lunedì 16 marzo 2020

L’INVENTARIO ESISTENZIALE DI TONINO PERNA

Tonino Perna, economista e professore ordinario di Sociologia economica, è stato presidente del Parco Nazionale d’Aspromonte, del Comitato Etico di Banca Etica, assessore alla cultura del Comune di Messina (sindaco Renato Accorinti), ha co-fondato la ong Cric, l’Osservatorio sui Balcani di Trento e la rivista Altraeconomia di Milano. Oggi è presidente del parco ludico-culturale Ecolandia. Autore di numerosi saggi e di diverse opere letterarie, collabora come editorialista con Il Manifesto e Il Quotidiano del Sud; appassionato del “teatro dell’assurdo” è stato apprezzato autore di testi teatrali che ha anche interpretato con compagnie amatoriali. Protagonista di mille battaglie sociali e politiche, Tonino Perna è uno dei principali punti di riferimento culturale e politico di almeno due generazioni di attivisti disseminati nel variegato mondo della sinistra, tra cui il sottoscritto.
Nel febbraio del 2019 è uscito in sordina, in una dimessa e malmessa edizione di Castelvecchi, questo “Con beneficio d’inventario” una sorta di autobiografia parziale, dal tono a metà tra il canzonatorio e l’immaginifico, intrisa dell’aura stralunata, direi Jannacciana, tipica di Tonino.
Il prologo è un testo, tratto dal volume “Visioni dello Stretto” (Rubbettino editore), che correda i disegni di un altro fantastico visionario, Gianfranco Neri, prorettore della Mediterranea, struggente omaggio di entrambi alla grande passione che li unisce.
“Io vivo in un posto unico al mondo dove abita un Gigante maestoso che qualche volta si arrabbia e sputa sangue caliente che brucia la pelle della terra e dei suoi abitanti. Io vivo in questa terra da più di sessant’anni e non sono riuscito a scappare, non sono riuscito a fuggire dagli occhi profondi dello Stromboli, dalle spine profumate dell’Aspromonte, dalla zagara e dal gelsomino, dall’odore penetrante del bergamotto che scompare, dalla Fata Morgana che compare all’alba nelle acque morbide dello Stretto. Io vivo così, come tanti, tra speranze e rimpianti in questa terra dove la Storia è passata di rado e ha lasciato piaghe infette perché da queste parti la Storia ha l’alito puzzolente degli dèi degli Abissi”.
Il prologo delinea lo scenario che fa da sfondo alla narrazione: quello Stretto che il protagonista, voce narrante, ha solcato da pendolare quotidianamente per decenni; bellissime, a questo proposito, le scene del calo della Lupa, il nebbione che un paio di volte l’anno ammanta lo Stretto, e delle “avventure in aliscafo” che mettono a dura prova nervi e stomaci dei passeggeri durante le sciroccate.
Il racconto di Tonino comincia una notte di maggio quando, appena rientrato da un viaggio in treno da Roma, lo coglie la notizia della morte del padre. La prima reazione è di smarrimento che gli impedisce di “accettare che un dialogo così difficile s’interrompesse. Quante cose avrei dovuto ancora discutere con lui, dopo tanti anni di silenzi, di lotta e d’incomprensione reciproca”. Il padre, armiere e militarista convinto, era titolare di un’avviata fabbrica di cartucce, circostanza questa che aveva sempre provocato un forte disagio in Tonino, pacifista militante, al punto di portarlo ad allontanarsi per lunghi anni dalla famiglia. Scomparso il padre, il protagonista si trova costretto ad aiutare i familiari a districarsi tra i grovigli burocratici che regolano la messa in liquidazione dell’azienda e la disciplina dell’asse ereditario. Si apre una scena surreale che vede Tonino alle prese con l’inventario dei beni, a cominciare dagli arredi e dagli effetti personali. Si tratta di un espediente narrativo, mutuato interamente dalla realtà, che consente a Tonino di sciorinare tutto il suo estro fantastico. La narrazione diventa sincopata e dispensa frequenti battute di rimbalzo, che proiettano la scena in dimensioni temporali diverse. Appaiono personaggi persi nella notte dei tempi, parenti eccentrici, baruffe tra fratelli, quadretti di vita familiare, evocati dagli innumerevoli oggetti che via via saltano fuori da cassetti e scatole. S’intersecano naturalmente storie di vita cittadina compresa quella, dal sapore felliniano, raccontata da una nonna, di giovani “arrampicati sui rami dei pini marittimi lungo la collina di Pentimele” per osservare la fantastica scena dell’arrivo della luce elettrica nella dirimpettaia Messina; scene di gioia e incredulo stupore che, per una tremenda beffa della storia, si svolgono la sera del 27 dicembre 1908, vale a dire la vigilia del tremendo terremoto che avrebbe distrutto le due città sorelle.
Appaiono foto di compagni di scuola ricordati con il nomignolo derivante dalla condizione familiare; uno fra tutti, che ricordo anch’io, era “Il figlio delle banane”, il cui padre “aveva un negozio sul Corso Garibaldi, che tutti i bambini negli anni Cinquanta adoravano perché solo lì potevi comprare datteri e banane…”.
Salta fuori da un cassetto un “calendarietto dei barbieri”, che ha conservato incredibilmente il caratteristico profumo dopo tantissimo tempo (vero, è successo anche a me!), e dà la stura al ricordo di uno dei tanti siparietti, dal tono pecoreccio, che si svolgevano tra i clienti e il barbiere, dei quali eravamo testimoni quando i nostri padri ci portavano, la domenica mattina, per il taglio dei capelli.
Il susseguirsi dei ricordi porta via via sulla scena personaggi che hanno segnato la vita cittadina e la storia della nostra generazione, uno tra tutti il mitico Sebastiano Di Marco, presidente del Circolo del Cinema, maestro di vita di noi giovani degli anni settanta, evocato da un cartoncino d’invito alla proiezione di Dillinger è morto di Marco Ferreri la sera del 7 aprile 1970 al cinema Ariston.
Il protagonista vive in pieno l’atmosfera di quegli anni formidabili (per dirla con Mario Capanna), agevolato anche dalla condizione benestante della famiglia. I viaggi avvengono in Fiat500, rigorosamente decapottabile, e la meta sono sempre i paesi dell’Est o del Nord al perenne inseguimento del mito delle “ragazze facili”. Anche un semplice elenco degli oggetti è di per sé evocativo di un’epoca: un gettone telefonico, un pacchetto di Phenelgol, una boccetta d’inchiostro blu Must the Cartier, un flacone di DDT Super Faust (“non addormenta, fulmina”), un battipanni di legno di castagno (“l’arma fatale che usava mia madre”), un mangiadischi, un pastore del presepe (“u maravigghiatu ra rutta”), un televisore Minerva, una sputacchiera dorata, un pacchetto di sigarette Macedonia e uno di Mercedes, un proiettore “Super8”; uno scatolone colorato colmo di foto della rivolta per Reggio Capoluogo, che Tonino definisce “L’ultima grande rivolta popolare del Sud e la prima guerriglia su basi identitarie”.
Nei sette capitoli in cui è diviso il volume, oltre l’aspetto centrale che riguarda l’eredità, risolto, appunto, con l’accettazione “con beneficio d’inventario” e con il surreale colloquio con il Giudice fallimentare (che potrebbe essere benissimo il soggetto di una commedia); l’autore-protagonista, si sofferma, opportunamente, sulla trattazione di alcuni argomenti chiave della storia cittadina che hanno costituito, a tutti gli effetti, il passaggio della linea d’ombra (quella che, per dirla con Conrad, “ci avvisa che bisogna lasciarsi alle spalle anche la regione della prima giovinezza”) per la nostra generazione.
“Ogni generazione vive un momento come questo, ma noi eravamo una generazione speciale che viveva una fase unica della Storia”.
Irrompe sulla scena la rivolta di Reggio del ‘70/71 con le violente cariche dei celerini, l’acre odore dei lacrimogeni e le microstorie della vita quotidiana in quell’anno e mezzo di follia collettiva, ma soprattutto irrompe la drammatica vicenda dei “Cinque anarchici del Sud”, che Tonino ha vissuto sulla propria pelle, poiché uno di essi era suo cugino Gianni Aricò e gli altri amici cari. La vicenda ha segnato drammaticamente quella che, per tutti noi, sarebbe dovuta essere la stagione del divertimento e della spensieratezza. Rappresentazione della “fine dell’innocenza” più plasticamente figurata di quella, non poteva esserci per nessuno di noi.
Anni dopo, nel 2001, decisi che quella storia non doveva rimanere sepolta nella nostra memoria e che quel lutto andava elaborato; ne parlai con Tonino e gli proposi di ricostruire la storia e pubblicare un libro con la mia casa editrice. In redazione frequentava un giovane volenteroso, aspirante poeta, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, era quel Fabio Cuzzola, oggi rinomato affabulatore. Tonino ed io gli raccontammo la vicenda e lui fu bravo a trascriverla e completarla con documenti d’archivio e testimonianze di nostri amici e conoscenti. La prefazione di Tonino ha impreziosito un volume che ha riscontrato un clamoroso successo in tutta Italia. Oggi, passati ben cinquant’anni, è forse il caso che Tonino, magari con la mia collaborazione, rimetta mano a ricordi e carte e realizzi un affresco, con tutti crismi della Storia, di quella stagione straordinaria, questo bel libro è senz’altro un’ottima traccia.
Il libro si conclude alla Ninello Nerpa (lo pseudonimo che Tonino ha utilizzato per pubblicare la sua raccolta di testi teatrali “Il teatro dell’identità” e l’esilarante “Il pernacchione” con la mia casa editrice “Città del Sole edizioni”).
Intendo dire che, nell’ultimo capitolo, l’autore stravolge il piano narrativo e sciogliendo la sua vena immaginifica, fa vivere al personaggio un fantastico sogno che lo porta a trasfigurare le due città della sua vita fino a farle diventare un luogo unico che, secondo i progetti che ha esposto proprio in questi giorni assieme allo storico Daniele Castrizio, costituisce qualcosa di più di un sogno: la “Città dello Stretto” che consentirà finalmente alle due sponde di toccarsi grazie al solo scorrere di un “tempo interiore”!
Franco Arcidiaco
Tonino Perna, Con beneficio d’inventario, Castelvecchi 2019, pagg. 140, € 17,50.
















domenica 15 marzo 2020

UN LIBRO INEDITO (ANCORA PER POCO) DI FRANCESCO VILLARI

Ciao Francesco, il 6 novembre scorso mi hai inviato il tuo lavoro via email, chiedendomi semplicemente di essere spietato nel valutarlo; me ne avevi parlato qualche giorno prima fuori da Spazio Open con fare disincantato, io, certo che mi sarei ritrovato tra le mani “roba forte”, mi ero riproposto di riservargli un’attenzione particolare. Appena arrivata la mail ho subito stampato il manoscritto, l’ho infilato in un folder e l’ho riposto nella mia inseparabile vecchia bridge nella stessa tasca dove quotidianamente, dopo averla compilata in modo maniacale, ripongo la mia quovadis prenote. In tutti questi mesi ho letto, come al solito, migliaia di pagine sia per lavoro che per diletto, scegliendo tra i manoscritti che arrivano in casa editrice (che mi rifila Antonella) e le montagne di libri che circondano il mio angulus ridet, vale a dire la mia poltrona affiancata dallo scaffale mobile, traboccante di libri che periodicamente tiro fuori dalla mia biblioteca o che ho acquistato recentemente.
Ieri mi sono ritirato nel mio studio per sistemare appunti e carte, avevo tante cose da fare e sono caduto preda dell’abituale ansia paranoica che si manifesta nel momento in cui devo decidere da dove cominciare… ho messo la mano nella tasca della bridge per tirare fuori la quovadis prenote (che in questi casi svolge il ruolo di Virgilio) e… ho tirato fuori il folder con il tuo manoscritto. L’ho posato sulla scrivania ho pareggiato i fogli e ho cominciato a leggerli.
Mi è venuto in mente il modo in cui ci siamo conosciuti; ero venuto a trovarti (diciamo 20 anni fa?) nel tuo ufficio di contrada Gagliardi con il prof. Amato, nella tua qualità di possibile sponsor del Premio Nosside, di cui editavo l’antologia. Quel giorno ho scoperto una realtà inimmaginabile: un angolo di Silicon Valley, distonicamente incastonato nell'orrendo scorcio degradato di una delle nostre tante periferie. Un effetto straniante reso ancor più tale dalla tua impeccabile figura di manager; se non ci fossimo stretti la mano, ti avrei considerato alla stregua di un ologramma, tanto incongruo mi appariva il contesto.
Non potevo sapere che quel giorno ero venuto a contatto di solo una, e nemmeno tra le più importanti credo, delle tue tante vite. Ci siamo ritrovati, diciamo dieci anni dopo, nella mia casa editrice e ti sei presentato stavolta nelle vesti di scrittore abile e immaginifico, appassionato di biliardo. Quell’incontro ha prodotto la pubblicazione con la mia Città del sole edizioni, del romanzo “L’ottavina di Dio” che hai scritto a quattro mani con Marco Di Grazia. Un pugno di anni ancora e ti ho ritrovato musicologo e cinefilo di straordinario livello, affabulatore seducente, nonché “socialcomunicatore” decisamente fuori dalla norma. Quando mi confronto con te su queste nostre comuni passioni mi autoriduco alla stregua di un dilettante, d’altra parte la tua cultura musicale si fonda su solide basi tecniche, come ben si evince da questo nuovo straordinario tuo romanzo.
Tra ieri pomeriggio e stamattina posso finalmente dire di averti conosciuto nella tua interezza e ti ringrazio per avermene dato l’opportunità.
Intanto Arles… è uno dei pochi luoghi che ha messo in crisi il mio razionalismo, città magica e ruffiana come nessun’altra. Se il genius loci è Van Gogh non ti puoi aspettare altro; ci siamo capitati Antonella ed io con una coppia di amici e rispettivi figli, in un memorabile trentun dicembre di non so quanti anni fa, ospiti del Nord-Pinus. Sotto lo sguardo curioso dei viaggiatori che ci avevano preceduto, ritratti nella galleria fotografica dal tono a metà tra l’esotico e il dandy, tra scene di caccia, corride e favolosi bestiari, abbiamo trascorso la serata nel leggendario caffè dell’hotel, per poi immergerci nella mitica Place du Forum per ricalcare i passi di Vincent. Abbiamo atteso la mezzanotte tra giri di valzer (io che ho la grazia di un orso, ma il pastis e l’assenzio fanno miracoli…) al suono di un organino apparso dal nulla ai bordi della piazza, sfidando un freddo polare. Anche noi come te (pardon, come il tuo Ludovico, il cui nome scopriremo però solo nelle ultime righe del libro) in quei giorni ci siamo “sentiti a casa nella stanza di Van Gogh”!
Con queste premesse non ho potuto che procedere spedito e mi sono trovato letteralmente rapito dalla tua scrittura coinvolgente, come solo una buona narrazione in prima persona sa essere. L’espediente narrativo della sordità (per questo hai voluto fortemente che lo leggessi?) che hai usato, è semplicemente geniale e ti ha consentito di svolgere la trama in modo sorprendentemente credibile. D’altra parte, come dice il tuo personaggio, il genio di Van Gogh era bene in grado di dipingere il silenzio.
Pur intriso di passioni e temi cruciali, il romanzo risulta accattivante e scorrevole, svolto con maestria da gran narratore. Il tuo sconfinato amore per la musica ti consente di far svolgere abilmente al tuo personaggio la grande impresa di comprendere la musica senza bisogno di sentirla attraverso un suono. Il biliardo, tema ricorrente nella tua ars narrandi, viene proposto qui come prodotto dell’armonia musicale e della filosofia matematica, non so se nessuno mai si è spinto su questi sentieri, personalmente li trovo affascinanti e originali.
All’amore guardi con il tuo tipico disincanto esistenziale, trovo acuta e condivisibile la tua riflessione sulla felicità e la tristezza, come ingredienti di una forma di masochismo generalizzato “che preferisce la certezza della pena all’ipotesi della gioia”. Per non parlare poi della dotta disquisizione sull’amore che può dirsi compiuto solo una volta finito; della separazione decodificata dal sapore/colore degli arredi e delle suppellettili; della fine del matrimonio visto come una forma di disinvestimento (time to market): l’amore come market dei sentimenti!
All’irrompere di Chloée nella vita del protagonista, il romanzo imbocca la sua strada maestra.
Una donna straordinaria (rendi bene l’idea accostandola alla Fanny Ardant di Truffaut) che inevitabilmente lo pone in stato di sudditanza intellettuale, sia per la sua competenza in materia di arte (Van Gogh è il loro galeotto), musica (è un’eccellente pianista), cocktail (Bloody Mary in primis) e crostacei (i percebes, preistorici eroi), sia per la sua profonda concezione filosofica del primato della memoria nella vita dell’uomo. L’affascinante tesi che fai esporre alla tua Chloée, riguarda la possibilità di isolare la memoria umana come chiave della vita eterna; un processo di back up della nostra vita che, nel momento in cui il nostro corpo dovesse risultare inservibile, si potrebbe installare in un clone. “Se la memoria si potesse isolare genererebbe un essere immortale”, è la stupefacente chiosa di Chloée. Tesi assolutamente non peregrina, suffragata dagli studi del famoso scienziato informatico americano Raymond Kurzweil, che è convinto delle capacità delle nanotecnologie di sconfiggere la morte. Il romanzo si dispiega e conclude con dei credibili e appropriati colpi di scena che avvincono mirabilmente il lettore.
Inutile dire che mi hai fatto innamorare perdutamente, non me ne volere, di Chloée e ti ringrazio soprattutto per il “lieto fine”, non sopportavo l’idea di averla persa per sempre.
Ciao, tuo Franco Arcidiaco




sabato 14 marzo 2020

SCHIZOFRENIA NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE

Son giorni in cui è fondamentale che la buona informazione giunga rapidamente e integralmente a lettori di giornali e libri e agli utenti dei mezzi di radio e tele comunicazione. Vediamo come reagisce il settore:
1) APPREZZABILE il DPCM che autorizza le edicole a rimanere aperte.
2) DETESTABILE la decisione di alcuni quotidiani, non tutti per fortuna, di pubblicizzare nei “piedoni” pubblicitari della prima pagina cartacea la versione digitale!
3) APPREZZABILE la decisione di alcuni quotidiani digitali di “liberare” gran parte dei contenuti.
4) DETESTABILE la campagna di riduzione dei prezzi degli abbonamenti digitali approfittando di questa emergenza, è una forma di sciacallaggio ammantata di magnanimità.
5) DETESTABILE l’incredibile comportamento di RAIPLAY che ha inserito nell’APP una miriade di spot pubblicitari che interrompono continuamente addirittura i titoli dei telegiornali di Rainews24.
6) DETESTABILE la campagna di ilmiolibro.it che aggrava le condizioni di un settore in agonia, offrendo agli aspiranti scrittori la possibilità di stamparsi gratis una copia del loro libro.
Per stasera mi fermo qui ma temo che sarò costretto ad aggiornare il report giorno per giorno.

mercoledì 11 marzo 2020

IL SOLIPSISMO POETICO DI BARTOLO CATTAFI

Quando Schopenhauer parlava del solipsismo come “una piccola fortezza di confine” che mai potrà essere espugnata, ma che paradossalmente imprigiona le sue stesse truppe e quindi non costituisce pericolo per chi le passa vicino, non pensava certo alla poesia di Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 1922 – Milano 1979).
Oggi che finalmente, grazie all’immane lavoro di Diego Bertelli, giornalista e critico letterario, l’intera produzione poetica del nostro è stata classificata, organizzata e pubblicata in un poderoso volume, si può accostare certamente questa originale voce della poesia italiana al solipsismo che, in aderenza alla sua natura, non ha mai prodotto un vero e proprio movimento culturale.
Questa accurata e completa edizione (ben 964 pagine tra poesie, apparato critico, bibliografia e indici) raccoglie in modo organico i versi di Cattafi finora rimasti dispersi o disponibili solo in forma antologica. Il lettore trova qui raccolta tutta la sua produzione poetica, corredata da una dettagliata cronologia, da un ampio apparato di notizie sui testi e da una poderosa e aggiornata bibliografia. Il volume è arricchito da una serie di appendici in cui sono riunite le poesie disperse e quelle edite in plaquette, libri d’artista e edizioni per bibliofili. L’introduzione di Raoul Bruni, critico letterario e docente universitario, riesamina la collocazione di Cattafi nel quadro della poesia italiana del Novecento, sottolineando come il caso di questo poeta rappresenti “il caso più clamoroso di sottovalutazione critica”, ma precisa che il Novecento italiano è stato anche il secolo degli irregolari, dei marginali e degli eccentrici, “il cui valore intrinseco è stato riconosciuto solo tardivamente, o attende ancora un riconoscimento adeguato, proprio a causa della mancanza di sintonia con lo spirito del tempo”.
Ascoltiamo però lo stesso Cattafi, sentite come parla della sua poesia: “La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi. Non mi riesce di capire il mestiere di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quello del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini”.
In Cattafi c’è infatti sempre un’idea cruda, naturale, originalissima della poesia, ma ciò non va a scapito della qualità e della musicalità del verso; il suo lavoro di continua limatura balza agli occhi evidente e produce un effetto repentino, che sorprende per l’inesorabile naturalezza con cui penetra il lettore. Un percorso poetico estremamente personale che rovescia nel verso gli oggetti della vita quotidiana, dal cibo, agli attrezzi di lavoro, alle suppellettili, agli arredi della casa, ai particolari anatomici, alle malattie, alla morte, a un fantastico bestiario che non trascura il mondo degli insetti, a incursioni enigmistiche al limite della sciarada o dell’acrostico. Il disincanto e la fisicità, lasciando intravedere solo sullo sfondo il confine metafisico, sono talmente rimarcati nel suo mondo poetico, dal far risultare straniante il tema pur presente, soprattutto nelle ultime poesie, della fede e della ricerca di Dio.
In realtà Cattafi non è stato propriamente trascurato dal mondo editoriale, Mondadori ha pubblicato ben dieci suoi libri e in collane prestigiose quali Lo Specchio e gli Oscar, quello che almeno fino ad oggi gli è mancato è stato il riconoscimento della critica e del grande pubblico. Un poeta certamente difficile più che criptico (la componente lirica viene sempre meno nel suo lavoro), discontinuo nella produzione (un’attesa di otto anni tra un libro e l’altro è imperdonabile nel mondo dell’editoria italiana). Il Cattafi che personalmente amo di più è quello delle poesie brevi (per carità niente a che fare con i modaioli e inflazionati haiku) fulminanti, delle quali ora vi darò cinque fulgidi esempi, sentiamo però prima il grande critico Giovanni Ramboni: “ Se ci affidiamo all’orecchio, certe poesie di Cattafi ci sembrano veri e propri epigrammi: preparazione cauta ma rapida, poi lo scatto bruciante, il veleno”.

IPOTESI
Avanzammo le ipotesi migliori.
Non ressero,
al lume dei fatti
andarono in frantumi.
Avanzammo le altre, le peggiori.
La mente è un’abile,
astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto.
Ricompose col mastice i frantumi.

COSTRIZIONE
Siamo ora costretti al concreto
a una crosta di terra
a una sosta d’insetto
nel divampante segreto del papavero.

MARZO E LE SUE IDI
Di tutto diffido
del pugnale di bruto
della tenera carne di cesare
dello stesso destino
che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.

COLPO A DEDALO
Avremo inferto
un grave colpo a dedalo
se in piena luce
in luogo aperto
studieremo l’inganno della lana
con cui è fatto il filo che conduce
alla tortuosa complessità d’arianna.

BRANDELLO
Ciò che vola che fugge innanzi a te
che dalla mano tesa s’allontana
per sua natura cambia sempre forma
è un tuo brandello lanciato con dolore
su strade impraticabili
e il vento della corsa lo trasforma.

Franco Arcidiaco
Bartolo Cattafi, Tutte le poesie, a cura di Diego Bertelli,
Editoriale Le Lettere, pagg. 964, € 60,00


domenica 8 marzo 2020

LA VITA ASESSUATA DI UNO SCHIAVO D’AMORE

William Somerset Maugham (1874-1965), romanziere e commediografo fra i più popolari del Novecento, è stato un personaggio controverso soprattutto nell’ambiente della critica.
Benché a differenza di molti suoi colleghi non ne abbia mai fatto mistero, pochi sanno che W. S. Maugham è stato a lungo un importante agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica. È evidente pertanto che il giudizio sullo scrittore, non deve essere condizionato dalla sua biografia; in questa trappola sono caduti molti suoi critici, ma non Glenway Wescott, suo estimatore, che ha messo in guardia il lettore dal non cercare tra le pagine di Maugham profondità di pensiero troppo in evidenza; ma di “imparare a riconoscere la sua idea in quell’involucro di realtà -un episodio, un dialogo, una breve sequenza di causa ed effetto- dove hanno origine le idee”. E questo vale anche e soprattutto per il celeberrimo “Schiavo d’amore” uscito nel 1915.
D’altra parte lo stesso Maugham avverte: “… Non mirai più a una prosa ingioiellata, a una ricca tessitura, per il cui dominio avevo in precedenza sprecato molto lavoro in vani tentativi: cercai al contrario chiarezza e semplicità. … Of Human Bondage non è un’autobiografia, ma un romanzo autobiografico: realtà e finzione sono inestricabilmente frammiste; le emozioni sono mie, ma non tutti i fatti sono riferiti come avvennero, e alcuni di quelli attribuiti al mio eroe non provengono dalla mia vita bensì da quella di persone che conoscevo intimamente”. Maugham è comunque maestro di scrittura descrittiva sia di personaggi, caratteri e stati d’animo, che di luoghi e paesaggi. “L’estate piombò sul paese come una conquistatrice. Ogni giornata era bella. L’azzurro arrogante del cielo eccitava i nervi come uno sprone. Nell’Anlage gli alberi erano di un verde crudo e violento; e le case, quando il sole le avvolgeva, avevano un biancore abbagliante che stimolava fino a far male”.
“Schiavo d’amore” è un titolo fuorviante (anche se una volta tanto rispetta l’originale), il protagonista Philip Carey è sì un uomo ossessionato da una donna (nemmeno tanto fatale nel senso comune del termine) ma non troverete tra le 619 pagine del romanzo una sola scena di erotismo. Siamo al cospetto di un romanzo completamente asessuato, dove l’autore quando descrive i personaggi (donne o uomini che siano) indugia più sui difetti -anche fisici- che sui pregi; soprattutto quando si tratta di donne, sembra godere a descriverne la bruttezza o la malagrazia. Negli atelier dei pittori parigini che frequenta, trova solo modelle di “scarsa venustà”, fatto salvo lo spagnolo Miguel che lo intriga e lo inibisce. Parlando della sua “prima volta” con Miss Wilkinson, Philip non trova di meglio che definire “grottesca” l’immagine dell’amante in sottoveste.
Philip teme le donne ardite, che i suoi amici invece amano frequentare; “aveva sempre nascosto, sotto un altero disdegno, il terrore di cui quelle ragazze lo colmavano. La sua fantasia e i libri che aveva letto gli ispiravano il desiderio di un atteggiamento byroniano, ed egli era lacerato tra una morbosa timidezza e la convinzione di avere verso sé stesso l’obbligo di essere galante”.
Philip è affetto da piede equino e tale handicap ha ossessionato e condizionato la sua adolescenza, per giunta vissuta da orfano adottato da uno zio vicario di provincia. Da questa formazione religiosa forzata, Philip trae per fortuna solo la passione per la lettura grazie alla ricca biblioteca dello zio: “Insensibilmente si formò in lui l’abitudine più deliziosa del mondo, l’abitudine alla lettura. Philip non sapeva di procurarsi così un rifugio da tutte le afflizioni della vita; e nemmeno sapeva di creare per sé un mondo irreale che avrebbe fatto del mondo reale quotidiano una fonte di amare delusioni”.
I problemi con lo zio cominciano quando in Philip inizia a vacillare e poi a crollare definitivamente la fede. “…aveva cominciato a rendersi conto di essere la creatura di un Dio che apprezzava i disagi dei suoi fedeli”. “Ma Philip non poteva vivere a lungo nell’aria rarefatta delle cime. Ciò che gli era accaduto la prima volta che era stato preso dall’emozione religiosa si ripeté adesso… spossato dalla violenza del suo fervore, a un tratto ebbe l’anima invasa da una strana aridità. Cominciò a dimenticare la presenza di Dio, che gli era sembrata così avvolgente...”, “…il fatto era che aveva smesso di credere non per questa o quella ragione, ma perché non aveva il temperamento religioso. La fede gli era stata imposta dall’esterno. Era una questione di ambiente e di esempio. Un nuovo ambiente e un nuovo esempio gli davano l’opportunità di trovare se stesso. Si spogliò della fede della sua fanciullezza molto semplicemente, come di un mantello che non gli occorreva più”; comincia a disprezzare coloro che continuano a credere “perché si accontentavano della vaga emozione che chiamavano Dio, e non facevano il passo ulteriore che a lui sembrava così ovvio”. Inevitabile giunge anche l’odio per le donne religiose che “indossavano la loro religione con arroganza e i loro stretti rapporti con la Chiesa le inducevano ad adottare un atteggiamento leggermente dittatoriale con il resto dell’umanità”.
Dopo un soggiorno a Parigi, non a caso ispirato dalla lettura di Scènes de la vie de bohème di Henri Murger (che, guarda un po’, Maugham definisce: “assurdo, mal scritto, affascinante capolavoro”), Philip ha uno scontro violento con lo zio vicario che definisce i suoi due anni parigini “tanto tempo perso”. Personaggio chiave della sua formazione nel periodo parigino era stato Cronshaw, classico spiantato poeta maledetto, che stazionava permanentemente al caffè Closerie des Lilas dispensando perle di saggezza ad amici e avventori. Cronshaw contribuì a raffreddare l’amore per l’arte di Philip, liquidandola come un “rifugio per sottrarsi al tedio della vita”, di se stesso diceva: “Dovevo vivere nel Settecento, mi manca un mecenate. Avrei pubblicato le mie poesie a sottoscrizione, dedicandole a qualche nobiluomo. Come mi piacerebbe comporre distici rimati sul cagnolino di una contessa. La mia anima anela all’amore delle cameriere e alla conversazione dei vescovi”. Cronshaw rimproverava a Philip di aver gettato via la fede ma di averne conservata l’etica su cui essa si fondava. Convinto com’era che la sobrietà disturbasse la conversazione, enunciava senza indugio il suo motto: “Ciò che sono in grado di fare è l’unico limite di ciò che mi è lecito fare” e, preda di una forma di esoterismo etilico, riteneva di aver scovato il senso della vita nella trama dei tappeti persiani. Philip, grazie anche all’insegnamento scettico di Cronshaw, comincia anche a maturare posizioni nichiliste, arrivando a considerare lo Stato e l’individuo come due entità inconciliabili fino a considerare ogni uomo come “filosofo in proprio”.
Stanco e frastornato dall’humus parigino, messi da parte l’amore per la pittura e lo scrupolo di aver provocato il suicidio di una, solo apparentemente riottosa, aspirante pittrice, la sciatta Fanny Price, nonché reso tranquillo dal pensiero della cospicua rendita che la morte imminente dello zio gli avrebbe garantito, Philip si stabilisce definitivamente a Londra per completare gli studi di medicina. “Voglio andare a Londra, per cominciare davvero a vivere. Voglio avere esperienze. Sono stufo di prepararmi alla vita: adesso voglio viverla”.
A Londra riprende gli studi di Medicina e una sera trascinato da un amico, si reca in un caffè dove incontra la cameriera Mildred Rogers, della quale si innamora irragionevolmente, nonostante la ragazza lo tratti con indifferenza e manifesti disprezzo per la sua menomazione. Malgrado Mildred flirti apertamente con un altro avventore, tale Miller, accetta comunque di uscire con Philip, senza però mostrare alcun interesse per lui. Philip, al contrario, è sempre più ossessionato dalla ragazza, al punto di trascurare gli studi. Deluso per aver fallito un esame, Philip decide di chiedere a Mildred di sposarlo. Compra un anello e invita a cena la ragazza, ma quando le rivolge la sua proposta, Mildred risponde di aver già deciso di sposare Miller. Passa qualche mese e Philip sembra aver dimenticato Mildred. Ha conosciuto Nora, una scrittrice, che si è innamorata di lui e lo circonda di premure. Un giorno, invece, Mildred si presenta a casa di Philip in preda alla disperazione. Aspetta un figlio e Miller l'ha abbandonata. Philip decide di incontrare l'uomo per convincerlo a prendersi le sue responsabilità nei confronti della moglie e del figlio, ma Miller gli rivela di essere già sposato con un'altra donna e di non avere alcun obbligo nei confronti di Mildred. Philip non esita ad abbandonare l’onesta e innamorata Nora (“Ma alla fin fine l’importante era amare, più che essere amato”) e prende in casa Mildred assistendola nel parto, rimanendo deluso quando Mildred decide di affidare la neonata ad una balia. Preoccupato che la ragazza si annoi con lui, invita a cena uno dei suoi compagni di università, Griffiths, e assiste impotente alla corte sfacciata che questi fa a Mildred e alle volgari civetterie di lei. Quando il giorno seguente le rinfaccia il suo comportamento, Mildred gli annuncia che sta per partire con Griffiths per Parigi. Philip riprende i suoi studi e durante il suo tirocinio in ospedale (molto belle le pagine che descrivono la vita in ospedale dove “con l’avanzare del pomeriggio si manifestava un acre sentore di umanità… là non c’era né bene né male. Soltanto fatti. C’era la vita”) fa amicizia con un paziente, il bizzarro giornalista Thorpe Athelny; questi lo invita a casa sua ed incoraggia la simpatia fra sua figlia Sally e Philip.
Una sera, rientrato dall’ospedale Philip viene messo a conoscenza della morte di Cronshaw, la scomparsa del suo vecchio maestro lo porta a domandarsi perché gli uomini agiscano in un modo piuttosto che in un altro. “Agivano secondo le loro emozioni, ma le emozioni potevano essere buone o cattive; che portassero al trionfo o al disastro sembrava casuale. La vita appariva un inestricabile guazzabuglio. Gli uomini correvano di qua e di là, spinti da forze che non conoscevano; e ad essi lo scopo di tutto questo sfuggiva, era come se il loro affrettarsi fosse fine a sé stesso”.
La riflessione di Philip è profetica, ancora una volta, infatti, Mildred abbandonata anche da Griffiths, gli chiede aiuto, e Philip accetta di riprenderla in casa. Non la ama più, ma non riesce a staccarsi da lei. La sua freddezza preoccupa Mildred che teme di perdere il suo sostegno; la ragazza mette allora in atto un grossolano tentativo di seduzione, ma Philip la respinge disgustato. Il suo rifiuto eccita l'odio di Mildred, che lo insulta violentemente. L'indomani, durante l'assenza di Philip, vandalizza il suo appartamento, distrugge i quadri a cui lui teneva molto e tutti i suoi averi.
Ad aggravare la condizione di Philip ci si mette anche la Storia, scoppia in Sud Africa la Seconda guerra Anglo-Boera (molto belle le pagine che ne delineano contesto e svolgimento) che provoca un tracollo finanziario che distrugge anche i residui risparmi investiti da Philip in azioni. “Si faceva la Storia, e sembrava assurdo che un processo di tanta importanza influisse sulla vita di un oscuro studente di medicina”.
Philip, ridotto a uno stato di vagabondaggio, solo grazie all'aiuto di Athelny riesce a trovare un impiego in un negozio di abbigliamento. Lo stato d’indigenza e le difficoltà incontrate nel nuovo ambiente di lavoro, generano in Philip uno stato riflessivo che lo porta alla ricerca del senso della vita. “Si rallegrò di non credere in Dio, perché altrimenti quello stato di cose sarebbe stato intollerabile; ci si poteva conciliare con l’esistenza solo perché essa era priva di senso”. Si convince che l’uomo non è il culmine della creazione ma il frutto di una reazione fisica e che la vita non ha alcun senso. Ricorda una favola orientale che stabiliva che nella vita “…non c’era significato, e l’uomo vivendo non serviva alcun fine. Era irrilevante che nascesse o no, che vivesse o cessasse di vivere. La vita era insignificante, e la morte priva d’importanza. Philip esultò, come aveva esultato nell’adolescenza quando il peso della fede in Dio gli era caduto dalle spalle: gli sembrò di essersi sbarazzato dell’ultimo fardello di responsabilità, e di essere per la prima volta completamente libero. La sua irrilevanza si mutava in forza, ed egli si sentì a un tratto pari al destino crudele che sembrava perseguitarlo; infatti, se la vita era senza significato, il mondo era spogliato della sua crudeltà. Ciò che lui, Philip, facesse o non facesse non importava. Il fallimento era senza peso, e il successo senza valore. Lui era la creatura più trascurabile di quella massa pullulante di umanità che per breve tempo occupava la superficie della terra, ed era al tempo stesso onnipotente perché aveva strappato al caos il segreto della sua nullità… egli trasse lunghi respiri di gioiosa soddisfazione… da mesi non era così felice”. Torna alla metafora di Cronshaw -che ora gli appare meno oscura- e al tappeto persiano che gli aveva regalato: “Come il tessitore realizza un disegno senza altro fine che il piacere del suo senso estetico, così un uomo poteva vivere la propria vita; oppure, se egli era costretto a credere che le sue azioni non erano frutto di una sua scelta, l’uomo poteva pur sempre vedere nella sua vita un disegno; che non era necessario, né aveva utilità, ma era semplicemente una cosa fatta per proprio piacere”. “…Philip pensò che abbandonando il desiderio di felicità egli abbandonava l’ultima delle sue illusioni. La sua vita era orribile se misurata col metro della felicità, ma ora gli sembrava di trarre forza dal rendersi conto che si poteva misurarla con qualcos’altro. La felicità non contava, come non contava la sofferenza. L’una e l’altra contribuivano, come ogni dettaglio della vita, all’elaborazione del disegno. Gli sembrò per un attimo di essere al di sopra dei casi della sua esistenza, e sentì che essi non avrebbero più potuto toccarlo come in passato. Qualunque cosa gli accadesse sarebbe stata un motivo in più da aggiungere alla complessità del disegno, e all’avvicinarsi della fine egli avrebbe gioito del compimento di quest’ultimo. Sarebbe stato un’opera d’arte, e non meno bella perché lui soltanto ne conosceva l’esistenza, e perché con la sua morte il disegno avrebbe cessato di esistere. Philip era felice”.
Muore lo zio e Philip entra in possesso dell’eredità che gli consentirà di riprendere gli studi e il lavoro in ospedale. Complice un’idilliaca vacanza presso i luppoleti del Kent in compagnia della famiglia Athelny, Philip comincia a guardare la giovane e bella Sally con un certo interesse; ormai Mildred è morta e lui è libero dalla sua ossessione, chiede la mano di Sally che felice accetta di sposarlo.
Di “Schiavo d’Amore” sono state prodotte ben tre versioni cinematografiche: nel 1934 regia di John Cromwell con Leslie Howard e Bette Davis; nel 1946 regia di Eldmund Goulding con Paul Henreid e Eleanor Parker e nel 1964 regia di Bryan Forbes & Ken Hughes con Laurence Harvey e Kim Novak.
Delle tre versioni rimane memorabile solo la prima, che tra l’altro impose Bette Davis come stella di prima grandezza.

Nota: l’edizione tascabile in mio possesso è la ristampa del 2012 nella collana “Gli Adelphi n.416” dell’edizione del 2007 nella “Biblioteca Adelphi”. La traduzione di Franco Salvatorelli è pessima senza alcuna cura dei tempi dei verbi, congiuntivi inesistenti, e con l’utilizzo di vocaboli di chiara matrice dialettale. Altra imperdonabile pecca di questa ristampa è la mancata datazione della prefazione dell’autore.
Suggerisco di ricorrere all’edizione Mondadori (1^ italiana) del 1940 tradotta da Ada Salvatore.
Franco Arcidiaco
William Somerset Maugham, Schiavo d’amore, Adelphi 2012, pagg. 620, € 15,00