamparsi gratis una copia del loro libro.
Per stasera mi fermo qui ma temo che sarò costretto ad aggiornare il report giorno per giorno.
mercoledì 11 marzo 2020
IL SOLIPSISMO POETICO DI BARTOLO CATTAFI
Quando Schopenhauer parlava del solipsismo come “una piccola fortezza di confine” che mai potrà essere espugnata, ma che paradossalmente imprigiona le sue stesse truppe e quindi non costituisce pericolo per chi le passa vicino, non pensava certo alla poesia di Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 1922 – Milano 1979).
Oggi che finalmente, grazie all’immane lavoro di Diego Bertelli, giornalista e critico letterario, l’intera produzione poetica del nostro è stata classificata, organizzata e pubblicata in un poderoso volume, si può accostare certamente questa originale voce della poesia italiana al solipsismo che, in aderenza alla sua natura, non ha mai prodotto un vero e proprio movimento culturale.
Questa accurata e completa edizione (ben 964 pagine tra poesie, apparato critico, bibliografia e indici) raccoglie in modo organico i versi di Cattafi finora rimasti dispersi o disponibili solo in forma antologica. Il lettore trova qui raccolta tutta la sua produzione poetica, corredata da una dettagliata cronologia, da un ampio apparato di notizie sui testi e da una poderosa e aggiornata bibliografia. Il volume è arricchito da una serie di appendici in cui sono riunite le poesie disperse e quelle edite in plaquette, libri d’artista e edizioni per bibliofili. L’introduzione di Raoul Bruni, critico letterario e docente universitario, riesamina la collocazione di Cattafi nel quadro della poesia italiana del Novecento, sottolineando come il caso di questo poeta rappresenti “il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”, ma precisa che il Novecento italiano è stato anche il secolo degli irregolari, dei marginali e degli eccentrici, “il cui valore intrinseco è stato riconosciuto solo tardivamente, o attende ancora un riconoscimento adeguato, proprio a causa della mancanza di sintonia con lo spirito del tempo”.
Ascoltiamo però lo stesso Cattafi, sentite come parla della sua poesia: “La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. Non mi riesce di capire il mestiere di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quello del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini”.
In Cattafi c’è infatti sempre un’idea cruda, naturale, originalissima della poesia, ma ciò non va a scapito della qualità e della musicalità del verso; il suo lavoro di continua limatura balza agli occhi evidente e produce un effetto repentino, che sorprende per l’inesorabile naturalezza con cui penetra il lettore. Un percorso poetico estremamente personale che rovescia nel verso gli oggetti della vita quotidiana, dal cibo, agli attrezzi di lavoro, alle suppellettili, agli arredi della casa, ai particolari anatomici, alle malattie, alla morte, a un fantastico bestiario che non trascura il mondo degli insetti, a incursioni enigmistiche al limite della sciarada o dell’acrostico. Il disincanto e la fisicità, lasciando intravedere solo sullo sfondo il confine metafisico, sono talmente rimarcati nel suo mondo poetico, dal far risultare straniante il tema pur presente, soprattutto nelle ultime poesie, della fede e della ricerca di Dio.
In realtà Cattafi non è stato propriamente trascurato dal mondo editoriale, Mondadori ha pubblicato ben dieci suoi libri e in collane prestigiose quali Lo Specchio e gli Oscar, quello che almeno fino ad oggi gli è mancato è stato il riconoscimento della critica e del grande pubblico. Un poeta certamente difficile più che criptico (la componente lirica viene sempre meno nel suo lavoro), discontinuo nella produzione (un’attesa di otto anni tra un libro e l’altro è imperdonabile nel mondo dell’editoria italiana). Il Cattafi che personalmente amo di più è quello delle poesie brevi (per carità niente a che fare con i modaioli e inflazionati haiku) fulminanti, delle quali ora vi darò cinque fulgidi esempi, sentiamo però prima il grande critico Giovanni Ramboni: “ Se ci affidiamo all’orecchio, certe poesie di Cattafi ci sembrano veri e propri epigrammi: preparazione cauta ma rapida, poi lo scatto bruciante, il veleno”.
IPOTESI
Avanzammo le ipotesi migliori.
Non ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.
Avanzammo le altre, le peggiori.
La mente è un’abile,
astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.
Ricompose col mastice i frantumi.
COSTRIZIONE
Siamo ora costretti al concreto
a una crosta di terra
a una sosta d’insetto
nel divampante segreto del papavero.
MARZO E LE SUE IDI
Di tutto diffido
del pugnale di bruto
della tenera carne di cesare
dello stesso destino
che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.
COLPO A DEDALO
Avremo inferto
un grave colpo a dedalo
se in piena luce
in luogo aperto
studieremo l’inganno della lana
con cui è fatto il filo che conduce
alla tortuosa complessità d’arianna.
BRANDELLO
Ciò che vola che fugge innanzi a te
che dalla mano tesa s’allontana
per sua natura cambia sempre forma
è un tuo brandello lanciato con dolore
su strade impraticabili
e il vento della corsa lo trasforma.
Franco Arcidiaco
Bartolo Cattafi, Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli,
Editoriale Le Lettere, pagg. 964, € 60,00
Oggi che finalmente, grazie all’immane lavoro di Diego Bertelli, giornalista e critico letterario, l’intera produzione poetica del nostro è stata classificata, organizzata e pubblicata in un poderoso volume, si può accostare certamente questa originale voce della poesia italiana al solipsismo che, in aderenza alla sua natura, non ha mai prodotto un vero e proprio movimento culturale.
Questa accurata e completa edizione (ben 964 pagine tra poesie, apparato critico, bibliografia e indici) raccoglie in modo organico i versi di Cattafi finora rimasti dispersi o disponibili solo in forma antologica. Il lettore trova qui raccolta tutta la sua produzione poetica, corredata da una dettagliata cronologia, da un ampio apparato di notizie sui testi e da una poderosa e aggiornata bibliografia. Il volume è arricchito da una serie di appendici in cui sono riunite le poesie disperse e quelle edite in plaquette, libri d’artista e edizioni per bibliofili. L’introduzione di Raoul Bruni, critico letterario e docente universitario, riesamina la collocazione di Cattafi nel quadro della poesia italiana del Novecento, sottolineando come il caso di questo poeta rappresenti “il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”, ma precisa che il Novecento italiano è stato anche il secolo degli irregolari, dei marginali e degli eccentrici, “il cui valore intrinseco è stato riconosciuto solo tardivamente, o attende ancora un riconoscimento adeguato, proprio a causa della mancanza di sintonia con lo spirito del tempo”.
Ascoltiamo però lo stesso Cattafi, sentite come parla della sua poesia: “La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. Non mi riesce di capire il mestiere di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quello del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini”.
In Cattafi c’è infatti sempre un’idea cruda, naturale, originalissima della poesia, ma ciò non va a scapito della qualità e della musicalità del verso; il suo lavoro di continua limatura balza agli occhi evidente e produce un effetto repentino, che sorprende per l’inesorabile naturalezza con cui penetra il lettore. Un percorso poetico estremamente personale che rovescia nel verso gli oggetti della vita quotidiana, dal cibo, agli attrezzi di lavoro, alle suppellettili, agli arredi della casa, ai particolari anatomici, alle malattie, alla morte, a un fantastico bestiario che non trascura il mondo degli insetti, a incursioni enigmistiche al limite della sciarada o dell’acrostico. Il disincanto e la fisicità, lasciando intravedere solo sullo sfondo il confine metafisico, sono talmente rimarcati nel suo mondo poetico, dal far risultare straniante il tema pur presente, soprattutto nelle ultime poesie, della fede e della ricerca di Dio.
In realtà Cattafi non è stato propriamente trascurato dal mondo editoriale, Mondadori ha pubblicato ben dieci suoi libri e in collane prestigiose quali Lo Specchio e gli Oscar, quello che almeno fino ad oggi gli è mancato è stato il riconoscimento della critica e del grande pubblico. Un poeta certamente difficile più che criptico (la componente lirica viene sempre meno nel suo lavoro), discontinuo nella produzione (un’attesa di otto anni tra un libro e l’altro è imperdonabile nel mondo dell’editoria italiana). Il Cattafi che personalmente amo di più è quello delle poesie brevi (per carità niente a che fare con i modaioli e inflazionati haiku) fulminanti, delle quali ora vi darò cinque fulgidi esempi, sentiamo però prima il grande critico Giovanni Ramboni: “ Se ci affidiamo all’orecchio, certe poesie di Cattafi ci sembrano veri e propri epigrammi: preparazione cauta ma rapida, poi lo scatto bruciante, il veleno”.
IPOTESI
Avanzammo le ipotesi migliori.
Non ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.
Avanzammo le altre, le peggiori.
La mente è un’abile,
astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.
Ricompose col mastice i frantumi.
COSTRIZIONE
Siamo ora costretti al concreto
a una crosta di terra
a una sosta d’insetto
nel divampante segreto del papavero.
MARZO E LE SUE IDI
Di tutto diffido
del pugnale di bruto
della tenera carne di cesare
dello stesso destino
che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.
COLPO A DEDALO
Avremo inferto
un grave colpo a dedalo
se in piena luce
in luogo aperto
studieremo l’inganno della lana
con cui è fatto il filo che conduce
alla tortuosa complessità d’arianna.
BRANDELLO
Ciò che vola che fugge innanzi a te
che dalla mano tesa s’allontana
per sua natura cambia sempre forma
è un tuo brandello lanciato con dolore
su strade impraticabili
e il vento della corsa lo trasforma.
Franco Arcidiaco
Bartolo Cattafi, Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli,
Editoriale Le Lettere, pagg. 964, € 60,00
domenica 8 marzo 2020
LA VITA ASESSUATA DI UNO SCHIAVO D’AMORE
William Somerset Maugham (1874-1965), romanziere e commediografo fra i più popolari del Novecento, è stato un personaggio controverso soprattutto nell’ambiente della critica.
Benché a differenza di molti suoi colleghi non ne abbia mai fatto mistero, pochi sanno che W. S. Maugham è stato a lungo un importante agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. È evidente pertanto che il giudizio sullo scrittore, non deve essere condizionato dalla sua biografia; in questa trappola sono caduti molti suoi critici, ma non Glenway Wescott, suo estimatore, che ha messo in guardia il lettore dal non cercare tra le pagine di Maugham profondità di pensiero troppo in evidenza; ma di “imparare a riconoscere la sua idea in quell’involucro di realtà -un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto- dove hanno origine le idee”. E questo vale anche e soprattutto per il celeberrimo “Schiavo d’amore” uscito nel 1915.
D’altra parte lo stesso Maugham avverte: “… Non mirai più a una prosa ingioiellata, a una ricca tessitura, per il cui dominio avevo in precedenza sprecato molto lavoro in vani tentativi: cercai al contrario chiarezza e semplicità. … Of Human Bondage non è un’autobiografia, ma un romanzo autobiografico: realtà e finzione sono inestricabilmente frammiste; le emozioni sono mie, ma non tutti i fatti sono riferiti come avvennero, e alcuni di quelli attribuiti al mio eroe non provengono dalla mia vita bensì da quella di persone che conoscevo intimamente”. Maugham è comunque maestro di scrittura descrittiva sia di personaggi, caratteri e stati d’animo, che di luoghi e paesaggi. “L’estate piombò sul paese come una conquistatrice. Ogni giornata era bella. L’azzurro arrogante del cielo eccitava i nervi come uno sprone. Nell’Anlage gli alberi erano di un verde crudo e violento; e le case, quando il sole le avvolgeva, avevano un biancore abbagliante che stimolava fino a far male”.
“Schiavo d’amore” è un titolo fuorviante (anche se una volta tanto rispetta l’originale), il protagonista Philip Carey è sì un uomo ossessionato da una donna (nemmeno tanto fatale nel senso comune del termine) ma non troverete tra le 619 pagine del romanzo una sola scena di erotismo. Siamo al cospetto di un romanzo completamente asessuato, dove l’autore quando descrive i personaggi (donne o uomini che siano) indugia più sui difetti -anche fisici- che sui pregi; soprattutto quando si tratta di donne, sembra godere a descriverne la bruttezza o la malagrazia. Negli atelier dei pittori parigini che frequenta, trova solo modelle di “scarsa venustà”, fatto salvo lo spagnolo Miguel che lo intriga e lo inibisce. Parlando della sua “prima volta” con Miss Wilkinson, Philip non trova di meglio che definire “grottesca” l’immagine dell’amante in sottoveste.
Philip teme le donne ardite, che i suoi amici invece amano frequentare; “aveva sempre nascosto, sotto un altero disdegno, il terrore di cui quelle ragazze lo colmavano. La sua fantasia e i libri che aveva letto gli ispiravano il desiderio di un atteggiamento byroniano, ed egli era lacerato tra una morbosa timidezza e la convinzione di avere verso sé stesso l’obbligo di essere galante”.
Philip è affetto da piede equino e tale handicap ha ossessionato e condizionato la sua adolescenza, per giunta vissuta da orfano adottato da uno zio vicario di provincia. Da questa formazione religiosa forzata, Philip trae per fortuna solo la passione per la lettura grazie alla ricca biblioteca dello zio: “Insensibilmente si formò in lui l’abitudine più deliziosa del mondo, l’abitudine alla lettura. Philip non sapeva di procurarsi così un rifugio da tutte le afflizioni della vita; e nemmeno sapeva di creare per sé un mondo irreale che avrebbe fatto del mondo reale quotidiano una fonte di amare delusioni”.
I problemi con lo zio cominciano quando in Philip inizia a vacillare e poi a crollare definitivamente la fede. “…aveva cominciato a rendersi conto di essere la creatura di un Dio che apprezzava i disagi dei suoi fedeli”. “Ma Philip non poteva vivere a lungo nell’aria rarefatta delle cime. Ciò che gli era accaduto la prima volta che era stato preso dall’emozione religiosa si ripeté adesso… spossato dalla violenza del suo fervore, a un tratto ebbe l’anima invasa da una strana aridità. Cominciò a dimenticare la presenza di Dio, che gli era sembrata così avvolgente...”, “…il fatto era che aveva smesso di credere non per questa o quella ragione, ma perché non aveva il temperamento religioso. La fede gli era stata imposta dall’esterno. Era una questione di ambiente e di esempio. Un nuovo ambiente e un nuovo esempio gli davano l’opportunità di trovare se stesso. Si spogliò della fede della sua fanciullezza molto semplicemente, come di un mantello che non gli occorreva più”; comincia a disprezzare coloro che continuano a credere “perché si accontentavano della vaga emozione che chiamavano Dio, e non facevano il passo ulteriore che a lui sembrava così ovvio”. Inevitabile giunge anche l’odio per le donne religiose che “indossavano la loro religione con arroganza e i loro stretti rapporti con la Chiesa le inducevano ad adottare un atteggiamento leggermente dittatoriale con il resto dell’umanità”.
Dopo un soggiorno a Parigi, non a caso ispirato dalla lettura di Scènes de la vie de bohème di Henri Murger (che, guarda un po’, Maugham definisce: “assurdo, mal scritto, affascinante capolavoro”), Philip ha uno scontro violento con lo zio vicario che definisce i suoi due anni parigini “tanto tempo perso”. Personaggio chiave della sua formazione nel periodo parigino era stato Cronshaw, classico spiantato poeta maledetto, che stazionava permanentemente al caffè Closerie des Lilas dispensando perle di saggezza ad amici e avventori. Cronshaw contribuì a raffreddare l’amore per l’arte di Philip, liquidandola come un “rifugio per sottrarsi al tedio della vita”, di se stesso diceva: “Dovevo vivere nel Settecento, mi manca un mecenate. Avrei pubblicato le mie poesie a sottoscrizione, dedicandole a qualche nobiluomo. Come mi piacerebbe comporre distici rimati sul cagnolino di una contessa. La mia anima anela all’amore delle cameriere e alla conversazione dei vescovi”. Cronshaw rimproverava a Philip di aver gettato via la fede ma di averne conservata l’etica su cui essa si fondava. Convinto com’era che la sobrietà disturbasse la conversazione, enunciava senza indugio il suo motto: “Ciò che sono in grado di fare è l’unico limite di ciò che mi è lecito fare” e, preda di una forma di esoterismo etilico, riteneva di aver scovato il senso della vita nella trama dei tappeti persiani. Philip, grazie anche all’insegnamento scettico di Cronshaw, comincia anche a maturare posizioni nichiliste, arrivando a considerare lo Stato e l’individuo come due entità inconciliabili fino a considerare ogni uomo come “filosofo in proprio”.
Stanco e frastornato dall’humus parigino, messi da parte l’amore per la pittura e lo scrupolo di aver provocato il suicidio di una, solo apparentemente riottosa, aspirante pittrice, la sciatta Fanny Price, nonché reso tranquillo dal pensiero della cospicua rendita che la morte imminente dello zio gli avrebbe garantito, Philip si stabilisce definitivamente a Londra per completare gli studi di medicina. “Voglio andare a Londra, per cominciare davvero a vivere. Voglio avere esperienze. Sono stufo di prepararmi alla vita: adesso voglio viverla”.
A Londra riprende gli studi di Medicina e una sera trascinato da un amico, si reca in un caffè dove incontra la cameriera Mildred Rogers, della quale si innamora irragionevolmente, nonostante la ragazza lo tratti con indifferenza e manifesti disprezzo per la sua menomazione. Malgrado Mildred flirti apertamente con un altro avventore, tale Miller, accetta comunque di uscire con Philip, senza però mostrare alcun interesse per lui. Philip, al contrario, è sempre più ossessionato dalla ragazza, al punto di trascurare gli studi. Deluso per aver fallito un esame, Philip decide di chiedere a Mildred di sposarlo. Compra un anello e invita a cena la ragazza, ma quando le rivolge la sua proposta, Mildred risponde di aver già deciso di sposare Miller. Passa qualche mese e Philip sembra aver dimenticato Mildred. Ha conosciuto Nora, una scrittrice, che si è innamorata di lui e lo circonda di premure. Un giorno, invece, Mildred si presenta a casa di Philip in preda alla disperazione. Aspetta un figlio e Miller l'ha abbandonata. Philip decide di incontrare l'uomo per convincerlo a prendersi le sue responsabilità nei confronti della moglie e del figlio, ma Miller gli rivela di essere già sposato con un'altra donna e di non avere alcun obbligo nei confronti di Mildred. Philip non esita ad abbandonare l’onesta e innamorata Nora (“Ma alla fin fine l’importante era amare, più che essere amato”) e prende in casa Mildred assistendola nel parto, rimanendo deluso quando Mildred decide di affidare la neonata ad una balia. Preoccupato che la ragazza si annoi con lui, invita a cena uno dei suoi compagni di università, Griffiths, e assiste impotente alla corte sfacciata che questi fa a Mildred e alle volgari civetterie di lei. Quando il giorno seguente le rinfaccia il suo comportamento, Mildred gli annuncia che sta per partire con Griffiths per Parigi. Philip riprende i suoi studi e durante il suo tirocinio in ospedale (molto belle le pagine che descrivono la vita in ospedale dove “con l’avanzare del pomeriggio si manifestava un acre sentore di umanità… là non c’era né bene né male. Soltanto fatti. C’era la vita”) fa amicizia con un paziente, il bizzarro giornalista Thorpe Athelny; questi lo invita a casa sua ed incoraggia la simpatia fra sua figlia Sally e Philip.
Una sera, rientrato dall’ospedale Philip viene messo a conoscenza della morte di Cronshaw, la scomparsa del suo vecchio maestro lo porta a domandarsi perché gli uomini agiscano in un modo piuttosto che in un altro. “Agivano secondo le loro emozioni, ma le emozioni potevano essere buone o cattive; che portassero al trionfo o al disastro sembrava casuale. La vita appariva un inestricabile guazzabuglio. Gli uomini correvano di qua e di là, spinti da forze che non conoscevano; e ad essi lo scopo di tutto questo sfuggiva, era come se il loro affrettarsi fosse fine a sé stesso”.
La riflessione di Philip è profetica, ancora una volta, infatti, Mildred abbandonata anche da Griffiths, gli chiede aiuto, e Philip accetta di riprenderla in casa. Non la ama più, ma non riesce a staccarsi da lei. La sua freddezza preoccupa Mildred che teme di perdere il suo sostegno; la ragazza mette allora in atto un grossolano tentativo di seduzione, ma Philip la respinge disgustato. Il suo rifiuto eccita l'odio di Mildred, che lo insulta violentemente. L'indomani, durante l'assenza di Philip, vandalizza il suo appartamento, distrugge i quadri a cui lui teneva molto e tutti i suoi averi.
Ad aggravare la condizione di Philip ci si mette anche la Storia, scoppia in Sud Africa la Seconda guerra Anglo-Boera (molto belle le pagine che ne delineano contesto e svolgimento) che provoca un tracollo finanziario che distrugge anche i residui risparmi investiti da Philip in azioni. “Si faceva la Storia, e sembrava assurdo che un processo di tanta importanza influisse sulla vita di un oscuro studente di medicina”.
Philip, ridotto a uno stato di vagabondaggio, solo grazie all'aiuto di Athelny riesce a trovare un impiego in un negozio di abbigliamento. Lo stato d’indigenza e le difficoltà incontrate nel nuovo ambiente di lavoro, generano in Philip uno stato riflessivo che lo porta alla ricerca del senso della vita. “Si rallegrò di non credere in Dio, perché altrimenti quello stato di cose sarebbe stato intollerabile; ci si poteva conciliare con l’esistenza solo perché essa era priva di senso”. Si convince che l’uomo non è il culmine della creazione ma il frutto di una reazione fisica e che la vita non ha alcun senso. Ricorda una favola orientale che stabiliva che nella vita “…non c’era significato, e l’uomo vivendo non serviva alcun fine. Era irrilevante che nascesse o no, che vivesse o cessasse di vivere. La vita era insignificante, e la morte priva d’importanza. Philip esultò, come aveva esultato nell’adolescenza quando il peso della fede in Dio gli era caduto dalle spalle: gli sembrò di essersi sbarazzato dell’ultimo fardello di responsabilità, e di essere per la prima volta completamente libero. La sua irrilevanza si mutava in forza, ed egli si sentì a un tratto pari al destino crudele che sembrava perseguitarlo; infatti, se la vita era senza significato, il mondo era spogliato della sua crudeltà. Ciò che lui, Philip, facesse o non facesse non importava. Il fallimento era senza peso, e il successo senza valore. Lui era la creatura più trascurabile di quella massa pullulante di umanità che per breve tempo occupava la superficie della terra, ed era al tempo stesso onnipotente perché aveva strappato al caos il segreto della sua nullità… egli trasse lunghi respiri di gioiosa soddisfazione… da mesi non era così felice”. Torna alla metafora di Cronshaw -che ora gli appare meno oscura- e al tappeto persiano che gli aveva regalato: “Come il tessitore realizza un disegno senza altro fine che il piacere del suo senso estetico, così un uomo poteva vivere la propria vita; oppure, se egli era costretto a credere che le sue azioni non erano frutto di una sua scelta, l’uomo poteva pur sempre vedere nella sua vita un disegno; che non era necessario, né aveva utilità, ma era semplicemente una cosa fatta per proprio piacere”. “…Philip pensò che abbandonando il desiderio di felicità egli abbandonava l’ultima delle sue illusioni. La sua vita era orribile se misurata col metro della felicità, ma ora gli sembrava di trarre forza dal rendersi conto che si poteva misurarla con qualcos’altro. La felicità non contava, come non contava la sofferenza. L’una e l’altra contribuivano, come ogni dettaglio della vita, all’elaborazione del disegno. Gli sembrò per un attimo di essere al di sopra dei casi della sua esistenza, e sentì che essi non avrebbero più potuto toccarlo come in passato. Qualunque cosa gli accadesse sarebbe stata un motivo in più da aggiungere alla complessità del disegno, e all’avvicinarsi della fine egli avrebbe gioito del compimento di quest’ultimo. Sarebbe stato un’opera d’arte, e non meno bella perché lui soltanto ne conosceva l’esistenza, e perché con la sua morte il disegno avrebbe cessato di esistere. Philip era felice”.
Muore lo zio e Philip entra in possesso dell’eredità che gli consentirà di riprendere gli studi e il lavoro in ospedale. Complice un’idilliaca vacanza presso i luppoleti del Kent in compagnia della famiglia Athelny, Philip comincia a guardare la giovane e bella Sally con un certo interesse; ormai Mildred è morta e lui è libero dalla sua ossessione, chiede la mano di Sally che felice accetta di sposarlo.
Di “Schiavo d’Amore” sono state prodotte ben tre versioni cinematografiche: nel 1934 regia di John Cromwell con Leslie Howard e Bette Davis; nel 1946 regia di Eldmund Goulding con Paul Henreid e Eleanor Parker e nel 1964 regia di Bryan Forbes & Ken Hughes con Laurence Harvey e Kim Novak.
Delle tre versioni rimane memorabile solo la prima, che tra l’altro impose Bette Davis come stella di prima grandezza.
Nota: l’edizione tascabile in mio possesso è la ristampa del 2012 nella collana “Gli Adelphi n.416” dell’edizione del 2007 nella “Biblioteca Adelphi”. La traduzione di Franco Salvatorelli è pessima senza alcuna cura dei tempi dei verbi, congiuntivi inesistenti, e con l’utilizzo di vocaboli di chiara matrice dialettale. Altra imperdonabile pecca di questa ristampa è la mancata datazione della prefazione dell’autore.
Suggerisco di ricorrere all’edizione Mondadori (1^ italiana) del 1940 tradotta da Ada Salvatore.
Franco Arcidiaco
William Somerset Maugham, Schiavo d’amore, Adelphi 2012, pagg. 620, € 15,00
Benché a differenza di molti suoi colleghi non ne abbia mai fatto mistero, pochi sanno che W. S. Maugham è stato a lungo un importante agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. È evidente pertanto che il giudizio sullo scrittore, non deve essere condizionato dalla sua biografia; in questa trappola sono caduti molti suoi critici, ma non Glenway Wescott, suo estimatore, che ha messo in guardia il lettore dal non cercare tra le pagine di Maugham profondità di pensiero troppo in evidenza; ma di “imparare a riconoscere la sua idea in quell’involucro di realtà -un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto- dove hanno origine le idee”. E questo vale anche e soprattutto per il celeberrimo “Schiavo d’amore” uscito nel 1915.
D’altra parte lo stesso Maugham avverte: “… Non mirai più a una prosa ingioiellata, a una ricca tessitura, per il cui dominio avevo in precedenza sprecato molto lavoro in vani tentativi: cercai al contrario chiarezza e semplicità. … Of Human Bondage non è un’autobiografia, ma un romanzo autobiografico: realtà e finzione sono inestricabilmente frammiste; le emozioni sono mie, ma non tutti i fatti sono riferiti come avvennero, e alcuni di quelli attribuiti al mio eroe non provengono dalla mia vita bensì da quella di persone che conoscevo intimamente”. Maugham è comunque maestro di scrittura descrittiva sia di personaggi, caratteri e stati d’animo, che di luoghi e paesaggi. “L’estate piombò sul paese come una conquistatrice. Ogni giornata era bella. L’azzurro arrogante del cielo eccitava i nervi come uno sprone. Nell’Anlage gli alberi erano di un verde crudo e violento; e le case, quando il sole le avvolgeva, avevano un biancore abbagliante che stimolava fino a far male”.
“Schiavo d’amore” è un titolo fuorviante (anche se una volta tanto rispetta l’originale), il protagonista Philip Carey è sì un uomo ossessionato da una donna (nemmeno tanto fatale nel senso comune del termine) ma non troverete tra le 619 pagine del romanzo una sola scena di erotismo. Siamo al cospetto di un romanzo completamente asessuato, dove l’autore quando descrive i personaggi (donne o uomini che siano) indugia più sui difetti -anche fisici- che sui pregi; soprattutto quando si tratta di donne, sembra godere a descriverne la bruttezza o la malagrazia. Negli atelier dei pittori parigini che frequenta, trova solo modelle di “scarsa venustà”, fatto salvo lo spagnolo Miguel che lo intriga e lo inibisce. Parlando della sua “prima volta” con Miss Wilkinson, Philip non trova di meglio che definire “grottesca” l’immagine dell’amante in sottoveste.
Philip teme le donne ardite, che i suoi amici invece amano frequentare; “aveva sempre nascosto, sotto un altero disdegno, il terrore di cui quelle ragazze lo colmavano. La sua fantasia e i libri che aveva letto gli ispiravano il desiderio di un atteggiamento byroniano, ed egli era lacerato tra una morbosa timidezza e la convinzione di avere verso sé stesso l’obbligo di essere galante”.
Philip è affetto da piede equino e tale handicap ha ossessionato e condizionato la sua adolescenza, per giunta vissuta da orfano adottato da uno zio vicario di provincia. Da questa formazione religiosa forzata, Philip trae per fortuna solo la passione per la lettura grazie alla ricca biblioteca dello zio: “Insensibilmente si formò in lui l’abitudine più deliziosa del mondo, l’abitudine alla lettura. Philip non sapeva di procurarsi così un rifugio da tutte le afflizioni della vita; e nemmeno sapeva di creare per sé un mondo irreale che avrebbe fatto del mondo reale quotidiano una fonte di amare delusioni”.
I problemi con lo zio cominciano quando in Philip inizia a vacillare e poi a crollare definitivamente la fede. “…aveva cominciato a rendersi conto di essere la creatura di un Dio che apprezzava i disagi dei suoi fedeli”. “Ma Philip non poteva vivere a lungo nell’aria rarefatta delle cime. Ciò che gli era accaduto la prima volta che era stato preso dall’emozione religiosa si ripeté adesso… spossato dalla violenza del suo fervore, a un tratto ebbe l’anima invasa da una strana aridità. Cominciò a dimenticare la presenza di Dio, che gli era sembrata così avvolgente...”, “…il fatto era che aveva smesso di credere non per questa o quella ragione, ma perché non aveva il temperamento religioso. La fede gli era stata imposta dall’esterno. Era una questione di ambiente e di esempio. Un nuovo ambiente e un nuovo esempio gli davano l’opportunità di trovare se stesso. Si spogliò della fede della sua fanciullezza molto semplicemente, come di un mantello che non gli occorreva più”; comincia a disprezzare coloro che continuano a credere “perché si accontentavano della vaga emozione che chiamavano Dio, e non facevano il passo ulteriore che a lui sembrava così ovvio”. Inevitabile giunge anche l’odio per le donne religiose che “indossavano la loro religione con arroganza e i loro stretti rapporti con la Chiesa le inducevano ad adottare un atteggiamento leggermente dittatoriale con il resto dell’umanità”.
Dopo un soggiorno a Parigi, non a caso ispirato dalla lettura di Scènes de la vie de bohème di Henri Murger (che, guarda un po’, Maugham definisce: “assurdo, mal scritto, affascinante capolavoro”), Philip ha uno scontro violento con lo zio vicario che definisce i suoi due anni parigini “tanto tempo perso”. Personaggio chiave della sua formazione nel periodo parigino era stato Cronshaw, classico spiantato poeta maledetto, che stazionava permanentemente al caffè Closerie des Lilas dispensando perle di saggezza ad amici e avventori. Cronshaw contribuì a raffreddare l’amore per l’arte di Philip, liquidandola come un “rifugio per sottrarsi al tedio della vita”, di se stesso diceva: “Dovevo vivere nel Settecento, mi manca un mecenate. Avrei pubblicato le mie poesie a sottoscrizione, dedicandole a qualche nobiluomo. Come mi piacerebbe comporre distici rimati sul cagnolino di una contessa. La mia anima anela all’amore delle cameriere e alla conversazione dei vescovi”. Cronshaw rimproverava a Philip di aver gettato via la fede ma di averne conservata l’etica su cui essa si fondava. Convinto com’era che la sobrietà disturbasse la conversazione, enunciava senza indugio il suo motto: “Ciò che sono in grado di fare è l’unico limite di ciò che mi è lecito fare” e, preda di una forma di esoterismo etilico, riteneva di aver scovato il senso della vita nella trama dei tappeti persiani. Philip, grazie anche all’insegnamento scettico di Cronshaw, comincia anche a maturare posizioni nichiliste, arrivando a considerare lo Stato e l’individuo come due entità inconciliabili fino a considerare ogni uomo come “filosofo in proprio”.
Stanco e frastornato dall’humus parigino, messi da parte l’amore per la pittura e lo scrupolo di aver provocato il suicidio di una, solo apparentemente riottosa, aspirante pittrice, la sciatta Fanny Price, nonché reso tranquillo dal pensiero della cospicua rendita che la morte imminente dello zio gli avrebbe garantito, Philip si stabilisce definitivamente a Londra per completare gli studi di medicina. “Voglio andare a Londra, per cominciare davvero a vivere. Voglio avere esperienze. Sono stufo di prepararmi alla vita: adesso voglio viverla”.
A Londra riprende gli studi di Medicina e una sera trascinato da un amico, si reca in un caffè dove incontra la cameriera Mildred Rogers, della quale si innamora irragionevolmente, nonostante la ragazza lo tratti con indifferenza e manifesti disprezzo per la sua menomazione. Malgrado Mildred flirti apertamente con un altro avventore, tale Miller, accetta comunque di uscire con Philip, senza però mostrare alcun interesse per lui. Philip, al contrario, è sempre più ossessionato dalla ragazza, al punto di trascurare gli studi. Deluso per aver fallito un esame, Philip decide di chiedere a Mildred di sposarlo. Compra un anello e invita a cena la ragazza, ma quando le rivolge la sua proposta, Mildred risponde di aver già deciso di sposare Miller. Passa qualche mese e Philip sembra aver dimenticato Mildred. Ha conosciuto Nora, una scrittrice, che si è innamorata di lui e lo circonda di premure. Un giorno, invece, Mildred si presenta a casa di Philip in preda alla disperazione. Aspetta un figlio e Miller l'ha abbandonata. Philip decide di incontrare l'uomo per convincerlo a prendersi le sue responsabilità nei confronti della moglie e del figlio, ma Miller gli rivela di essere già sposato con un'altra donna e di non avere alcun obbligo nei confronti di Mildred. Philip non esita ad abbandonare l’onesta e innamorata Nora (“Ma alla fin fine l’importante era amare, più che essere amato”) e prende in casa Mildred assistendola nel parto, rimanendo deluso quando Mildred decide di affidare la neonata ad una balia. Preoccupato che la ragazza si annoi con lui, invita a cena uno dei suoi compagni di università, Griffiths, e assiste impotente alla corte sfacciata che questi fa a Mildred e alle volgari civetterie di lei. Quando il giorno seguente le rinfaccia il suo comportamento, Mildred gli annuncia che sta per partire con Griffiths per Parigi. Philip riprende i suoi studi e durante il suo tirocinio in ospedale (molto belle le pagine che descrivono la vita in ospedale dove “con l’avanzare del pomeriggio si manifestava un acre sentore di umanità… là non c’era né bene né male. Soltanto fatti. C’era la vita”) fa amicizia con un paziente, il bizzarro giornalista Thorpe Athelny; questi lo invita a casa sua ed incoraggia la simpatia fra sua figlia Sally e Philip.
Una sera, rientrato dall’ospedale Philip viene messo a conoscenza della morte di Cronshaw, la scomparsa del suo vecchio maestro lo porta a domandarsi perché gli uomini agiscano in un modo piuttosto che in un altro. “Agivano secondo le loro emozioni, ma le emozioni potevano essere buone o cattive; che portassero al trionfo o al disastro sembrava casuale. La vita appariva un inestricabile guazzabuglio. Gli uomini correvano di qua e di là, spinti da forze che non conoscevano; e ad essi lo scopo di tutto questo sfuggiva, era come se il loro affrettarsi fosse fine a sé stesso”.
La riflessione di Philip è profetica, ancora una volta, infatti, Mildred abbandonata anche da Griffiths, gli chiede aiuto, e Philip accetta di riprenderla in casa. Non la ama più, ma non riesce a staccarsi da lei. La sua freddezza preoccupa Mildred che teme di perdere il suo sostegno; la ragazza mette allora in atto un grossolano tentativo di seduzione, ma Philip la respinge disgustato. Il suo rifiuto eccita l'odio di Mildred, che lo insulta violentemente. L'indomani, durante l'assenza di Philip, vandalizza il suo appartamento, distrugge i quadri a cui lui teneva molto e tutti i suoi averi.
Ad aggravare la condizione di Philip ci si mette anche la Storia, scoppia in Sud Africa la Seconda guerra Anglo-Boera (molto belle le pagine che ne delineano contesto e svolgimento) che provoca un tracollo finanziario che distrugge anche i residui risparmi investiti da Philip in azioni. “Si faceva la Storia, e sembrava assurdo che un processo di tanta importanza influisse sulla vita di un oscuro studente di medicina”.
Philip, ridotto a uno stato di vagabondaggio, solo grazie all'aiuto di Athelny riesce a trovare un impiego in un negozio di abbigliamento. Lo stato d’indigenza e le difficoltà incontrate nel nuovo ambiente di lavoro, generano in Philip uno stato riflessivo che lo porta alla ricerca del senso della vita. “Si rallegrò di non credere in Dio, perché altrimenti quello stato di cose sarebbe stato intollerabile; ci si poteva conciliare con l’esistenza solo perché essa era priva di senso”. Si convince che l’uomo non è il culmine della creazione ma il frutto di una reazione fisica e che la vita non ha alcun senso. Ricorda una favola orientale che stabiliva che nella vita “…non c’era significato, e l’uomo vivendo non serviva alcun fine. Era irrilevante che nascesse o no, che vivesse o cessasse di vivere. La vita era insignificante, e la morte priva d’importanza. Philip esultò, come aveva esultato nell’adolescenza quando il peso della fede in Dio gli era caduto dalle spalle: gli sembrò di essersi sbarazzato dell’ultimo fardello di responsabilità, e di essere per la prima volta completamente libero. La sua irrilevanza si mutava in forza, ed egli si sentì a un tratto pari al destino crudele che sembrava perseguitarlo; infatti, se la vita era senza significato, il mondo era spogliato della sua crudeltà. Ciò che lui, Philip, facesse o non facesse non importava. Il fallimento era senza peso, e il successo senza valore. Lui era la creatura più trascurabile di quella massa pullulante di umanità che per breve tempo occupava la superficie della terra, ed era al tempo stesso onnipotente perché aveva strappato al caos il segreto della sua nullità… egli trasse lunghi respiri di gioiosa soddisfazione… da mesi non era così felice”. Torna alla metafora di Cronshaw -che ora gli appare meno oscura- e al tappeto persiano che gli aveva regalato: “Come il tessitore realizza un disegno senza altro fine che il piacere del suo senso estetico, così un uomo poteva vivere la propria vita; oppure, se egli era costretto a credere che le sue azioni non erano frutto di una sua scelta, l’uomo poteva pur sempre vedere nella sua vita un disegno; che non era necessario, né aveva utilità, ma era semplicemente una cosa fatta per proprio piacere”. “…Philip pensò che abbandonando il desiderio di felicità egli abbandonava l’ultima delle sue illusioni. La sua vita era orribile se misurata col metro della felicità, ma ora gli sembrava di trarre forza dal rendersi conto che si poteva misurarla con qualcos’altro. La felicità non contava, come non contava la sofferenza. L’una e l’altra contribuivano, come ogni dettaglio della vita, all’elaborazione del disegno. Gli sembrò per un attimo di essere al di sopra dei casi della sua esistenza, e sentì che essi non avrebbero più potuto toccarlo come in passato. Qualunque cosa gli accadesse sarebbe stata un motivo in più da aggiungere alla complessità del disegno, e all’avvicinarsi della fine egli avrebbe gioito del compimento di quest’ultimo. Sarebbe stato un’opera d’arte, e non meno bella perché lui soltanto ne conosceva l’esistenza, e perché con la sua morte il disegno avrebbe cessato di esistere. Philip era felice”.
Muore lo zio e Philip entra in possesso dell’eredità che gli consentirà di riprendere gli studi e il lavoro in ospedale. Complice un’idilliaca vacanza presso i luppoleti del Kent in compagnia della famiglia Athelny, Philip comincia a guardare la giovane e bella Sally con un certo interesse; ormai Mildred è morta e lui è libero dalla sua ossessione, chiede la mano di Sally che felice accetta di sposarlo.
Di “Schiavo d’Amore” sono state prodotte ben tre versioni cinematografiche: nel 1934 regia di John Cromwell con Leslie Howard e Bette Davis; nel 1946 regia di Eldmund Goulding con Paul Henreid e Eleanor Parker e nel 1964 regia di Bryan Forbes & Ken Hughes con Laurence Harvey e Kim Novak.
Delle tre versioni rimane memorabile solo la prima, che tra l’altro impose Bette Davis come stella di prima grandezza.
Nota: l’edizione tascabile in mio possesso è la ristampa del 2012 nella collana “Gli Adelphi n.416” dell’edizione del 2007 nella “Biblioteca Adelphi”. La traduzione di Franco Salvatorelli è pessima senza alcuna cura dei tempi dei verbi, congiuntivi inesistenti, e con l’utilizzo di vocaboli di chiara matrice dialettale. Altra imperdonabile pecca di questa ristampa è la mancata datazione della prefazione dell’autore.
Suggerisco di ricorrere all’edizione Mondadori (1^ italiana) del 1940 tradotta da Ada Salvatore.
Franco Arcidiaco
William Somerset Maugham, Schiavo d’amore, Adelphi 2012, pagg. 620, € 15,00
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