Dice bene Aldo Varano su "L'Ora della Calabria" di oggi: la criminalità non è una piaga che riguarda solo il Mezzogiorno. Questa riflessione nasce osservando la distribuzione degli incarichi all'interno della segreteria politica di Matteo Renzi; l'assegnazione all'ottima Pina Picierno della doppia delega denominata "Legalità e Sud" è, infatti, chiaramente rivelatrice di un retropensiero che tende ad assimilare i due aspetti. Il messaggio, e vogliamo sperare che si tratti solo di un infortunio e non di una scelta meditata, è devastante: anche Matteo Renzi, il nuovo che avanza, tende a ridurre la Questione Meridionale a mera questione criminale. Buona parte del Paese e della vera sinistra italiana hanno affidato grandi aspettative e speranze a Renzi, ma la delusione sarebbe proporzionale alle aspettative se il nuovo PD non provvedesse subito a mettere in agenda il problema del Sud per farlo ripartire con, per usare ancora le parole di Varano, "strategie di innovazione e modernità che esaltino potenzialità, culture e vocazioni del suo territorio". Per quanto riguarda l'argomento legalità ci vuol poco, invece, a capire che si tratta di un problema di dimensioni nazionali (per non dire planetarie); il terreno di coltura della 'ndrangheta, e di tutta la criminalità organizzata, è il mondo degli affari, folle sarebbe, quindi, pensare di affrontare il problema rincorrendo i pastori di Platì e San Luca piuttosto che i fighetti di piazza San Babila. La nuova politica non deve fare lo stesso errore della magistratura, la quale in questi anni ha tentato di colmare il vuoto teorico ed operativo dei governi con un iperattivismo viziato da protagonismo narcisista. Non servono magistar, ma magistrati operativi, coraggiosi e liberi da ogni forma di condizionamento; quando Giovanni Falcone decise di affrontare seriamente il problema mafia a Palermo, si isolò dal resto del mondo e si rinchiuse dentro una caserma della guardia di finanza, lavorando instancabilmente giorno e notte rifuggendo telecamere e salotti televisivi. La lotta alla criminalità in Italia è ancora ferma al mito di Osso, Mastrosso e Carcagnosso e in Calabria c'è ancora chi crede seriamente che il capo della 'ndrangheta sia uno sfigato ultraottantenne arrestato mentre trasportava la frutta in motoape. Da Matteo Renzi e la sua squadra ci aspettiamo un intervento a 360 gradi che affronti radicalmente il problema criminalità organizzata sin dagli aspetti etimologici. Rivoluzionario sarebbe mettere al bando i termini mafia, 'ndrangheta e camorra che, anche grazie a certa pubblicistica perversa, rivestono un aspetto di sacralità che attrae morbosamente le fasce più ignoranti della popolazione. Altrettanto rivoluzionario sarebbe mettere al bando le associazioni antimafia e staccare le stellette dal petto dei professionisti del settore. In una società finalmente normale la legalità è una condizione naturale e non deve esistere commistione di ruoli tra carriere e professioni. La stessa abusata teoria dell'Area grigia deve essere riportata su un terreno sociologico e non giudiziario; non è possibile pretendere che un cittadino debba essere costretto a chiedere il certificato antimafia al meccanico a cui intende affidare la riparazione della sua vettura. Sarebbe interessante che qualcuno spiegasse ai cittadini se è più grave mangiare le frittole in un grande tavolo attorno al quale può capitare un pregiudicato, oppure frequentare consapevolmente personaggi come i Ligresti, protagonisti del malaffare che ha messo in ginocchio l'economia italiana. Il processo di rottamazione avviato da Matteo Renzi dunque è da considerarsi appena iniziato e ci auguriamo che proceda anche fuori dalle stanze del PD.
Franco Arcidiaco
lunedì 16 dicembre 2013
GRAMSCI, TOGLIATTI, LONGO, BERLINGUER E… RENZI
Chi pensa che la vittoria di Matteo Renzi rappresenti una sconfitta per gli eredi del PCI, non ha capito nulla non solo di quel partito ma di gran parte della storia italiana degli ultimi 80 anni. Sin dal lontano 21 gennaio del 1921, quando al Teatro San Marco di Livorno fu fondato il partito, il PCI ha costituito quello che il politologo pugliese Salvatore Speranza giustamente definisce “un paese nel Paese”, citando un pensiero di Pier Paolo Pasolini. E quel “paese” esiste ancora oggi ed è incarnato nei gangli più vitali e sani della politica italiana. E’ un “paese” abitato da persone perbene e pacifiche, animate da un fortissimo senso civico, ricche di valori basilari quali la solidarietà e il bene comune. Oggi quel “paese” si è schierato compatto al fianco di Renzi, con buona pace di quelli che pensano che il più grande partito della sinistra italiana abbia svoltato a destra. La parte migliore del PCI ed i suoi eredi oggi sono con Renzi, così come ieri erano con Enrico Berlinguer; la scellerata azione politica sfociata in quella tristemente famosa “svolta della Bolognina” ha avuto quantomeno il merito di fare uscire allo scoperto i sottoprodotti di una fantastica stagione politica (Occhetto, D’Alema, Veltroni e compagnia cantante) che militavano, per mero opportunismo, in un partito di cui non condividevano gli ideali.
I comunisti italiani, considerandosi parte fondante del patto costituzionale, erano caratterizzati da un roccioso senso dello Stato e delle Istituzioni. Sin dalle prime scelte di Togliatti, all’alba della Repubblica, fino alla determinante azione svolta negli anni del terrorismo, i comunisti sono stati in prima linea nella difesa delle istituzioni democratiche. La scuola politica del PCI ha dimostrato il suo grande valore nella gestione delle cosiddette “Regioni Rosse” ed ancora oggi Emilia Romagna, Toscana e Umbria costituiscono dei mirabili esempi di buona amministrazione locale, per non parlare della mitica stagione dei sindaci (Valenzi, Argan, Petroselli, Vetere, Novelli, Zangheri, Bonazzi, Falcomatà e tanti altri) che ha risvegliato nelle popolazioni l’amore per la propria città ed il rispetto per le istituzioni. L’azione di Napolitano in questi anni costituisce la fioritura di un destino politico (intriso di cultura dello Stato e amor di patria), e ridicolizza le tesi di chi aveva archiviato frettolosamente la storia del PCI attribuendogli colpe che non erano certo sue.
Quello che costituisce la migliore eredità del Pci e dei suoi settanta anni di vita e di lotta riguarda senz’altro la Costituzione e la democrazia italiana, i diritti dei lavoratori e lo stato sociale. Non c'è parola o gesto dei dirigenti comunisti italiani dei primi quarant'anni della Repubblica che non vada in direzione della difesa delle istituzioni democratiche, dell’arginamento dei sussulti populistici e delle tentazioni plebeistiche, pur nel rispetto di un operaismo maturo e consapevole. La scuola dei dirigenti comunisti fu severa nei confronti di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l'inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l'interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra, personaggi diversi per temperamento (basta confrontare Napolitano, Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao e Berlinguer), innamorati della politica, con una grande motivazione etica. La loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, la loro spinta verso l'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e il risultato che così si ottenne, in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentassero, costituirono il capolavoro politico di quegli anni bui. I comunisti italiani e la “via italiana al socialismo” si conquistarono il rispetto e l’attenzione del mondo intero. Nel 1978, al rientro da un viaggio negli USA dopo un ciclo di conferenze nelle principali università, Napolitano dichiarò profeticamente: “Queste questioni investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice". Oggi Giorgio Napolitano ha riscattato l’intera vicenda politica del Pci e l’ha consegnata alla storia nella sua giusta dimensione, quella, per dirla con Thomas Mann, della politica che «non potrà mai spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare la sua parte etica». Non è affatto un caso che questo comunista rigoroso, questo leader politico di grande caratura intellettuale si sia ritrovato oggi a reggere il timone di una nave in balia dei flutti, nel tentativo di salvare uno dei più importanti Paesi occidentali e dimostrando che la politica, quella seria, quella alla quale il berlusconismo ci aveva disabituato, ha bisogno di qualità che derivano dall’esperienza e da una sana formazione culturale.
Oggi il PD, guidato da Matteo Renzi, ha le carte in regola per raccogliere questa immensa eredità; determinante sarà la capacità di mantenerne il rigore morale e la forza decisionale. Il formidabile strumento che fece grande il PCI fu il “Centralismo Democratico” che, al contrario di quello che si vuol far pensare, non era bieco unanimismo opportunista, ma florido prodotto di articolate elaborazioni dialettiche che, seminate nell’humus delle sezioni, arrivavano al vertice e consentivano ai dirigenti di governare il Partito con fermezza. Questo è lo strumento di cui ha bisogno il PD di oggi e un leader carismatico e diretto come Renzi è la persona giusta per reinterpretarlo.
Franco Arcidiaco
I comunisti italiani, considerandosi parte fondante del patto costituzionale, erano caratterizzati da un roccioso senso dello Stato e delle Istituzioni. Sin dalle prime scelte di Togliatti, all’alba della Repubblica, fino alla determinante azione svolta negli anni del terrorismo, i comunisti sono stati in prima linea nella difesa delle istituzioni democratiche. La scuola politica del PCI ha dimostrato il suo grande valore nella gestione delle cosiddette “Regioni Rosse” ed ancora oggi Emilia Romagna, Toscana e Umbria costituiscono dei mirabili esempi di buona amministrazione locale, per non parlare della mitica stagione dei sindaci (Valenzi, Argan, Petroselli, Vetere, Novelli, Zangheri, Bonazzi, Falcomatà e tanti altri) che ha risvegliato nelle popolazioni l’amore per la propria città ed il rispetto per le istituzioni. L’azione di Napolitano in questi anni costituisce la fioritura di un destino politico (intriso di cultura dello Stato e amor di patria), e ridicolizza le tesi di chi aveva archiviato frettolosamente la storia del PCI attribuendogli colpe che non erano certo sue.
Quello che costituisce la migliore eredità del Pci e dei suoi settanta anni di vita e di lotta riguarda senz’altro la Costituzione e la democrazia italiana, i diritti dei lavoratori e lo stato sociale. Non c'è parola o gesto dei dirigenti comunisti italiani dei primi quarant'anni della Repubblica che non vada in direzione della difesa delle istituzioni democratiche, dell’arginamento dei sussulti populistici e delle tentazioni plebeistiche, pur nel rispetto di un operaismo maturo e consapevole. La scuola dei dirigenti comunisti fu severa nei confronti di alcune lotte operaie degli anni settanta, pose la battaglia contro l'inflazione come obiettivo naturale della sinistra, antepose l'interesse nazionale a quello di partito. Da questa scuola vennero alcuni dirigenti che hanno fatto la storia della sinistra, personaggi diversi per temperamento (basta confrontare Napolitano, Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao e Berlinguer), innamorati della politica, con una grande motivazione etica. La loro ferma determinazione a respingere l'attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, la loro spinta verso l'intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e il risultato che così si ottenne, in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell'eversione comunque si presentassero, costituirono il capolavoro politico di quegli anni bui. I comunisti italiani e la “via italiana al socialismo” si conquistarono il rispetto e l’attenzione del mondo intero. Nel 1978, al rientro da un viaggio negli USA dopo un ciclo di conferenze nelle principali università, Napolitano dichiarò profeticamente: “Queste questioni investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane; investono il nostro rapporto con l'Europa e l'Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a 'inquadrarci'; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. E' comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice". Oggi Giorgio Napolitano ha riscattato l’intera vicenda politica del Pci e l’ha consegnata alla storia nella sua giusta dimensione, quella, per dirla con Thomas Mann, della politica che «non potrà mai spogliarsi della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare la sua parte etica». Non è affatto un caso che questo comunista rigoroso, questo leader politico di grande caratura intellettuale si sia ritrovato oggi a reggere il timone di una nave in balia dei flutti, nel tentativo di salvare uno dei più importanti Paesi occidentali e dimostrando che la politica, quella seria, quella alla quale il berlusconismo ci aveva disabituato, ha bisogno di qualità che derivano dall’esperienza e da una sana formazione culturale.
Oggi il PD, guidato da Matteo Renzi, ha le carte in regola per raccogliere questa immensa eredità; determinante sarà la capacità di mantenerne il rigore morale e la forza decisionale. Il formidabile strumento che fece grande il PCI fu il “Centralismo Democratico” che, al contrario di quello che si vuol far pensare, non era bieco unanimismo opportunista, ma florido prodotto di articolate elaborazioni dialettiche che, seminate nell’humus delle sezioni, arrivavano al vertice e consentivano ai dirigenti di governare il Partito con fermezza. Questo è lo strumento di cui ha bisogno il PD di oggi e un leader carismatico e diretto come Renzi è la persona giusta per reinterpretarlo.
Franco Arcidiaco
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