L’Assessore regionale alla cultura Mario Caligiuri, intervenendo alla Fiera del Libro di Lamezia Terme, ha annunciato che il 22 novembre i vertici della Regione Calabria presenteranno “Il libro verde sulla lettura” in presenza di Tullio De Mauro, il più grande linguista italiano vivente. L’assessore Caligiuri, con grande gentilezza, ci ha fatto pervenire il testo, tecnicamente denominato: “Interventi per favorire la lettura in Calabria”. Di tale testo pubblichiamo qui di seguito la premessa che fotografa la realtà calabrese. Quando il Governatore Giuseppe Scopelliti ha nominato il prof. Mario Caligiuri assessore alla cultura non ho esitato a definirlo “L’uomo giusto al posto giusto”; in questi primi mesi di governo Caligiuri non ha deluso le aspettative, da oggi la sua azione entra nella fase strutturale in un momento quanto mai opportuno visto lo stato in cui versa la filiera editoriale calabrese.
In Calabria si legge poco. Troppo poco per una regione moderna che vorrebbe/dovrebbe essere già pronta e capace di affrontare, con strumenti culturali adeguati, le grandi ineludibili sfide sociali ed economiche del presente e del futuro. Questo deficit è certificato nei dati dell’ISTAT, dell’AIE (Associazione Italiana Editori) e di tutte le agenzie che si sono occupate di questo tipo di ricerche.
Si legge poco, quindi c’è poca informazione e a questo si aggiunge - come causa e conseguenza - uno dei più bassi livelli di consumo culturale dell’intero paese.
In Calabria sono poco utilizzati anche i nuovi media, strumenti di straordinario supporto alla ricerca e alla conoscenza che ormai veicolano gran parte della cultura e dell’informazione contemporanea.
I calabresi sono più vittime di altri del digital divide che colpisce soprattutto le generazioni adulte, ma anche molti giovani che hanno meno competenze informatiche dei loro coetanei italiani e sono lontanissimi da quelle dei giovani di altri paesi europei.
Sono dati drammatici che frenano la volontà di cambiamento e di modernizzazione della società calabrese che la Giunta Regionale, guidata da Giuseppe Scopelliti, vuole realizzare, mossa com’è dalla consapevolezza che per affrontare i numerosi e gravi problemi del presente è necessario che si affermi un paradigma culturale moderno, basato su una nuova idea di cittadinanza e di identità regionale.
Il ritardo culturale penalizza il sistema economico calabrese e le sue prospettive; una forza lavoro poco qualificata è, infatti, condannata a ruoli marginali all’interno del mercato del lavoro; non vi può essere, infatti, reale possibilità di sviluppo sociale ed economico per il territorio e la società calabrese senza la partecipazione attiva, consapevole e qualificata di tutti i suoi abitanti. Inoltre poiché una quota sempre maggiore della ricchezza è legata allo sviluppo dell’economia della creatività e della cultura, il permanere di un forte cultural divide esclude la Calabria dai rilevanti benefici di questo specifico sviluppo.
I dati statistici confermano che la percentuale dei lettori calabresi è di circa 7-8 punti in meno rispetto alla media nazionale, la quale già si colloca molto indietro rispetto ai paesi occidentali più progrediti.
Le cause di tutto questo ritardo culturale sono numerose e complesse; gli studiosi sostengono che la non lettura è una conseguenza diretta del basso livello economico e di scolarità delle famiglie, dell’esistenza o meno di piccole biblioteche domestiche e di tanti altri fattori collegati alla dimensione soggettiva e sociale di ciascun cittadino.
Altre indagini, condotte con regolarità da un organismo internazionale quale l’OCSE, testimoniano anche di una diffusa mancanza di competenza alla lettura tra gli studenti delle scuole superiori: un allievo su tre pur riconoscendo i segni dell’alfabeto non è in grado di comprendere i contenuti di un breve e semplice testo scritto.
Le strategie per affrontare il problema dell’incremento dei lettori e in particolare di formare lettori critici, capaci cioè di divenire soggetti sociali attivi protagonisti del proprio tempo, sono purtroppo lunghe e complesse e dipendono da cambiamenti di lungo periodo della Calabria, ma esiste anche un ambito circostanziato nel quale la Regione può fare molto e subito.
È il settore dell’infrastrutturazione culturale delle città e dei paesi della regione, la possibilità cioè di intervenire per qualificare o creare nuovi servizi che possano favorire la lettura e la partecipazione più diretta alla vita culturale.
Ed è proprio su questo terreno che si evidenzia la distanza tra la Calabria e il resto dell’Italia e dell’Europa; quasi ovunque, anche in presenza della grave crisi economica e finanziaria, si registrano adeguati investimenti per realizzare nuove e moderne biblioteche, mediateche, luoghi di aggregazione e formazione, mentre in Calabria si continuano a registrare ampi ritardi e in qualche caso addirittura si arretra rispetto alla realizzazione di questi stessi obiettivi.
Ritardi e arretratezze che si riflettono sull’intera società regionale, che pesano sulle sue strategie di sviluppo anche economico, che confliggono con la necessità di affermare una nuova identità di Calabria fondata sui valori condivisi di democrazia, legalità e senso di responsabilità collettivo rispetto alle mete da raggiungere.
Lo scopo di questo documento è di indicare concretamente quegli interventi che possono essere realizzati da subito e per i prossimi anni della legislatura regionale, per supportare tutte le strutture che elaborano e diffondono cultura e informazione, tenendo conto delle risorse economiche ordinarie e straordinarie che intorno a questi obiettivi è possibile indirizzare.
Si tratta di un obiettivo di straordinaria rilevanza sociale prima ancora che culturale, un atto dovuto nei confronti di tutti i calabresi, per consentire loro di esprimere anche nel futuro quel grande patrimonio di cultura e di civiltà che hanno saputo esprimere nel passato e di cui tutti siamo fieri e orgogliosi.
mercoledì 17 novembre 2010
domenica 14 novembre 2010
NON VI E’ COSA PIU’ INTATTA DI UN CUORE SPEZZATO
Il mio amico Tonino Nocera, fine e appassionato studioso della cultura ebraica, si è assunto l’ingrato compito di ripristinare il mio rapporto con il mondo yiddish, fortemente compromesso dalla politica imperialista dello stato di Israele e dalla persecuzione inflitta al popolo Palestinese. Sappiamo tutti quanto sia subdola la tendenza a confondere l’antisionismo con l’antisemitismo, al fine di bollare con quest’ultimo infamante epiteto tutti coloro che non condividono la politica estera israeliana. Io ho sempre rivendicato la mia posizione antisionista ma non mi ha mai minimamente sfiorato alcun sentimento antisemita. Anzi sono fortemente attratto dalla cultura ebraica e non perdo occasione di accostarmisi, con tutto il rispetto e l’umiltà che richiede lo studio di un patrimonio così immenso e variegato. Quando Tonino mi ha fatto dono dello splendido libriccino “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Zvi Kolitz, ero appena rientrato da Roma dove, durante una cena in uno dei miei ristoranti preferiti della capitale, La taverna del Ghetto, ero stato letteralmente ghermito dal dipinto presente in una delle sale, raffigurante un rabbino che studia la Torah; il quadro, dal tono caravaggesco (richiama infatti in un certo senso il “San Gerolamo”), emana una spiritualità che ha turbato in modo insolito e direi imbarazzante il mio animo materialista. Non ho perso un attimo quindi a divorare le trenta serratissime pagine del testo e le sessanta dei due saggi a corredo; c’è da dire subito che il testo è un falso, Yossl Rakover non è mai esistito, siamo al cospetto pertanto di “Un testo bello e vero come solo la finzione può esserlo” per dirla con Emmanuel Levinas autore del bellissimo saggio che chiude il libro. Il documento sarebbe stato scritto durante le ultime ore della Resistenza nel ghetto di Varsavia, il narratore sarebbe stato testimone di ogni sorta di orrori e avrebbe perso in circostanze atroci tutti i suoi cari, compresi i piccoli figli. Negli ultimi istanti di vita raccoglie, a mo’ di testamento spirituale, i suoi ultimi pensieri e li trascrive su alcuni fogli che sigilla con cura in una piccola bottiglia, che sarebbe stata ritrovata dopo qualche tempo “tra cumuli di pietre carbonizzate e ossa umane”. Ci troviamo in sostanza al cospetto di “un testo che supera l’autore”, come scrive Paul Badde nell’altro saggio che dovrebbe servire a raccontare la storia del testo e del suo vero autore, ma risulta mal scritto (o mal tradotto), confusionario e finisce coll’appesantire l’edizione (complimenti alla mitica Adelphi ed ai suoi editor…); chiunque l’abbia scritto , quando, dove e perché conta poco o nulla, si tratta di un testo straordinario che meritava un prefatore molto più serio di questo Paul Badde, che non riesce a frenare il suo anticomunismo viscerale, arrivando addirittura a mettere sullo stesso piano il presunto antisemitismo di Stalin e quello tragicamente reale di Hitler. Sentite invece le parole che usa il grande Levinas per commentare il passaggio in cui Yossl dichiara di amare la Legge delle sacre scritture più dello stesso Dio (ecco il fascino della Torah…): “Il testo dimostra come l’etica e l’ordine dei princìpi instaurino un rapporto personale degno di questo nome. Amare la Torah ancora più che Dio è per l’appunto accedere a un Dio personale contro il quale ci si può rivoltare, per il quale, cioè si può morire”. Questo straordinario concetto svela la grande modernità del pensiero ebraico e mi consegna una chiave di lettura (o un alibi, fate voi) per giustificare l’attrazione fatale che questa religione esercita su un ateo incallito e convinto come me. Sentite questo passaggio dell’invettiva di Yossl: “Non vi è cosa più intatta di un cuore spezzato, ha detto una volta un grande rabbino. E non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito… Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui… Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga che mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto più esso diventa immortale”.
Sarà anche la fame di etica indotta dai tempi bui che stiamo vivendo, ma a me tutto ciò appare sublime!
Franco Arcidiaco
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio
Adelphi, 1997 Pagine 98 Euro 7,50
Sarà anche la fame di etica indotta dai tempi bui che stiamo vivendo, ma a me tutto ciò appare sublime!
Franco Arcidiaco
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio
Adelphi, 1997 Pagine 98 Euro 7,50
mercoledì 13 ottobre 2010
LA PRIMA SEDE DI GOOGLE ERA IN CAFFE’ VIENNESE DEI PRIMI DEL ‘900
Stefan Zweig, scrittore austriaco (1881-1942), è uno dei protagonisti della vita culturale di Vienna nei primi anni del Novecento, accanto a Freud, Klimt, Schiele e Schnitzler. Ed è proprio a quest’ultimo, autore di “Girotondo”, “La signorina Else” e “Doppio sogno”, che Zweig viene spesso accostato, per l’attenzione data nelle sue opere alla psiche umana, indagata sotto la lente della psicoanalisi che nasceva e si diffondeva proprio in quegli anni. In questo delizioso libriccino pubblicato nel 2008 da Adelphi nella Biblioteca Minima, Zweig ci offre, in appena quarantaquattro mirabili paginette, il ritratto di un personaggio affascinante e surreale come pochi altri. “Mendel dei libri” è la storia di Jakob Mendel, un vero e proprio antesignano di Google, che aveva installato nel tavolo di un classico caffè viennese, la sua attività di “rivendugliolo” di libri preziosi, rari e introvabili. Probabilmente non aveva letto ogni volume ma era a conoscenza dell’esistenza di tutti e sapeva dove trovarli. Seduto dalle sette e trenta del mattino fino alla chiusura serale al Caffè Gluck, a Vienna, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, non si occupava della politica, delle relazioni internazionali o di chi gli stava attorno. Era sempre immerso nella lettura di qualche libro o catalogo e alzava la testa solo se qualcuno gli chiedeva di trovare un’opera per lui.
“Lì a quel tavolo, e solo a quel tavolo, leggeva i suoi cataloghi e i suoi libri, così come gli avevano insegnato a leggere nella scuola talmudica, salmodiando e dondolandosi, nera culla che beccheggia. Perché, come un bambino cade addormentato e scivola via dal mondo al ritmo ipnotico di quel su e giù, allo stesso modo -secondo l’opinione di quegli uomini devoti- lo spirito si cala più facilmente nello stato di grazia della contemplazione quando il corpo inattivo si culla e si dondola. E in effetti Jakob Mendel non vedeva e non sentiva niente di ciò che gli accadeva attorno”. Quello che rendeva Mendel assolutamente unico era “la sua capacità di concentrazione assoluta” e la ferrea memoria che gli consentiva di immagazzinare qualsiasi informazione relativa a saggi, trattati, romanzi, insomma ogni cosa che avesse una forma cartacea. Studiosi e ricercatori si recavano al Caffè Gluck per consultare Mendel certi di ottenere una risposta esauriente. E che questa capacità di concentrazione in situazioni comunemente ritenute non ideali, sia tipica della cultura del popolo ebraico (anche se in parte ascrivibile ad abitudini contratte in età scolare) me lo dimostrano altri due esempi; uno riguarda il grande Joseph Roth (ammiratissimo da Zweig) che scrisse molte delle sue opere al tavolo di un affollato caffè parigino, l’altro niente meno che il Mossad (il famigerato o celebre, lascio a voi la scelta dell’aggettivo, servizio segreto israeliano), un amico appassionato d’intelligence mi ha parlato di severi addestramenti degli agenti, tendenti a perfezionare la capacità di concentrazione in situazioni di estremo caos ambientale.
La grande lezione che Zweig trae dall’incontro con Mendel è fulminante: “Grazie a lui mi ero avvicinato per la prima volta al grande mistero, ovvero al fatto che, se mai nella nostra esistenza riusciamo ad attingere qualcosa di speciale, qualcosa di più elevato, ciò accade solo al prezzo di una particolare concentrazione interiore, di una paranoia sublime e, nella sua sacralità, affine alla follia”. Destino volle che Mendel, proprio lui che sublimando la sua astrazione non si era mai interessato di alcuna vicenda umana, venisse travolto dall’odio disseminato in Europa dalla Prima Guerra Mondiale. La sua memoria si perse quasi subito, una legge del contrappasso beffarda cancellò repentinamente la storia di un uomo che aveva dedicato la sua vita al simbolo della lotta degli uomini contro la caducità: il libro.
“Mendel dei libri” si chiude proprio con il rammarico di Zweig circa la fragilità della memoria: “Proprio io che avrei dovuto sapere che i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.
Franco Arcidiaco
Stefan Zweig, MENDEL DEI LIBRI, Adelphi 2008, pagg. 56 Euro 5,50
“Lì a quel tavolo, e solo a quel tavolo, leggeva i suoi cataloghi e i suoi libri, così come gli avevano insegnato a leggere nella scuola talmudica, salmodiando e dondolandosi, nera culla che beccheggia. Perché, come un bambino cade addormentato e scivola via dal mondo al ritmo ipnotico di quel su e giù, allo stesso modo -secondo l’opinione di quegli uomini devoti- lo spirito si cala più facilmente nello stato di grazia della contemplazione quando il corpo inattivo si culla e si dondola. E in effetti Jakob Mendel non vedeva e non sentiva niente di ciò che gli accadeva attorno”. Quello che rendeva Mendel assolutamente unico era “la sua capacità di concentrazione assoluta” e la ferrea memoria che gli consentiva di immagazzinare qualsiasi informazione relativa a saggi, trattati, romanzi, insomma ogni cosa che avesse una forma cartacea. Studiosi e ricercatori si recavano al Caffè Gluck per consultare Mendel certi di ottenere una risposta esauriente. E che questa capacità di concentrazione in situazioni comunemente ritenute non ideali, sia tipica della cultura del popolo ebraico (anche se in parte ascrivibile ad abitudini contratte in età scolare) me lo dimostrano altri due esempi; uno riguarda il grande Joseph Roth (ammiratissimo da Zweig) che scrisse molte delle sue opere al tavolo di un affollato caffè parigino, l’altro niente meno che il Mossad (il famigerato o celebre, lascio a voi la scelta dell’aggettivo, servizio segreto israeliano), un amico appassionato d’intelligence mi ha parlato di severi addestramenti degli agenti, tendenti a perfezionare la capacità di concentrazione in situazioni di estremo caos ambientale.
La grande lezione che Zweig trae dall’incontro con Mendel è fulminante: “Grazie a lui mi ero avvicinato per la prima volta al grande mistero, ovvero al fatto che, se mai nella nostra esistenza riusciamo ad attingere qualcosa di speciale, qualcosa di più elevato, ciò accade solo al prezzo di una particolare concentrazione interiore, di una paranoia sublime e, nella sua sacralità, affine alla follia”. Destino volle che Mendel, proprio lui che sublimando la sua astrazione non si era mai interessato di alcuna vicenda umana, venisse travolto dall’odio disseminato in Europa dalla Prima Guerra Mondiale. La sua memoria si perse quasi subito, una legge del contrappasso beffarda cancellò repentinamente la storia di un uomo che aveva dedicato la sua vita al simbolo della lotta degli uomini contro la caducità: il libro.
“Mendel dei libri” si chiude proprio con il rammarico di Zweig circa la fragilità della memoria: “Proprio io che avrei dovuto sapere che i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.
Franco Arcidiaco
Stefan Zweig, MENDEL DEI LIBRI, Adelphi 2008, pagg. 56 Euro 5,50
venerdì 8 ottobre 2010
HO LETTO... UN SOGNO di VANIA D'ANGELO
La presenza a Reggio Calabria del giornalista ed editore Franco Arcidiaco è una di quella certezze che quotidianamente vivifica l’amore per la lettura e l’acculturazione. “Passeggiare per i boschi” della sua scrittura, come in un’immagine echiana, è esperienza di cammino verso un orizzonte di luce. Il saggio “Le favole allegoriche di Joseph Roth” pubblicato a luglio 2010, è uno scrigno di suggestioni e bagliori dall’eleganza sempre discreta e algida di un osservatore raffinato con levità.
Interessantissimo per gli appassionati e studiosi di germanistica. Non meno accattivante per i critici letterari impegnati nello studio dei topoi di matrice ebraica. Incredibilmente fascinoso per i lettori amanti del bello scritturale.
Vania D'Angelo
http://www.cdse.it/libro.php?id=408
Interessantissimo per gli appassionati e studiosi di germanistica. Non meno accattivante per i critici letterari impegnati nello studio dei topoi di matrice ebraica. Incredibilmente fascinoso per i lettori amanti del bello scritturale.
Vania D'Angelo
http://www.cdse.it/libro.php?id=408
martedì 28 settembre 2010
LETTERA A STRILL.IT
Bravi, bravissimi ragazzi era ora di liberare il giornalismo dagli squallidi orpelli imposti dalla consuetudine e dal servilismo nei confronti dei potenti. Condivido pienamente la vostra decisione e le vostre argomentazioni; si respira un'atmosfera surreale, sembriamo immersi in una infinita messinscena delle migliori commedie di Dario Fo. Date sempre più spazio alle voci giovani e libere della città e chiudete le porte a vecchi tromboni, ipocriti parrucconi conformisti e sepolcri imbiancati. Ma avete visto la prima pagina di ieri della Gazzetta del Sud? Era semplicemente allucinante, un paradigma di quello che è diventata l'informazione nell'era berlusconiana; speculare sulla presunta malasanità significa rendere sempre più insicura la classe medica ed incentivare irresponsabilmente i viaggi della speranza. Siamo al Truman Show de 'noantri, qui c'è gente che non vede l'ora che gli scompaia un familiare per andare a "Chi l'ha visto"! Qui ci sono la stragrande maggioranza delle imprese con l'acqua alla gola, stritolate dal pizzo della 'ndrangheta e delle banche, e fior di investigatori si perdono dietro la vicenda di un improbabile commercialista afflitto da crisi maniaco-depressive che giocava a fare l'agente segreto. La vicenda di Lamberti è da seguire con la massima attenzione perchè è emblematica della situazione in cui versa la città; gli imprenditori che lavorano con professionalità e serietà (l'istituto De Blasi e gli studi di RTV sembrano un'oasi scandinava in mezzo al deserto) devono addirittura subire l'onta di sentirsi rimbrottare da politicanti di terza fila, voltagabbana figli della più classica malapolitica clientelare. Oggi tutti i giornali sono lì a stracciarsi le vesti per la vicenda del banchiere Profumo; grandi editorialisti non esitano a parlare di "dramma", e parlano del dramma di un uomo costretto a lasciare il suo lavoro con una liquidazione di 50 milioni di Euro!!! Sarebbe ridicolo e grottesco se non risultasse offensivo per le legioni di disoccupati create da questo scellerato sistema post-capitalistico; ma siccome al peggio non c'è mai fine ecco la notizia dell'ultima ora: Profumo potrebbe diventare il nuovo leader del centrosinistra, il cosiddetto "papa straniero" evocato da quel "genio" di Veltroni. Respinto dai popoli africani per manifesta incapacità è tornato in Italia per affossare le poche speranze di rialzare la testa che erano rimaste al popolo della sinistra; tenetevi pronti che se non gli riesce con Profumo finirà per teorizzare l'alleanza con Berlusconi.
Franco Arcidiaco
Franco Arcidiaco
domenica 1 agosto 2010
UN QUADERNO DI CITAZIONI IN FORMA DI ROMANZO
Sono vari i motivi che possono indurti a comprare un libro, nel caso de “Il canapé rosso” galeotto fu un viaggio a Parigi lo scorso dicembre. Il mio amico Federico è un fantastico catalizzatore di suggestioni, legge libri e giornali, armato di matita e calepino, e annota diligentemente tutte le indicazioni che possano servire a rendere ancora più affascinanti i nostri viaggi. Meta delle nostre vacanze di fine anno 2009 era dunque Parigi, ed una delle suggestioni del magico calepino di Federico indicava perentoriamente: quai de Bourbon, ponte Louis-Philippe, palazzo sul lungosenna; a questo punto il calepino riportava la seguente citazione da “Il canapé rosso”: “Sapevo che là, sul lungofiume, una targa commemorativa riportava una frase scritta da Camille Claudel in una lettera a Rodin, C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” Obbligatorio dunque cercare il palazzo e leggere la targa sulla facciata, altrettanto obbligatoria la visita al meraviglioso museo Rodin; le suggestioni sono come le ciliegie, una tira l’altra e tutte assieme compongono i nostri viaggi “diversi”. Al ritorno da Parigi mi sono affrettato dunque ad acquistare il libro di Michèle Lesbre, edito da Sellerio nell’assurda collana-marmellata “La memoria”. Michèle vive a Parigi ed è una furbastra di tre cotte, scrive benissimo e si capisce senz’altro che ha buone letture e grandi viaggi alle spalle; ha escogitato un furbo artificio narrativo che le consente di sciorinare il suo bagaglio culturale senza annoiare il lettore. Il libro si rivela, quindi, un quaderno di citazioni in forma di romanzo; Anne, la protagonista, intreccia la sua storia di amante-pellegrina con quella dell’anziana modista Clémence, che abita nel suo palazzo e che lei va a trovare due volte alla settimana per conversare, appunto, sul suo canapé rosso. Clémence ama farsi raccontare da Anne storie di donne dal tragico destino, che hanno tracciato la storia con il loro coraggio, l’anticonformismo e la spregiudicatezza.
Nel passato di Clémence c’è la storia di un amore travolto dalle vicende seguite all’occupazione nazista di Parigi, nel presente di Anne c’è il desiderio incontrollato di ritrovare un vecchio amore perso tra le immense distese della lontana Siberia.
Il viaggio e la memoria sono i temi conduttori del romanzo, “Mi smemoravo, o meglio ero catturata, stordita e inebriata da quella parvenza di solitudine che si genera nel viaggio, oblio momentaneo delle abitudini e dei punti di riferimento”. Ci sono passaggi veramente notevoli, come questa paginetta che descrive l’arrivo di Anne nella casa della nuova famiglia del suo vecchio amante Gyl, in uno sperduto villaggio della Siberia: “La madre (dei figli di Gyl, ndr) mi aveva invitato a entrare per bere un tè. I bambini erano venuti con noi. Avevo parlato del treno, dei giorni e delle notti, delle foreste, e poi avevo detto che venivo dalla Francia. Leggevo negli sguardi che per loro quella parola non significava niente. Per loro probabilmente venivo dal nulla… In fondo questo non contava veramente, l’importante era l’incontro, l’istante fugace, la felice occasione che nasce dal viaggio. Le parole non hanno più lo stesso valore e perfino la loro assenza genera salutari mutamenti di prospettiva. … Fu una notte insonne, una di quelle notti che trascinano nel centro più segreto di quello che ci fa muovere e ci ossessiona. Avevo dovuto fare tutta quella strada per capire che cercavo di ritrovare l’energia ormai sparita, il passato che niente poteva resuscitare, nemmeno Gyl. Ma lui aveva deciso di avere un figlio. Non sentivo tristezza, solo misuravo la distanza fra noi e il tempo che era trascorso, un tempo al quale troppo a lungo avevo tentato di sfuggire”. Tra le tante citazioni che, come dicevo, impreziosiscono il libro, sentite questa, fulminante, di Milena Jesenskà (giornalista cecoslovacca amica di Kafka): “Vedere dei paesaggi dal finestrino significa conoscerli due volte, con lo sguardo e col desiderio”.
Il libro scorre leggero e gradevole sin quando la Lesbre non pretende di ammannirci le sue lezioncine politiche; le sue considerazioni sull’Unione Sovietica e su Stalin sono banali e qualunquiste ed intrise di livore anticomunista assolutamente fuori luogo.
La Sellerio, al solito, brilla per superficialità sia nella traduzione che nell’editing.
Franco Arcidiaco
Michèle Lesbre
Il canapé rosso
Sellerio, 2009
Pagg. 134, € 11,00
Nel passato di Clémence c’è la storia di un amore travolto dalle vicende seguite all’occupazione nazista di Parigi, nel presente di Anne c’è il desiderio incontrollato di ritrovare un vecchio amore perso tra le immense distese della lontana Siberia.
Il viaggio e la memoria sono i temi conduttori del romanzo, “Mi smemoravo, o meglio ero catturata, stordita e inebriata da quella parvenza di solitudine che si genera nel viaggio, oblio momentaneo delle abitudini e dei punti di riferimento”. Ci sono passaggi veramente notevoli, come questa paginetta che descrive l’arrivo di Anne nella casa della nuova famiglia del suo vecchio amante Gyl, in uno sperduto villaggio della Siberia: “La madre (dei figli di Gyl, ndr) mi aveva invitato a entrare per bere un tè. I bambini erano venuti con noi. Avevo parlato del treno, dei giorni e delle notti, delle foreste, e poi avevo detto che venivo dalla Francia. Leggevo negli sguardi che per loro quella parola non significava niente. Per loro probabilmente venivo dal nulla… In fondo questo non contava veramente, l’importante era l’incontro, l’istante fugace, la felice occasione che nasce dal viaggio. Le parole non hanno più lo stesso valore e perfino la loro assenza genera salutari mutamenti di prospettiva. … Fu una notte insonne, una di quelle notti che trascinano nel centro più segreto di quello che ci fa muovere e ci ossessiona. Avevo dovuto fare tutta quella strada per capire che cercavo di ritrovare l’energia ormai sparita, il passato che niente poteva resuscitare, nemmeno Gyl. Ma lui aveva deciso di avere un figlio. Non sentivo tristezza, solo misuravo la distanza fra noi e il tempo che era trascorso, un tempo al quale troppo a lungo avevo tentato di sfuggire”. Tra le tante citazioni che, come dicevo, impreziosiscono il libro, sentite questa, fulminante, di Milena Jesenskà (giornalista cecoslovacca amica di Kafka): “Vedere dei paesaggi dal finestrino significa conoscerli due volte, con lo sguardo e col desiderio”.
Il libro scorre leggero e gradevole sin quando la Lesbre non pretende di ammannirci le sue lezioncine politiche; le sue considerazioni sull’Unione Sovietica e su Stalin sono banali e qualunquiste ed intrise di livore anticomunista assolutamente fuori luogo.
La Sellerio, al solito, brilla per superficialità sia nella traduzione che nell’editing.
Franco Arcidiaco
Michèle Lesbre
Il canapé rosso
Sellerio, 2009
Pagg. 134, € 11,00
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