Stasera nella sala conferenze della Biblioteca De Nava abbiamo parlato di Corrado Alvaro; la Biblioteca si è finalmente aperta in modo organico alla città, grazie all'impegno dell'Assessora alla cultura Patrizia Nardi e alla collaborazione entusiasta di Maria Pia Mazzitelli e Ninetta Bellantoni.
Oriana Schembari e Stefano Iorfida, presidente dell'Anassilaos, hanno coordinato e preceduto la lectio magistralis della studiosa italo-francese di Alvaro, Anne Christine Faitrop-Porta e la relazione della critica letteraria Francesca Neri.
La sala era stracolma, ed unanime è stato l'apprezzamento nei confronti delle due relatrici. La prof. Faitrop e la prof. Neri hanno dimostrato quanto sia opportuno e urgente liberare la cultura dalle grinfie delle conventicole malmostose e autoreferenziali. Corrado Alvaro è il più grande scrittore calabrese e i calabresi hanno il dovere di valorizzarlo e di diffonderne quanto più possibile il pensiero e l'opera. Quest'anno ricorre il 60° anniversario della morte, il 2016 può essere l'anno del riscatto alvariano. La squadra che abbiamo messo in campo si è dimostrata vincente, ma è necessaria la più ampia collaborazione. Rivolgiamo un appello in tal senso agli intellettuali che hanno a cuore sinceramente le sorti della civiltà e della cultura calabrese; noi non nutriamo gelosie e non rivendichiamo primogeniture, ma non tollereremo intralci e scorrettezze, né arroccamenti accademici. A giorni diffonderemo una prima bozza del nostro programma che sarà aperto al contributo di quanti vorranno condividere lo spirito della nostra iniziativa.
giovedì 25 febbraio 2016
martedì 23 febbraio 2016
MEMORIE DI ADRIANO E IL FASCINO DELLA STORIA DI ROMA
La grande lezione di Marguerite Yourcenar: insegnare la Storia attraverso la potenza coinvolgente della Narrativa e il fascino della Poesia.
Sono tornato a questo libro straordinario, dopo tantissimi anni, in seguito alla visione della riduzione teatrale di Giorgio Albertazzi, prodotta in dvd da Minimum Fax, che, sia pur eccellente, non marcia con lo stesso passo del libro. Il potente e suggestivo monologo, la cui prima edizione risale al 1951, trova la sua giusta dimensione più tra le pagine di un libro che tra le assi di un palcoscenico. Il merito va soprattutto all’incredibile capacità della scrittrice che, in un fittissimo tessuto narrativo di ben trecento pagine, riesce a tener ben desta l’attenzione del lettore senza un solo attimo di stanchezza. Adriano, sessantenne alle soglie della morte, si rivolge all’erede designato Marc’Aurelio e gli sciorina la storia della sua vita, strettamente intrecciata a una delle fasi più cruciali della storia dell’Impero Romano. Ne vengono fuori delle pagine intense che spaziano dalla felicità al dolore, dalla dissolutezza all’austerità, dalla tenerezza più sublime alla crudeltà più spietata, dalle nebbie della stregoneria alla luce abbagliante della ragione, dal dramma alla festa, dalla serenità della pace alla tensione della guerra, dalla contemplazione delle meraviglie della natura allo smarrimento di fronte ai misteri della vita. I crucci e i problemi che si pone questo grande personaggio sono quelli degli uomini di ogni tempo ed è sorprendente notare come anche i temi geopolitici più scottanti (Iraq, Medioriente, Balcani, Nordafrica) del secondo secolo siano gli stessi del ventunesimo, così come le difficoltà delle campagne d’Asia (Daci, Sarmati, etc), con la gestione mirata e alternata delle varie bande etniche, richiamano gli sciagurati interventi occidentali in Afghanistan dei nostri giorni.
Adriano conglobava in sé la sapienza e la sensibilità della cultura greca (“Quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”) e il concreto e spietato realismo della cultura latina (“L’impero l’ho governato in latino… ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto” “La dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate” “Roma… l’atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, …il cigolio stesso degli organi della macchina del potere”). Era consapevole del ruolo che Roma aveva e avrebbe avuto per sempre nella Storia; la grandezza di Roma era testimoniata dalla sua docile mutevolezza: “Qualsiasi creazione umana che pretenda all’eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri”. “… altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo”. Sapeva benissimo che quello che Roma aveva seminato nel mondo in termini di civiltà, avrebbe costituito per tutti i popoli a venire le basi del progresso: “Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all’anarchia, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l’ultima città degli uomini”.
Adriano, su questo gran parte degli storici concordano, fu il migliore tra gli imperatori Romani; in un’epoca in cui il principale divertimento erano gli spettacoli sanguinolenti che si svolgevano al Colosseo, lui si poneva il problema di “leggi misurate in termini umane”; mitigò gli aspetti più violenti e odiosi della schiavitù e fece del rispetto delle opinioni altrui una ragione della sua vita e una regola del suo governo.
Giaceva indifferentemente con donne e uomini, ma l’amore vero lo provò solo verso l’adolescente Antinoo (“La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto”), che elevò, dopo la prematura morte, alle soglie della deità.
L’amore delle donne lo trovava fatuo e interessato (“… sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto”) e trovava limitata la loro visuale, duro il loro senso pratico, grigio il loro cielo “non appena cessa di ridervi l’amore”; come dargli torto, soprattutto considerando che queste parole gliele mette in bocca proprio una donna…
Riconosceva però un grande valore al ruolo della donna nella famiglia e nella casa, della quale doveva essere “la regnante dal potere illimitato”; promulgò leggi contro la violenza sulle donne e contro il matrimonio non consensuale.
Abile e coraggioso al fronte, sceglieva le truppe in base a quella che lui riteneva la più alta forma di virtù: “la ferma determinazione di essere utile”. Incarnava virtuosamente quella concezione della guerra che è propria di tutti i sovrani, ma alla quale solo pochi illuminati hanno creduto veramente: preparare la guerra per giungere alla pace più duratura.
Non aveva smanie di grandezza e valutava tutto sulla base della realpolitik (“Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell’impero, mi faceva l’effetto d’una escrescenza malsana, un cancro, un’idropisia che avrebbe finito per ucciderci”), (“A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?); era però perfettamente cosciente del suo ruolo e della sua funzione (“La mia vita privata mi commuoveva meno della Storia”) e si sentiva responsabile dei crimini di cui si erano macchiati alcuni dei suoi predecessori, Nerone in primis.
In campo religioso, lungimirante, e direi preveggente, detestava i cristiani (“Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta…”); guarda caso, la diffusione del loro credo sarebbe stata una delle principali cause del crollo dell’impero. Non era tenero nemmeno con gli ebrei, era convinto che il loro eterno conflitto con gli arabi fosse causato dai loro “furori religiosi”, dalla loro “liturgia singolare” e dall’“intransigenza del loro Dio”. Non gli riuscì il disegno di fare di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; “dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest’ultimo prevalga”.
Ricordo che siamo nel secondo secolo dc, e gli ebrei zeloti svolgono nei confronti dei romani lo stesso identico ruolo che oggi svolgono i palestinesi nei loro confronti; appare incredibile leggere questa frase: “… l’ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare”, stiamo parlando della striscia di Gaza!
Profetico, si lascia andare: “Se sedici anni del regno d’un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro”.
Adriano amava le religioni romane “vaghe e venerabili”, purificate da intransigenze e riti tribali, che avevano il merito di associare misteriosamente la gente ai sogni più antichi dell’uomo e della terra ma “senza inibirci una spiegazione laica dei fatti, un’intuizione razionale della condotta umana”.
Rivoluzionaria era la sua concezione della Giustizia: “Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione, … se troppo complicate sono rese inefficaci dall’ingegnosità umana”. “Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici”. “Le leggi mutano meno rapidamente dei costumi, pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli”, “Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva…”.
Era convinto che i cattivi si potessero rendere “inoffensivi a forza di bontà” e arrivò a perdonare uno schiavo che aveva tentato di pugnalarlo a tradimento, dopo averlo disarmato a mani nude non esitò a liberarlo.
Anticipò di parecchi secoli la riforma agraria, “Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d’ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all’agricoltore che s’incaricherà di trarne buon partito”.
Incentivò le cooperative degli artigiani e assegnò alle truppe di frontiera il ruolo di educatori delle popolazioni confinanti.
Grande viaggiatore, creò un efficientissimo sistema di corriere postale a staffetta che gli consentiva di governare da ogni angolo dell’impero; quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, si definiva “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”.
Cultore della bellezza (“Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”), poneva gran cura nelle costruzioni e nelle ricostruzioni delle terre devastate dalle guerre o dalle calamità naturali. “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. “Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le biblioteche facevano venire in mente ad Adriano l’amata imperatrice Plotina, moglie del suo predecessore Traiano, che aveva istituito in pieno Foro Traiano una grande biblioteca e l’aveva denominata “Ospedale dell’anima”.
“Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre, il segreto delle sorgenti”.
“La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie piene di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d’un porticato…”.
La grande villa di Tivoli, che divenne la sua vera reggia, rappresentò l’apoteosi delle sue idee in materia di bellezza architettonica.
Gli inglesi, che se la tirano tanto, senza l’opera di Adriano, avrebbero ben poco da raccontare in termini di sviluppo civile, “Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa… io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell’isola situata ai confini del mondo conosciuto”. “… Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l’ipotesi d’uno Stato accentrato in Occidente, d’un mondo atlantico…”. Qualcuno lo racconti a Cameron e ai fautori della Brexit…
Il tramonto e la fine di Adriano si mantennero in linea con il personaggio, surrogò la mancanza di eredi naturali nominando il figlio adottivo del probo dignitario Antonino, che nel frattempo aveva lui stesso adottato; si trattava di quel Marc’Aurelio che governò per un ventennio, ma del quale rimangono notizie storiche e personali frammentarie e incerte.
Spirò a Baia, una frazione di Bacoli nel napoletano, il 10 luglio del 138; vi era stato condotto nella speranza che l’aria del mare alleviasse i suoi problemi respiratori.
“Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non essere destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri”.
Di fronte a un’opera di questo tipo, superata la fase dell’ammirazione e dello stupore, può legittimamente levarsi il dubbio che l’autore possa avere abusato di una certa discrezionalità, nel riportare così minuziosamente il pensiero del protagonista. Marguerite Yourcenar ha impiegato più di vent’anni a completare questo suo capolavoro; sono stati anni di studio e ricerca condotti con scrupolo e pazienza certosina. Bene ha fatto la Einaudi ad aggiungere in questa edizione del 1981 i “Taccuini di appunti” che, uniti a una ricca nota, consentono all’autrice di chiarire tutti i dubbi dei lettori più pignoli e pedanti.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi 1981
Giorgio Albertazzi, Memorie di Adriano. La voce dell'imperatore dal romanzo di Marguerite Yourcenar, Minimum Fax 2007
Sono tornato a questo libro straordinario, dopo tantissimi anni, in seguito alla visione della riduzione teatrale di Giorgio Albertazzi, prodotta in dvd da Minimum Fax, che, sia pur eccellente, non marcia con lo stesso passo del libro. Il potente e suggestivo monologo, la cui prima edizione risale al 1951, trova la sua giusta dimensione più tra le pagine di un libro che tra le assi di un palcoscenico. Il merito va soprattutto all’incredibile capacità della scrittrice che, in un fittissimo tessuto narrativo di ben trecento pagine, riesce a tener ben desta l’attenzione del lettore senza un solo attimo di stanchezza. Adriano, sessantenne alle soglie della morte, si rivolge all’erede designato Marc’Aurelio e gli sciorina la storia della sua vita, strettamente intrecciata a una delle fasi più cruciali della storia dell’Impero Romano. Ne vengono fuori delle pagine intense che spaziano dalla felicità al dolore, dalla dissolutezza all’austerità, dalla tenerezza più sublime alla crudeltà più spietata, dalle nebbie della stregoneria alla luce abbagliante della ragione, dal dramma alla festa, dalla serenità della pace alla tensione della guerra, dalla contemplazione delle meraviglie della natura allo smarrimento di fronte ai misteri della vita. I crucci e i problemi che si pone questo grande personaggio sono quelli degli uomini di ogni tempo ed è sorprendente notare come anche i temi geopolitici più scottanti (Iraq, Medioriente, Balcani, Nordafrica) del secondo secolo siano gli stessi del ventunesimo, così come le difficoltà delle campagne d’Asia (Daci, Sarmati, etc), con la gestione mirata e alternata delle varie bande etniche, richiamano gli sciagurati interventi occidentali in Afghanistan dei nostri giorni.
Adriano conglobava in sé la sapienza e la sensibilità della cultura greca (“Quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco”) e il concreto e spietato realismo della cultura latina (“L’impero l’ho governato in latino… ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto” “La dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate” “Roma… l’atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, …il cigolio stesso degli organi della macchina del potere”). Era consapevole del ruolo che Roma aveva e avrebbe avuto per sempre nella Storia; la grandezza di Roma era testimoniata dalla sua docile mutevolezza: “Qualsiasi creazione umana che pretenda all’eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri”. “… altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo”. Sapeva benissimo che quello che Roma aveva seminato nel mondo in termini di civiltà, avrebbe costituito per tutti i popoli a venire le basi del progresso: “Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all’anarchia, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l’ultima città degli uomini”.
Adriano, su questo gran parte degli storici concordano, fu il migliore tra gli imperatori Romani; in un’epoca in cui il principale divertimento erano gli spettacoli sanguinolenti che si svolgevano al Colosseo, lui si poneva il problema di “leggi misurate in termini umane”; mitigò gli aspetti più violenti e odiosi della schiavitù e fece del rispetto delle opinioni altrui una ragione della sua vita e una regola del suo governo.
Giaceva indifferentemente con donne e uomini, ma l’amore vero lo provò solo verso l’adolescente Antinoo (“La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto”), che elevò, dopo la prematura morte, alle soglie della deità.
L’amore delle donne lo trovava fatuo e interessato (“… sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto”) e trovava limitata la loro visuale, duro il loro senso pratico, grigio il loro cielo “non appena cessa di ridervi l’amore”; come dargli torto, soprattutto considerando che queste parole gliele mette in bocca proprio una donna…
Riconosceva però un grande valore al ruolo della donna nella famiglia e nella casa, della quale doveva essere “la regnante dal potere illimitato”; promulgò leggi contro la violenza sulle donne e contro il matrimonio non consensuale.
Abile e coraggioso al fronte, sceglieva le truppe in base a quella che lui riteneva la più alta forma di virtù: “la ferma determinazione di essere utile”. Incarnava virtuosamente quella concezione della guerra che è propria di tutti i sovrani, ma alla quale solo pochi illuminati hanno creduto veramente: preparare la guerra per giungere alla pace più duratura.
Non aveva smanie di grandezza e valutava tutto sulla base della realpolitik (“Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell’impero, mi faceva l’effetto d’una escrescenza malsana, un cancro, un’idropisia che avrebbe finito per ucciderci”), (“A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?); era però perfettamente cosciente del suo ruolo e della sua funzione (“La mia vita privata mi commuoveva meno della Storia”) e si sentiva responsabile dei crimini di cui si erano macchiati alcuni dei suoi predecessori, Nerone in primis.
In campo religioso, lungimirante, e direi preveggente, detestava i cristiani (“Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta…”); guarda caso, la diffusione del loro credo sarebbe stata una delle principali cause del crollo dell’impero. Non era tenero nemmeno con gli ebrei, era convinto che il loro eterno conflitto con gli arabi fosse causato dai loro “furori religiosi”, dalla loro “liturgia singolare” e dall’“intransigenza del loro Dio”. Non gli riuscì il disegno di fare di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; “dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest’ultimo prevalga”.
Ricordo che siamo nel secondo secolo dc, e gli ebrei zeloti svolgono nei confronti dei romani lo stesso identico ruolo che oggi svolgono i palestinesi nei loro confronti; appare incredibile leggere questa frase: “… l’ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare”, stiamo parlando della striscia di Gaza!
Profetico, si lascia andare: “Se sedici anni del regno d’un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro”.
Adriano amava le religioni romane “vaghe e venerabili”, purificate da intransigenze e riti tribali, che avevano il merito di associare misteriosamente la gente ai sogni più antichi dell’uomo e della terra ma “senza inibirci una spiegazione laica dei fatti, un’intuizione razionale della condotta umana”.
Rivoluzionaria era la sua concezione della Giustizia: “Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione, … se troppo complicate sono rese inefficaci dall’ingegnosità umana”. “Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici”. “Le leggi mutano meno rapidamente dei costumi, pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli”, “Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva…”.
Era convinto che i cattivi si potessero rendere “inoffensivi a forza di bontà” e arrivò a perdonare uno schiavo che aveva tentato di pugnalarlo a tradimento, dopo averlo disarmato a mani nude non esitò a liberarlo.
Anticipò di parecchi secoli la riforma agraria, “Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d’ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all’agricoltore che s’incaricherà di trarne buon partito”.
Incentivò le cooperative degli artigiani e assegnò alle truppe di frontiera il ruolo di educatori delle popolazioni confinanti.
Grande viaggiatore, creò un efficientissimo sistema di corriere postale a staffetta che gli consentiva di governare da ogni angolo dell’impero; quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, si definiva “un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore”.
Cultore della bellezza (“Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”), poneva gran cura nelle costruzioni e nelle ricostruzioni delle terre devastate dalle guerre o dalle calamità naturali. “Costruire significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. “Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d’un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le biblioteche facevano venire in mente ad Adriano l’amata imperatrice Plotina, moglie del suo predecessore Traiano, che aveva istituito in pieno Foro Traiano una grande biblioteca e l’aveva denominata “Ospedale dell’anima”.
“Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di ‘passato’, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre, il segreto delle sorgenti”.
“La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie piene di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d’un porticato…”.
La grande villa di Tivoli, che divenne la sua vera reggia, rappresentò l’apoteosi delle sue idee in materia di bellezza architettonica.
Gli inglesi, che se la tirano tanto, senza l’opera di Adriano, avrebbero ben poco da raccontare in termini di sviluppo civile, “Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa… io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell’isola situata ai confini del mondo conosciuto”. “… Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l’ipotesi d’uno Stato accentrato in Occidente, d’un mondo atlantico…”. Qualcuno lo racconti a Cameron e ai fautori della Brexit…
Il tramonto e la fine di Adriano si mantennero in linea con il personaggio, surrogò la mancanza di eredi naturali nominando il figlio adottivo del probo dignitario Antonino, che nel frattempo aveva lui stesso adottato; si trattava di quel Marc’Aurelio che governò per un ventennio, ma del quale rimangono notizie storiche e personali frammentarie e incerte.
Spirò a Baia, una frazione di Bacoli nel napoletano, il 10 luglio del 138; vi era stato condotto nella speranza che l’aria del mare alleviasse i suoi problemi respiratori.
“Mi rallegro che il male m’abbia lasciato la lucidità sino all’ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell’estrema vecchiezza, di non essere destinato a conoscere quell’indurimento, quella rigidità, quell’inerzia, quella atroce assenza di desideri”.
Di fronte a un’opera di questo tipo, superata la fase dell’ammirazione e dello stupore, può legittimamente levarsi il dubbio che l’autore possa avere abusato di una certa discrezionalità, nel riportare così minuziosamente il pensiero del protagonista. Marguerite Yourcenar ha impiegato più di vent’anni a completare questo suo capolavoro; sono stati anni di studio e ricerca condotti con scrupolo e pazienza certosina. Bene ha fatto la Einaudi ad aggiungere in questa edizione del 1981 i “Taccuini di appunti” che, uniti a una ricca nota, consentono all’autrice di chiarire tutti i dubbi dei lettori più pignoli e pedanti.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi 1981
Giorgio Albertazzi, Memorie di Adriano. La voce dell'imperatore dal romanzo di Marguerite Yourcenar, Minimum Fax 2007
giovedì 18 febbraio 2016
RIZZOLI, LA VERA STORIA DI UNA GRANDE FAMIGLIA ITALIANA
Al di la delle vicissitudini tremende che hanno portato al crollo di quello che per anni è stato il più grande gruppo editoriale d'Europa, il comm. Angelo Rizzoli è stato il capostipite della dinastia che meglio ha incarnato l'imprenditoria italiana del '900. Il Commenda, come tutti lo chiamavano, era cresciuto nell'orfanotrofio dei Martinitt ma, una volta conseguita la licenza elementare e imparato il mestiere di tipografo, dimostrò subito le sue grandi doti imprenditoriali avviando una tipografia che presto sarebbe diventata un impero. Il libro scritto in forma epistolare dai due nipoti Nicola e Alberto che, assieme al più famoso fratello di quest'ultimo Angelo, lo hanno seguito nell'avventura imprenditoriale, ripercorre tutte le vicende della famiglia e dell'impresa.
Il loro racconto delinea perfettamente, a volte anche in modo impietoso, il carattere di tutti i protagonisti e alterna gustose scene di vita familiare ad altrettanti gustosi aneddoti e particolari di vita aziendale. I due non nascondono certo i vezzi da miliardari che hanno contrassegnato la loro vita, e Alberto ci avrebbe potuto risparmiare quella disgustosa foto che lo ritrae sulla carcassa di un elefante appena ucciso in un Safari. Il libro comunque è godibilissimo perché dentro c'è gran parte della storia del novecento anche se vista da una posizione privilegiata. Il Commenda non dimenticò mai la sua origine e per tutta la vita si comportò da gran benefattore; ebbe la fortuna di non assistere al crollo del suo impero e pertanto il bilancio della sua vita fu veramente entusiasmante. Il suo motto era: "La ricchezza bisogna farsela perdonare". Angelo Rizzoli fu l'alfiere dell'editoria "pura", infatti non concepiva minimamente l'idea che l'industriale di un altro settore potesse diventare editore di libri e giornali; aveva visto benissimo, dopo la sua morte il settore finì nelle mani rapaci dei grandi manager che, nell'intento di piegare gli organi di stampa ai loro interessi, snaturarono e travolsero il mondo dell'editoria. La parte del libro in cui gli autori non hanno brillato è quella, guarda un po', che riguarda la ricostruzione dei fatti che portarono al coinvolgimento della famiglia nella vicenda della P2 di Licio Gelli e che fu preludio del crollo dell'impero. Bruno Tassan Din appare quasi come un personaggio marginale ed è nominato solamente due volte di soppiatto. Povero Commenda vaglielo a dire che oggi siamo arrivati al punto che la sua casa editrice è stata inglobata dalla Mondadori di quella famiglia Berlusconi, che è esattamente il simbolo di un modo di fare imprenditoria che lui detestava. A proposito: avete visto chi è l'editore di questo libro?
RIZZOLI, La vera storia di una grande famiglia italiana
di Nicola Carraro e Alberto Rizzoli
Mondadori, 2015
Il loro racconto delinea perfettamente, a volte anche in modo impietoso, il carattere di tutti i protagonisti e alterna gustose scene di vita familiare ad altrettanti gustosi aneddoti e particolari di vita aziendale. I due non nascondono certo i vezzi da miliardari che hanno contrassegnato la loro vita, e Alberto ci avrebbe potuto risparmiare quella disgustosa foto che lo ritrae sulla carcassa di un elefante appena ucciso in un Safari. Il libro comunque è godibilissimo perché dentro c'è gran parte della storia del novecento anche se vista da una posizione privilegiata. Il Commenda non dimenticò mai la sua origine e per tutta la vita si comportò da gran benefattore; ebbe la fortuna di non assistere al crollo del suo impero e pertanto il bilancio della sua vita fu veramente entusiasmante. Il suo motto era: "La ricchezza bisogna farsela perdonare". Angelo Rizzoli fu l'alfiere dell'editoria "pura", infatti non concepiva minimamente l'idea che l'industriale di un altro settore potesse diventare editore di libri e giornali; aveva visto benissimo, dopo la sua morte il settore finì nelle mani rapaci dei grandi manager che, nell'intento di piegare gli organi di stampa ai loro interessi, snaturarono e travolsero il mondo dell'editoria. La parte del libro in cui gli autori non hanno brillato è quella, guarda un po', che riguarda la ricostruzione dei fatti che portarono al coinvolgimento della famiglia nella vicenda della P2 di Licio Gelli e che fu preludio del crollo dell'impero. Bruno Tassan Din appare quasi come un personaggio marginale ed è nominato solamente due volte di soppiatto. Povero Commenda vaglielo a dire che oggi siamo arrivati al punto che la sua casa editrice è stata inglobata dalla Mondadori di quella famiglia Berlusconi, che è esattamente il simbolo di un modo di fare imprenditoria che lui detestava. A proposito: avete visto chi è l'editore di questo libro?
RIZZOLI, La vera storia di una grande famiglia italiana
di Nicola Carraro e Alberto Rizzoli
Mondadori, 2015
mercoledì 3 febbraio 2016
UNO SPETTRO SI AGGIRA PER LA CITTÀ…
…è lo spettro del Comunismo; è agitato da due cavalieri senza macchia e senza paura, uno biondo e l’altro bruno che, dopo aver assistito con regale indifferenza al saccheggio della città da parte delle bande neofasciste, hanno ripreso il tradizionale ruolo di guastatori della Sinistra. La sindrome da cui sono affetti è conosciuta ed è stata studiata a lungo in questi anni, si tratta di una forma di “Bertinottite” acuta, che porta chi ne è colpito a combattere aspramente gli esponenti del proprio schieramento che hanno l’ardire di voler governare, nel tentativo di favorirne la sconfitta e il conseguente trionfo degli avversari. Questi due ormai attempati giovanotti, che elettoralmente hanno costituito sempre un problema per gli uffici della prefettura, costretti a tarare i computer su parametri infinitesimali, indignati e incazzati “a prescindere” per ovvi motivi, sono convinti di rappresentare “l’alternativa”. Ma alternativa a che? Che analisi hanno fatto? Che progetto hanno? Le loro parole d’ordine coincidono sindacalmente con quelle dei Cobas e degli autonomi e politicamente con quelle dei grillini e dei leghisti.
Allora mi chiedo: che senso ha fare una guerriglia interna alla Sinistra quando non si hanno obiettivi su cui spostare l’opinione, le speranze e la forza dei militanti e degli elettori? Tenere sulla graticola Giuseppe Falcomatà, ignorando l’immane e proficuo lavoro che in poco più di un anno di governo ha consentito di gettare le basi per una rinascita duratura della città, è un’operazione irresponsabile che, qualora i nostri avessero conservato un pizzico di credibilità, rischierebbe di generare solo amarezza, scoramento e qualunquismo.
Ma per fortuna, come dicevo, le uscite di questi comunisti abusivi, amplificate strumentalmente da chi ancora non ha digerito il nuovo corso, cadono nel vuoto e servono solo a confermare l’ammonimento del vecchio Lenin: “Estremismo malattia infantile del comunismo”, anche se nel caso dei nostri due lo stato di infantilismo ha assunto le dimensioni di un’era geologica.
Guido Della Preda
Allora mi chiedo: che senso ha fare una guerriglia interna alla Sinistra quando non si hanno obiettivi su cui spostare l’opinione, le speranze e la forza dei militanti e degli elettori? Tenere sulla graticola Giuseppe Falcomatà, ignorando l’immane e proficuo lavoro che in poco più di un anno di governo ha consentito di gettare le basi per una rinascita duratura della città, è un’operazione irresponsabile che, qualora i nostri avessero conservato un pizzico di credibilità, rischierebbe di generare solo amarezza, scoramento e qualunquismo.
Ma per fortuna, come dicevo, le uscite di questi comunisti abusivi, amplificate strumentalmente da chi ancora non ha digerito il nuovo corso, cadono nel vuoto e servono solo a confermare l’ammonimento del vecchio Lenin: “Estremismo malattia infantile del comunismo”, anche se nel caso dei nostri due lo stato di infantilismo ha assunto le dimensioni di un’era geologica.
Guido Della Preda
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