lunedì 3 settembre 2012

CARONTI STATTI AZZITTU E NON GRIRARI...

Sono certo che, una volta completata la lettura di questo libretto, il lettore non potrà far altro che manifestare un grande rammarico per l'incompiutezza dell'opera. Carmelo Lanucara, infatti, non è riuscito ad andare oltre la traduzione del terzo canto dell'Inferno, la malattia, provocata dagli stenti della detenzione nel carcere fascista, lo ha portato a morte prematura a soli quarant'anni. Con molta umiltà, nella sua breve prefazione, nega al suo lavoro alcuna qualità letteraria, salvo poi assumersi, con la sua proverbiale fierezza, ogni responsabilità filologica. La lettura di questi primi tre canti dell'Inferno dantesco è una vera goduria per i cultori del vernacolo, tanto più perché non ci troviamo al cospetto di una fredda traduzione letterale; Lanucara, infatti, procede ad una vera e propria nobilitazione del nostro dialetto adattandolo alla poetica musicalità del più grande poema di tutti i tempi. Suggerisco al lettore di procedere alla lettura dei tre Canti in dialetto affiancandola a quella degli originali. Si potrà così valutare l'estro fantastico con cui il nostro autore ha adattato i versi di Dante al dialetto reggino. Un esempio per tutti è costituito dalla lettura delle strofe del terzo canto che trattano di Caronte.
E il Duca a lui: Caron non ti crucciare, vuolsi così colá dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare diventa Mancu aviva finutu di parrari chi lu maestru meu ci' rispundiu: Caronti statti azzittu e non grirari pirchì cussì è la vuluntà di Diu.
Come vedete non si tratta di un semplice adattamento, Lanucara ha operato un vero intervento poetico con un risultato notevole sia dal punto di vista filologico che letterario; la sua ricerca della musicalità, però, non va a scapito del significato, notevole è infatti lo sforzo che egli produce per rendere comprensibile (e quindi popolare) il testo. In ciò Lanucara è memore della lezione di T. S. Eliot che nel 1942 (non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell'enfatizzazione della musicalità in poesia) scriveva: "La musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”.
Ma è evidente che dove il lavoro di Lanucara si rivela prezioso, è nella valorizzazione del dialetto, a cui operazioni come questa conferiscono indiscutibilmente lo status di lingua. E, parlando di dialetto, non si può non ricordare la lezione del grande Pier Paolo Pasolini il quale nel 1945 nell'atto costitutivo dell'Academiuta di lengua furlana così scriveva:
"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa lingua. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […] L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".
Se negli ultimi capoversi sostituiamo al termine "friulano" il termine "calabrese", oltre a renderci conto dell'immensità del pensiero pasoliniano, avremo una netta percezione dell'importanza del lavoro di Carmelo Lanucara. Alla sua memoria voglio dedicare questa splendida poesia del sommo poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta:

Un populu mentitilu a la catina,
spugghiatilu, attuppatici a vucca:
è ancora liberu.
Levatici u travagghiu, u passaportu,
a tavola undi mangia, u lettu undi dormi:
è ancora riccu.
Un populu diventa poveru e servu
quando 'nci arrobbanu a lingua addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poveru e servu
quandu i paroli non figghianu paroli
e si mangianu 'ntra iddi.
Mi 'nnaddugnu ora
mentri accordu a chitarra du dialettu
chi perdi na corda a lu jornu.
Ignazio Buttitta.

Franco Arcidiaco

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