domenica 6 novembre 2011

LA RIVOLTA DI REGGIO NEL LAVORO E NELLA MEMORIA DI UN EDITORE

Quando ho fondato la “Città del sole edizioni” nel 1997 mi sono posto come missione quella di farne un serbatoio della memoria della nostra terra. Quello che mi interessava era l’intercettare nella società le persone, non necessariamente intellettuali di professione, che avessero delle storie da raccontare; un esercizio che doveva essere non solo mnemonico ma anche interpretativo, una testimonianza non fredda e cronachistica ma che doveva essere accompagnata da considerazioni pertinenti, che aiutassero il lettore a meglio comprendere il contesto che l’aveva generata. Questa raccolta della memoria poteva anche essere svolta da giovani studiosi, che avrebbero potuto integrare le testimonianze con ricerche storiche d’archivio.
Da questo metodo è nato il primo grande successo editoriale, quel “Cinque anarchici del Sud” che avrebbe lanciato la mia casa editrice nel panorama nazionale ed il suo autore, Fabio Cuzzola, nell’agone accademico. Fabio Cuzzola, nel 2001 quando uscì il libro, era un giovane docente di italiano e storia, con qualche esperienza di scrittura maturata su giornali locali, tra cui il mio “laltrareggio”. L’idea del libro nacque nell’estate del 2000 proprio in redazione; la storia dei cinque anarchici (Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth) era una storia che ha segnato la mia generazione e che tutti i reduci di quella stagione ci portavamo dentro come un lutto non elaborato. Fabio è nato nel 1969, all’epoca dei fatti aveva appena un anno, non conosceva per nulla quella storia, rimase folgorato dalla mia narrazione e passò i sei mesi successivi a scavare negli archivi, a rintracciare testimoni e parenti, a tessere le fila di una vicenda che si rilevava ogni giorno sempre più paradigmatica del contesto storico in cui si era svolta. Come mirabilmente ha scritto Tonino Perna nella prefazione del libro: “Una storia, tante storie che non si possono perdere senza perdere una parte di noi stessi e della memoria storica della città di Reggio che in quell’anno fatale viveva uno dei momenti più contraddittori e drammatici della sua storia. Si sono scritti tanti volumi sulla città dei Boia chi molla, ci si è divisi tra denigratori e nostalgici di quella rivolta, senza capire fino in fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta etnica di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo. I giovani anarchici reggini stavano dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di protagonismo e trame nere che ne hanno determinato la cifra. Stavano tra la gente cercando di capire, di interpretare, di portare il loro contributo. Avevano perfettamente capito che eravamo di fronte a quello che in geometria analitica si chiama punto di flesso, una fase di passaggio delicata, confusa e contraddittoria.” Mi preme sottolineare come tra le righe della prefazione di quel libro, si sia giunti a completare una fase di sdoganamento della Rivolta da parte di un prestigioso intellettuale di sinistra, quale il prof. Tonino Perna; tale fase era stata avviata tre anni prima da un altro grande intellettuale di sinistra, il prof. Pasquale Amato, nel libro “Reggio capoluogo morale”, (uscito nel luglio 1998) che inaugurava la fortunata collana “I tempi della storia” della mia casa editrice. Amato, a ventotto anni dalla Rivolta, ha riletto quegli eventi collegandoli alle onde di lunga durata della Storia. Ha ricostruito i fatti per grandi linee e dalla parte del popolo, facendo ricorso alle più brillanti cronache degli inviati speciali nella Guerra di Reggio. E ha compiuto una lucida e acuta analisi su cause ed effetti penetrando nel cuore della verità con un linguaggio talora crudo, ma sempre scarno e immediato. Ne è scaturito un lavoro ricco di spunti interpretativi originali, inedito e controcorrente rispetto ai luoghi comuni su Reggio in generale e sulla Rivolta in particolare. Amato ha ribaltato quei luoghi comuni, rigettandoli oppure reinterpretandoli in chiave positiva. Ha elaborato nuovi parametri di lettura della storia della città più antica della Calabria e della sua provincia, allargando l’orizzonte di osservazione ai suoi quasi tremila anni di storia. Ha evidenziato peculiarità e continuità che ne hanno segnato il cammino di “città libera e ribelle”, difficile da governare e ancora più difficile da sottomettere. Una città che ha imparato a convivere con la sindrome da terremoto ed è stata capace di dare il meglio di sé quando tutto e tutti la davano per finita. Una città che assieme alla sua provincia è stata straordinariamente prolifica di poeti e scrittori, pittori e scultori, musicisti e stilisti, filosofi e giuristi, storici e critici letterari. Figure che fioriscono in ambienti caratterizzati da una vivace dialettica di idee, fonte di creatività artistica e di diffuso senso critico. In sostanza, per Amato l’onda di lunga durata di Reggio consiste nell’aver conservato nel suo Dna le peculiarità della polis più ateniese della Magna Grecia. Non per caso Reghion fu la più coerente alleata di Atene fra i Greci d’Occidente. Scrive Amato testualmente: “Spesso i leaders e i partiti politici non vogliono fare i conti con le onde lunghe della storia e con le influenze che esercitano sui popoli. Oppure ritengono presuntuosamente di poterle annullare o esorcizzare col semplice esercizio cinico del potere. Invece, quando meno se le aspettano, quelle onde tornano e sconvolgono manovre occulte e patti osceni. E’ stato il caso di Reggio, della sua rivolta inaspettata, della sua rivincita di questo fine secolo… E’ la rivincita della storia… che… ha la forza della memoria collettiva propria e degli altri. Quella memoria che crea e alimenta la civiltà”.
Nel luglio del 2000, in occasione del 30°anniversario della Rivolta, sono riuscito, grazie alla disponibilità degli eredi del compianto Luigi Malafarina ed all’amicizia degli altri due autori (nonché colleghi giornalisti) Franco Bruno e Santo Strati, a ripubblicare quella che è unanimemente riconosciuta come l’opera fondamentale sulla Rivolta, quella dalla quale nessun ricercatore e studioso ha mai potuto (e mai potrà) prescindere, il monumentale “Buio a Reggio”. La grandezza dell’opera risiede proprio nella matrice culturale e nella formazione professionale dei suoi autori, tre grandi giornalisti appunto, che hanno avuto l’acume di ricostruire e fissare gli eventi, selezionando e raccogliendo i reportages dei più importanti giornalisti italiani e stranieri inviati a Reggio da tutte le testate. “Buio a Reggio” era stato pubblicato in prima edizione nel 1971 dalla casa editrice “Parallelo 38”, fondata da un illustre intellettuale e politico recentemente scomparso, l’on. Giuseppe Reale; mi piace ricordare la grande signorilità con la quale mi concesse la liberatoria per la riedizione dell’opera, nonostante io fossi stato molto critico, dalle pagine de “laltrareggio”, verso il breve periodo, otto mesi nel 1993, in cui fu sindaco di Reggio. Aldilà degli aspetti politici, bisogna riconoscere che Giuseppe Reale fu un vero e proprio mecenate della cultura cittadina, ospitando tra le sue collane editoriali molti studiosi reggini che prima d’allora non avevano avuto la possibilità di pubblicare i propri lavori. Sempre nel luglio 2000, convinsi l’editore de “Il Domani della Calabria”, il catanzarese Guido Talarico, a celebrare il trentennale della Rivolta con una serie di venti inserti quotidiani, che uscirono dal 13 luglio al 9 agosto nelle pagine centrali del giornale. L’operazione andò in porto grazie anche al direttore dell’epoca, il reggino Domenico Morace, che dopo lunghi anni di prestigiosi incarichi professionali (tra i quali la direzione de “Il Corriere dello Sport” e del “Guerin Sportivo”), si convinse a tornare in Calabria. L’esperienza fu breve ma esaltante, e coincise con un periodo di grandi successi per il quotidiano catanzarese; purtroppo però, l’editore Talarico, pur capace e volenteroso, non aveva la solidità economica per garantire a Morace una squadra redazionale all’altezza della suo valore e lo costrinse alle dimissioni proprio in quei giorni. Morace mi affidò la responsabilità dell’inserto ed io chiesi ed ottenni che mi venisse affiancata la bravissima Daniela Pellicanò, anch’essa cresciuta professionalmente tra le pagine de “laltrareggio”. Daniela ed io confezionammo gli inserti attingendo a materiali presenti nell’emeroteca della mia famiglia, riproducendo volantini e manifesti custoditi in originale. La ricostruzione cronologica degli eventi era affiancata dai commenti degli inviati dell’epoca e da numerose testimonianze; pezzo forte fu un’intervista di Adele Cambria a Giacomo Mancini, che avevo scovato tra le pagine di una rivista semiclandestina della sinistra extraparlamentare (“Alternativa” del 14 febbraio 1971, anno 1° numero 1), in quell’occasione Mancini aveva cercato di giustificare il suo operato, descrivendo mirabilie del 5° Centro siderurgico che si sarebbe rivelato, invece, una colossale bufala; ne venne fuori l’impietosa immagine del classico politico provinciale interessato esclusivamente agli interessi del suo collegio elettorale, che sciorinava senza pudore incomprensibili motivazioni nel più bieco stile politichese. Adele fu bravissima a stanare, da sinistra, un politico di primo piano del centro-sinistra nazionale, che era diventato il giusto bersaglio dei rivoltosi. Nell’editoriale apparso nel ventesimo e ultimo numero dell’inserto, Daniela Pellicanò, tirando le fila del lavoro, stigmatizzava il fatto che i commenti apparsi sui giornali in quei giorni, in occasione appunto del trentesimo anniversario, non riuscivano ancora ad inquadrare la rivolta nella giusta luce, al contrario, invece, alcuni interventi di autorevoli giornalisti dell’epoca si erano dimostrati acuti e lungimiranti; citava questa mirabile considerazione di Franco Rosati, apparsa nel 1971 sulla rivista “Il Cavour” (badate bene, una rivista regionale piemontese): “E non è soltanto una rivolta campanilistica… E’ la rivolta contro un sistema che vede i partiti arbitri di tutto ma perennemente impegnati a non risolvere i problemi del popolo italiano, ma a condizionarsi a vicenda, perduti e divisi in mille rivoli di correnti, tutte occupate in giochi di potere e tra congressi, riunioni, convegni, più o meno segreti, tra questa e quella elezione, tra questa e quella scadenza, tra una riforma usata ed un’altra inventata, infischiarsene altamente del bene dei cittadini e delle loro necessità. E’ la rivolta contro le ingiustizie, le prepotenze, le partigianerie dei nuovi feudatari… E’ una rivolta morale”.
E’ incredibile l’attualità di queste parole ed è drammatico il costatare come nulla sia cambiato da allora; suona beffarda, alle nostre orecchie contemporanee, questa definizione di “rivolta morale”, delineate le proporzioni, oggi appare più necessaria una vera e propria rivoluzione.
Nell’agosto 2005 pubblicai il lavoro di Antonino Stillittano “Reggio capoluogo: fu vero scippo?”. Nino, grande dirigente del PCI, oggi ultranovantenne, mantiene ancora la rigida posizione del Partito dell’epoca, considera la rivolta “causa dell’involuzione politica della nostra provincia” e non transige sul suo carattere fascista; ma ha l’onestà intellettuale di ammettere che l’atteggiamento tenuto dal PCI reggino durante i fatti di Reggio, fu determinato dalla subalternità del gruppo dirigente reggino verso i compagni delle altre due province, ed arriva ad attribuirne la causa a: “L’imperante centralismo democratico che condizionava ogni decisione degli organismi periferici a scapito di gravi sanzioni disciplinari nei riguardi di coloro i quali osavano mettere in discussione quanto gli organismi centrali avevano deciso.” Ed ancora: “Non era un mistero per nessuno la subalternità del gruppo dirigente reggino verso i compagni delle altre due province, sia per il loro passato politico sia anche per la preparazione culturale e politica, ivi compresa la posizione economica di alcuni di loro (sic)… questi compagni esercitavano una tale influenza su noi reggini… da porci, durante le discussioni politiche e le decisioni da prendere, quasi in uno stato d’inferiorità psicologica…”. Più politica ed elaborata risulta invece l’analisi di un altro grande dirigente del PCI, Tommaso Rossi, che, nel dicembre del 2005, ha pubblicato con la mia casa editrice la sua appassionata autobiografia “Il lungo cammino”. Il capitolo dedicato alla rivolta è sofferto ma lucido, Rossi non ha difficoltà ad ammettere che mentre “fuori si cominciava a sparare, in Federazione si discuteva di cose interne. Ci sfuggiva per intero la percezione di quel che stava per accadere in città, un segno del nostro distacco.” La sua teoria è netta: “Se, dunque, è vero che nel PCI si manifestarono ritardi di elaborazione è tuttavia evidente che una lettura attenta degli avvenimenti e della loro successione non consente di poter affermare che in quella situazione la sinistra ed il PCI potessero assumere una posizione diversa da quella che, dopo un dibattito travagliato nella Federazione reggina, si scelse di seguire. La rivolta, aldilà dei suoi contenuti specifici, si inseriva in una sequenza di avvenimenti che andavano dai tentativi eversivi e golpisti dell’estrema destra, dall’attacco all’Istituzione regionale da parte del MSI, sino alle prove di mobilitazione violenta effettuate qualche mese prima proprio a Reggio da Valerio Borghese. Una rivendicazione che apparteneva al senso comune dei reggini, veniva utilizzata per inserirla in un disegno più generale di attacco allo Stato democratico. Si era, ormai, determinata una situazione in cui le forze della destra eversiva avevano acquisito tutti gli strumenti per accrescere il consenso attorno alle loro parole d’ordine di esaltazione della ideologia del capoluogo. Mi limito, dunque, di fronte alla tendenza che si manifesta anche a sinistra, di una rilettura critica delle posizioni del PCI e del PSI, a rilevare che sarebbe stato impossibile assumere un atteggiamento diverso… Rimango fortemente convinto che gli errori del PCI non furono certo quelli di aver preso le distanze da una rivolta che aveva le caratteristiche di un movimento eversivo e municipalistico, ma furono altri. Le elezioni regionali, che arrivarono con ventidue anni di ritardo rispetto alla promulgazione della Costituzione, non erano state accompagnate da una adeguata preparazione politica. Non ci fu in sostanza, nell’impostazione della campagna elettorale, la necessaria sottolineatura del valore dirompente che l’Istituto Regionale avrebbe dovuto assumere per spezzare lo schema dello Stato centralizzato, soprattutto nella realtà del Mezzogiorno; dell’importanza che l’autogoverno avrebbe avuto nel processo di crescita economica e sociale in una realtà come quella calabrese. Mancò in sostanza la spinta necessaria alla formazione di una cultura regionalistica. In conseguenza di ciò si accentuò il fenomeno municipalista e il prevalere dei cento campanili.” Ed infine l’amarissima chiosa: “Quegli errori non solo crearono un terreno favorevole all’esplosione dei fatti di Reggio, ma crearono anche il presupposto per la costruzione di una Regione fondata sui vecchi vizi dello Stato accentratore, il prevalere di una concezione burocratica e clientelare che ha rappresentato e rappresenta tuttora il principale ostacolo alla crescita economica e sociale della Calabria.” Tommaso Rossi è un fine politico e la sua analisi è perfettamente in linea con l’alta concezione che il PCI aveva della politica e della società, ma quel che appare difficile negare è che quella politica ottenne l’effetto di allontanare la base popolare dal partito (vedi le centinaia di tessere strappate in piazza) e di consegnare la città alla destra e al degrado per oltre un ventennio. Il PCI, secondo il mio parere, avrebbe dovuto trovare il modo di blandire la folla (direi leninisticamente), assecondando la schietta anima popolare della rivolta per poi indirizzarla sapientemente verso obiettivi più realistici e concreti del “pennacchio” del capoluogo. Bollare sin dall’inizio la rivolta come fascista, fu un errore fatale che finì per realizzare nell’immaginario collettivo un riscatto della figura dei fascisti, che assunsero automaticamente il ruolo di paladini del popolo reggino. L’azzeramento dell’azione civile e sociale dei partiti di sinistra, determinò inoltre il più grande e devastante effetto negativo della rivolta: il ventennio 1970/90 che vide la città precipitare nel degrado, nel caos e nell’anarchia, dai quali sarebbe poi uscita con la primavera di Italo Falcomatà. Purtroppo però gli effetti negativi avevano inquinato la base strutturale della società, per cui fu sufficiente la drammatica e nefasta uscita di scena del sindaco (nel dicembre 2001) a far riprecipitare la città nell’incubo del degrado e della corruzione.
Sulla rivolta si è anche soffermato il decano dei giornalisti reggini, Antonio La Tella, nel suo libro autobiografico “Taccuino segreto” pubblicato nel dicembre 2006. La Tella, che era molto vicino a Ciccio Franco, mantiene una posizione “ortodossa” sulla rivolta, che lui ha vissuto in primo piano come giornalista de “Il Tempo” e consigliere di gran parte dei politici (anche nazionali) presenti sulla scena, il suo libro è infarcito di aneddoti gustosi e particolari inediti ed è un esempio di fine scrittura. Per concludere questo excursus sulle pubblicazioni della mia casa editrice sulla Rivolta di Reggio, arriviamo all’ultimo nato: “Fuori dalle barricate, foto racconto della rivolta di Reggio”, uscito nel luglio 2010, in cui un ormai navigatissimo Fabio Cuzzola è affiancato da una giovane e brillante esordiente, Valentina Confido. Il libro, uscito in piena fase di celebrazione del 40° anniversario, ha l’intento squisitamente didattico di spiegare ai giovani la storia di quegli anni e lo scopo, chiaramente espresso dal titolo, di eliminare definitivamente quelle “barricate” che furono abbattute dai carri armati dello Stato solo materialmente, ma “rimasero erette idealmente contro tutto e tutti dopo il biennio 70-80 e che relegarono Reggio nel dimenticatoio” come scrive Cuzzola nella sua postfazione.
La mia età, ahimè, mi consente di fornire anche delle testimonianze dirette su quegli anni, sono testimonianze che riguardano la vita quotidiana sotto la rivolta e le difficoltà che si incontravano quotidianamente per espletare le varie attività. Uno dei ricordi più vividi è quello dei vari giornalisti e inviati che frequentavano assiduamente l’agenzia di distribuzione stampa “Granillo & Arcidiaco”, gestita da mio padre in società con Oreste Granillo. Io vi passavo gran parte delle mie giornate anche perché la scuola che frequentavo (il liceo scientifico “A.Volta” che, appena sorto da una costola del “Vinci”, era insediato nel vecchio edificio del collegio “San Prospero”) era stata requisita e adibita a caserma per i celerini. Era, per me, l’anno della maturità da ottobre 1970 a luglio 1971; inutile dire che il decorso degli studi fu abbastanza tormentato e particolare. Ci riunivamo a gruppi ed andavamo a casa dei professori più disponibili per organizzare delle vere e proprie lezioni clandestine. I pochi mesi in cui l’edificio fu sgombero, per recarsi a scuola bisognava sfidare l’ostilità degli “scioperanti”; andare in giro con i libri sottobraccio equivaleva ad essere classificato “crumiro comunista” e si rischiava seriamente il pestaggio. La sede dell’agenzia era al pianterreno della mia casa, in via Gaeta angolo via Nino Bixio; era una zona calda, a due passi dal ponte Calopinace, dove era stata alzata una delle barricate più strategiche, e delle sedi dell’Inail e delle Poste-ferrovie che venivano assaltate e incendiate un giorno sì e l’altro pure. Il lavoro cominciava alle quattro del mattino quando arrivavano i quotidiani per la distribuzione; i giornalisti arrivavano alle prime luci dell’alba per ritirare i plichi con le copie omaggio a loro destinate. I più assidui erano Luciano Lombardi della Rai e Bruno Tucci del Messaggero, mentre Giorgio Pisanò, direttore del Candido, aveva praticamente fatto dell’agenzia la sede della sua redazione. Pisanò era un personaggio irruento, reso ancora più tracotante dall’inaspettato grande successo di vendita del suo giornale, che era diventato l’organo ufficiale della rivolta. Me lo ricordo assistere impaziente allo scarico dei pacchi di giornali dalle motoapi, ne afferrava uno e lo apriva e poi cominciava a sfogliare una copia percorrendo a grandi falcate tutto il locale. Computer e fax erano aldilà da venire e quindi il risultato del tuo lavoro lo potevi vedere soltanto quando ti arrivava il giornale in mano. Le urla e le imprecazioni si sprecavano alla scoperta di inevitabili imperfezioni e refusi! Mio padre lo tollerava sornione, non avrebbe mai permesso a nessuno (nemmeno al suo socio) di urlare in casa sua, ma Pisanò in quei giorni era pur sempre il nostro miglior fornitore… E pensare che i primi giorni della rivolta la nostra situazione era stata a dir poco drammatica, moltissime volte avevamo subito irruzioni minacciose ed eravamo stati costretti a consegnare i pacchi dei giornali (l’Unità e l’Avanti in primis) che poi venivano bruciati in piazza Italia; una delle prime sere mia madre era rimasta atterrita con il telefono in mano, minacciavano di bruciare la nostra casa e l’agenzia se avessimo distribuito l’indomani la Gazzetta del Sud. All’inizio della rivolta, infatti, la Gazzetta si era dimostrata molto critica nei confronti dei rivoltosi; fu sufficiente quella sera una telefonata a Messina di mio padre, che buttò giù dal letto l’editore (il mitico Uberto Bonino), a trasformare sulle colonne del giornale i “teppisti” in “eroico popolo reggino”. Quando mio padre me lo consentiva, saltavo sul furgone rosso e accompagnavo gli operai al “Cippo” alle quattro del mattino; ci posizionavamo sul molo con i fari accesi rivolti verso il mare, per indicare l’approdo al barcone che trasportava da Messina le copie della Gazzetta. Lo Stretto, infatti, era bloccato e quello era l’unico modo per fare arrivare la Gazzetta. Gli altri giornali, quotidiani e periodici, arrivavano con i treni fino a Villa San Giovanni ed andavamo a ritirarli con i nostri mezzi, che superavano le barricate grazie al classico “obolo” della benzina per rifornire le “Molotov”. Bisogna anche dire che i rivoltosi si erano fatti furbi e avevano capito che era meglio non mettersi contro la stampa; allora, televisione significava solo i due canali della Rai, che naturalmente non era affatto tenera, quindi una certa indulgenza e comprensione da parte della carta stampata erano fattori preziosi e indispensabili. Una mattina rischiai seriamente di essere arrestato, avevamo appena finito la distribuzione dei quotidiani ed avevo come al solito le mani annerite dall’inchiostro. In agenzia non c’era acqua nei bagni per un guasto ed i fazzolettini umidi non erano stati ancora inventati, fui costretto ad uscire con le mani sporche. Alla fine del Corso Garibaldi, a cento metri dall’agenzia, c’era (e c’è ancora oggi) il Rio Bar, finito il lavoro mi recavo tutte le mattine a fare colazione, ma quel giorno avevo le mani sporche… Girato l’angolo mi imbattei in una pattuglia di celerini, si stavano recando verso la “Repubblica di Sbarre” pronti ad affrontare e superare la barricata del Calopinace che era piuttosto vulnerabile; contrariamente a quella del ponte di San Pietro non era, infatti, in muratura, ma elevata con materiale “mobile”. Sciaguratamente a uno dei celerini saltò agli occhi il colore “nerofumo” delle mie mani, si convinse che avevo combinato qualcosa (dalle mani sporche credevano di intuire che avevi lanciato pietre o partecipato ad azioni di guerriglia) e fece per afferrarmi, io istintivamente cominciai a correre ed urlare e per fortuna attirai l’attenzione di mio padre che si stava recando a sua volta al bar con alcuni dipendenti; per fortuna anche loro avevano le mani sporche e l’equivoco fu chiarito.
Mi trovavo, per forza di cose, invischiato nella rivolta ma ideologicamente ne ero lontano anni luce. Il 26 settembre del 1970 erano morti i cinque anarchici e quella vicenda mi aveva segnato profondamente. Non sono stato anarchico nemmeno da adolescente, l’età in cui, forse, sarebbe giusto esserlo; eppure quei ragazzi, soprattutto Angelo Casile, esercitavano su di me una forte attrazione. Angelo aveva un’espressione mite, dolce e sognante; a due passi da casa mia, alla fine della Via Nino Bixio, quasi a ridosso dell’argine del Calopinace, c’era il suo studio d’artista in un cantinato buio e umido. Quando lo vedevo emergere dalla grata che chiudeva l’ingresso, ammiravo con invidia i suoi lunghi capelli neri e gli rivolgevo un cenno di saluto che mi ricambia cordialmente, poi, mentre lui percorreva la strada a grandi falcate, nonostante la poliomelite l’avesse reso claudicante, speravo ardentemente che mio padre non l’avesse visto; i suoi commenti feroci su quello “sbandato capellone anarchico” mi ferivano profondamente ed acuivano il forte conflitto in corso tra di noi. Di Gianni Aricò, invece, non avevo una gran concetto; lo trovavo arrogante e sprezzante, anche perché, quando ci incontravamo, non mancava di sottolineare la mia condizione di “piccolo-borghese figlio di papà”.
Offesa più grave per me, che già da allora mi sentivo comunista fino al midollo, non poteva esserci.
Quando arrivò la notizia dell’incidente mortale rimasi profondamente colpito anche dall’indifferenza della città; tutti noi di sinistra non nutrivamo alcun dubbio sulla natura dell’evento, ma non avevamo alcun mezzo, oltre a qualche volantino ciclostilato diffuso clandestinamente, per manifestare le nostre convinzioni. “Se la sono cercata”era il motivo ricorrente dei commenti in città, una città affogata nei pregiudizi e sopraffatta dalla violenza, incapace di riconoscere le qualità dei suoi figli migliori. Io, che ancora non avevo elaborato il lutto per la morte di Che Guevara (9 ottobre 1967, appena iniziato il 2° liceo), mi ritrovavo ancora una volta al cospetto della morte ingiusta. Per fortuna, in mezzo a quello sfacelo, arrivavano le fantastiche notizie dal Cile, dove Salvador Allende aveva appena avviato il governo di “Unidad popular” concretizzando una grande speranza della sinistra mondiale. La sera, chiuso nella mia stanza con mio fratello Luciano, con una mano un fazzoletto bagnato sugli occhi per attenuare gli effetti dei lacrimogeni e con l’altra una radiolina all’orecchio, ascoltavo le notizie che arrivavano dal Cile e fantasticavo sul “sol dell’avvenir”, come se Santiago fosse dietro l’angolo. Ancora altre disillusioni e tragedie sarebbero dovute arrivare e le mie disfatte ideologiche non avrebbero avuto mai fine.
Franco Arcidiaco

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