Metti una sera di maggio a Bova (454 anime, 820 m. s.l.m.) una conferenza sul grande filologo e glottologo tedesco Gerhard Rohlfs; metti che alla conferenza intervenga il fior fiore della cultura grecanica e un manipolo di intellettuali, nonché il figlio dello stesso filologo, Eckart, giunto appositamente dalla Germania; metti che il tutto si svolga all’interno di un Consiglio Comunale aperto, il cui Sindaco, Santo Casile, abbia deciso di intestare al Rohlfs il locale “Museo della Cultura e dell’Arte Contadina dei Greci di Calabria”; metti che l’assessore Mario Caligiuri sia stato impossibilitato a intervenire, ma abbia inviato un accorato augurio di buon lavoro; metti che complessivamente la sala ospiti poche decine di persone ma che la serata si riveli di straordinario interesse e di gran livello culturale. Rohlfs considerava Bova un “monumento nazionale della grecità” e oggi Bova lo ricambia con calore; è una di quelle occasioni in cui i palazzi-non-finiti, il mare inquinato, i cumuli di spazzatura, gli ospedali fatiscenti, le folle di disoccupati, i politici corrotti e incapaci, ti sembrano lontani mille miglia dalla tua vita. Ti chiedi quali potenti e nascoste forze possano indurre una terra senza redenzione a produrre cultura alta; e finisci con l’acquisire l’orgogliosa consapevolezza di vivere in una terra che ha prodotto più Storia di quanto non ne riesca a consumare e ti viene da sogghignare al pensiero di quei poveri Padani che sono costretti a inventare storie, tradizioni e riti che non hanno mai avuto. Rohlfs scoprì la Calabria e la sua lingua attraverso i prigionieri della Prima Guerra Mondiale ristretti nelle carceri tedesche; attratto dal fascino di quelli che considerava i discendenti dei coloni della Magna Grecia, cominciò, sin dal 1921 e per ben 60 anni, a visitare regolarmente la Calabria. Per dirla con Pasquino Crupi, “Rohlfs, tedesco meridionalista, interrompe la tradizione nefasta dei viaggiatori stranieri che dicevano che l’Europa finiva a Napoli”, anzi arriva a dichiarare, come riferisce il prof. Filippo Violi, che in 60 anni di viaggi nei luoghi più impervi e sperduti della Calabria, non ha mai avuto un benché minimo problema! Nell’ascoltare queste parole non ho potuto fare a meno di scambiare uno sguardo di compiacimento con il Commissario del Parco d’Aspromonte, Antonio Alvaro, che mi sedeva a fianco. Rohlfs difese sempre il prestigio della nostra regione. Nel 1921, appena giuntovi, avendo potuto costatare il contrasto tra la pessima fama e la reale situazione del vivere civile dei calabresi, così scrisse in un articolo apparso in Germania: “Calabria! Quali foschi e raccapriccianti ricordi non si destano in Germania al pronunziare del nome di questo estremo ed inaccessibile nido del brigantaggio! Quale ripugnanza ed orrore non persistono tuttavia, anche a Milano e a Roma, per questa terra famosa, dolorante e malnata; così miseramente ed ingiustamente dallo Stato negletta… In questa terra infiltrata della cultura di parecchi secoli, e in cui tante nazioni si avvicendarono l’una dopo l’altra, ogni fiume, ogni pietra, ogni paesello annidato su di una rupe rappresenta qualche cosa piena di memorie storiche; e da tutta la superficie sua, spira come un soffio di antico e venerabile tempo”. Gli altri relatori della serata sono stati il Conservatore di Beni Culturali Pasquale Faenza e lo studioso Franco Tuscano. E’ emersa la figura di Rohlfs quale “Archeologo della Lingua”, un’archeologia che marca la differenza tra la Grecità sepolta degli scavi e quella vivente “che puzza di capra”, per dirla col prof. Crupi. Il glottologo tedesco intendeva il Mezzogiorno come un “grande corpo di Civiltà”, un Meridionalismo Creativo il suo che, è ancora Pasquino Crupi a parlare: ”Ha inequivocabilmente il Popolo come fonte di ispirazione”. Tutti concordi nel sostenere che, dopo di lui, non è stato scoperto più nulla nel campo della filologia creativa. Tutto questo accadeva l’altra sera a Bova, nel frattempo sui media nazionali…
Franco Arcidiaco
mercoledì 8 maggio 2013
lunedì 29 aprile 2013
AL SALONE DI TORINO CALABRIA E CILE DALLA FINE DEL MONDO
Il Salone del libro di Torino, in programma dal 16 al 20 maggio prossimi, avrà come ospiti una nazione e una regione che arrivano entrambi, per usare l’espressione di Papa Francesco, dalla fine del mondo: il Cile e la Calabria. Lo ha annunciato, in pompa magna, il presidente della Fondazione per il Libro Rolando Picchioni, affiancato, nella conferenza stampa, dal nostro assessore regionale, Mario Caligiuri. Apprendiamo così che la Calabria, che già presiede la Commissione Cultura delle Regioni, ha collocato la cultura tra gli obiettivi primari della Giunta, “anche come azione di contrasto verso la criminalità organizzata attraverso il coinvolgimento dei giovani, chiamati a farsi protagonisti di un riscatto collettivo”. “Si punta sul dialogo con le scuole, su varie iniziative per la promozione della lettura, su cospicui investimenti nelle biblioteche e sulle tecnologie digitali per mettere in rete le risorse già disponibili e coinvolgere i ragazzi in un uso creativo dei nuovi linguaggi, tra valorizzazione del patrimonio esistente, inchieste e nuovi progetti”. Veniamo a sapere, inoltre, che “il calendario degli eventi che saranno ospitati nella cinque giorni del Lingotto, in uno spazio dedicato, toccherà tutti gli aspetti della cultura calabrese, dalla storia al patrimonio artistico e all'archeologia, dall'imprenditoria all'enogastronomia, dalla letteratura all'arte contemporanea. Sono previste mostre, e spettacoli teatrali e musicali”. Una dichiarazione di intenti veramente formidabile e stimolante, per illustrare un progetto che presenta un'unica enorme ed incredibile lacuna: ignora l'esistenza e il ruolo degli editori calabresi! Io non ho alcuna difficoltà ad ammettere di essere stato tra i primi a salutare con entusiasmo la nomina del prof. Mario Caligiuri ad assessore alla cultura. La sua preparazione, la sua competenza, la sua onestà mi erano parsi una garanzia per l'avvio di una fase diversa, in una Regione in cui il comparto culturale era stato storicamente trascurato (anche dalle giunte di centrosinistra). Oggi, a distanza di tre anni, non si può dire però che Caligiuri abbia modificato minimamente la situazione. Le case editrici calabresi versano in gravi difficoltà e si trovano anche costrette a fronteggiare la crisi delle librerie indipendenti che continuano a chiudere una dopo l'altra. Il comunicato parla di "cospicui investimenti nelle biblioteche", mi domando a cosa siano serviti questi investimenti se si considera che sono almeno cinque anni che la mia casa editrice (tra le prime della regione per catalogo e fatturato) non riceve un solo ordine di libri da alcuna biblioteca calabrese! La Legge 17, che consentiva alla Regione di acquistare i libri dagli editori per rifornire le Biblioteche di interesse pubblico, non è finanziata da più di cinque anni e gli editori continuano a ricevere dalle Biblioteche incessanti richieste di invio di libri in omaggio! Oggi la presenza della Calabria quale Regione ospite del Salone (evento che si ripeterà tra 20 anni), piuttosto che un'opportunità, rischia di trasformarsi in una beffa per gli editori e gli autori calabresi (fatti salvi, guarda caso, quei pochi fortunati che sono pubblicati dai grandi editori nazionali). Nessuno degli eventi programmati ufficialmente vede il coinvolgimento della case editrici calabresi, cioè di quegli imprenditori che investono e rischiano in prima persona per sviluppare e diffondere la cultura calabrese; manca meno di un mese all'inizio dell'evento e voglio ancora sperare che si apra uno spiraglio e si conceda agli editori l'opportunità di partecipare attivamente al Salone. La Città del sole edizioni invierà sicuramente i propri libri al bookshop che sarà allestito all'interno dello stand da un gruppo di seri professionisti (Gruppo Rubbettino e Librerie Ubik), ma, qualora non dovessero essere concessi gli spazi per le presentazioni dei libri dei propri autori, organizzerà degli eventi estemporanei ed improvvisi (quelli che gli anglosassoni chiamano "flash mob"); invito tutti i miei autori a recarsi al Salone del Libro per far sentire la propria voce. Sarebbe anche interessante sapere come sono stati impiegati i 254mila euro che il Fondo Unico per la Cultura 2013 ha destinato al Salone, considerato che questa cifra rappresenta il 50% delle intere risorse del Fondo stesso.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco

giovedì 7 marzo 2013
IL LABORATORIO CIVICO DI ZOOMSUD
La stimolante iniziativa di Aldo Varano e Leo Pangallo, che hanno messo faccia e piedi a Zoomsud, è un'occasione che la società civile reggina non si deve far sfuggire e debbo dire che il risultato dei due primi incontri è senz'altro incoraggiante. Un conto, infatti, è pontificare dai tasti di un computer, un altro è mettere la faccia dietro un microfono e davanti a una platea. Detto questo ritengo, come ho già detto nei miei due interventi, che questi incontri debbano servire soprattutto per focalizzare i problemi della nostra città e indirizzare la politica locale, altrimenti si rischia di scadere in uno scimmiottamento delle varie Ballarò televisive. È evidente che non si possono ignorare i temi nazionali, specie quando si vive un periodo gravido di incertezze come questo, ma nel parlarne bisogna tenere presente sempre gli effetti che possono produrre alla nostra comunità. Detto questo ribadisco la mia convinzione che il risultato elettorale, che pur all'inizio avevo trovato deludente, è foriero di sviluppi inaspettati e si può rivelare una grande opportunità. Tra le innumerevoli sconfitte elettorali che ho accumulato nella mia storia di militante di sinistra, questa si potrebbe rivelare la meno amara. Ogni avvicinamento alle stanze del potere della vera sinistra italiana (ieri solo il PCI, oggi solo il PD) ha scatenato reazioni e complotti di ogni tipo. La mattina del 16 marzo 1978 la Camera era pronta a riunirsi per votare la fiducia al primo governo sostenuto dal PCI (badate bene era solo un governo guidato da Andreotti con appoggio esterno del PCI) e successe il finimondo con il sequestro di Aldo Moro; erano gli anni in cui le forze della reazione, sostenute dai Servizi occidentali, non si facevano scrupoli di insanguinare le piazze italiane pur di fermare il rinnovamento. Quanti giovani conoscono queste storie? A scuola si perdono mesi dietro le Guerre Puniche, nelle famiglie, quando si parla, si parla di ricariche telefoniche e pallone. Arrivando a tempi più recenti, abbiamo l'esempio dei due governi Prodi (certamente i migliori di tutta la Storia italiana, perché su quello di D'Alema stendo un velo pietoso) caduti per mano di Fausto Bertinotti e Clemente Mastella e, in questi giorni ne abbiamo la certezza, di Silvio Berlusconi con le sue opere di corruzione. E arrivo al punto: ma siamo proprio certi che Beppe Grillo sia peggio dei loschi figuri che ho appena nominato? Tutti i tentativi di fare passare le vere riforme negli anni passati, sono stati sempre bloccati dai ricatti della componente cattolica e dell'estrema sinistra che, solo per bassi interessi di bottega, sostenevano i nostri governi. Ma vi ricordate quanto abbiamo penato appresso ai DICO, chi se li ricorda più? Oggi Bersani, andando in Parlamento e proponendo l'approvazione non degli otto punti di cui ha farfugliato in direzione nazionale, ma dei cinque punti più ragionevoli del programma di Grillo (che sono cose di sinistra) può ribaltare la situazione avviando un'esperienza di governo fino a ieri inimmaginabile. Venendo al campo locale ribadisco la mia ferma convinzione che, preso atto dell'ineluttabilità di un lungo periodo di commissariamento, bisogna spingere per la creazione, mutuando il modello anglosassone, di un "Consiglio Comunale Ombra". Lo scioglimento ha spazzato via una classe politica in gran parte corrotta e incapace, ma non ha spostato una virgola nell'apparato burocratico che da un più di un decennio imperversa a Palazzo San Giorgio. I commissari, per quanto capaci e volenterosi, rischiano nella migliore delle ipotesi di impantanarsi nella routine della gestione quotidiana, nella peggiore di avallare scelte dannose per il futuro della città. La società civile, anche tramite il Laboratorio Civico di Zoomsud, deve svolgere il ruolo di Consiglio Comunale e avanzare di volta in volta ai Commissari le istanze della città. Già alla prossima riunione dobbiamo invitare il commissario Prefetto Vincenzo Panìco, al fine di avviare questo circolo virtuoso. Potremmo cominciare a parlare con lui, per esempio, della follia faraonica del progetto del Water front, quanti sanno che l'Archistar iraniana Zaha Hadid non ha tenuto conto, nel suo progetto, della prospettiva panoramica Lungomare-Etna? Vale a dire: lo sapete che la copertura a orecchie d'elefante dell'edificio da lei progettato, copre la visuale dell'Etna dall'inizio del Lungomare? E il Corso Garibaldi, lo sapete che il nuovo progetto prevede la rimozione del lastricato lavico e dei lampioni installati poco più di dieci anni fa? E Piazza Duomo, vi sta bene che sia ricoperta di cemento e privata degli alberi? E per finire, vi sta bene che tutti questi mega cantieri una volta aperti si traducano nell'ennesima incompiuta? Vale la pena parlarne? Non pensate che sia questo il ruolo della Società Civile? Non trovo, infine, un'eresia il cominciare a parlare delle prossime elezioni comunali, diciotto mesi passano presto e non possiamo pensare di scegliere il nostro candidato sindaco in Zona Cesarini; le nostre esitazioni, derivanti dalle solite diatribe intestine, ci porterebbero ancora una volta alla disfatta. Nel frattempo qualche altro soggetto non terrà le mani in mano, state pur certi che nel brodo di coltura della 'ndrangheta, che è sempre pronta a fiutare il vento di vittoria, starà già crescendo una leva di grillini.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
venerdì 21 settembre 2012
BASTEREBBE IMPARARE A VOTARE...
Conosco personalmente, anzi di molti sono amico fraterno, gran parte dei firmatari del manifesto "Reggio rivendica il suo ruolo". Mi sono pure chiesto come mai non mi abbiano chiesto di sottoscrivere il loro, invero tardivo, grido di dolore. Non sono un delinquente, non sono un incivile, non sono uno sfruttatore, non sono un nemico di Reggio, non sono un buffone, non sono un evasore fiscale, non sono un perdigiorno, quindi perché non dovrei avere il diritto di firmare quel manifesto? Ho riflettuto un po' e alla fine sono arrivato a una conclusione: vuoi vedere che non mi hanno interpellato perché mi considerano un pericoloso estremista di sinistra e quindi, automaticamente, mi annoverano tra i nemici della città? So che qualcuno di loro ha anche votato, probabilmente a sua insaputa, per il centrosinistra, ma agli altri suggerirei di chiedere agli amati politici di centrodestra di smetterla di inserire nelle liste (e quindi nelle Istituzioni) delinquenti di ogni risma. Perché qui si sta deliberatamente confondendo la causa con l'effetto e i carnefici con le vittime. Secondo questi quattrocento gloriosi paladini della riggitanità, la città non l'ha infangata chi ha dilapidato ingenti risorse gettando nel lastrico centinaia di famiglie, né chi ha consentito (per incapacità o connivenza) di deturparla orrendamente, né chi ha eletto o fatto eleggere professionisti del malaffare, ma chi ha alzato la testa per indicare i colpevoli e per denunziare le loro malefatte. Cosa avrebbero dovuto fare, per lorsignori, i giornalisti? Fingere di non vedere, negare l'evidenza, inneggiare alle grandi capacità di politici e burocrati buoni solo a riempire le tasche proprie e dei comparelli di turno? Cosa avrebbero dovuto fare i politici dell'opposizione, sedersi al tavolo a dividere la torta o andare, come hanno giustamente fatto, alla Procura della Repubblica a depositare le prove del disastro del cosiddetto "Modello Reggio"? Suvvia amici non scherziamo, molti di voi, usi ad adagiare le terga su comodi divani di accoglienti salotti, fingete di non vedere lo sfacelo che vi circonda, forse per quieto vivere; altri, chiusi da mane a sera nei vostri studi professionali, pensate solo a prestare la vostra valorosa opera (magari ogni tanto dimenticando di emettere qualche ricevuta fiscale); altri (pochi) siete dei veri e propri compagni di merenda di quelli che hanno affossato la città; alcuni siete invece i classici professionisti dell'antimafia di sciasciana memoria e la vostra unica preoccupazione è quella di non urtare la suscettibilità del potere dominante che vi foraggia strumentalmente. Non metto in dubbio la genuinità della vostra sofferenza, ma vi suggerisco di trovare conforto ricorrendo a una lapalissiana considerazione: se si dovesse giungere allo scioglimento del nostro Comune per mafia, l'onta non ricadrebbe certamente su di voi e sulle altre svariate migliaia di cittadini onesti, ma sui politici corrotti e incapaci (che però, non dimenticate, molti di voi hanno votato) che hanno consentito questo stato di cose. Vivete l'eventuale scioglimento come una catarsi e andate, appena la legge lo consentirà, alle urne a testa alta e questa volta, però, cercate di non votare di nuovo i candidati sbagliati!
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
lunedì 3 settembre 2012
MINCHIA NON SI IAPRI STRILL...
Minchia non si iapri Strill, cu sapi chi succiriu a Rriggiu! Martedì mi trovavo in una splendida azienda agri-vinicola di Milo alle pendici dell'Etna (a proposito da quelle parti sono cent'anni avanti rispetto a noi, ma questa è un'altra storia...); tra un bicchiere e l'altro mi sono appartato con il mio Ipad e ho aperto Strill pi viriri chi ssi rici a Rriggiu e quella maledetta trottolina continuava a girare a vuoto. Minchia cu sapi a 'ccu 'ttaccaru... Il mio vecchio cuore giustizialista (ormai direi forcaiolo) ha cominciato a battere all'impazzata, ho continuato a fare il tip tap sullo schermo e poi mi sono rassegnato a telefonare a mio fratello a Reggio. Ho saputo così dell'arresto dell'ennesimo consigliere regionale. A parte la facile battuta che a questo punto sarebbe conveniente trasformare direttamente Palazzo Campanella in un supercarcere, risolvendo così anche l'annoso problema dell'edilizia carceraria, ho riflettuto sulla triste condizione della nostra città. Come al solito mi ha aiutato l'arguta analisi di Giusva Branca e la sua considerazione sull'incapacità di percezione del problema da parte della società cosiddetta civile e sull'abbassamento delle difese immunitarie di onestà di ciascuno. A riprova però della peculiarità della situazione reggina, vorrei sottolineare anche l'irrompere sulla scena dell'inedita figura del "politico giustiziere". Con buona pace, infatti, dei teorici dell'antipolitica e dei sostenitori dei savonarola mediatici, la politica ha dimostrato di possedere gli anticorpi che mancano alla società civile. Non mi sembra azzardato dichiarare che senza l'iniziativa di politici di lungo corso quali Demetrio Naccari, Seby Romeo e Aurelio Chizzoniti, oggi saremmo ancora qui a trastullarci con le magnifiche sorti e progressive del Modello Reggio imbevendoci del verbo del nostro amato Governatore. Certo qualcuno potrà pur sostenere che sono stati mossi da poco nobili interessi personali ma, a parte il fatto che tale discorso può valere solo per Chizzoniti che ha un interesse diretto verso le disgrazie di Rappoccio, i poveri Naccari e Romeo non mi pare che siano diventati i paladini del popolo reggino. Naccari anzi è finito sotto il fuoco incrociato di dossier e ricostruzioni giornalistiche prêt-à-porter.
La cosiddetta società civile e le sue folcloristiche propaggini salottiere buone solo ad accendere qualche fiaccola, non hanno saputo far altro che pendere dalle labbra della magistratura inquirente e dell'ex inquilino dei piani alti del Cedir della cui roboante attività ha coraggiosamente parlato l'avv. Chizzoniti dalle stesse pagine di Strill. Evito di produrmi in divagazioni su argomenti di cui non ho conoscenza diretta, ma mi hanno fatto riflettere le parole di Giovanni Falcone a proposito di Giuseppe Pignatone, riportate in più occasioni da un giornalista attento e credibile quale Paride Leporace (vedi il sito "www.cadoinpiedi.it" e il suo libro "Toghe rosso sangue"). Sulla vicenda di Rappoccio, invece, mi fa sorridere il suo ineffabile atteggiamento che lo ha portato a querelarmi assieme al collega Giuseppe Baldessaro; dalle pagine del Quotidiano avevamo ironizzato sulla sua presenza all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario e lui, poverino, si era sentito offeso, che sensibilità! Come si dice in questi caso? Aspettiamo sereni che la Magistratura svolga il suo lavoro. Ma io aggiungo di aspettare (non molto sereno) che i reggini imparino a scegliere i propri candidati e a smetterla di ritenere la politica come il cassetto dei propri bisogni personali.
Franco Arcidiaco
La cosiddetta società civile e le sue folcloristiche propaggini salottiere buone solo ad accendere qualche fiaccola, non hanno saputo far altro che pendere dalle labbra della magistratura inquirente e dell'ex inquilino dei piani alti del Cedir della cui roboante attività ha coraggiosamente parlato l'avv. Chizzoniti dalle stesse pagine di Strill. Evito di produrmi in divagazioni su argomenti di cui non ho conoscenza diretta, ma mi hanno fatto riflettere le parole di Giovanni Falcone a proposito di Giuseppe Pignatone, riportate in più occasioni da un giornalista attento e credibile quale Paride Leporace (vedi il sito "www.cadoinpiedi.it" e il suo libro "Toghe rosso sangue"). Sulla vicenda di Rappoccio, invece, mi fa sorridere il suo ineffabile atteggiamento che lo ha portato a querelarmi assieme al collega Giuseppe Baldessaro; dalle pagine del Quotidiano avevamo ironizzato sulla sua presenza all'inaugurazione dell'Anno Giudiziario e lui, poverino, si era sentito offeso, che sensibilità! Come si dice in questi caso? Aspettiamo sereni che la Magistratura svolga il suo lavoro. Ma io aggiungo di aspettare (non molto sereno) che i reggini imparino a scegliere i propri candidati e a smetterla di ritenere la politica come il cassetto dei propri bisogni personali.
Franco Arcidiaco
CARONTI STATTI AZZITTU E NON GRIRARI...
Sono certo che, una volta completata la lettura di questo libretto, il lettore non potrà far altro che manifestare un grande rammarico per l'incompiutezza dell'opera. Carmelo Lanucara, infatti, non è riuscito ad andare oltre la traduzione del terzo canto dell'Inferno, la malattia, provocata dagli stenti della detenzione nel carcere fascista, lo ha portato a morte prematura a soli quarant'anni. Con molta umiltà, nella sua breve prefazione, nega al suo lavoro alcuna qualità letteraria, salvo poi assumersi, con la sua proverbiale fierezza, ogni responsabilità filologica. La lettura di questi primi tre canti dell'Inferno dantesco è una vera goduria per i cultori del vernacolo, tanto più perché non ci troviamo al cospetto di una fredda traduzione letterale; Lanucara, infatti, procede ad una vera e propria nobilitazione del nostro dialetto adattandolo alla poetica musicalità del più grande poema di tutti i tempi. Suggerisco al lettore di procedere alla lettura dei tre Canti in dialetto affiancandola a quella degli originali. Si potrà così valutare l'estro fantastico con cui il nostro autore ha adattato i versi di Dante al dialetto reggino. Un esempio per tutti è costituito dalla lettura delle strofe del terzo canto che trattano di Caronte.
E il Duca a lui: Caron non ti crucciare, vuolsi così colá dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare diventa Mancu aviva finutu di parrari chi lu maestru meu ci' rispundiu: Caronti statti azzittu e non grirari pirchì cussì è la vuluntà di Diu.
Come vedete non si tratta di un semplice adattamento, Lanucara ha operato un vero intervento poetico con un risultato notevole sia dal punto di vista filologico che letterario; la sua ricerca della musicalità, però, non va a scapito del significato, notevole è infatti lo sforzo che egli produce per rendere comprensibile (e quindi popolare) il testo. In ciò Lanucara è memore della lezione di T. S. Eliot che nel 1942 (non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell'enfatizzazione della musicalità in poesia) scriveva: "La musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”.
Ma è evidente che dove il lavoro di Lanucara si rivela prezioso, è nella valorizzazione del dialetto, a cui operazioni come questa conferiscono indiscutibilmente lo status di lingua. E, parlando di dialetto, non si può non ricordare la lezione del grande Pier Paolo Pasolini il quale nel 1945 nell'atto costitutivo dell'Academiuta di lengua furlana così scriveva:
"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa lingua. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […] L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".
Se negli ultimi capoversi sostituiamo al termine "friulano" il termine "calabrese", oltre a renderci conto dell'immensità del pensiero pasoliniano, avremo una netta percezione dell'importanza del lavoro di Carmelo Lanucara. Alla sua memoria voglio dedicare questa splendida poesia del sommo poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta:
Un populu mentitilu a la catina,
spugghiatilu, attuppatici a vucca:
è ancora liberu.
Levatici u travagghiu, u passaportu,
a tavola undi mangia, u lettu undi dormi:
è ancora riccu.
Un populu diventa poveru e servu
quando 'nci arrobbanu a lingua addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poveru e servu
quandu i paroli non figghianu paroli
e si mangianu 'ntra iddi.
Mi 'nnaddugnu ora
mentri accordu a chitarra du dialettu
chi perdi na corda a lu jornu.
Ignazio Buttitta.
Franco Arcidiaco
E il Duca a lui: Caron non ti crucciare, vuolsi così colá dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare diventa Mancu aviva finutu di parrari chi lu maestru meu ci' rispundiu: Caronti statti azzittu e non grirari pirchì cussì è la vuluntà di Diu.
Come vedete non si tratta di un semplice adattamento, Lanucara ha operato un vero intervento poetico con un risultato notevole sia dal punto di vista filologico che letterario; la sua ricerca della musicalità, però, non va a scapito del significato, notevole è infatti lo sforzo che egli produce per rendere comprensibile (e quindi popolare) il testo. In ciò Lanucara è memore della lezione di T. S. Eliot che nel 1942 (non dimentichiamo che il Novecento è il secolo dell'enfatizzazione della musicalità in poesia) scriveva: "La musica della poesia non esiste indipendentemente dal significato; altrimenti potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso (…). Una poesia è ‘musicale’ quando ha una duplice struttura, l’una di suono, l’altra di significati secondari nelle parole che la compongono; queste due strutture musicali sono indissolubili e fanno tutt’uno”.
Ma è evidente che dove il lavoro di Lanucara si rivela prezioso, è nella valorizzazione del dialetto, a cui operazioni come questa conferiscono indiscutibilmente lo status di lingua. E, parlando di dialetto, non si può non ricordare la lezione del grande Pier Paolo Pasolini il quale nel 1945 nell'atto costitutivo dell'Academiuta di lengua furlana così scriveva:
"Il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi. È solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo. Ma se a qualcuno venisse quell'idea? Voglio dire l'idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? […] con l'ambizione di dire cose elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e così, un po' alla volta, si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa lingua. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore. […] L'Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in Latino. Il Latino era insomma come adesso è per noi l'Italiano, e l'Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese), era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l'Emiliano, il Siciliano, il Lombardo… sono dialetti dell'Italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che tutti li capiscano; e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti italiani non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. Per venire a parlare del nostro dialetto, fra i dialetti d'Italia, il Friulano ha una fisionomia sua e ben distinta, per certi caratteri e certe forme antiche che conserva e che non lo fanno confondere con nessun altro. […] Purtroppo però il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari, dei mercanti per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l'amore, di cantare, di lavorare. […] Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo 'stile'. Quello stile è qualcosa di interiore, nascosto, privato e, soprattutto, individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, e di quel poeta e basta".
Se negli ultimi capoversi sostituiamo al termine "friulano" il termine "calabrese", oltre a renderci conto dell'immensità del pensiero pasoliniano, avremo una netta percezione dell'importanza del lavoro di Carmelo Lanucara. Alla sua memoria voglio dedicare questa splendida poesia del sommo poeta dialettale siciliano Ignazio Buttitta:
Un populu mentitilu a la catina,
spugghiatilu, attuppatici a vucca:
è ancora liberu.
Levatici u travagghiu, u passaportu,
a tavola undi mangia, u lettu undi dormi:
è ancora riccu.
Un populu diventa poveru e servu
quando 'nci arrobbanu a lingua addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poveru e servu
quandu i paroli non figghianu paroli
e si mangianu 'ntra iddi.
Mi 'nnaddugnu ora
mentri accordu a chitarra du dialettu
chi perdi na corda a lu jornu.
Ignazio Buttitta.
Franco Arcidiaco
martedì 7 agosto 2012
RENATO NICOLINI E QUELLA CAPACITA' ERETICA DI TROVARSI SEMPRE A SINISTRA
È come se fosse crollato il Colosseo. Per Roma e per la cultura italiana la scomparsa di Renato Nicolini è una perdita irreparabile. E purtroppo non riesco a stabilire quanto la sinistra italiana sia consapevole di questo. Che la notizia della sua morte sia stata data in anteprima, su Twitter, da Stefano Di Traglia, portavoce del segretario del PD Bersani, lo trovo decisamente beffardo. Ho frequentato intensamente Renato negli ultimi tre anni, tra di noi si era creato un rapporto che ci aveva messo poco a superare la dimensione autore-editore e si era esteso alle nostre famiglie. Era diventata una piacevole consuetudine ritrovarci a cena tutti i martedì sera, quando Renato e Marilù si trovavano a Reggio per impegni universitari o teatrali. Renato aveva idee molto chiare sulla situazione italiana, le soluzioni che lui proponeva passavano tutte invariabilmente dal ruolo della cultura e dal suo riscatto dai lacciuoli della politica; per lui la cultura era un elemento fondamentale dell’identità del nostro Paese. Per tutta risposta il mondo della politica, sinistra in testa, gli riservava un’indifferenza che lo faceva soffrire moltissimo. Quando lo scorso 8 dicembre abbiamo presentato a Roma, al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, la nuova edizione del suo libro Estate Romana, la sala era gremita di protagonisti della cultura di quegli anni (molti) e di oggi (pochi) ma non c’era l’ombra di un politico. In compenso era diventato popolarissimo su Facebook con il gruppo “Rivogliamo Nicolini assessore alla cultura” che ad oggi registra 4.150 membri. La sua ironia, la sua intelligenza, il suo sterminato bagaglio culturale, uniti ad una capacità, direi eretica, di ritrovarsi sempre e comunque “a sinistra”, avevano trovato una nuova attenzione nel mondo giovanile. La malattia lo aveva sfiancato fisicamente ma non aveva per nulla intaccato queste sue capacità. Nel nostro recente ultimo incontro si lamentava del fatto che la rievocazione degli anni dell’Estate Romana riportasse automaticamente sulla scena gli Anni di piombo, ma sapeva bene che questa associazione, per quelli della nostra generazione, equivale ad un riflesso condizionato.
I libri di storia non lo scriveranno mai, ma quella parte di popolazione italiana nata negli anni ’50 è stata letteralmente derubata della fase della spensieratezza e della serenità che normalmente contraddistingue l’età della giovinezza. La tragica fine di Unidad Popular di Salvador Allende in Cile, il golpe dei colonnelli in Grecia, le minacce di colpo di stato in Italia, le piazze insanguinate dalle bombe della Cia, le menzogne di stato sull’attivismo dei cosiddetti opposti estremismi (in realtà si trattava di fascisti manovrati dai servizi segreti occidentali) e per finire le maledette Brigate Rosse, che di rosso avevano solo il colore del sangue innocente che versavano, ma la cui unica funzione era quella di tenere fuori il PCI dalle stanze del potere. Era questo il tragico scenario di quegli anni tremendi e bui, le relazioni sociali e la vita culturale inevitabilmente risentirono di quel clima e, dopo i fasti del ’68, si registrò un ripiegamento nel privato, ben descritto dai versi di Lucio Dalla nella splendida L’anno che verrà.
La nomina di Renato Nicolini ad assessore alla cultura di Roma, nel 1976, ed il conseguente avvio della macchina dell’ Estate Romana l’anno dopo, svolsero la funzione essenziale di rimuovere i “sacchi di sabbia vicino alla finestra” e stanare la gente dalle “case rifugio” in cui pensavano di aver trovato riparo. L’Effimero lungo nove anni rivoluzionò la vita culturale dell’intera nazione, l’essenza stessa dell’arte effimera si fece sistema, sostituendo gli stabili canoni convenzionali con l’instabilità di atti, gesti e situazioni che non avevano pretese di durata e di consistenza materiale. Fu il trionfo della libertà di espressione che emanava da azioni affrancate dal giogo scolastico di metodi e contenuti ormai stantii, si affermò un modello culturale dalla netta impronta esistenziale destinato (paradossalmente, vista la sua genesi) a durare nel tempo. L’Effimero dell’Estate Romana allargò a dismisura il campo delle esperienze creative e comunicative, nessuna forma di espressione fu preclusa grazie all’utilizzo dei più eterogenei materiali e strumenti, nonché le più diverse forme di linguaggio. La fotografia, la musica, la rappresentazione scenica e la poesia recitata (si inaugurò allora la fortunata esperienza dei reading), funsero da fattore contaminante delle arti convenzionali e non avrebbero mai più abdicato a questa funzione.
Cos’è rimasto oggi di quella esperienza? La nemesi storica ha voluto che quella contaminazione positiva subisse a sua volta una contaminazione, questa volta fatale. Ed oggi c’è addirittura qualcuno che pensa che le notti bianche, le sagre e le kermesse commerciali siamo figlie di quella memorabile stagione; il berlusconismo ha purtroppo inciso pure su questo e, minando fatalmente le basi etiche del Paese, ne ha conseguentemente inquinato il tessuto culturale. La trasfigurazione de l’Estate Romana nell’orgia commerciale delle Notti Bianche ne è la tragica dimostrazione. Renato Nicolini ha vissuto la seconda parte della sua vita nella nostra città, è stato infatti professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura e direttore artistico del laboratorio teatrale Le Nozze. Reggio Calabria, nella sua perenne, apatica, indifferenza decadente, non si è lasciata coinvolgere più di tanto dal suo entusiasmo, ingrata dell’enorme impegno profuso nella formazione di tanti giovani studenti e nel tangibile risultato ottenuto dalla battaglia avviata da lui e dalla sua cara Marilù Prati, per la riapertura del Teatro Siracusa.
Franco Arcidiaco
Iscriviti a:
Post (Atom)