lunedì 16 marzo 2020

L’INVENTARIO ESISTENZIALE DI TONINO PERNA

Tonino Perna, economista e professore ordinario di Sociologia economica, è stato presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte, del Comitato Etico di Banca Etica, assessore alla cultura del Comune di Messina (sindaco Renato Accorinti), ha co-fondato la ong Cric, l’Osservatorio sui Balcani di Trento e la rivista Altraeconomia di Milano. Oggi è presidente del parco ludico-culturale Ecolandia. Autore di numerosi saggi e di diverse opere letterarie, collabora come editorialista con Il Manifesto e Il Quotidiano del Sud; appassionato del “teatro dell’assurdo” è stato apprezzato autore di testi teatrali che ha anche interpretato con compagnie amatoriali. Protagonista di mille battaglie sociali e politiche, Tonino Perna è uno dei principali punti di riferimento culturale e politico di almeno due generazioni di attivisti disseminati nel variegato mondo della sinistra, tra cui il sottoscritto.
Nel febbraio del 2019 è uscito in sordina, in una dimessa e malmessa edizione di Castelvecchi, questo “Con beneficio d’inventario” una sorta di autobiografia parziale, dal tono a metà tra il canzonatorio e l’immaginifico, intrisa dell’aura stralunata, direi Jannacciana, tipica di Tonino.
Il prologo è un testo, tratto dal volume “Visioni dello Stretto” (Rubbettino editore), che correda i disegni di un altro fantastico visionario, Gianfranco Neri, prorettore della Mediterranea, struggente omaggio di entrambi alla grande passione che li unisce.
“Io vivo in un posto unico al mondo dove abita un Gigante maestoso che qualche volta si arrabbia e sputa sangue caliente che brucia la pelle della terra e dei suoi abitanti. Io vivo in questa terra da più di sessant’anni e non sono riuscito a scappare, non sono riuscito a fuggire dagli occhi profondi dello Stromboli, dalle spine profumate dell’Aspromonte, dalla zagara e dal gelsomino, dall’odore penetrante del bergamotto che scompare, dalla Fata Morgana che compare all’alba nelle acque morbide dello Stretto. Io vivo così, come tanti, tra speranze e rimpianti in questa terra dove la Storia è passata di rado e ha lasciato piaghe infette perché da queste parti la Storia ha l’alito puzzolente degli dèi degli Abissi”.
Il prologo delinea lo scenario che fa da sfondo alla narrazione: quello Stretto che il protagonista, voce narrante, ha solcato da pendolare quotidianamente per decenni; bellissime, a questo proposito, le scene del calo della Lupa, il nebbione che un paio di volte l’anno ammanta lo Stretto, e delle “avventure in aliscafo” che mettono a dura prova nervi e stomaci dei passeggeri durante le sciroccate.
Il racconto di Tonino comincia una notte di maggio quando, appena rientrato da un viaggio in treno da Roma, lo coglie la notizia della morte del padre. La prima reazione è di smarrimento che gli impedisce di “accettare che un dialogo così difficile s’interrompesse. Quante cose avrei dovuto ancora discutere con lui, dopo tanti anni di silenzi, di lotta e d’incomprensione reciproca”. Il padre, armiere e militarista convinto, era titolare di un’avviata fabbrica di cartucce, circostanza questa che aveva sempre provocato un forte disagio in Tonino, pacifista militante, al punto di portarlo ad allontanarsi per lunghi anni dalla famiglia. Scomparso il padre, il protagonista si trova costretto ad aiutare i familiari a districarsi tra i grovigli burocratici che regolano la messa in liquidazione dell’azienda e la disciplina dell’asse ereditario. Si apre una scena surreale che vede Tonino alle prese con l’inventario dei beni, a cominciare dagli arredi e dagli effetti personali. Si tratta di un espediente narrativo, mutuato interamente dalla realtà, che consente a Tonino di sciorinare tutto il suo estro fantastico. La narrazione diventa sincopata e dispensa frequenti battute di rimbalzo, che proiettano la scena in dimensioni temporali diverse. Appaiono personaggi persi nella notte dei tempi, parenti eccentrici, baruffe tra fratelli, quadretti di vita familiare, evocati dagli innumerevoli oggetti che via via saltano fuori da cassetti e scatole. S’intersecano naturalmente storie di vita cittadina compresa quella, dal sapore felliniano, raccontata da una nonna, di giovani “arrampicati sui rami dei pini marittimi lungo la collina di Pentimele” per osservare la fantastica scena dell’arrivo della luce elettrica nella dirimpettaia Messina; scene di gioia e incredulo stupore che, per una tremenda beffa della storia, si svolgono la sera del 27 dicembre 1908, vale a dire la vigilia del tremendo terremoto che avrebbe distrutto le due città sorelle.
Appaiono foto di compagni di scuola ricordati con il nomignolo derivante dalla condizione familiare; uno fra tutti, che ricordo anch’io, era “Il figlio delle banane”, il cui padre “aveva un negozio sul Corso Garibaldi, che tutti i bambini negli anni Cinquanta adoravano perché solo lì potevi comprare datteri e banane…”.
Salta fuori da un cassetto un “calendarietto dei barbieri”, che ha conservato incredibilmente il caratteristico profumo dopo tantissimo tempo (vero, è successo anche a me!), e dà la stura al ricordo di uno dei tanti siparietti, dal tono pecoreccio, che si svolgevano tra i clienti e il barbiere, dei quali eravamo testimoni quando i nostri padri ci portavano, la domenica mattina, per il taglio dei capelli.
Il susseguirsi dei ricordi porta via via sulla scena personaggi che hanno segnato la vita cittadina e la storia della nostra generazione, uno tra tutti il mitico Sebastiano Di Marco, presidente del Circolo del Cinema, maestro di vita di noi giovani degli anni settanta, evocato da un cartoncino d’invito alla proiezione di Dillinger è morto di Marco Ferreri la sera del 7 aprile 1970 al cinema Ariston.
Il protagonista vive in pieno l’atmosfera di quegli anni formidabili (per dirla con Mario Capanna), agevolato anche dalla condizione benestante della famiglia. I viaggi avvengono in Fiat500, rigorosamente decapottabile, e la meta sono sempre i paesi dell’Est o del Nord al perenne inseguimento del mito delle “ragazze facili”. Anche un semplice elenco degli oggetti è di per sé evocativo di un’epoca: un gettone telefonico, un pacchetto di Phenelgol, una boccetta d’inchiostro blu Must the Cartier, un flacone di DDT Super Faust (“non addormenta, fulmina”), un battipanni di legno di castagno (“l’arma fatale che usava mia madre”), un mangiadischi, un pastore del presepe (“u maravigghiatu ra rutta”), un televisore Minerva, una sputacchiera dorata, un pacchetto di sigarette Macedonia e uno di Mercedes, un proiettore “Super8”; uno scatolone colorato colmo di foto della rivolta per Reggio Capoluogo, che Tonino definisce “L’ultima grande rivolta popolare del Sud e la prima guerriglia su basi identitarie”.
Nei sette capitoli in cui è diviso il volume, oltre l’aspetto centrale che riguarda l’eredità, risolto, appunto, con l’accettazione “con beneficio d’inventario” e con il surreale colloquio con il Giudice fallimentare (che potrebbe essere benissimo il soggetto di una commedia); l’autore-protagonista, si sofferma, opportunamente, sulla trattazione di alcuni argomenti chiave della storia cittadina che hanno costituito, a tutti gli effetti, il passaggio della linea d’ombra (quella che, per dirla con Conrad, “ci avvisa che bisogna lasciarsi alle spalle anche la regione della prima giovinezza”) per la nostra generazione.
“Ogni generazione vive un momento come questo, ma noi eravamo una generazione speciale che viveva una fase unica della Storia”.
Irrompe sulla scena la rivolta di Reggio del ‘70/71 con le violente cariche dei celerini, l’acre odore dei lacrimogeni e le microstorie della vita quotidiana in quell’anno e mezzo di follia collettiva, ma soprattutto irrompe la drammatica vicenda dei “Cinque anarchici del Sud”, che Tonino ha vissuto sulla propria pelle, poiché uno di essi era suo cugino Gianni Aricò e gli altri amici cari. La vicenda ha segnato drammaticamente quella che, per tutti noi, sarebbe dovuta essere la stagione del divertimento e della spensieratezza. Rappresentazione della “fine dell’innocenza” più plasticamente figurata di quella, non poteva esserci per nessuno di noi.
Anni dopo, nel 2001, decisi che quella storia non doveva rimanere sepolta nella nostra memoria e che quel lutto andava elaborato; ne parlai con Tonino e gli proposi di ricostruire la storia e pubblicare un libro con la mia casa editrice. In redazione frequentava un giovane volenteroso, aspirante poeta, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, era quel Fabio Cuzzola, oggi rinomato affabulatore. Tonino ed io gli raccontammo la vicenda e lui fu bravo a trascriverla e completarla con documenti d’archivio e testimonianze di nostri amici e conoscenti. La prefazione di Tonino ha impreziosito un volume che ha riscontrato un clamoroso successo in tutta Italia. Oggi, passati ben cinquant’anni, è forse il caso che Tonino, magari con la mia collaborazione, rimetta mano a ricordi e carte e realizzi un affresco, con tutti crismi della Storia, di quella stagione straordinaria, questo bel libro è senz’altro un’ottima traccia.
Il libro si conclude alla Ninello Nerpa (lo pseudonimo che Tonino ha utilizzato per pubblicare la sua raccolta di testi teatrali “Il teatro dell’identità” e l’esilarante “Il pernacchione” con la mia casa editrice “Città del Sole edizioni”).
Intendo dire che, nell’ultimo capitolo, l’autore stravolge il piano narrativo e sciogliendo la sua vena immaginifica, fa vivere al personaggio un fantastico sogno che lo porta a trasfigurare le due città della sua vita fino a farle diventare un luogo unico che, secondo i progetti che ha esposto proprio in questi giorni assieme allo storico Daniele Castrizio, costituisce qualcosa di più di un sogno: la “Città dello Stretto” che consentirà finalmente alle due sponde di toccarsi grazie al solo scorrere di un “tempo interiore”!
Franco Arcidiaco
Tonino Perna, Con beneficio d’inventario, Castelvecchi 2019, pagg. 140, € 17,50.
















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