Quando ho fondato la “Città del sole edizioni” nel 1997 mi sono posto come missione quella di farne un serbatoio della memoria della nostra terra. Quello che mi interessava era l’intercettare nella società le persone, non necessariamente intellettuali di professione, che avessero delle storie da raccontare; un esercizio che doveva essere non solo mnemonico ma anche interpretativo, una testimonianza non fredda e cronachistica ma che doveva essere accompagnata da considerazioni pertinenti, che aiutassero il lettore a meglio comprendere il contesto che l’aveva generata. Questa raccolta della memoria poteva anche essere svolta da giovani studiosi, che avrebbero potuto integrare le testimonianze con ricerche storiche d’archivio.
Da questo metodo è nato il primo grande successo editoriale, quel “Cinque anarchici del Sud” che avrebbe lanciato la mia casa editrice nel panorama nazionale ed il suo autore, Fabio Cuzzola, nell’agone accademico. Fabio Cuzzola, nel 2001 quando uscì il libro, era un giovane docente di italiano e storia, con qualche esperienza di scrittura maturata su giornali locali, tra cui il mio “laltrareggio”. L’idea del libro nacque nell’estate del 2000 proprio in redazione; la storia dei cinque anarchici (Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth) era una storia che ha segnato la mia generazione e che tutti i reduci di quella stagione ci portavamo dentro come un lutto non elaborato. Fabio è nato nel 1969, all’epoca dei fatti aveva appena un anno, non conosceva per nulla quella storia, rimase folgorato dalla mia narrazione e passò i sei mesi successivi a scavare negli archivi, a rintracciare testimoni e parenti, a tessere le fila di una vicenda che si rilevava ogni giorno sempre più paradigmatica del contesto storico in cui si era svolta. Come mirabilmente ha scritto Tonino Perna nella prefazione del libro: “Una storia, tante storie che non si possono perdere senza perdere una parte di noi stessi e della memoria storica della città di Reggio che in quell’anno fatale viveva uno dei momenti più contraddittori e drammatici della sua storia. Si sono scritti tanti volumi sulla città dei Boia chi molla, ci si è divisi tra denigratori e nostalgici di quella rivolta, senza capire fino in fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta etnica di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo. I giovani anarchici reggini stavano dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di protagonismo e trame nere che ne hanno determinato la cifra. Stavano tra la gente cercando di capire, di interpretare, di portare il loro contributo. Avevano perfettamente capito che eravamo di fronte a quello che in geometria analitica si chiama punto di flesso, una fase di passaggio delicata, confusa e contraddittoria.” Mi preme sottolineare come tra le righe della prefazione di quel libro, si sia giunti a completare una fase di sdoganamento della Rivolta di Reggio Calabria (passata nell’immaginario collettivo come “rivolta fascista”) da parte di un prestigioso intellettuale di sinistra, quale il prof. Tonino Perna; tale fase era stata avviata tre anni prima da un altro grande intellettuale di sinistra, il prof. Pasquale Amato, nel libro “Reggio capoluogo morale”, (uscito nel luglio 1998) che inaugurava la fortunata collana “I tempi della storia” della mia casa editrice. Amato, a ventotto anni dalla Rivolta, ha riletto quegli eventi collegandoli alle onde di lunga durata della Storia. Ha ricostruito i fatti per grandi linee e dalla parte del popolo, facendo ricorso alle più brillanti cronache degli inviati speciali nella Guerra di Reggio. E ha compiuto una lucida e acuta analisi su cause ed effetti penetrando nel cuore della verità con un linguaggio talora crudo, ma sempre scarno e immediato. Ne è scaturito un lavoro ricco di spunti interpretativi originali, inedito e controcorrente rispetto ai luoghi comuni su Reggio in generale e sulla Rivolta in particolare. Amato ha ribaltato quei luoghi comuni, rigettandoli oppure reinterpretandoli in chiave positiva. Ha elaborato nuovi parametri di lettura della storia della città più antica della Calabria e della sua provincia, allargando l’orizzonte di osservazione ai suoi quasi tremila anni di storia. Ha evidenziato peculiarità e continuità che ne hanno segnato il cammino di “città libera e ribelle”, difficile da governare e ancora più difficile da sottomettere. Una città che ha imparato a convivere con la sindrome da terremoto ed è stata capace di dare il meglio di sé quando tutto e tutti la davano per finita.
Arrivando ai giorni nostri (ed all’argomento di quest’incontro), ho naturalmente colto con grande entusiasmo la proposta di Pino Fabiano di riportare alla luce la figura di un grande rivoluzionario del Sud, quale è stato senza ombra di dubbio Rosario Migale. Non mi soffermerò su questo personaggio perché lo faranno certamente i relatori che interverranno a questa serata, io desidero solo sottolineare la qualità del dibattito che è scaturita la sera della prima presentazione del libro lo scorso 5 gennaio a Cutro, città natale di Migale. L’intervento più appassionato e incisivo è stato quello di un altro grande rivoluzionario del crotonese, Ciccio Caruso che purtroppo è scomparso un mese fa. Ciccio era come al solito vivace, anche se provato da una forte influenza; intervenendo nel dibattito, in quello che, probabilmente, è stato l’ultimo discorso pubblico della sua lunga vita, si è prodotto con veemenza in una difesa d’ufficio del suo PCI che, negli interventi che avevano preceduto il suo, era stato piuttosto bistrattato. Quella sera si parlava di una storica figura della sinistra di Cutro (quale è stato appunto Migale), che più di una volta era entrato in rotta di collisione con il PCI che, com’è noto, mal tollerava le deviazioni estremistiche dei suoi militanti. Da più parti si era parlato di un Partito rigido nella difesa di posizioni che di rivoluzionario avevano ben poco e di una carenza di democrazia al proprio interno; Ciccio, avendo percepito che queste posizioni avevano certamente un che di preconcetto, si era prodigato a descrivere al folto pubblico presente quello che secondo lui era stato veramente il PCI ed aveva ricordato come in settant’anni di attività, i suoi militanti avessero dato prova di enorme capacità amministrativa condita da abnegazione e, soprattutto, estrema onestà. Aveva parlato della grande epopea delle regioni rosse che ancora oggi costituiscono un insuperabile modello di efficienza e correttezza amministrativa e della grande leva di sindaci e amministratori comunisti che avevano fatto rialzare la testa alle città italiane dopo anni di malgoverno; ha ricordato ai presenti, tra cui per fortuna molti giovani, i grandi risultati che l’idea e l’azione comunista hanno prodotto a beneficio di tutta l’umanità: il riscatto delle masse diseredate l’affermazione della dignità dei lavoratori e del principio di uguaglianza, la fine delle discriminazioni sociali di ogni tipo e dello sfruttamento come sistema. Ho trovato l’intervento di Ciccio di quella sera ampiamente condivisibile, oggi, infatti, quelli sembrano tutti dei diritti acquisiti e sacrosanti, chiunque ne beneficia con la massima naturalezza, nessuno osa metterli in discussione e non c’è parte politica che non li includa nei propri programmi e non ne proclami la difesa. Appena un secolo fa tutto ciò era utopia ed il Manifesto del Partito Comunista sembrava l’immaginifico delirio di un sognatore pazzo. E’ naturale che la dirompente idea Comunista abbia suscitato una reazione di forte intensità nei poteri interessati a mantenere i loro privilegi; tale lotta è stata titanica ed ha imperversato per tutto il ventesimo secolo e, indubbiamente ha visto la sconfitta del Comunismo, ma nessuno si è mai sognato di mettere in discussione o di considerare azzerati i risultati ottenuti dal lavoro dell’azione dei Comunisti in tutto il mondo.
E’ questo il punto: ci siamo avviati verso il nuovo secolo forti dei successi ottenuti da una grande idea (la più grande mai prodotta da una mente umana), ma la rinneghiamo in ossequio alle nuove tendenze post-ideologiche e globalizzanti.
Le stesse tanto vituperate esperienze del cosiddetto “Socialismo reale”, che hanno traghettato direttamente i Paesi in cui hanno operato dal feudalesimo degli zar al ventesimo secolo, hanno dimostrato la forza dell’idea Comunista: la capacità di realizzare in meno di 50 anni quello che le grandi democrazie Europee avevano impiegato 5 secoli a raggiungere. Oggi tutti i Paesi dell’Est giunti alla cosiddetta “democrazia” rimpiangono i successi ed il prestigio che i regimi Comunisti avevano loro conferito e, ad ogni tornata elettorale nonostante le provocazioni ed i condizionamenti della Nato, si riafferma chiaro il desiderio delle popolazioni di riaffidare i governi alle forze comuniste.
Ed in tutto questo scenario cosa fanno i Comunisti rimasti? Continuano a praticare masochisticamente lo sport che hanno sempre preferito: autodistruggersi alimentando conflitti intestini.
La grande tragedia del Comunismo sta proprio in questo, il percorso è tracciato nettamente nel suo Dna, ogni nuovo leader deve affermarsi annientando quello che l’ha preceduto; in Unione Sovietica dalla grandezza di Lenin alla tragica incoscienza di Gorbaciov; in Italia fatte le debite proporzioni, dalla lucidità di Gramsci alla follia tragicomica di Occhetto e Veltroni; è stato tutto un susseguirsi di assurde delegittimazioni che hanno prodotto l’autoannientamento dell’idea Comunista. E’ fondamentale pertanto, riportare alla luce e consegnare alla storia l’azione di personaggi come Rosario Migale, fulgido esempio di una generazione di militanti che hanno fatto dell’impegno politico la cifra distintiva della loro vita, arrivando a trascurare gli affetti familiari e qualunque altro interesse privato.
Franco Arcidiaco
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento