martedì 29 novembre 2011

IO VI PARLO DI UN TEMPO...

Milano, 14 maggio 1977, via De Amicis: Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia durante una manifestazione di protesta. Questa scena (immortalata in una foto che riproduciamo qui in basso) è diventata l'icona degli Anni di piombo. Rievocare gli Anni di piombo, quando si parla dell’Estate Romana, per quelli della mia generazione equivale ad un riflesso condizionato.
Nella primavera del 1979 esce il bellissimo album di Lucio Dalla che comprende il brano L’anno che verrà a cui abbiamo rubato il verso che titola il nostro giornale (lo stesso cantautore avrebbe dedicato l’anno dopo all’Estate Romana, l’altro splendido brano: La sera dei miracoli).
I libri di storia non lo scriveranno mai, ma quella parte di popolazione italiana nata negli anni ’50 è stata letteralmente derubata della fase della spensieratezza e della serenità che normalmente contraddistingue l’età della giovinezza. La tragica fine di Unidad Popular di Salvador Allende in Cile, il golpe dei colonnelli in Grecia, le minacce di colpo di stato in Italia, le piazze insanguinate dalle bombe della Cia, le menzogne di stato sull’attivismo dei cosiddetti opposti estremismi (in realtà si trattava di fascisti manovrati dai servizi segreti occidentali) e per finire le maledette Brigate Rosse, che di rosso avevano solo il colore del sangue innocente che versavano, ma la cui unica funzione era quella di tenere fuori il PCI dalle stanze del potere. Era questo il tragico scenario di quegli anni tremendi e bui, le relazioni sociali e la vita culturale inevitabilmente risentirono di quel clima e, dopo i fasti del ’68, si registrò un ripiegamento nel privato, ben descritto dai versi di Lucio Dalla.
La nomina di Renato Nicolini ad assessore alla cultura di Roma, nel 1976, ed il conseguente avvio della macchina dell’ Estate Romana l’anno dopo, svolsero la funzione essenziale di rimuovere i “sacchi di sabbia vicino alla finestra” e stanare la gente dalle “case rifugio” in cui pensavano di aver trovato riparo. L’Effimero lungo nove anni rivoluzionò la vita culturale dell’intera nazione, l’essenza stessa dell’arte effimera si fece sistema, sostituendo gli stabili canoni convenzionali con l’instabilità di atti, gesti e situazioni che non avevano pretese di durata e di consistenza materiale. Fu il trionfo della libertà di espressione che emanava da azioni affrancate dal giogo scolastico di metodi e contenuti ormai stantii, si affermò un modello culturale dalla netta impronta esistenziale destinato (paradossalmente, vista la sua genesi) a durare nel tempo. L’Effimero dell’Estate Romana allargò a dismisura il campo delle esperienze creative e comunicative, nessuna forma di espressione fu preclusa grazie all’utilizzo dei più eterogenei materiali e strumenti, nonché le più diverse forme di linguaggio. La fotografia, la musica, la rappresentazione scenica e la poesia recitata (si inaugurò allora la fortunata esperienza dei reading), funsero da fattore contaminante delle arti convenzionali e non avrebbero mai più abdicato a questa funzione.
Cos’è rimasto oggi di quella esperienza? La nemesi storica ha voluto che quella contaminazione positiva subisse a sua volta una contaminazione, questa volta fatale. Ed oggi c’è addirittura qualcuno che pensa che le notti bianche, le sagre e le kermesse commerciali siamo figlie di quella memorabile stagione; il berlusconismo ha purtroppo inciso pure su questo e, minando fatalmente le basi etiche del Paese, ne ha conseguentemente inquinato il tessuto culturale. La trasfigurazione de l’Estate Romana nell’orgia commerciale delle Notti Bianche ne è la tragica dimostrazione.

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