Leo Perutz è un grande narratore di avventure. Nato a Praga da una famiglia ebreo-tedesca, allo scoppio della guerra nel 1914 si arruola nell'esercito austro-ungarico, si trova sul fronte orientale quando viene ferito e rimpatriato. In ospedale subisce l’asportazione di due costole ma rifiuta l’anestesia stringendo un panno tra i denti, finita l’operazione chiede al chirurgo le due ossa per darle in pasto al suo molosso, il quale, dopo averle annusate, s'allontana senza toccarle... Perutz esclama felice: “Il mio cane non è un cannibale!”. È uno dei tanti aneddoti, come quello che lo vede diventare esperto contabile di un’importante società dopo essere stato bocciato in matematica alla maturità, che non solo descrive l’uomo, ma rivela la genesi di molti dei suoi racconti che sono zeppi di personaggi eccentrici, stravaganti, ossessionati fino al fanatismo. Sfuggito al nazismo rifugiandosi in Palestina, smette di scrivere e muore dimenticato a 73 anni nel 1957.
Secondo Corrado Augias, una delle ragioni per le quali Perutz è stato trascurato potrebbe nascondersi proprio nella difficoltà di capire che razza di scrittore fosse, cioè di “dare ai suoi romanzi una collocazione sicura all'interno d'un genere riconoscibile”. Basta pensare che il suo “Il maestro del giudizio universale”, venne pubblicato per la prima volta in italiano nel 1931 nella collana dei “Gialli Mondadori”, in una traduzione modesta, liberamente rimaneggiata dai curatori; e che Borges ha pubblicato Perutz in Argentina includendolo in una collana di thriller d'alta qualità. Leggendo le pagine godibilissime di Perutz, si scopre una semplice realtà: ci troviamo al cospetto di un grande narratore, creativo, immaginifico e straordinario interprete dell’intrigante atmosfera d’inizio Novecento, che naviga tra feuilleton e alta scrittura con elegante disinvoltura. Abile tessitore di trame, adora giocare, manipolandolo, col destino dei suoi personaggi.
In questo “La neve di San Pietro”, che ho divorato in una giornata di vacanza sotto il Vesuvio, ci imbattiamo nell’enigmatica ricostruzione di un periodo della vita del dottor Friedrich Amberg, in particolare dei giorni compresi tra il 25 gennaio e il 2 marzo del 1932. Secondo le testimonianze, è stato ricoverato in stato d’incoscienza dopo essere stato investito da un’auto, davanti alla stazione ferroviaria di Osnabrück, mentre si recava a prendere servizio come medico condotto nel paesino di Morwede. Eppure lui ricorda benissimo di esserci arrivato a Morwede, dove, nell’ordine, ha conosciuto il fanatico e reazionario barone Von Malchin, ha ritrovato la donna perdutamente amata ed è stato gravemente ferito nel mezzo di un tumulto di piazza. Perutz non ci rivela la verità ma, come sua abitudine, indugia ambiguamente tra le pieghe dell’ignoto vestendolo di realtà, portandoci alla scoperta di un esperimento ambizioso e grottesco allo stesso tempo, figlio di una folle fissazione, che sortirà risultati tragici quanto sorprendenti. Il Barone Von Malchin è convinto che il mondo sia corrotto e che solo il germanesimo e la fede religiosa possano curarlo, che ogni mezzo sia lecito per raggiungere questa palingenesi. Questo lo induce a sperimentare sui paesani una droga sintetizzata da un parassita che infestava l'Europa fin dal Medioevo.
“Mi prese la mano e mi trascinò in una stanza che odorava di alcol e di loden fradicio. Un erbario era aperto sul tavolo, fra alghe, licheni e muschi d’ogni tipo. Da sotto il sofà faceva capolino un tirastivali in ghisa, a forma di cervo volante. Sopra il comò si trovavano, disposti su due file, alcuni recipienti in cui erano conservati sotto spirito i funghi commestibili e velenosi della zona. Un piccolo riccio lappava del latte da una ciotola di terracotta.”
Ma la sua convinzione non va pari passo con la realtà e non saranno gli inni sacri a risuonare in quelle lande, ma l'Internazionale. Il sogno del vecchio visionario, quasi un apprendista stregone di goethiana memoria, di rimettere sul trono d'Europa un discendente di Federico di Svevia "Stupor Mundi", finirà nel sangue, scempiato da quell’incontrollabile “anima delle masse” che lui stesso aveva risvegliato.
La Neve di San Pietro o Fuoco della Vergine, descritta nel romanzo, è dunque una malattia dei cereali causata da un fungo parassita che si manifesta con un velo bianco e produce sostanze allucinogene in grado di provocare estasi mistiche e visioni ascetiche. Il dipanarsi della storia, tra la restaurazione del Sacro Romano Impero Germanico degli Hohenstaufen (ovvero il Primo Reich) e l’avvento della Rivoluzione Bolscevica d’ottobre, indurrebbe a pensare che lo stesso Perutz ne sia stato preda…
L’incipit è assolutamente coinvolgente e ci immerge nei pensieri confusi di un uomo che si risveglia in un ospedale: frammenti e visioni che appaiono e scompaiono nella sua mente per un attimo prima che i ricordi lo investano con la violenza di un crollo. Ma quei ricordi appartengono a fatti veramente accaduti, o hanno ragione i medici quando insistono nel sostenere che è “solo” stato investito da un’auto e che quegli eventi li ha sognati?
"Quando la notte smise di tenermi prigioniero, ero una cosa senza nome, un essere privo di personalità, che non conosceva i concetti di ‘passato’ e ‘futuro’. Giacqui, forse per molte ore, o forse solo per una frazione di secondo, in una sorta di rigidità… Sarebbe facile dire: galleggiavo nel vuoto, ma sono parole che non significano nulla. Sapevo solo che esisteva qualcosa, ma che quel ‘qualcosa’ fossi io, questo lo ignoravo."
Il Barone descritto da Perutz è un individuo assolutamente certo del suo piano, con una volontà di ferro e dominato da un'energia reale ma sconosciuta, che evoca inevitabilmente un altro personaggio, che la Storia avrebbe liquidato come un pazzo, che di lì a poco avrebbe dimostrato al mondo intero di essere capace di dominare un'intera nazione, soggiogandola con la droga di un'aberrante propaganda e col fascino macabro di un'ideologia razzista di annientamento del più debole e del diverso.
Franco Arcidiaco
Leo Perutz, La neve di San Pietro, Adelphi 2016, pagg. 184, € 18,00
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