domenica 8 marzo 2020

LA VITA ASESSUATA DI UNO SCHIAVO D’AMORE

William Somerset Maugham (1874-1965), romanziere e commediografo fra i più popolari del Novecento, è stato un personaggio controverso soprattutto nell’ambiente della critica.
Benché a differenza di molti suoi colleghi non ne abbia mai fatto mistero, pochi sanno che W. S. Maugham è stato a lungo un importante agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. È evidente pertanto che il giudizio sullo scrittore, non deve essere condizionato dalla sua biografia; in questa trappola sono caduti molti suoi critici, ma non Glenway Wescott, suo estimatore, che ha messo in guardia il lettore dal non cercare tra le pagine di Maugham profondità di pensiero troppo in evidenza; ma di “imparare a riconoscere la sua idea in quell’involucro di realtà -un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto- dove hanno origine le idee”. E questo vale anche e soprattutto per il celeberrimo “Schiavo d’amore” uscito nel 1915.
D’altra parte lo stesso Maugham avverte: “… Non mirai più a una prosa ingioiellata, a una ricca tessitura, per il cui dominio avevo in precedenza sprecato molto lavoro in vani tentativi: cercai al contrario chiarezza e semplicità. … Of Human Bondage non è un’autobiografia, ma un romanzo autobiografico: realtà e finzione sono inestricabilmente frammiste; le emozioni sono mie, ma non tutti i fatti sono riferiti come avvennero, e alcuni di quelli attribuiti al mio eroe non provengono dalla mia vita bensì da quella di persone che conoscevo intimamente”. Maugham è comunque maestro di scrittura descrittiva sia di personaggi, caratteri e stati d’animo, che di luoghi e paesaggi. “L’estate piombò sul paese come una conquistatrice. Ogni giornata era bella. L’azzurro arrogante del cielo eccitava i nervi come uno sprone. Nell’Anlage gli alberi erano di un verde crudo e violento; e le case, quando il sole le avvolgeva, avevano un biancore abbagliante che stimolava fino a far male”.
“Schiavo d’amore” è un titolo fuorviante (anche se una volta tanto rispetta l’originale), il protagonista Philip Carey è sì un uomo ossessionato da una donna (nemmeno tanto fatale nel senso comune del termine) ma non troverete tra le 619 pagine del romanzo una sola scena di erotismo. Siamo al cospetto di un romanzo completamente asessuato, dove l’autore quando descrive i personaggi (donne o uomini che siano) indugia più sui difetti -anche fisici- che sui pregi; soprattutto quando si tratta di donne, sembra godere a descriverne la bruttezza o la malagrazia. Negli atelier dei pittori parigini che frequenta, trova solo modelle di “scarsa venustà”, fatto salvo lo spagnolo Miguel che lo intriga e lo inibisce. Parlando della sua “prima volta” con Miss Wilkinson, Philip non trova di meglio che definire “grottesca” l’immagine dell’amante in sottoveste.
Philip teme le donne ardite, che i suoi amici invece amano frequentare; “aveva sempre nascosto, sotto un altero disdegno, il terrore di cui quelle ragazze lo colmavano. La sua fantasia e i libri che aveva letto gli ispiravano il desiderio di un atteggiamento byroniano, ed egli era lacerato tra una morbosa timidezza e la convinzione di avere verso sé stesso l’obbligo di essere galante”.
Philip è affetto da piede equino e tale handicap ha ossessionato e condizionato la sua adolescenza, per giunta vissuta da orfano adottato da uno zio vicario di provincia. Da questa formazione religiosa forzata, Philip trae per fortuna solo la passione per la lettura grazie alla ricca biblioteca dello zio: “Insensibilmente si formò in lui l’abitudine più deliziosa del mondo, l’abitudine alla lettura. Philip non sapeva di procurarsi così un rifugio da tutte le afflizioni della vita; e nemmeno sapeva di creare per sé un mondo irreale che avrebbe fatto del mondo reale quotidiano una fonte di amare delusioni”.
I problemi con lo zio cominciano quando in Philip inizia a vacillare e poi a crollare definitivamente la fede. “…aveva cominciato a rendersi conto di essere la creatura di un Dio che apprezzava i disagi dei suoi fedeli”. “Ma Philip non poteva vivere a lungo nell’aria rarefatta delle cime. Ciò che gli era accaduto la prima volta che era stato preso dall’emozione religiosa si ripeté adesso… spossato dalla violenza del suo fervore, a un tratto ebbe l’anima invasa da una strana aridità. Cominciò a dimenticare la presenza di Dio, che gli era sembrata così avvolgente...”, “…il fatto era che aveva smesso di credere non per questa o quella ragione, ma perché non aveva il temperamento religioso. La fede gli era stata imposta dall’esterno. Era una questione di ambiente e di esempio. Un nuovo ambiente e un nuovo esempio gli davano l’opportunità di trovare se stesso. Si spogliò della fede della sua fanciullezza molto semplicemente, come di un mantello che non gli occorreva più”; comincia a disprezzare coloro che continuano a credere “perché si accontentavano della vaga emozione che chiamavano Dio, e non facevano il passo ulteriore che a lui sembrava così ovvio”. Inevitabile giunge anche l’odio per le donne religiose che “indossavano la loro religione con arroganza e i loro stretti rapporti con la Chiesa le inducevano ad adottare un atteggiamento leggermente dittatoriale con il resto dell’umanità”.
Dopo un soggiorno a Parigi, non a caso ispirato dalla lettura di Scènes de la vie de bohème di Henri Murger (che, guarda un po’, Maugham definisce: “assurdo, mal scritto, affascinante capolavoro”), Philip ha uno scontro violento con lo zio vicario che definisce i suoi due anni parigini “tanto tempo perso”. Personaggio chiave della sua formazione nel periodo parigino era stato Cronshaw, classico spiantato poeta maledetto, che stazionava permanentemente al caffè Closerie des Lilas dispensando perle di saggezza ad amici e avventori. Cronshaw contribuì a raffreddare l’amore per l’arte di Philip, liquidandola come un “rifugio per sottrarsi al tedio della vita”, di se stesso diceva: “Dovevo vivere nel Settecento, mi manca un mecenate. Avrei pubblicato le mie poesie a sottoscrizione, dedicandole a qualche nobiluomo. Come mi piacerebbe comporre distici rimati sul cagnolino di una contessa. La mia anima anela all’amore delle cameriere e alla conversazione dei vescovi”. Cronshaw rimproverava a Philip di aver gettato via la fede ma di averne conservata l’etica su cui essa si fondava. Convinto com’era che la sobrietà disturbasse la conversazione, enunciava senza indugio il suo motto: “Ciò che sono in grado di fare è l’unico limite di ciò che mi è lecito fare” e, preda di una forma di esoterismo etilico, riteneva di aver scovato il senso della vita nella trama dei tappeti persiani. Philip, grazie anche all’insegnamento scettico di Cronshaw, comincia anche a maturare posizioni nichiliste, arrivando a considerare lo Stato e l’individuo come due entità inconciliabili fino a considerare ogni uomo come “filosofo in proprio”.
Stanco e frastornato dall’humus parigino, messi da parte l’amore per la pittura e lo scrupolo di aver provocato il suicidio di una, solo apparentemente riottosa, aspirante pittrice, la sciatta Fanny Price, nonché reso tranquillo dal pensiero della cospicua rendita che la morte imminente dello zio gli avrebbe garantito, Philip si stabilisce definitivamente a Londra per completare gli studi di medicina. “Voglio andare a Londra, per cominciare davvero a vivere. Voglio avere esperienze. Sono stufo di prepararmi alla vita: adesso voglio viverla”.
A Londra riprende gli studi di Medicina e una sera trascinato da un amico, si reca in un caffè dove incontra la cameriera Mildred Rogers, della quale si innamora irragionevolmente, nonostante la ragazza lo tratti con indifferenza e manifesti disprezzo per la sua menomazione. Malgrado Mildred flirti apertamente con un altro avventore, tale Miller, accetta comunque di uscire con Philip, senza però mostrare alcun interesse per lui. Philip, al contrario, è sempre più ossessionato dalla ragazza, al punto di trascurare gli studi. Deluso per aver fallito un esame, Philip decide di chiedere a Mildred di sposarlo. Compra un anello e invita a cena la ragazza, ma quando le rivolge la sua proposta, Mildred risponde di aver già deciso di sposare Miller. Passa qualche mese e Philip sembra aver dimenticato Mildred. Ha conosciuto Nora, una scrittrice, che si è innamorata di lui e lo circonda di premure. Un giorno, invece, Mildred si presenta a casa di Philip in preda alla disperazione. Aspetta un figlio e Miller l'ha abbandonata. Philip decide di incontrare l'uomo per convincerlo a prendersi le sue responsabilità nei confronti della moglie e del figlio, ma Miller gli rivela di essere già sposato con un'altra donna e di non avere alcun obbligo nei confronti di Mildred. Philip non esita ad abbandonare l’onesta e innamorata Nora (“Ma alla fin fine l’importante era amare, più che essere amato”) e prende in casa Mildred assistendola nel parto, rimanendo deluso quando Mildred decide di affidare la neonata ad una balia. Preoccupato che la ragazza si annoi con lui, invita a cena uno dei suoi compagni di università, Griffiths, e assiste impotente alla corte sfacciata che questi fa a Mildred e alle volgari civetterie di lei. Quando il giorno seguente le rinfaccia il suo comportamento, Mildred gli annuncia che sta per partire con Griffiths per Parigi. Philip riprende i suoi studi e durante il suo tirocinio in ospedale (molto belle le pagine che descrivono la vita in ospedale dove “con l’avanzare del pomeriggio si manifestava un acre sentore di umanità… là non c’era né bene né male. Soltanto fatti. C’era la vita”) fa amicizia con un paziente, il bizzarro giornalista Thorpe Athelny; questi lo invita a casa sua ed incoraggia la simpatia fra sua figlia Sally e Philip.
Una sera, rientrato dall’ospedale Philip viene messo a conoscenza della morte di Cronshaw, la scomparsa del suo vecchio maestro lo porta a domandarsi perché gli uomini agiscano in un modo piuttosto che in un altro. “Agivano secondo le loro emozioni, ma le emozioni potevano essere buone o cattive; che portassero al trionfo o al disastro sembrava casuale. La vita appariva un inestricabile guazzabuglio. Gli uomini correvano di qua e di là, spinti da forze che non conoscevano; e ad essi lo scopo di tutto questo sfuggiva, era come se il loro affrettarsi fosse fine a sé stesso”.
La riflessione di Philip è profetica, ancora una volta, infatti, Mildred abbandonata anche da Griffiths, gli chiede aiuto, e Philip accetta di riprenderla in casa. Non la ama più, ma non riesce a staccarsi da lei. La sua freddezza preoccupa Mildred che teme di perdere il suo sostegno; la ragazza mette allora in atto un grossolano tentativo di seduzione, ma Philip la respinge disgustato. Il suo rifiuto eccita l'odio di Mildred, che lo insulta violentemente. L'indomani, durante l'assenza di Philip, vandalizza il suo appartamento, distrugge i quadri a cui lui teneva molto e tutti i suoi averi.
Ad aggravare la condizione di Philip ci si mette anche la Storia, scoppia in Sud Africa la Seconda guerra Anglo-Boera (molto belle le pagine che ne delineano contesto e svolgimento) che provoca un tracollo finanziario che distrugge anche i residui risparmi investiti da Philip in azioni. “Si faceva la Storia, e sembrava assurdo che un processo di tanta importanza influisse sulla vita di un oscuro studente di medicina”.
Philip, ridotto a uno stato di vagabondaggio, solo grazie all'aiuto di Athelny riesce a trovare un impiego in un negozio di abbigliamento. Lo stato d’indigenza e le difficoltà incontrate nel nuovo ambiente di lavoro, generano in Philip uno stato riflessivo che lo porta alla ricerca del senso della vita. “Si rallegrò di non credere in Dio, perché altrimenti quello stato di cose sarebbe stato intollerabile; ci si poteva conciliare con l’esistenza solo perché essa era priva di senso”. Si convince che l’uomo non è il culmine della creazione ma il frutto di una reazione fisica e che la vita non ha alcun senso. Ricorda una favola orientale che stabiliva che nella vita “…non c’era significato, e l’uomo vivendo non serviva alcun fine. Era irrilevante che nascesse o no, che vivesse o cessasse di vivere. La vita era insignificante, e la morte priva d’importanza. Philip esultò, come aveva esultato nell’adolescenza quando il peso della fede in Dio gli era caduto dalle spalle: gli sembrò di essersi sbarazzato dell’ultimo fardello di responsabilità, e di essere per la prima volta completamente libero. La sua irrilevanza si mutava in forza, ed egli si sentì a un tratto pari al destino crudele che sembrava perseguitarlo; infatti, se la vita era senza significato, il mondo era spogliato della sua crudeltà. Ciò che lui, Philip, facesse o non facesse non importava. Il fallimento era senza peso, e il successo senza valore. Lui era la creatura più trascurabile di quella massa pullulante di umanità che per breve tempo occupava la superficie della terra, ed era al tempo stesso onnipotente perché aveva strappato al caos il segreto della sua nullità… egli trasse lunghi respiri di gioiosa soddisfazione… da mesi non era così felice”. Torna alla metafora di Cronshaw -che ora gli appare meno oscura- e al tappeto persiano che gli aveva regalato: “Come il tessitore realizza un disegno senza altro fine che il piacere del suo senso estetico, così un uomo poteva vivere la propria vita; oppure, se egli era costretto a credere che le sue azioni non erano frutto di una sua scelta, l’uomo poteva pur sempre vedere nella sua vita un disegno; che non era necessario, né aveva utilità, ma era semplicemente una cosa fatta per proprio piacere”. “…Philip pensò che abbandonando il desiderio di felicità egli abbandonava l’ultima delle sue illusioni. La sua vita era orribile se misurata col metro della felicità, ma ora gli sembrava di trarre forza dal rendersi conto che si poteva misurarla con qualcos’altro. La felicità non contava, come non contava la sofferenza. L’una e l’altra contribuivano, come ogni dettaglio della vita, all’elaborazione del disegno. Gli sembrò per un attimo di essere al di sopra dei casi della sua esistenza, e sentì che essi non avrebbero più potuto toccarlo come in passato. Qualunque cosa gli accadesse sarebbe stata un motivo in più da aggiungere alla complessità del disegno, e all’avvicinarsi della fine egli avrebbe gioito del compimento di quest’ultimo. Sarebbe stato un’opera d’arte, e non meno bella perché lui soltanto ne conosceva l’esistenza, e perché con la sua morte il disegno avrebbe cessato di esistere. Philip era felice”.
Muore lo zio e Philip entra in possesso dell’eredità che gli consentirà di riprendere gli studi e il lavoro in ospedale. Complice un’idilliaca vacanza presso i luppoleti del Kent in compagnia della famiglia Athelny, Philip comincia a guardare la giovane e bella Sally con un certo interesse; ormai Mildred è morta e lui è libero dalla sua ossessione, chiede la mano di Sally che felice accetta di sposarlo.
Di “Schiavo d’Amore” sono state prodotte ben tre versioni cinematografiche: nel 1934 regia di John Cromwell con Leslie Howard e Bette Davis; nel 1946 regia di Eldmund Goulding con Paul Henreid e Eleanor Parker e nel 1964 regia di Bryan Forbes & Ken Hughes con Laurence Harvey e Kim Novak.
Delle tre versioni rimane memorabile solo la prima, che tra l’altro impose Bette Davis come stella di prima grandezza.

Nota: l’edizione tascabile in mio possesso è la ristampa del 2012 nella collana “Gli Adelphi n.416” dell’edizione del 2007 nella “Biblioteca Adelphi”. La traduzione di Franco Salvatorelli è pessima senza alcuna cura dei tempi dei verbi, congiuntivi inesistenti, e con l’utilizzo di vocaboli di chiara matrice dialettale. Altra imperdonabile pecca di questa ristampa è la mancata datazione della prefazione dell’autore.
Suggerisco di ricorrere all’edizione Mondadori (1^ italiana) del 1940 tradotta da Ada Salvatore.
Franco Arcidiaco
William Somerset Maugham, Schiavo d’amore, Adelphi 2012, pagg. 620, € 15,00

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