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domenica 1 agosto 2010

UN QUADERNO DI CITAZIONI IN FORMA DI ROMANZO

Sono vari i motivi che possono indurti a comprare un libro, nel caso de “Il canapé rosso” galeotto fu un viaggio a Parigi lo scorso dicembre. Il mio amico Federico è un fantastico catalizzatore di suggestioni, legge libri e giornali, armato di matita e calepino, e annota diligentemente tutte le indicazioni che possano servire a rendere ancora più affascinanti i nostri viaggi. Meta delle nostre vacanze di fine anno 2009 era dunque Parigi, ed una delle suggestioni del magico calepino di Federico indicava perentoriamente: quai de Bourbon, ponte Louis-Philippe, palazzo sul lungosenna; a questo punto il calepino riportava la seguente citazione da “Il canapé rosso”: “Sapevo che là, sul lungofiume, una targa commemorativa riportava una frase scritta da Camille Claudel in una lettera a Rodin, C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” Obbligatorio dunque cercare il palazzo e leggere la targa sulla facciata, altrettanto obbligatoria la visita al meraviglioso museo Rodin; le suggestioni sono come le ciliegie, una tira l’altra e tutte assieme compongono i nostri viaggi “diversi”. Al ritorno da Parigi mi sono affrettato dunque ad acquistare il libro di Michèle Lesbre, edito da Sellerio nell’assurda collana-marmellata “La memoria”. Michèle vive a Parigi ed è una furbastra di tre cotte, scrive benissimo e si capisce senz’altro che ha buone letture e grandi viaggi alle spalle; ha escogitato un furbo artificio narrativo che le consente di sciorinare il suo bagaglio culturale senza annoiare il lettore. Il libro si rivela, quindi, un quaderno di citazioni in forma di romanzo; Anne, la protagonista, intreccia la sua storia di amante-pellegrina con quella dell’anziana modista Clémence, che abita nel suo palazzo e che lei va a trovare due volte alla settimana per conversare, appunto, sul suo canapé rosso. Clémence ama farsi raccontare da Anne storie di donne dal tragico destino, che hanno tracciato la storia con il loro coraggio, l’anticonformismo e la spregiudicatezza.
Nel passato di Clémence c’è la storia di un amore travolto dalle vicende seguite all’occupazione nazista di Parigi, nel presente di Anne c’è il desiderio incontrollato di ritrovare un vecchio amore perso tra le immense distese della lontana Siberia.
Il viaggio e la memoria sono i temi conduttori del romanzo, “Mi smemoravo, o meglio ero catturata, stordita e inebriata da quella parvenza di solitudine che si genera nel viaggio, oblio momentaneo delle abitudini e dei punti di riferimento”. Ci sono passaggi veramente notevoli, come questa paginetta che descrive l’arrivo di Anne nella casa della nuova famiglia del suo vecchio amante Gyl, in uno sperduto villaggio della Siberia: “La madre (dei figli di Gyl, ndr) mi aveva invitato a entrare per bere un tè. I bambini erano venuti con noi. Avevo parlato del treno, dei giorni e delle notti, delle foreste, e poi avevo detto che venivo dalla Francia. Leggevo negli sguardi che per loro quella parola non significava niente. Per loro probabilmente venivo dal nulla… In fondo questo non contava veramente, l’importante era l’incontro, l’istante fugace, la felice occasione che nasce dal viaggio. Le parole non hanno più lo stesso valore e perfino la loro assenza genera salutari mutamenti di prospettiva. … Fu una notte insonne, una di quelle notti che trascinano nel centro più segreto di quello che ci fa muovere e ci ossessiona. Avevo dovuto fare tutta quella strada per capire che cercavo di ritrovare l’energia ormai sparita, il passato che niente poteva resuscitare, nemmeno Gyl. Ma lui aveva deciso di avere un figlio. Non sentivo tristezza, solo misuravo la distanza fra noi e il tempo che era trascorso, un tempo al quale troppo a lungo avevo tentato di sfuggire”. Tra le tante citazioni che, come dicevo, impreziosiscono il libro, sentite questa, fulminante, di Milena Jesenskà (giornalista cecoslovacca amica di Kafka): “Vedere dei paesaggi dal finestrino significa conoscerli due volte, con lo sguardo e col desiderio”.
Il libro scorre leggero e gradevole sin quando la Lesbre non pretende di ammannirci le sue lezioncine politiche; le sue considerazioni sull’Unione Sovietica e su Stalin sono banali e qualunquiste ed intrise di livore anticomunista assolutamente fuori luogo.
La Sellerio, al solito, brilla per superficialità sia nella traduzione che nell’editing.
Franco Arcidiaco
Michèle Lesbre
Il canapé rosso
Sellerio, 2009
Pagg. 134, € 11,00

martedì 29 giugno 2010

LA MEMORIA E’ L’UNICA COSA CHE CONTA NELLA VITA

Non vi nascondo che ho sempre invidiato la rapidità, o meglio la tempestività avvoltoiesca, con cui l’editoriale “La Repubblica - L’Espresso” riesce a immettere sul mercato prodotti editoriali o multimediali di autori appena scomparsi. Di recente è toccato al povero Edmondo Berselli, grande giornalista e scrittore morto prematuramente l’11 aprile scorso; appena sette giorni dopo è arrivato in edicola uno dei suoi libri più straordinari, il pirotecnico “Il più mancino dei tiri”. Il libro, scritto nel 1995, è una miniera di aneddoti e citazioni sciorinati a memoria, senza l’ausilio dei testi di riferimento e soprattutto senza internet (non dimentichiamo che Google nascerà nel 1998). Con il pretesto della ricostruzione della mitica azione offensiva di Mariolino Corso, ala sinistra della grande Inter di Helenio Herrera, Berselli affresca 126 pagine di colte e intriganti divagazioni (il “guazzabuglio erratico” secondo la definizione dello stesso autore) che nulla hanno da invidiare alle migliori farneticazioni di Gianni Brera.
Il metodo seguito da Berselli è audace e rischioso, la possibilità di prendere cantonate è dietro l’angolo, ma è lo stesso rischio che si corre quando si avvia una conversazione tra amici davanti a un buon bicchiere; se padroneggi l’arte affabulatoria nessuno andrà tanto per il sottile. Pensate che, con sommo snobismo, Berselli non si preoccupa nemmeno di contestualizzare fedelmente la scena che vide la magia tecnica di Corso (e a cui dedica il titolo del libro) e parla di “un’imprecisata partita all’estero”; con un po’ di pazienza e l’imprenscindibile Google, sono certo di avere individuato quel momento: non siamo affatto all’estero, ci troviamo a San Siro il giorno prima della partenza della nazionale azzurra per i mondiali in Cile del 1962, si gioca l’amichevole tra l’Inter e la nazionale della Cecoslovacchia (che si prepara ai mondiali), quando Mariolino Corso col suo sinistro magico inventa un gol fantastico, un tiro splendido dopo una serie di dribbling in un fazzoletto d’erba che strappano l’applauso anche agli avversari. In quell’occasione Corso si gioca definitivamente la maglia azzurra; in tribuna c’è, infatti, il C.T. della nazionale Giovanni Ferrara, che lo ha appena escluso dalla lista dei 22 convocati, Corso non resiste e, dopo il gol capolavoro, lo cerca con gli occhi in tribuna e gli spara in faccia il gesto dell’ombrello, ponendosi definitivamente fuori dal giro azzurro.
Berselli si preserva furbamente da ogni critica con questa dichiarazione d’intenti sciorinata nelle prime pagine: “…detto sommessamente, questo libro una sua tesi ce l’ha. Tanto vale che la esponga subito, per evitare equivoci o, peggio, accuse di debolezza o insussistenza di tesi. Sostengo che la memoria è l’unica cosa che conta nella vita. Memoria nel senso di vita partecipata e vissuta, sentimento di un passato condiviso; ma anche sforzo mnemonico, gioco di società, ricostruzione individuale e collettiva dei nomi, degli avvenimenti, delle durate, delle filastrocche, delle canzoni, delle squadre, dei campionati; e infine massimo criterio organizzativo che sia possibile e consigliabile applicare in hac lacrimarum valle.”
Dal canto mio se dovessi creare uno slogan per pubblicizzare questo libro, sceglierei: “Se non sai di cosa stiamo parlando, significa che in questi ultimi 40 anni non hai vissuto”. Dalla prima all’ultima pagina, infatti, è tutto un succedersi caotico di aneddoti ed avvenimenti che Berselli sciorina con la stessa tecnica con cui da piccoli giocavamo alla “catena di parole”; un ricordo tira l’altro, una vicenda ne richiama un’altra, un personaggio ne evoca un altro. E vengono fuori storie incredibili che hanno segnato la vita politica e sociale della cosiddetta “Prima repubblica”: dalla “politica dei due forni” di andreottiana memoria, che ha consentito alla Dc di governare per decenni “comprando il pane” alternativamente nei “forni” degli alleati meno esigenti, agli autogol del mitico Comunardo Niccolai, stopper del Cagliari che incappava spesso nel più grave errore difensivo, tanto da essere invocato dai tifosi delle squadre avversarie quando queste non riuscivano a segnare, per arrivare all’ente inutile “Pietro Maroncelli”, che aveva come compito istituzionale di inviare folte delegazioni ogni anno in America per depositare una rosa sulla tomba del compagno di prigionia di Silvio Pellico allo Spielberg; con l’esilarante considerazione di Berselli che “l’Ente Maroncelli ha fatto più danni all’Italia che cento battaglie perdute”. Non poteva mancare un rimpianto elegiaco del nozionismo, sentite ancora Berselli: “Se è vero che la cultura è ciò che ci rimane quando si è dimenticato tutto, le nozioni, queste nozioni che ci restano avvinte alla memoria come l’edera, sono importanti. (…) Sapere che Napoleone Bonaparte, ricevendo la corona ferrea di Re d’Italia, disse Dio me l’ha data guai a chi me la tocca, è decisivo. La frase di Amatore Sciesa Tiremm innanz! riassume sostanzialmente il Risorgimento e la successiva storia d’Italia fino al divo Giulio. Tutta la Grande Guerra non servirebbe a niente se non ci fosse la certificazione che le armate austroungariche risalgono in disordine le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza: Firmato Diaz”. E’ presente infine una vasta campionatura dell’aneddotica di respiro, diciamo così, internazionale. Dalle citazioni in spagnolo maccheronico di HH1 e HH2 (se non sapete chi sono, sospendete la lettura e non comprate il libro), al grande economista Keynes che a una domanda sullo sviluppo dell’Economia nel lungo periodo, rispose: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”, al generale De Gaulle che amava ricordare che “I cimiteri sono pieni di gente insostituibile”. Ma non commettete l’errore di pensare di trovarvi di fronte ad una delle ennesime edizioni delle “Formiche” di Gino e Michele; “Il più mancino dei tiri” non è un repertorio di citazioni, ma una coltissima, godibile ed arguta galoppata nella storia del novecento. Ci mancherà Edmondo Berselli, così come ci sono mancati, in questi lunghi anni sospesi tra il tragico e il ridicolo, Beppe Viola e Gianni Brera. Un formidabile triangolo che ha costituito la cabina di regia dell’ideale centrocampo del giornalismo italiano.
Franco Arcidiaco

Edmondo Berselli
Il più mancino dei tiri
La biblioteca di Repubblica-L’Espresso
Pagg. 128 Euro 6,90 in abbinamento.