lunedì 11 ottobre 2021

IL POLITICALLY CORRECT CHE INQUINA LA LETTERATURA

Assegnato il premio Nobel 2021 per la Letteratura, la vittoria è andata a Abdulrazak Gurnah, tanzaniano, “per la capacità di raccontare a fondo gli effetti del colonialismo senza compromessi ma con compassione (sic!)”. Ora, a parte il fatto che avrei voluto vedere uno che racconta gli effetti del colonialismo scendendo a compromessi e pretenda di essere premiato, mi domando quando giungerà infine il tempo che l’alloro di Stoccolma sarà assegnato a seguito della valutazione della qualità letteraria e non esclusivamente in base all’impegno civile dello scrittore. Il virus micidiale del politically correct imperversa e non si intravede ombra d’immunità di gregge tra le pecorelle smarrite della letteratura. Luigi Mascheroni su Il Giornale si chiede giustamente: «Perché non duplicare il premio Nobel e, ogni anno, assegnare due diversi riconoscimenti? Uno per l’impegno civile dello scrittore (anche se in parte esiste già: è il Nobel per la Pace) e uno per il valore letterario dell’opera. Così si potrebbe premiare sia un autore che si batte contro i grandi mali dei nostri tempi (e di quelli passati) come il colonialismo, il razzismo, il sessismo, il maschilismo, il White Power, i fascismi imperanti, viva i transgender, i diritti dei Maori, quelli degli Inuit, e la tutela dell’ambiente..., sia un grande autore che se ne frega degli stessi temi ma racconta storie, scritte bene, che hanno la pretesa di riempire la vita (cambiarla sarebbe troppo) a più persone possibili». Il panorama della letteratura è ormai ammorbato da libri ibridi, saggi romanzati, romanzi storici o politici, centoni, zibaldoni, canovacci per sceneggiature di serie televisive, obiettivo quest’ultimo che costituisce il massimo dell’aspirazione per gli scrittori di ogni latitudine. C’è da rimanere sgomenti alla domanda: a che punto è il romanzo contemporaneo? Sembra finita inesorabilmente l’era del “romanzo puro”, i libri non appartengono più a un genere preciso e sono ridotti alla stregua di oggetti inclassificabili. La parola d’ordine è contaminazione e scrittura ibrida, il risultato sono libri noiosi, superficiali e piatti. La tanto celebrata Annie Ernaux nel suo “Una donna” tiene, per esempio, a precisare: “questa non è una biografia né ovviamente un romanzo”. Per non parlare di Sandro Veronesi e del suo caotico (ma ben scritto, per carità!) “Il colibrì”, che l’editore, nell’aletta di copertina, arriva a definire: “Un romanzo potentissimo, che incanta e commuove, sulla forza struggente della vita” mettendo a dura prova la tenuta statica della tomba di Dostoevskij. Certo non si può non amare Emmanuel Carrère, gran sacerdote dell’ibrido e maestro dell’azzeramento di confine tra verità e finzione, anche se il suo ultimo “Yoga” terrorizza sin dal primo claim pubblicitario: “libro per appassionati di complessità”. Non è un caso che un grande affabulatore nostrano quale Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021, passi con disinvoltura dalla classifica di vendite della “saggistica” a quella della “narrativa”. Torneremo al romanzo tradizionale d’impianto classico? I nostalgici dell’io narrante possono nutrire qualche speranza o saranno costretti a tirar giù dagli scaffali i classici dell’Ottocento? In Italia una flebile luce l’ha accesa Giulia Caminito con il bel “L’acqua del lago non è mai dolce” e molte speranze le ripongo nell’ultimo di Alessandro Piperno “Di chi è la colpa”, ma di quest’ultimo mi riservo il giudizio dopo averlo letto.

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