Sciorinare metafore sulla Calabria e i calabresi è come sparare sulla Croce Rossa; quella del “Caciocavallo di bronzo”, ideata da Peppe Voltarelli, è assolutamente geniale. Immaginate un paese della nostra regione la cui economia è basata essenzialmente sull’attività casearia e un comitato di volenterosi cittadini che decide di rendere omaggio e santificare il formaggio più famoso tra quelli prodotti: il caciocavallo appunto. “Una specie di obelisco di tre o quattro metri di altezza e sopra un Caciocavallo di bronzo. Santificare il formaggio più famoso della nostra terra, renderlo immortale…”, è questa la semplice idea che nel giro di poco tempo finisce con lo sconvolgere la vita dell’intero paese. Si creano subito due fazioni contrapposte; gli stessi politici, manco a dirlo, cavalcano strumentalmente la vicenda. Ben presto si scatenano tutte le dinamiche ben conosciute da chi decide di intraprendere una qualunque iniziativa a queste latitudini, “si stava materializzando uno dei punti fermi del pensiero calabro: se non ci sono io non ci deve essere niente e nessuno, risultato trionfo del niente…”. Alla fine la spuntano quelli che ritengono che il monumento sarebbe potuto diventare fonte di dileggio per la comunità, quindi dalle “Istituzioni” arriva il solenne comunicato: “In presenza di una effettiva e palese turbativa dell’ordine pubblico si fa divieto di costruire il monumento denominato Caciocavallo di Bronzo”. Le polemiche sono chiuse e, per usare la geniale chiosa di Voltarelli, “Il niente era salvo”. Peppe Voltarelli è certamente il più celebre “Bluesman” calabrese, d’altra parte ricevere la “Targa Tenco”equivale, per la musica popolare, al conseguimento di una laurea. Con questo libro, anzi con questo “Romanzo cantato e suonato” come lo definisce in copertina, la casa editrice “Stampa Alternativa” manda in libreria un autore degno di affiancare i migliori nomi della cultura popolare italiana. E badate bene ci troviamo al cospetto di un lavoro assolutamente originale nel quale Voltarelli intreccia i brani delle sue canzoni più belle, come in una tela pittorica solida ma al contempo delicata, con la sua trama ed il suo ordito, che coinvolgono il lettore con continui rimandi alla realtà della vita quotidiana nella nostra terra. Un grande cantautore, che non nomino per carità di patria, forse il più amato dalla mia generazione e sicuramente da me, in piena crisi artistica dovuta, pare, a astinenza da nicotina, spopola da un paio d’anni nelle librerie con una serie di volumetti che sono una via di mezzo tra gli sciocchezziari modello “Selezione dal Reader’s Digest” e i sussidiari “amarcord” buoni per le case di riposo per vecchi artisti; in questi giorni addirittura il suo editore ha prodotto una versione tascabile, non si sa mai scappi il bisogno di un ricordino pronto per l’uso. Niente di tutto questo troviamo nel lavoro di Voltarelli, qui siamo in una via di mezzo tra il trattato di sociologia e il canto di dolore di chi sa di aver dato tanto alla propria terra e si ritrova ripagato, nella migliore delle ipotesi, da sciatta indifferenza. Il dialetto è presente ma non in modo gigionesco (alla Camilleri per intenderci): “La mia lingua si difende dagli attacchi degli stupidi, io la proteggo dallo scempio del ridicolo, la incoraggio e la tolgo dal paniere dei prodotti seriali, è una lingua amara e forte e cammina per il mondo con la testa alta…”. E in realtà Peppe porta la sua lingua in giro per il mondo, quel mondo popolato da intere legioni di calabresi che ormai hanno metabolizzato il dolore del distacco e sanno gestire la nostalgia sfoderando una sorta di nobile saggezza, retaggio di antiche culture. Grande è il disincanto del nostro quando parla del suo rapporto con la Calabria “…non facevo mai il bagno davanti casa perché avere l’acqua così vicina mi sembrava una comodità troppo sfacciata…”. E se qualcuno vuole conoscere la fonte d’ispirazione, ecco l’equazione di Peppe Voltarelli: “Il mercato era il mio suono, la mia gente, era ciò che Woody Guthrie era stato per Bob Dylan”.
Franco Arcidiaco
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