domenica 17 gennaio 2016

LA LETTERATURA CALABRESE È VIVA

“Il saltozoppo” di Gioacchino Criaco e “L’imperfezione dell’angelo” di Nadia Crucitti apparentemente hanno solo due elementi in comune: sono usciti entrambi alla fine del 2015 e sono scritti benissimo. Ma in realtà quello che contraddistingue i romanzi dei due narratori reggini è il respiro universale del tessuto narrativo, che porta finalmente la letteratura calabrese fuori dalle secche del meridionalismo retorico e piagnone.
“La narrativa è una faccenda spietata” diceva John Irving e la narrativa è una faccenda da romanzieri e non da scrittori. È celebre la distinzione operata da Pasquino Crupi tra le due categorie, lui si spingeva al punto di non riconoscere a Corrado Alvaro forza narrativa. “Aveva forza evocativa, com’è il proprio degli scrittori che sanno osservare, non ascoltare, e il loro specifico sta nell’epifania lirica.” “…Corrado Alvaro non è un narratore. È, infatti, un grande scrittore. Il suo mondo è la memoria, la sua misura è il racconto.”
La dimensione di Criaco è invece senza ombra di dubbio quella del romanzo, un romanzo dall’incedere epico che, in alcuni tratti, richiama echi della grande letteratura latinoamericana. Criaco ha le idee molto chiare sul fenomeno della ‘ndrangheta e non ha alcun bisogno di ricorrere a noiose e trite dissertazioni socio-antropologiche, gli basta la potenza del suo estro narrante.
“Per il nonno la vita non aveva senso se non c’era un nemico da abbattere; e il mondo da cui proveniva ne era pieno: i padroni erano quelli che si prendevano le terre che appartenevano al popolo dei monti, e i mafiosi erano la loro arma migliore.”
Chiari, per Criaco, sono anche i motivi che hanno portato alla degenerazione moderna del fenomeno: “Ecco perché questa terra produce la peste: per punire i figli ingrati che hanno preferito l’inferno all’eden in cui sono nati, che hanno rinunciato a un cibo fatto di luce, colore, profumo per un pasto peccaminoso e stupido consumato dentro case vuote, anziché in rumorose colazioni contadine.”
Lo aveva capito bene Pasquino Crupi che, a proposito delle reticenze di Alvaro sull’argomento, scrisse: “Per Alvaro la civiltà contadina è come l’essere di Parmenide: è una e senza divenire. Non vide il molteplice, il generarsi della società contadina e dalla sua kultur dell’Onorata Società. (…)Non ho dubbi: civiltà contadina e Onorata Società sono una realtà non frazionata, nel senso che è dal seno della civiltà contadina che emerge l’Onorata Società. Questa trova i temi della sua connotazione ideologica, della sua visione della vita nei motivi identitari della civiltà contadina: onore, onore macchiato e da lavare con il sangue, farsi giustizia da sé, dignità come misura dell’uomo, rispetto dei vecchi, dei bambini, delle donne sono valori comuni alla cultura della civiltà contadina e alla cultura dell’Onorata Società i cui affiliati, per ciò stesso, vivono in mezzo alla società contadina come i pesci nell’acqua.”
E le donne sono le grandi protagoniste de “Il saltozoppo”; la storia di questa terra, dice Criaco, è “una storia fatta e narrata da uomini.” Ma aggiunge che “gli uomini, in questa terra, la verità non l’hanno mai saputa dire. Per sapere i fatti è necessario ascoltare le donne, unici testi attendibili delle storie familiari per come davvero si sono svolte. Presenze mute che interpretano le assenze, lavano i panni sporchi di sangue e riescono ad ascoltare e interrogare persino i morti. La verità e il cambiamento sono affidati a loro.”
Lo scrittore Vins Gallico, recensendo il libro, ha parlato della capacità mitopoietica di Criaco: la sua tendenza caratteristica consistente nel considerare miticamente fatti e eventi, che lo porta, però paradossalmente, a distruggere il falso mito che vorrebbe la ‘ndrangheta nata per difendere gli oppressi.
Gioacchino Criaco sceglie, con un felice espediente narrativo, di far parlare i protagonisti degli eventi in presa diretta e questo conferisce al romanzo un avvincente passo da vero noir. Ardito, al punto da rendere piuttosto impervia la lettura, è il paragone fra l’arcaica cultura calabrese e la storia cinese, ma si capisce che è funzionale al respiro universale che l’autore ha voluto dare al romanzo. Criaco, infatti, supera il concetto di tempo e spazio e scrive un romanzo senza confini né geografici, né storici, né antropologici.
Descrive i suoi personaggi con crudo realismo ma arriva alle sue verità senza congetture sociologiche e derive moralistiche, vi arriva narrando, soltanto narrando, com’è nella tradizione dei narratori di razza per i quali il romanzo è esclusivamente intreccio e azione.
Con Nadia Crucitti entriamo invece nel terreno del classico romanzo di formazione; lo sfondo è la città di Reggio Calabria ma potrebbe essere qualunque altro luogo del mondo. Gli anni invece sono quei “favolosi ‘70” che costituiscono una vera e propria miniera per i narratori della mia generazione. Nadia si destreggia con maestria tra dolori, sentimenti e sensazioni tinteggiando sullo sfondo, con realistiche pennellate, gli eventi che hanno reso quegli anni unici. La vita quotidiana in città ai tempi della Rivolta, è descritta in modo magistrale e funziona come una macchina del tempo per chi ha vissuto quegli anni. La sua sapienza narrativa intreccia efficacemente “pubblico e privato”, arrivando a ricreare la colonna sonora e le ambientazioni con un taglio da sceneggiatura cinematografica. L’immagine di copertina, che ritrae l’autrice in una posa classica di quegli anni, ha un fortissimo potere evocativo, anche se rende straniante la scelta della Crucitti di narrare in prima persona maschile. Il protagonista diventa, dunque, Francesco che, in una notte di dieci agosto, ripercorre il suo passato trainato dalla scia delle immancabili stelle cadenti. Il senso dell’esistenza esce preponderante dall’intreccio di, tutto sommato piccole, storie di provincia.
“Per questo spero che stanotte le stelle abbiano finito di cadere. In ogni caso non voglio alzare gli occhi al cielo. Non che serva a molto voler dimenticare ogni anno la caduta delle stelle. È una fitta al cuore, violenta, un dolore che ritorna, un tendere le mani per bloccarlo, per non smarrirmi, per non dover rivivere quel tempo straziante con dentro Andrea e sopra di noi meteore che solcano il cielo stellato lasciando fuggevoli scie. No, non mi sono certo svegliato per guardare le stelle. Non l’ho più fatto da quella notte del ‘76”.
“Quel dieci di agosto del 1976 il mondo ha perso il suo assetto, e io sono rimasto impietrito davanti alla catastrofe della mia vita. Credo sia stato questo a salvarmi. Diventare di pietra significa anestetizzarsi. Io non ero riuscito ad anestetizzarmi bene, mi rimanevano parti semisveglie che sentivo angosciate dalla voglia di urlare la loro disperazione e la loro rabbia, incapaci però di trovare la forza necessaria a farlo”.
Due grandi romanzi, dunque, che segnano la rinascita della grande letteratura calabrese che oggi si ritrova, se ai nostri due affianchiamo Carmine Abate e Mimmo Gangemi, a sfoderare un insuperabile poker d’assi.
Franco Arcidiaco
Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015
Nadia Crucitti, L’imperfezione dell’angelo, Città del sole edizioni 2015

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