venerdì 19 luglio 2019

QUELLA LETTERATURA UNIVERSALE CHE SI NUTRE DI PROVINCIA...

Se Macondo sta a García Márquez come Girifalco sta a Domenico Dara, vien da pensare che Dara abbia avuto gioco facile a delineare magistralmente i personaggi e le vicende di questo suo magnifico “Breve trattato sulle coincidenze”; lo rivela a un certo punto del libro un pensiero dello stesso protagonista (il postino Ulisse Stranieri, il cui nome sintomatico scopriremo solo nell’ultima riga del libro): “Il postino pensò che il morbo della paccìa che dal manicomio si propagava nel resto del paese avesse mietuto una nuova vittima”.
La vicenda si svolge alla fine degli anni ’60, quando le brame dei movimenti antimanicomiali faticano a giungere dalle parti di Girifalco, il cui sviluppo socio antropologico ha tratto invece enormi benefici dalla presenza del più importante manicomio calabrese. L’espediente narrativo di Dara è geniale e certamente originale e costituisce un brillante esempio di quel nuovo corso della letteratura calabrese che riesce finalmente a scrollarsi di dosso il marchio della calabresità e si sprovincializza, pur attingendo a mani basse a quell’inesauribile scrigno letterario custodito dal “piccolo mondo” (Fogazzaro docet) della provincia italiana. Pasquino Crupi diceva che non è necessario vivere in provincia per essere provinciali, Domenico Dara dimostra che non è indispensabile essere provinciali per narrare di provincia.
Il postino è un uomo solo al mondo, la madre è morta e il padre non l’ha mai conosciuto: “Suo padre era un’immensa lavagna nera di fronte alla quale se ne stava col gesso in mano, aspettando che qualcuno gli suggerisse cosa scrivere”. Il borsone del postino è l’equivalente della lampada di Aladino, aprendo le lettere di tutti i paesani scopre “un mondo straordinario in cui tutti sembravano avere una vita parallela fatta di confessioni, segreti, amori, dolori clandestini”. Questa attività, inoltre, gli consente di riempire la sua vita con quelle degli altri e di dare un senso alla propria esistenza; la natura, infatti, “lo aveva fornito della dote unica e straordinaria di imitare le scritture degli uomini” “il postino trovò lo sbocco pratico e utilitario della propria arte, perché avere una dote e non poterla usare è come non averla”; con questa attività non solo scopre “le vite degli altri” ma ne determina il corso dell’esistenza, recapitando lettere scritte ad arte per intrecciare relazioni sentimentali, consolare genitori disperati per il silenzio dei figli lontani, arrivando addirittura in un caso a nasconderne la morte, far dialogare un militante comunista con Berlinguer in persona o intralciare i loschi traffici di un sindaco corrotto e senza scrupoli. “La certezza di aver trovato il bandolo della matassa d’una vita fino ad allora ingarbugliata lo aiutò a interpretare e disciplinare le ferite del passato, rendendolo meglio disposto verso gli uomini e il mondo”. Ma il bandolo della matassa, secondo il postino, risiede anche e soprattutto nella dinamica delle coincidenze e nella funzione dei sogni. L’abitudine di annotare scrupolosamente tutte le coincidenze alle quali assisteva lo aveva portato a elaborare una specifica teoria: “La coincidenza è il sassolino lasciato sul sentiero per indicare la via del ritorno, l’incontrovertibile prova che noi ci troviamo nel punto in cui avremmo dovuto essere… La coincidenza è come una piccola lente d’ingrandimento che chiarisce il groviglio e riporta ordine e significato là dove sembra non ci sia altro che confusione e accidentalità. È come una finestra che si apre all’improvviso e ci fa vedere un paesaggio del quale non ci eravamo mai accorti, ci mostra una vita parallela che scorre intorno a noi e della quale non ci accorgiamo ma che attraverso le coincidenze ci manda i segnali della sua esistenza”. Per quanto riguarda i sogni, poi, la sua certezza è granitica: “i sogni condizionano e indirizzano le giornate dell’òmini, e noi viviamo in base a ciò che sognàmu”. Questo romanzo d’esordio rivela uno scrittore di straordinario livello che ha tutti i numeri per affiancare i grandi autori internazionali, la sua scrittura è così ricca di colori e sfumature dal rischiare la ridondanza; la sua vis narrativa è a volte talmente debordante dal condurlo alla ripetizione di concetti e suggestioni (vedi la metafora del cesellatore, quella del prof. Viapiana e della natura che tende sempre a livellare le misure o quella del marinaio che rifugge la tempesta). Parlavo prima di Marquez, ma i richiami conducono anche alla narrativa di casa nostra con personaggi e situazioni che sembrano usciti dalla penna di un Ercole Patti, di un Vitaliano Brancati o di un Corrado Alvaro. Altra straordinaria peculiarità di Dara è costituita dall’intrigante miscela di italiano e dialetto che produce una lingua neologica comprensibile a ogni latitudine, pensate quanta assonanza c’è tra le “comari che chiatàvanu da una parte all’altra della strada” e le comari di oggi che “chattano” davanti a una tastiera. Per finire voglio sottolineare lo scoppiettante e immaginifico carosello di nomi e cognomi degli innumerevoli personaggi che popolano il romanzo, una per tutte la marqueziana “Carmela Buonodorosa” che “stendeva i panni sul balcone senza mutande e nel protendersi verso le corde le pieghe della gonna si infilavano tra le ferriate del balcone e là rimanevano, svelando visioni che facevano mancare il respiro. Quand’era ragazzo Carmela abitava di fronte a casa sua, e fu allora che s’innamorò delle sue carni abbronzate, degli scamiciati trasparenti, delle mutande di pizzo stese ad asciugare, il suo segreto oggetto del desiderio, che quando ancora sgocciolavano passava sotto in modo che l’acqua gli cadesse sulla bocca, gustandola e fantasticando sulla natura del rivolo”.
Emozionante, infine, l’omaggio al nostro grande poeta Lorenzo Calogero, anch’egli appassionato scrittore di lettere d’amore (Mandai lettere d’amore/ai cieli, ai venti, ai mari/a tutte le dilagate/forme dell’universo); Dara fa incontrare il postino con il poeta che si trova rifugiato, a seguito di una delle frequenti sortite da Villa Nuccia, nel vicino paese di San Floro e lo inserisce nella narrazione con una delle sue trovate funamboliche, bevono un caffè assieme “Calogero cuoremigrante versò il caffè nelle tazzine…” e il postino ne scopre la vera identità quando gli chiede il documento per recapitargli una lettera. Un universo fantastico ma tremendamente reale; un mix geniale di fantasia, sogno e vita vissuta che coinvolge e strania il lettore ad ogni capoverso.
L’altro grande merito della narrativa di Dara è di essere “’ndrangheta free”, non vi aspettate pertanto lodi sperticate da parte della corrente mainstream di critici, giornalisti e politici pronti e proni nei confronti dei frequenti parti letterari di magistar e professori-cultori-della-materia di ogni ordine e grado.
Franco Arcidiaco
Domenico Dara, Breve trattato sulle coincidenze, Nutrimenti. Roma, 2014, pagg. 368 € 19,00



In morte di Paolo Pollichieni 7 maggio 2019 - In morte di Enrico Costa 29 giugno 2019 - In morte di Nicola Petrolino 25.11.19

IN MORTE DI PAOLO POLLICHIENI 7 maggio 2019
IN MORTE DI ENRICO COSTA 29 giugno 2019
Ciao Enrico, sei voluto partire alla ricerca di Selim e Isabella e nulla poteva più trattenerti; le tue particelle saranno già lì, miscelate in quelle acque mitiche del “mare tuum”. Il Mediterraneo, per te modo di essere, contenitore e cornice barocca di una civiltà unica e straordinaria, magica culla di estro e fantasia, stupore e invenzione, incanto stravagante e bizzarro, irregolare e accogliente. Da oggi le onde del Mediterraneo avranno una musica in più da suonare.
Franco Arcidiaco
IN MORTE DI NICOLA PETROLINO 25 novembre 2019
Ciao Nicola sei stato accontentato; coerente e risoluto come sei sempre stato, non ti andava proprio di affidare le tue spoglie a una folla di dolenti, pendente dalle labbra di un volenteroso e professionale ministro di culto, disposto a spiegare l’inspiegabile. D’altra parte il nostro Fernando Pessoa, ci aveva chiaramente spiegato che la vita terrena non è che un misero segmento del percorso che lo spirito dell’uomo svolge nell’eterno viaggio verso l’infinito. Da qui all’eternità innumerevoli altri approdi si apriranno ad accoglierci, noi viandanti delle stelle.
“La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. Non ha nido la menzogna. Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio.”
Oggi, nel foyer del Teatro Cilea, tempio di quella Cultura che tu hai incarnato nel senso più ampio del termine, grazie alla sensibilità del sindaco Giuseppe Falcomatà, abbiamo tenuto una cerimonia di commiato laica, priva di pomposa e rituale solennità, ma intensa, partecipata, consapevole e carica di pathos.
Eravamo lì, commossi e trepidanti, tutti i tuoi amici più cari, semplicemente per ringraziarti di tutto quello che ci hai regalato e per augurarti buon viaggio verso l’infinito.
Franco Arcidiaco

lunedì 22 aprile 2019

LA SCOPA DI DON ABBONDIO di LUCIANO CANFORA

Questo agile libello è un compendio straordinariamente utile a decodificare gli, altrimenti incomprensibili, meccanismi che hanno condotto l’umanità alla situazione attuale. Uno stadio generalizzato di caos politico, governato strumentalmente dal potere finanziario utilizzando le suggestioni populiste di governanti improvvisati. Un potere incurante delle sorti delle future generazioni, che pensa solo ad accumulare il massimo della ricchezza accompagnandoci presso il baratro. Ma per Luciano Canfora la lezione che ci viene dalla Storia è che, dopo l’esaurirsi di una fase storica (in questo caso la “rivoluzione” della democrazia), “maturano immancabilmente le condizioni per una nuova scossa: di quelle che a don Abbondio apparivano salutari colpi di scopa”. Il titolo del libro deriva infatti da un passo de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, capitolo XXXVIII: “È stata un gran flagello questa peste, ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più”.
Canfora, tra l'altro, opera nel testo una interessante rilettura di "Guerra e Pace" definendolo una sorta di strumento creativo lanciato come sfida di Tolstoj agli storici; è un approccio ai classici che trovo molto stimolante poiché conferma la mia convinzione che un ritorno alla lettura dei grandi capolavori della letteratura universale, che probabilmente non prendiamo in mano da decenni, è senz'altro utile poiché tra quelle pagine sono custodite delle rivelazioni che colpevolmente abbiamo dimenticato o, all'epoca della prima lettura, non avevamo colto. Ma Canfora si rivela comunque impietoso nei confronti di Tolstoj che alla fine "perde la sfida con se stesso e si concentra sui destini e le volontà dei singoli"; come impietoso è con i giornalisti nostrani che dovrebbero aiutarci a decodificare la realtà e ne sono incapaci, poichè si ritrovano sempre in balia del "celebre, diuturno, eroico conflitto tra spina dorsale e pagnotta". Canfora analizza il trionfo del populismo sovranista che è "agevolato dal baratro che si è venuto aprendo tra 'sinistra e popolo'". La sua convinzione è che le cause di questo trionfo risiedano nella abdicazione della sinistra ai compiti e ai fini per cui sorse, processo questo che consente ai nuovi "movimenti fascistici"di lucrare su un disagio vero; l'istanza di maggiore giustizia sociale è stata regalata alla destra: "il parafascismo leghista e lepenista si propone come paladino del popolo, mescolando torti e ragioni". E chissà comunque che, per quanto riguarda il nostro Paese, i mali non risalgano addirittura al Principe di Machiavelli e a quel terribile capitolo 18, per dirla con Norberto Bobbio, che invoca la separazione tra etica e politica. Per quanto riguarda poi il problema delle migrazioni, Canfora non esita a farne risalire le cause al colonialismo, controbattendo alla teoria di Goffredo Buccini che dalle pagine del Corriere della Sera aveva auspicato l'avvento di una fase di colonialismo solidale: "Per secoli l'Europa ha messo alla croce il resto del mondo, ora però è diventata buona, dunque è matura per un nuovo esperimento di colonialismo, questa volta buono. Immemore, forse, l'autore di tale pensiero, che la teoria del colonialismo civilizzatore fu già del fascismo e della Chiesa, in opposizione (strumentale) al colonialismo sfruttatore di stampo anglo-ispano-francese. È sappiamo come è andata a finire". Il vero padrone delle esistenze individuali oggi è l'onnipotente macchina del credito e nessun potere politico appare in grado di arginare o spezzare questa nuova catena. Ma dove veramente Canfora risulta impietoso è nell'analisi dei sessantottini: "Pensavano di reagire a un declino, e di 'fare la rivoluzione', ma erano in sostanza dei liberali effervescenti, che rinnovarono il costume, non la politica: spesso fervidi amministratori, una volta raggiunta l'età adulta, delle proprie fortune". L'analisi conclusiva a questo punto scaturisce quasi naturale: "Ad una sinistra sempre più 'civile', 'elegante', 'innocua', si è posta di fronte la faccia più dura, criminale e vincente, del capitale: quello parassitario-grandecriminale-finanziario, fuori controllo rispetto ad ogni entità o autorità (statale o sovranazionale) e capace di comprare tutto. Non ha patria, ha solo tentacoli". A suffragare le sue tesi, Luciano Canfora chiama all'appello nientedimeno che Palmiro Togliatti, Pietro Nenni e Thomas Mann, ponendo in appendice dei brevi testi tratti dalle loro principali opere, le cui argomentazioni si rivelano straordinariamente attuali ed efficaci.
Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio,
Editori Laterza, pagg. 98, € 12,00
Franco Arcidiaco

mercoledì 13 marzo 2019

STOP AL “FISCHIETTO DEI CANI”

È innegabile che ancora oggi esistano sacche di mentalità etnocentrica e limitata che si ostinano a ignorare la presenza di realtà culturali “diverse”; immaginare che gli attuali livelli di progresso nel campo della tecnica, dei costumi e delle istituzioni, si sarebbero potuti raggiungere senza la messa in campo di una rete di relazioni e di scambi interculturali è una vera follia. Ignorare la presenza di altre culture equivale a precludere la possibilità che preziosi patrimoni di saggezza e conoscenza, si mettano a confronto generando un reciproco arricchimento del rispettivo bagaglio culturale; il tutto indipendentemente dal tipo o livello di progresso singolarmente raggiunto. Le parole chiave del processo interculturale sono: contatto, conoscenza e scambio; è evidente che la fase più delicata è proprio quella del contatto poiché produce fenomeni di reciprocità, di compromesso, di trasformazione, di recepimento dei modelli altrui che conducono a forme di revisione sincretica del proprio apparato ideologico. È necessario pertanto un alto livello di maturità, innescato in un modello culturale consolidato sia dal punto di vista storico che istituzionale.
L’antichità fornisce innumerevoli esempi di virtuosi scambi interculturali, fin dai tempi dell’impero romano e dei viaggi esplorativi di Marco Polo, dalle aperture della dinastia Ming in Cina e dell’epoca d’oro dell’Islam in Spagna e in Sicilia, per arrivare ai grandi flussi migratori, uno per tutti quello verso l’America, che hanno fatto degli Stati Uniti d’America la prima potenza mondiale. Purtroppo il terreno sul quale si registrano i più grossi ostacoli nel processo di amalgamazione culturale è quello religioso e le cause, secondo me, risalgono alla frattura antropologica determinata nei paesi del terzo mondo dai processi di evangelizzazione operati dai missionari cristiani. Il colonialismo cristiano ha travolto usi, costumi e tradizioni di intere nazioni e continenti, provocando un collasso identitario che è alla base dei gravi problemi di sottosviluppo che affliggono soprattutto i paesi africani. Le religioni dovrebbero una volta per tutte liberarsi dalle varie forme di spocchioso dogmatismo che le connota, abbandonare ogni tentazione di intrusione nel potere temporale e dedicarsi solo ed esclusivamente alla sfera etica e spirituale. Oggi a farne le spese, per una sorta di bizzarra legge del contrappasso, sono soprattutto i fedeli come dimostrano i recenti episodi che hanno portato alle stragi di ebrei a Pittsburgh e di cristiani copti in Egitto. I politici dal canto loro devono sfuggire alla tentazione di utilizzare il “fischietto dei cani” (“the dog whistle”); se ne parla molto in questi giorni dopo la strage degli ebrei in America per indicare la cattiva abitudine di alcuni politici di camuffare messaggi che istigano all’odio razziale o religioso all’interno di un discorso apparentemente normale. Per esempio quando un politico, prendiamone uno a caso…, dice che i globalisti vogliono aprire le frontiere consentendo ai migranti di invadere il paese e minacciare lo stile di vita dei cittadini, è facile che succeda che in una nazione armata come l’America o in una che tende ad armarsi come l’Italia sognata dall’attuale governo, un fanatico prenda il fucile e vada in sinagoga a sparare. Rispetto degli altri, tolleranza e amore per il prossimo, regole semplici che non fanno più parte del dizionario del vivere quotidiano.
N.B. Articolo rifiutato da “L’Avvenire di Calabria”
Franco Arcidiaco