L’anno scolastico 1970/71 fu, per gli studenti reggini, un anno “virtuale”; imperversava in città la rivolta, e il Boia chi molla copriva di un tetro colore nero genuini movimenti di contestazione che in tutte le altre parti del mondo erano ammantati di ben altro colore vermiglio. Le scuole di Reggio erano state trasformate in caserme per i celerini e le poche funzionanti erano disertate dalla stragrande maggioranza degli studenti che aderivano allo sciopero per il capoluogo. I pochi studenti di sinistra, tra cui il sottoscritto, dovevamo sfidare lo scherno e le aggressioni per frequentare le lezioni, ed il solo andar in giro con i libri sottobraccio (non era ancora il tempo degli zaini, i libri si portavano a mano stretti da un elastico) metteva a repentaglio la nostra incolumità. Frequentavo il neonato Liceo Volta, sorto da una costola del già all’epoca affollato Vinci, ed era l’anno della maturità; il liceo sorgeva nella sede dell’ex Istituto S.Prospero e la quasi totalità del corpo insegnante era di matrice cattolico-oltranzista, l’insegnante di Lettere, la famigerata signorina Aricò, era preda quotidiana di deliri mistici e le sue lezioni non andavano oltre la declamazione trasfigurata dei primi canti del Paradiso di Dante. La mia buona stella fece sì che arrivasse in classe uno studente milanese, Gino Messineo, che nei due anni precedenti aveva militato nel Movimento Studentesco e per questo era stato espulso dalle scuole lombarde, era arrivato a Reggio grazie a due vecchie zie zitelle che si erano assunte l’onere di redimerlo; inutile dire che il suo inserimento in classe fu provvidenziale sia dal punto di vista teorico che…fisico (era un valente rugbista). Il prof. di Storia e Filosofia si chiamava Giuseppe Quattrone ed era l’unico tra i docenti che manifestava apertamente idee di sinistra, fu così che un giorno ci ritrovammo tra i banchi un prof. di Inglese del Vinci che veniva a parlarci di cinema; il mio primo contatto con Sebastiano Di Marco avvenne così: a bocca aperta ad ascoltare un marziano che parlava di cinema come cultura e di scuola come tempio della politica, che andava avanti e indietro per la classe con la borsa di Tolfa (la mitica Catana) a tracolla e l’aria da asceta laico. Il Chaplin era nato pochi anni prima (fu praticamente l’unico atto concreto dell’asfittico sessantotto reggino) e Sebastiano, da vero grande militante culturale, andava tra gli studenti per illustrare l’attività del Circolo nel tentativo di avvicinare almeno le nuove generazioni ad un modello di cinema ben lontano da quello che imperversava nelle sale reggine. Chi ha provveduto in questi ultimi anni, soprattutto dall’interno, a demolire il mito del PCI, ha diffuso leggende pretestuose sulla presunta rigidità ideologica degli intellettuali militanti comunisti, fingendo di non sapere nulla dello spirito irregolare, della curiosità per il nuovo e del parallelo pessimismo dell’intelligenza, del gusto per il lavoro (quel Lavoro Culturale, così bene messo alla berlina da Luciano Bianciardi) che li spingeva ad operare, impiegando con abnegazione e senza alcun tornaconto personale tutto il loro tempo libero. Sebastiano era un intellettuale con un forte senso critico e non si può certo definire un intellettuale organico (nel senso gramsciano di organico a una classe), era un borghese illuminato (come tanti a quei tempi) che aveva abbracciato l’idea comunista ed aveva trovato un sicuro approdo in quello che in quel periodo era il Partito per antonomasia, il PCI appunto. Negli anni successivi ho militato a lungo affianco di Sebastiano nella stessa sezione, la storica Nino Battaglia del quartiere San Brunello, e tante sono state le volte in cui ho dovuto registrare e contrastare i mugugni dei compagni chiaramente frastornati dall’inorganicità di Sebastiano. La stessa candidatura a Consigliere comunale, nacque per meri motivi di facciata e posso tranquillamente testimoniare dell’assenza del suo nome nei fac-simile che venivano distribuiti durante la campagna elettorale; alle mie rimostranze, e non certo a quelle di Sebastiano che aveva accettato la candidatura per puro spirito di militanza, i dirigenti mi risposero candidamente che “Di Marco doveva portare i voti dagli ambienti intellettuali e borghesi progressisti”, sottraendogli così i voti dello zoccolo duro della base che erano l’unica garanzia di elezione. Altri valorosi intellettuali, della sua stessa estrazione, quali Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, avrebbero subito più o meno la stessa sorte costretti a dolorose dimissioni da consiglieri comunali di Palermo, proprio per contrasti con il Partito. Il rapporto tra gli intellettuali e il PCI fu sempre problematico, e fiumi di inchiostro sono stati versati sull’argomento ma oggi, nonostante tutto, non possiamo far altro, di fronte allo sfacelo della società civile e politica, che rimpiangere quei tempi in cui le dispute avvenivano su un terreno squisitamente ideologico. I presunti neocomunisti, che inopinatamente hanno ereditato il patrimonio del PCI, sono andati giustamente alla deriva e inorridiscono (io stesso ho subito il rimbrotto di Paolo Ferrero in un dibattito) quando si parla di nostalgia; poveretti, non sanno che paura della nostalgia significa paura del proprio passato, vivesse ancora oggi Sebastiano glielo spiegherebbe probabilmente con un riferimento cinematografico, scomodando il regista tedesco Edgar Reitz che, nel suo capolavoro Heimat, teorizza il sentimento del heimweh (letteralmente il dolore della casa): vale la pena vivere se non hai un posto in cui ti senti a casa? Sebastiano posti dove si sentiva a casa, come tutte le persone in regola con la propria coscienza, ne aveva più d’uno e tra questi c’era la sua città acquisita, quella Reggio Calabria che viveva gli anni terribili del degrado e della guerra di mafia. Alla nostra città dedicò quel crudo testamento spirituale che è Psulla, Sebastiano viveva drammaticamente sulla propria carne il degrado urbanistico e morale (circostanze che non a caso vanno sempre a braccetto) che lo circondava; quando andavamo in giro per i quartieri, era sempre col naso in su ad indicare le superfetazioni che sfregiavano i bei palazzi di quella che era stata la Reggio bella e gentile del post-terremoto e si dannava per la facciate non rifinite e per la volgarità che lo circondava. La cattiva sorte gli ha almeno risparmiato di vivere questi tempi assurdi, in cui il degrado e la volgarità si sono istituzionalizzati e si annidano nei palazzi del potere.
Con questa impegnativa operazione editoriale abbiamo voluto, con la fattiva collaborazione dei familiari e degli amici e con l’impegno dei dirigenti (passati e presenti) dei circoli Chaplin e Zavattini, raccogliere, conservare e divulgare l’opera omnia di Sebastiano Di Marco; siamo certi che il suo inestimabile valore possa essere di grande ausilio alle nuove generazioni così come il suo lavoro diretto lo fu alla nostra. Un mio ringraziamento personale va al maestro editore Giuseppe Gangemi che, con la sua abituale signorilità, ha concesso la riproduzione di Psulla e della raccolta poetica in questa edizione.
Franco Arcidiaco
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