sabato 30 giugno 2012
TOMMASO ROSSI E L’IMPEGNO TOTALIZZANTE DELLA POLITICA
“Se c’è una cosa che oggi, dopo una milizia così lunga ed un impegno così forte ed appassionato, rimetterei in discussione in modo problematico è se sia stato giusto vivere la politica in maniera così totalizzante. E’ un punto di fondo per chi ha fatto le scelte che ho fatto io… A tutti i momenti della mia quotidianità si è sempre sovrapposto il Partito, questa volta con la P maiuscola. Al partito era naturale sacrificare esigenze familiari e rapporti sociali.” Con questa riflessione, Tommaso Rossi, storico leader del PCI calabrese scomparso ieri a Reggio all’età di 85 anni, chiudeva la sua biografia Il lungo cammino. È una riflessione comune a molti esponenti politici della sua generazione ed a pochissimi di quelle successive e si riferisce al modo in cui quei militanti affrontavano il proprio presente storico. Paradossalmente negli ultimi anni il dibattito pubblico-privato è tornato in auge ma, molto più miseramente, in riferimento alle mirabolanti imprese sessuali dell’ex presidente del consiglio. Lo slogan “il privato è politico” era uno dei dogmi del ’68, un monito per i militanti che, anche nella vita privata, dovevano tener conto degli obblighi derivanti dalla delicatezza della missione che era stata loro assegnata. Tommaso Rossi era nato a Cardeto nel 1927 e aveva partecipato alla Resistenza come volontario nel Corpo Italiano di Liberazione quando ancora non aveva 17 anni. Iscritto al PCI dal 1944, è stato segretario della Federazione reggina e catanzarese e del Comitato regionale. Ha fatto parte del Comitato Centrale del PCI dal 1968 al 1984. Durante le occupazioni delle terre del 1950 è stato arrestato a Taurianova; stessa disavventura l’anno dopo in occasione di uno sciopero studentesco anti-Usa. È stato consigliere comunale a Reggio, Consigliere Regionale per quindici anni e, dal 1985 al 1989, parlamentare europeo. Anche da “pensionato” della politica non ha mancato di far sentire la sua voce, anche attraverso gli schermi di RTV, e con la partecipazione attiva a dibattiti e iniziative politiche e culturali. La vita di Tommaso Rossi non è stata una tranquilla passeggiata e, purtroppo, alle difficoltà e ai contrasti del lavoro politico ha dovuto sommare le vicissitudini della vita privata; dalla morte del giovanissimo fratello Ninetto (di tre anni più grande di lui), a quella, dolorosissima, della sua amata secondogenita Lidia. In questi ultimi anni, poi, ha vissuto il dramma della lunga malattia della moglie Anita e della cognata Silvana Croce, entrambe storiche militanti femministe del Pci, che ha assistito con amorevole dedizione. Il “privato” quindi ha presentato il suo conto al “politico” ed è stato un conto pesante che però non ha scalfito minimamente la rocciosa volontà di Tommaso e la passione francescana con la quale ha svolto il suo ruolo. Anche nei periodi in cui non esercitava alcuna funzione ufficiale, Rossi era percepito come “l’eminenza grigia” del PCI calabrese. Ho militato nella sua stessa sezione, la mitica “Nino Battaglia” di Tremulini, che era considerata il laboratorio della politica reggina; quando noi giovani militanti eravamo invitati a partecipare agli “attivi” con i dirigenti, passavamo notti insonni a preparare gli interventi, altro che esami universitari… Una dimensione della politica che ha forgiato una classe dirigente che ha saputo mantenere la barra dritta nei duri anni della strategia della tensione e delle piazze italiane insanguinate dai servizi segreti occidentali. Un patrimonio che è stato spazzato via dalla scellerata svolta della Bolognina, che ha cancellato con un colpo di spugna l’unico partito politico del quale la democrazia italiana non aveva alcun motivo di vergognarsi. Negli ultimi anni ho frequentato assiduamente Tommaso in occasione della pubblicazione della sua autobiografia presso la mia casa editrice. Mi ha consegnato il primo manoscritto con grande umiltà, dichiarandosi disponibile ad accettare le mie eventuali osservazioni; mi sono subito reso conto che il lavoro era scisso nettamente in due parti, la prima nella quale, dimostrando anche una grande vena letteraria, descriveva, con forza suggestiva, le condizioni delle popolazioni contadine aspromontane riassumendo i temi del pensiero meridionalista; la seconda nella quale ricostruiva la storia del PCI calabrese inquadrandola contestualmente agli eventi nazionali ed internazionali. Dopo un primo esame del testo gli ho detto che la parte politica mi sembrava condotta con un tono un po’ ecumenico, non mi sembrava infatti di ravvedere traccia delle tensioni e delle lotte, anche aspre, che avevano contrassegnato il partito soprattutto negli anni ’70. Non avevo fatto i conti con la quintessenza del Pci. Tommaso Rossi che incarnava, anche fisionomicamente, la figura del dirigente comunista integerrimo, aveva trascritto la storia alla luce del “centralismo democratico”, quella sana dottrina che consentiva al partito di far trapelare dalle stanze delle federazioni una politica unitaria, che era però figlia di un dibattito acceso e veemente del quale nulla doveva trapelare all’esterno. Emblematiche sono le pagine in cui Rossi parla della rivolta di Reggio; senza esitazione spazza via ogni tentativo di sdoganamento della rivolta da parte della Sinistra, la bolla come operazione eversiva e ne giustifica la dura depressione da parte dello stato. Una volta uscito il libro, Tommaso si è impegnato, in un gravoso tour di presentazioni per tutta la Calabria raccogliendo consensi unanimi ed entusiastici. Figure come quella di Tommaso Rossi sono l’emblema della buona politica, della quale purtroppo oggi non si intravede traccia. Con la scomparsa di personaggi come lui, la Sinistra non perde solo dei grandi dirigenti ma anche le proprie radici; quelle radici che gli attuali leader, che si definiscono di sinistra solo per distinguersi dall’altra parte politica, tendono ad ignorare fino a rinnegare il valore delle basi teoriche ed etiche dell’ideologia comunista. Voglio sperare che ai funerali di Tommaso, vecchi e giovani militanti, in uno scatto di dignità, non abbiano remore a sventolare le bandiere rosse ed intonare L’Internazionale e Bandiera Rossa.
domenica 10 giugno 2012
NON C'ERA BISOGNO DI SCOMODARE GUCCINI...
Se c'è ancora qualcuno che non crede al valore degli ebook, questo libro è fatto apposta per fargli cambiare idea. Parlo del "Dizionario delle cose perdute" di Francesco Guccini edito da Mondadori nella paracula collana denominata "libellule". Il libro ha una veste grafica eccezionalmente intrigante, riprende il logo di un pacchetto di sigarette in voga negli anni '60 (le "Nazionali Esportazioni") e sprigiona un fascino vintage irresistibile per quelli come me, che Camilleri definirebbe "sessantini". L'ho individuato subito in libreria e l'ho portato alla cassa come un automa, senza nemmeno sfogliarlo e/o annusarlo. Centoquaranta pagine di ricordi scritti con uno stile da "blogghista" di provincia, dove solo raramente s'intravede il magnifico estro gucciniano. Probabilmente il maestro ha tenuto troppo a lungo nel cassetto l'ideona e poi l'ha fatta pubblicare in fretta e furia quando si ė reso conto che, come minimo, gliela avevano già rubata un paio di migliaia di persone. A fine lettura ti ritrovi in mano un bell'oggetto che ti è costato dieci euro ma che fatichi a ritener degno di essere ospitato tra gli scaffali della tua biblioteca, avresti fatto meglio ad acquistarlo in formato ebook, spendendo la metà della cifra, te lo ritroveresti sempre sottomano pronto da spiluccare in caso di attacco di irrefrenabile nostalgia senile. Il libro, come dice lo stesso autore è fatto per quelli che "...oggi, non tanto più sereni ma, diciamo, distaccati, vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via." Nei vari capitoli, Guccini sciorina tutta una serie di episodi di vita vissuta, contrassegnati dalla presenza di oggetti ormai scomparsi e di modi di fare conseguenti al loro utilizzo che, inevitabilmente, finiscono per scatenare in chi legge (oltre a prevedibili tempeste emotive) cascate di frammenti mnemonici col rischio della deriva patetica sempre in agguato. Qual è il senso di un'operazione editoriale del genere? Diciamo subito che, fatta dal principale editore italiano, è paradigmatica dello stato in cui versa l'editoria nazionale. I bestseller di oggi sono confezionati in laboratorio dagli Editor delle principali case editrici. Fino a qualche anno addietro in Italia il grande bestseller appariva imprevedibile, contrariamente a quanto succedeva nel mondo anglosassone dove gli "ingegneri di storie" costruivano con grande abilità successi un po´ tutti uguali. Si pensi ai bestselleristi "seriali", come Wilbur Smith, Tom Clancy, Stephen King o, addirittura, a quelli "postumi", come Robert Ludlum, che, anche da morto, ogni anno piombava in classifica con un nuovo libro. In Italia, diciamo da Camilleri in poi, si è scoperto l'arcano e le squadre di ghostwriter italiane si sono via via sempre più infoltite e specializzate. Camilleri prima, Faletti poi e quindi, ciliegina sulla torta, Gomorra, hanno segnato il nuovo corso dell'editoria commerciale italiana. Oggi il prodotto-libro è un oggettino perfetto fatto apposta per non sfigurare negli scaffali di quei caotici bazar che sono diventate le grandi librerie italiane. Provate a entrare in una delle nuove Feltrinelli delle grandi stazioni e vi troverete nel punto di arrivo della parabola culturale della sinistra italiana: dal traliccio di Segrate, dove trovò la morte il rivoluzionario-romantico-sognatore Giangiacomo, il capostipite, al vortice consumistico in cui è precipitata la sua creatura per mano dei suoi avidi eredi. Oggi le Feltrinelli rifiutano i libri degli editori indipendenti italiani e non accettano più le riviste alternative, alle quali un tempo dedicavano un'intera sezione delle librerie; in compenso ospitano in prima fila, oltre a tutta la paccottiglia di cui sopra e a gadget di ogni tipo, i frutti di quella squallida operazione di onanismo editoriale inventata dal gruppo "Repubblica-L'Espresso" (a proposito di degenerazione della Sinistra...) che risponde al nome de "Il mio libro.it". Schiere di improbabili scrittori-poeti-saggisti si ritrovano tra gli scaffali delle Feltrinelli con libri auto pubblicati (e auto pagati) in un delirio narcisistico e non si rendono conto di essere vittime di una delle più squallide operazioni commerciali partorite da questo agonizzante scorcio di post capitalismo. Nel frattempo i piccoli e medi editori, che ancora si ostinano a pubblicare libri di qualità e a coltivare un rapporto corretto e paritario con gli autori, annaspano tra le maglie di una distribuzione soffocante e monopolista. Dispiace che in questo meccanismo sia rimasto incastrato anche un guru come Francesco Guccini. Il suo "Dizionario" è stato preceduto, qualche anno addietro, dal "Mi ricordo" di Matteo B. Bianchi (2004) che a sua volta aveva mutuato le idee dell'americano Joe Brainard ("I remember", 1970) e del francese Georges Perec ("Je me souvien",1978), libri che altro non sono che un elenco di ricordi, senza un ordine preciso, né logica. Tuffi nella memoria individuale di chi scrive, che offre al lettore uno specchio nel quale ritrovare abitudini, oggetti, personaggi e luoghi sepolti nel tempo. Io stesso ho nel cassetto, da oltre dieci anni, un lavoro del genere ma, non essendo Guccini, dubito di aver mai l'occasione di pubblicarlo, a meno che non decida di ricorrere prima o poi alla pratica onanistica suggerita dai compagni di "Repubblica" e alla quale ha ceduto di recente anche il vecchio amico Nando Minnella.
Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute
Mondadori 2012, Pagg. 144, euro 10,00
Francesco Guccini, Dizionario delle cose perdute
Mondadori 2012, Pagg. 144, euro 10,00
SANDRO, DEMI E LA "MEGLIO GIOVENTÙ" REGGINA
Andando avanti con gli anni ti ritrovi come in una trincea della prima guerra mondiale, un colpo improvviso e vedi scomparire l'amico che ti stava a fianco con il quale avevi appena condiviso un sorriso, una battuta, un pensiero, un gesto affettuoso, una bevuta... Gli anni t'induriscono e riesci in qualche modo a farti una ragione della scomparsa di persone con le quali non avevi una frequentazione costante, ma che sapevi li' pronte a ricambiare un saluto sorridente al primo incontro o a scambiare un'opinione quando se ne presentava l'occasione. Conoscevo Sandro Velardi dalla meta' degli anni '70, ai tempi della comune militanza nel PCI; un'amicizia nata tra le stanze della mitica sezione "Battaglia" di Tremulini, impregnate di fervore politico e fermento culturale che davano vita a interminabili serate di discussioni e dibattiti. Serate che finivano, immancabilmente, all'aria aperta, tra le strade del quartiere, alla ricerca di un bar o meglio di una "putìa" per una sana bevuta chiarificatrice. La nostra amicizia si era consolidata con il comune impegno nella conduzione del Circolo del cinema "Pier Paolo Pasolini", presso l'aula magna della Scuola Carducci. Circolo che aveva la peculiarità, e Demi Arena lo ricorderà, di coinvolgere giovani di varie appartenenze politiche; era questo un imperativo categorico e più di una volta noi giovani fondatori del circolo ci siamo opposti ai tentativi dei dirigenti della "Battaglia" di strumentalizzarlo politicamente. Gli anni sono passati vorticosi, gli impegni professionali e i giri della vita ci hanno allontanato, ma sapevamo reciprocamente di noi grazie agli innumerevoli amici comuni, e ci "leggevamo" vicendevolmente tra le pagine dei giornali ("Strill" in primis) che ospitavano i nostri interventi. Gli interventi di Sandro, pur nel rispetto del ruolo istituzionale che ricopriva, erano di una chiarezza e di una civiltà esemplari e non davano alcun adito a fraintendimenti circa le sue idee di uomo di "sinistra". Giustamente Demi Arena lo ha voluto ricordare così, come uomo coerentemente e civilmente schierato ma sempre al servizio della città. Mi ha molto colpito l'intervento del Sindaco, a cui mi lega una cara amicizia nata contemporaneamente a quella con Sandro. La nostra comune formazione, umana e civile, risale a quegli anni "formidabili", che giustamente Demi definisce "anni che ci avevano visti giovani speranzosi di poter incidere in maniera significativa nella nostra società... quando la militanza non portava a scontrarsi, bensì a ricercare lo scontro dialettico sempre ad alto livello intellettuale". Il clima era veramente questo, e bene ha fatto Demi a ricordarlo, sentirlo parlare di "eskimo" (quanti giovani di oggi sanno cos'è?) e della Via Pennsylvania (stradone del quartiere Tremulini, dove si affacciano i cortili che hanno assistito complici alla nostra crescita) mi ha provocato una forte emozione ed ha acuito il dolore per la scomparsa di Sandro, "uno di noi". A Demi Arena, che ancora una volta ha dato prova della sua grande signorilità, va il sincero augurio che gli anticorpi trasmessigli da quegli anni formidabili, lo aiutino ad attraversare indenne quel verminaio a cui è ormai purtroppo ridotta la politica cittadina.
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