giovedì 11 novembre 2021

PER LA CALABRIA L’IMPRESA ECCEZIONALE È ESSERE NORMALE

“Ma l'impresa eccezionale, dammi retta è essere normale” diceva bene Lucio Dalla nella magnifica “Disperato erotico stomp”. Il neopresidente Roberto Occhiuto promette cambiamento a piene mani e, dai primi passi compiuti, pare stia andando nella giusta direzione. Auguri quindi, a lui e a noi. Diciamocelo chiaramente: non ne possiamo più di essere eccezionali, il nostro desiderio è la normalità. Fino ad oggi abbiamo avuto una delinquenza eccezionale, una magistratura inquirente fantasmagorica, una malasanità straordinaria, un inquinamento mostruoso, una malapolitica da manuale. Ora basta! Riportateci alla normalità e ve ne saremo grati. Occhiuto si è imbarcato in un’impresa improba ma, consapevole com’è di operare in un contesto da ultima spiaggia, c’è da credere che ce la metterà tutta. Da subito dovrà mettere mano alla demolizione dei “mulini a vento”, in primis quegli apparati burocratici mefistofelici che hanno distrutto la politica facendola apparire peggio di quello che in realtà è. A seguire deve stanare le false lobby ambientaliste che hanno condizionato cinquant’anni di regionalismo, condannando la Calabria al degrado e al sottosviluppo. Per risolvere il problema dei rifiuti è sufficiente un termovalorizzatore di nuova generazione in ogni provincia e il problema sarà risolto radicalmente. In una regione con settecento kilometri di coste non si può concepire l’assenza di un’efficiente rete di depurazione. Per la sanità, è sufficiente pianificare un programma di spese delle risorse già disponibili come bene hanno spiegato Rubens Curia e Francesco Costantino nel libro “Per una sanità partecipata” (Città del Sole edizioni, 2021). Altro intervento cruciale deve essere operato nel campo della viabilità, è inconcepibile che tra i capoluoghi di provincia i tempi di percorrenza superino l’ora e mezza e che strade d’importanza strategica quali la 106 e la trasversale delle Serre siano ancora incomplete. Depurazione, gestione rifiuti, sanità e viabilità che funzionano, sono le quattro ricette indispensabili per riportare nell’alveo della normalità una regione che, ripeto, non ne può più di essere eccezionale.

domenica 17 ottobre 2021

FASCISTI O VIOLENTI SELVAGGI?

In questi giorni si è abusato del termine “fascista”, anche sull’onda emotiva conseguente gli scontri di Roma e l’assalto alla sede della CGIL. Si è abusato al punto tale da far apparire ragionevole finanche Giorgia Meloni, che in parlamento ha spiegato chiaramente cosa può accadere nel momento in cui gli addetti all’ordine pubblico perdono (volontariamente, come lei sostiene con malizia, o meno) il controllo della piazza. Chi si aspettava una replica del celebre “discorso del bivacco” all’interno “dell’aula sorda e grigia” di memoria mussoliniana, è rimasto deluso. La Giorgia nazionale ha avuto buon gioco a mettere alle spalle al muro la ministra dell’interno Lamorgese, apparsa chiaramente indifendibile. La Meloni sa bene che non si può togliere per legge dalla testa a chi si crede fascista di fare il fascista, ma sa altrettanto bene che non è questo oggi il problema principale della società italiana. La parola-chiave “fascista” viene spesso tirata fuori dalla Storia e gettata nell’agone della cronaca ma, come ha chiarito più volte lo storico Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice: «La qualificazione di fascista nei modi in cui ora è adoperata, rischia di diventare un semplice e generico detto di contumelia, buono per ogni occorrenza, se non si tiene fermo il proprio suo significato storico e logico». Gentile è il più grande storico del fascismo da decenni e non si può prescindere dai suoi classici (due su tutti: “Le origini dell’ideologia fascista” del 1975 e “Storia del Partito fascista” del 1989 riedito nel 2021) se si vuole studiare a fondo il ventennio. Molto opportunamente due anni fa, Gentile, rendendosi conto della necessità di mettere un po’ d’ordine nell’interpretazione degli eventi, ha pubblicato con Laterza un agile pamphlet denominato “Chi è fascista”. Dalla sinossi del libro leggiamo: «A 100 anni dalla nascita del movimento fascista, a oltre 70 dalla fine del regime, 'il fascismo è tornato'. In rete e nei media l'allarme è al massimo livello. Caratteristiche del nuovo fascismo sarebbero: la sublimazione del popolo come collettività virtuosa contrapposta a politicanti corrotti, il disprezzo della democrazia parlamentare, l'appello alla piazza, l'esigenza dell'uomo forte, il primato della sovranità nazionale, l'ostilità verso i migranti. Fra i nuovi fascisti sono annoverati Trump, Erdoğan, Orbán, Bolsonaro, Di Maio, Salvini. Insomma, all'inizio del XXI secolo, trapassato il comunismo, disperso il socialismo, rarefatto il liberalismo, il fascismo avrebbe oggi una straordinaria rivincita sui nemici che lo avevano sconfitto nel 1945. Ma cos'è stato il fascismo? È stato un fenomeno internazionale, che si ripete aggiornato e mascherato? Oppure il 'pericolo fascista' distrae dalle cause vere della crisi democratica?». Gentile mette in guardia da una narrazione «che mescola fatti, invenzioni, miti, superstizioni, profezie, paure e illusioni. Una narrazione che inevitabilmente provoca l’anchilosi della mente critica e ci impedisce di comprendere il presente». In un’intervista a Carmelo Caruso de Il Foglio è stato ancora più tranchant: «Non credo che abbia alcun senso, né storico né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo». Spiega ancora il professore: «Cerco periodicamente di liberarmi da questa domanda (“sta tornando il fascismo?”) offrendo sempre la stessa risposta. Fascismo non significa più nulla quando diventa una parola che si può applicare a tutto. È come la mafia. Se tutto è mafia, niente è mafia. È ormai una delle quattro parole italiane entrate nel lessico internazionale insieme a spaghetti, pizza e appunto mafia. Non sappiamo neppure inventarci una nuova parola… è un’onda lessicale che si alza e si abbassa. Anche quello di oggi non è un effettivo ritorno del fascismo ma un uso sempre più elastico della parola». La lucidità dello storico ci deve indurre a raddrizzare lo sguardo e focalizzare la nostra attenzione sulla realtà che ci sta davanti, che registra l’abbattersi di un’ondata di selvaggia violenza che non risparmia più, ormai, alcun angolo del globo. Gentile è chiarissimo e non da spazio a interpretazioni diverse: «È l’età selvaggia. È l’età dei selvaggi. Un’età di ignoranza, di angoscia e di ostilità. Nasce da mezzi di informazione irrazionali e dalla stupidità. Come si può chiedere di essere ragionevoli quando in televisione si dà libero sfogo a tesi antiscientifiche? Non è più informazione ma qualcosa che ha a che fare con l’oroscopo» e ancora: «La pandemia ha colpito i miei familiari. Ho visto con i miei occhi gli effetti. Propongo visite guidate nei reparti di terapia intensiva. Non saremo mai cattivi. Ai selvaggi non augureremo mai quel dolore». Alla stampa e ai media il compito di sfuggire alle codificazioni stereotipate dei fatti magari ricorrendo all’aiutino, come in questo caso, degli studiosi.

lunedì 11 ottobre 2021

IL POLITICALLY CORRECT CHE INQUINA LA LETTERATURA

Assegnato il premio Nobel 2021 per la Letteratura, la vittoria è andata a Abdulrazak Gurnah, tanzaniano, “per la capacità di raccontare a fondo gli effetti del colonialismo senza compromessi ma con compassione (sic!)”. Ora, a parte il fatto che avrei voluto vedere uno che racconta gli effetti del colonialismo scendendo a compromessi e pretenda di essere premiato, mi domando quando giungerà infine il tempo che l’alloro di Stoccolma sarà assegnato a seguito della valutazione della qualità letteraria e non esclusivamente in base all’impegno civile dello scrittore. Il virus micidiale del politically correct imperversa e non si intravede ombra d’immunità di gregge tra le pecorelle smarrite della letteratura. Luigi Mascheroni su Il Giornale si chiede giustamente: «Perché non duplicare il premio Nobel e, ogni anno, assegnare due diversi riconoscimenti? Uno per l’impegno civile dello scrittore (anche se in parte esiste già: è il Nobel per la Pace) e uno per il valore letterario dell’opera. Così si potrebbe premiare sia un autore che si batte contro i grandi mali dei nostri tempi (e di quelli passati) come il colonialismo, il razzismo, il sessismo, il maschilismo, il White Power, i fascismi imperanti, viva i transgender, i diritti dei Maori, quelli degli Inuit, e la tutela dell’ambiente..., sia un grande autore che se ne frega degli stessi temi ma racconta storie, scritte bene, che hanno la pretesa di riempire la vita (cambiarla sarebbe troppo) a più persone possibili». Il panorama della letteratura è ormai ammorbato da libri ibridi, saggi romanzati, romanzi storici o politici, centoni, zibaldoni, canovacci per sceneggiature di serie televisive, obiettivo quest’ultimo che costituisce il massimo dell’aspirazione per gli scrittori di ogni latitudine. C’è da rimanere sgomenti alla domanda: a che punto è il romanzo contemporaneo? Sembra finita inesorabilmente l’era del “romanzo puro”, i libri non appartengono più a un genere preciso e sono ridotti alla stregua di oggetti inclassificabili. La parola d’ordine è contaminazione e scrittura ibrida, il risultato sono libri noiosi, superficiali e piatti. La tanto celebrata Annie Ernaux nel suo “Una donna” tiene, per esempio, a precisare: “questa non è una biografia né ovviamente un romanzo”. Per non parlare di Sandro Veronesi e del suo caotico (ma ben scritto, per carità!) “Il colibrì”, che l’editore, nell’aletta di copertina, arriva a definire: “Un romanzo potentissimo, che incanta e commuove, sulla forza struggente della vita” mettendo a dura prova la tenuta statica della tomba di Dostoevskij. Certo non si può non amare Emmanuel Carrère, gran sacerdote dell’ibrido e maestro dell’azzeramento di confine tra verità e finzione, anche se il suo ultimo “Yoga” terrorizza sin dal primo claim pubblicitario: “libro per appassionati di complessità”. Non è un caso che un grande affabulatore nostrano quale Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021, passi con disinvoltura dalla classifica di vendite della “saggistica” a quella della “narrativa”. Torneremo al romanzo tradizionale d’impianto classico? I nostalgici dell’io narrante possono nutrire qualche speranza o saranno costretti a tirar giù dagli scaffali i classici dell’Ottocento? In Italia una flebile luce l’ha accesa Giulia Caminito con il bel “L’acqua del lago non è mai dolce” e molte speranze le ripongo nell’ultimo di Alessandro Piperno “Di chi è la colpa”, ma di quest’ultimo mi riservo il giudizio dopo averlo letto.

domenica 10 ottobre 2021

MIMMO LUCANO E LA STAMPA D’OPINIONE

Dal mare magnum di commenti apparsi sui giornali dopo la condanna di Mimmo Lucano ne emergono tre che, da punti di vista differenti, potranno risultare utili agli storici di domani. Nel fronte giustizialista e manettaro, si distingue il solito Marco Travaglio che su Il Fatto quotidiano del 1° ottobre non esita a schierarsi con i giudici accreditando l’immagine di un Lucano certamente condannabile. Negando che l’ex sindaco di Riace sia stato perseguitato prima e condannato poi per l’azione svolta a favore dei migranti, Travaglio sostiene che la condanna si riferisca esclusivamente a gravissimi reati amministrativi. “La sua battaglia contro le leggi sull’immigrazione – ammesso e non concesso che sia ammissibile da parte di un sindaco – non c’entra nulla. E nemmeno il ‘modello Riace’, cioè il meritorio ripopolamento di un comune depresso con l’integrazione dei migranti”. La condanna, secondo Travaglio, riguarda quindi non gli aiuti ai migranti, ma una serie impressionante di “pasticci finanziari con denaro pubblico”. Dall’associazione a delinquere, alla truffa aggravata allo Stato, al peculato, alla concussione, alla turbativa d’asta, fino all’immancabile e, direi, famigerato abuso d’ufficio, vera e propria spada di Damocle che pende inesorabilmente sul capo di tutti quelli che hanno a che fare con la pubblica amministrazione. Da bravo e, in questo caso, paterno questurino, Travaglio vuol dimostrarsi clemente nei confronti di Lucano, ammettendo che il severo giudizio di primo grado possa essere rivisto in sede d’Appello. La chiosa dell’articolo è in linea col nuovo corso grillino: “Sul piano politico e morale, a parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi. È possibile che agisse con le migliori intenzioni. Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole. L’impressione è che la nobile missione del ‘modello Riace’ gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni”. Il nostro Marco è un po’ meno Travaglio del solito ma, naturalmente, si guarda bene dall’indagare sulle vere cause dei “pasticci” di Lucano e non pensa nemmeno lontanamente che magari possano risiedere tra le ovattate mura di qualche Prefettura o del Viminale, autorità che quando non sapevano dove sbattere la testa gli mandavano migranti “da gestire” con tanto di ringraziamenti ed elogi. Tutt’altra musica da parte dell’ultragarantista Adriano Sofri che, su Il Foglio del 30 settembre, non esita a definire la condanna di Mimmo Lucano come “un totale ripudio del buon senso”, liquidando come uno sciocco luogo comune la convinzione generale che “le sentenze non si commentano”, sarebbe come levare il sale alla democrazia, aggiungo io. Sofri sembra voler accendere i riflettori sulla strana e a dir poco avventurosa nomina del giudice Fulvio Accurso a presidente del Tribunale di Locri, quando improvvisamente frena, lasciando sospese nell’aria le pesanti illazioni che sembrava pronto ad imbastire. Severo è comunque il suo giudizio sulla sentenza: “…la condanna pressoché raddoppiata non è solo il ripudio del buon senso confrontato con la lettera della legge, né la severità feroce che respinge come intrusa umanità e buon senso: è una bravata. Per far riuscire il calcolo, ha dovuto negare agli imputati, incensurati, le stesse attenuanti generiche, e negare la ovvia continuazione del reato. Perché? Bisognerà che lo spieghi lui, il giudice, e immagino che vorrà tenere per sé la stesura delle motivazioni, dopotutto è la gran festa della sua vita. Ma le motivazioni non basteranno. Dev’esserci qualcosa d’altro in una simile messinscena della giustizia, in una simile rivalsa sul suo pubblico tramonto. Sapete che cos’è una sentenza suicida. È una sentenza deliberatamente assurda, e assurdamente motivata, per garantirsi l’annullamento nei gradi successivi. Un inganno vergognoso, di solito perpetrato per rivalersi da giudici togati e soprattutto dai giudici popolari dell’assise che abbiano imposto un’assoluzione non voluta dal presidente. Qui, dove tutto sembra ribaltato, la sentenza sfida l’assurdità a vantaggio dell’oltranza. Fama del piccolo sindaco, popolarità nazionale, classifiche internazionali che lo mettono al secondo posto fra i sindaci del pianeta, al quarantesimo dei cento personaggi più influenti, alla candidatura al Nobel: una carriera che va schiacciata col doppio della tracotanza. Ha creduto di ‘dominare’ Riace (così l’accusa) rendendola extraterritoriale, facendosi la sua propria legge, procurando matrimoni di donne straniere e facendo ripulire il paese coi somari, fottendosene dello stato”. Implacabile, quindi, la sentenza di Sofri nei confronti della Giustizia italiana, inguaribilmente sfregiata da deleteri e macchinosi bizantinismi. Bisogna infine giungere alle pagine de Il Manifesto del 2 ottobre e alla penna di Carmine Fotia, per ottenere una chiave di lettura opportunamente “meridionalista” e squisitamente politica della vicenda. Fotia definisce agghiacciante “la sentenza che ha condannato Mimmo Lucano a una pena esorbitante, 13 anni e due mesi, come quelle che prima i tribunali sabaudi e poi quelli fascisti comminavano ai ribelli calabresi che trattavano alla stregua di briganti”. E ancora: “Il problema non è la fisiologica differenza di giudizio sull’interpretazione dei fatti tra giudici, bensì il rovesciamento del significato delle azioni commesse: per inserire persone svantaggiate secondo la Cassazione, per ottenere consenso e potere secondo il tribunale di Locri. E anche l’entità della pena che addirittura raddoppia la richiesta dell’accusa va al di là di possibili errori e violazioni di norme di legge: la condanna è degna del capo di una vera e propria organizzazione criminale”. Carmine Fotia sottolinea come si sia fatta strada “una cultura giustizialista che criminalizza l’accoglienza trasformando migliaia di volontari in potenziali criminali e militanti politici come Mimmo Lucano in pericolosi delinquenti”. La sua chiave di lettura meridionalista sottolinea come la sentenza produca “il rafforzarsi di una grottesca narrazione della Calabria come luogo irredimibile, territorio da bonificare con le buone o le cattive, dove i buoni sono solo un pugno di coraggiosi magistrati che vogliono rivoltarla come un calzino per purificarla dal male. Per fortuna ci sono scrittori e scrittrici come Mimmo Gangemi, Gioacchino Criaco, Katia Colica, che avanzano letture più profonde, colte, più in grado di leggere la drammatica complessità di una terra dura e spesso ingiusta che non ha bisogno di liberatori bensì di poter liberare le proprie energie, come ci ricorda lo storico Ilario Ammendolia nel suo piccolo ma prezioso libro per capire i danni del paradigma giustizialista (La ‘ndrangheta come alibi, Città del Sole Edizioni)”. Esattamente quello che faceva Mimmo Lucano, immaginando che per sottrarre la Calabria all’egemonia e al controllo asfissiante della ‘ndrangheta non basti la repressione, tanto più quando spettacolarizzata, bensì serva affermare nella pratica quotidiana una cultura del rispetto e della dignità di ogni essere umano che è alternativa alla cultura dell’appartenenza e del sangue che è il cuore della cultura mafiosa.

domenica 3 ottobre 2021

IL MILLENNIO BIZANTINO E LE SUE FIGURE FANTASTICHE E CONTROVERSE

Meritevole iniziativa editoriale del Corriere della Sera che, in abbinata al quotidiano, ha mandato in edicola la collana “Medioevo” in 35 volumi curati, manco a dirlo, da Franco Cardini. Uno dei titoli più interessanti è certamente il classico “Figure bizantine” di Charles Diehl (1859-1944) celebre professore di Storia bizantina alla Sorbona. Si tratta di una ricca storia dell’Impero greco d’Oriente che, come ben scrive Silvia Ronchey nella prefazione, “disegna un vero florilegio storico, prosopografico, letterario, estetico, del millennio bizantino. … Sono pochi, tra i sedimenti della storiografia novecentesca, quelli che ancora brillano alla luce del ventunesimo secolo. Le Figure di Diehl sono tra questi.” La storiografia ufficiale del Novecento ha, volutamente o meno, disegnato un’immagine stereotipa e distorta della corte di Bisanzio come regno esclusivo di intrighi da gineceo. Il senso spregiativo che diamo ancora oggi all’aggettivo “bizantino” e anche l’irragionevole percezione della storia bizantina come “decadenza infinitamente protratta”, hanno radice nella pruderie che permeava il partito borghese degli eruditi, di cui lo stesso Diehl era parte predominante. Il gran merito di questo libro consiste nell’aver rilevato, tra l’altro, una dimensione sostanziale: la preminenza, stabilità e autorevolezza del potere femminile lungo tutti gli undici secoli di Bisanzio. “Duttili e delicati spiriti femminili così pronti, nella loro complessità, a ricevere tutte le influenze, a riflettere tutte le tendenze del cangiante mosaico dell’impero”, le donne bizantine che Diehl scoprì -da Irene di Atene a Teofano, da Zoe Porfirogenita ad Anna Dalassena, da Anna Comnena a Irene Ducas, fino alle spose occidentali dell’ultima dinastia imperiale di Bisanzio, i Paleologhi- sono “menti straordinarie e anime mediocri, grandi ambiziose e figure devote”, non meno spregiudicate e incisive di personaggi maschili quali Basilio il Macedone, Leone il Saggio o “quel don Giovanni bizantino che fu Andronico Comneno”. “Non solo la celeberrima Teodora di Giustiniano” verrebbe da dire, in undici secoli nel palazzo imperiale di Bisanzio e nella chiesa di Santo Stefano del Palazzo, si sono avvicendate basilisse che giungevano tra le braccia del basileus attraverso un accuratissimo e sofisticato sistema di scouting che percorreva tutte le vie dell’impero per selezionare la compagna giusta per l’imperatore. Scrive Diehl: “È chiaro che i basileis non tenevano poi eccessivamente ai quarti di nobiltà, e che una qualsiasi bella ragazza poteva sembrar loro un’imperatrice accettabile. Il fatto era che le cerimonie solenni che accompagnavano l’incoronazione e le nozze erano sufficienti a conferire alla futura sovrana una personalità del tutto nuova e a trasformare la povera ragazza di ieri in un essere sovrumano, incarnazione vivente del potere assoluto e della divinità. Non starò a descrivere dettagliatamente il pomposo cerimoniale, poiché queste solennità bizantine si somigliano tutte un po’ nella loro monotona magnificenza… ma basterà ricordare qualche atto simbolico, qualche gesto caratteristico, che mettono a fuoco tutta la maestà insita nel titolo glorioso di imperatrice di Bisanzio. Un esempio, tanto per cominciare, è che le nozze fanno seguito all’incoronazione e non la precedono”. Diehl avverte giustamente che “nella storia di una società scomparsa ciò che deve maggiormente attirare l’attenzione non sono le grandi imprese belliche, né le rivolte di palazzo o di caserma… quelli che bisogna cercare di rintracciare e che ci possono maggiormente ragguagliare, sono gli aspetti molteplici dell’esistenza quotidiana, i modi diversi di essere e di pensare, i comportamenti e le usanze, in una parola la civiltà”, “…ciò che noi conosciamo di meno, ciò che i documenti ci permettono meno agevolmente di intravedere, e ciò che, forse, ci interessa di più sono i sentimenti, i modi di essere e di pensare, la condizione e la vita intima delle classi medie…”, “Il grande uomo, per il solo fatto di essere grande, conserva sempre qualcosa di personale, di fuori dalla norma; mentre la persona di condizione media, in generale non è altro che l’archetipo di un modello ampiamente ripetuto e acquista così una sorta di valore rappresentativo. Conoscerne uno vuol dire conoscerne migliaia… e queste migliaia sono la materia oscura con cui si fa la Storia…”. Non manca una meravigliosa descrizione della Costantinopoli del V secolo: “…nonostante il suo carattere di capitale cristiana rimaneva profondamente impregnata di memorie pagane. Arricchita da Costantino e dai suoi successori delle più splendide spoglie dei santuari antichi, esibiva in piazze e palazzi i più famosi capolavori della scultura greca, ed era come se in questo museo incomparabile gli dèi decaduti serbassero ancora il loro prestigio e la loro gloria”. Il capitolo dedicato a Teodora e alla Storia segreta che la riguarda, assume i contorni del romanzo d’appendice, basterebbe solo la descrizione di Alessandria: “La capitale egiziana non era certamente solo un grande centro commerciale, una città elegante e ricca, corrotta e di facili costumi, paese d’elezione di celebri cortigiane. Dal IV secolo era anche una delle capitali del cristianesimo”, e, guarda caso, una sosta abbastanza lunga ad Alessandria fu determinante nell’esistenza della bella Teodora che possedeva alcune di quelle eminenti qualità che legittimano la ricerca dell’autorità suprema: avvenenza, intelligenza superiore, ambizione e sete di potere, energia feroce, fermezza virile, e “un freddo coraggio che si dimostrò all’altezza delle circostanze più difficili. Col risultato che nei ventun anni in cui regnò accanto a Giustiniano ella ebbe un’influenza profonda e legittima su un marito che l’adorava” e ancora oggi il nome di Teodora è associato a quello dell’imperatore, in San Vitale, a Ravenna, la sua immagine nei mosaici dimostra come Giustiniano aveva voluto condividere con Teodora i trionfi militari e le più fulgide glorie del regno. Il 18 gennaio 532 quando Giustiniano, assediato dagli insorti, non vedeva altro scampo che la fuga, Teodora indignata dalla viltà che la circondava richiamò imperatore e ministri al loro dovere, salvando così il trono di Giustiniano: “Quand’anche non mi restasse altra salvezza che la fuga, io non fuggirei. Chi ha cinto una corona non dovrebbe sopravvivere alla sua perdita. Che io possa non vedere il giorno in cui non mi saluteranno più con il titolo di imperatrice! Se tu, o Cesare, decidi di fuggire, fallo pure: non ti manca il denaro per farlo, ed ecco laggiù il mare, con le tue navi pronte nel porto. Quanto a me, io resto. Mi attengo all’antica massima: la porpora è il più glorioso dei sudari.” In realtà Teodora va iscritta di diritto nella grande famiglia degli imperatori bizantini, i quali hanno sempre saputo intravedere sotto l’apparenza effimera e mutevole delle dispute religiose il fondo permanente di un problema politico, mentre Giustiniano, teologo puro, si occupava di contese religiose per il gusto della controversia, per il piacere sterile del dogmatismo. La galoppata di Diehl lungo i secoli bizantini non manca di analizzare le dispute, una per tutte quella delle immagini, che generarono persecuzioni crudeli e violenze inaudite. La pratica dell’accecamento, che sostituiva cinicamente la pena di morte, era praticata con tale frequente disinvoltura da rendere intollerabile la lettura delle cronache di quegli anni; l’imperatrice Irene moglie di Leone IV e tutrice di Costantino VI (il suo regno viene definito da Diehl come uno dei più sbalorditivi) non esitò a eseguire una lunga sequela di sentenze brutali e cruente, il cui culmine fu l’ordine dell’accecamento del figlio al fine di succedergli, lei donna, con il titolo di imperatore: “Irene, gran basileus e autocrate dei Romani”. Lo splendore del palazzo imperiale raggiunse l’apogeo a partire dal 829, anno dell’insediamento di Teofilo, figlio di Michele II di Amorio. “All’imperatore piaceva edificare. Agli antichi appartamenti di Costantino e di Giustiniano aveva aggiunto tutta una serie di costruzioni sontuose, adornate col gusto più squisito e ricercato. Amante dello sfarzo e della magnificenza, per ravvivare la grandiosità dei ricevimenti a palazzo aveva commissionato ai suoi artisti delle meraviglie di oreficeria e di meccanica: il Pentapirgio, famoso armadio d’oro in cui si esponevano i gioielli della corona, gli organi d’oro che suonavano nei giorni di udienze solenni, il platano d’oro che si ergeva accanto al trono imperiale e sul quale uccelli meccanici volteggiavano cantando, i leoni d’oro accucciati ai piedi del sovrano che a tratti si drizzavano, agitavano la coda, ruggivano, e i grifoni d’oro dall’aspetto misterioso che sembravano vegliare, come nei palazzi dei re asiatici, sulla sicurezza dell’imperatore”. Teofilo, tutto preso dalla sua passione per l’arte sfarzosa, trascurò l’educazione del figlio Michele III che si rivelò “marcio nel profondo” e asceso al trono giovanissimo, alla morte prematura del padre, si abbandonò a una condotta sciagurata e demenziale; le cronache del tempo tratteggiano il suo regno come uno dei momenti più bassi dell’era bizantina. Sorvolando, per brevità su molti altri personaggi di gran rilievo, due su tutte Teofano (vera e propria femme fatale) e Zoe la Porfirogenita (“la sua storia è certamente una delle più piccanti che ci abbiano serbato gli annali bizantini… ha riempito il palazzo imperiale delle sue avventure scandalose…”), giungiamo al XII secolo nel cui corso la seconda e la terza crociata misero ancora una volta in contatto antagonista Bizantini e Latini: “Da parte dei guerrieri indisciplinati della crociata ci sono i soliti saccheggi, le solite violenze, le solite pretese imperiose; da parte dei Greci ci sono i soliti mezzi, spesso molto sleali per sbarazzarsi dei visitatori scomodi e togliergli la voglia di ritornare”. Quando agli antichi rancori cresciuti a dismisura si aggiunse, sempre più chiara, la consapevolezza della ricchezza e anche della debolezza di Bisanzio, i Latini non resistettero più alla tentazione. I baroni della Quarta crociata, partiti per la conquista del Santo Sepolcro, finirono per conquistare Costantinopoli e per rovesciare il trono dei basileis con la tacita complicità del papa e l’applauso universale del mondo cristiano. “L’instaurazione di un impero latino sulle rovine della monarchia di Costantino offendeva troppo crudelmente il patriottismo bizantino perché questa soluzione brutale potesse calmare i vecchi rancori e placare l’antagonismo dei due mondi”. È chiaro che ogni crociata ha avuto come conseguenza la fondazione di uno Stato latino in Oriente. “Fu come un pezzo di Europa feudale trasportata sotto il cielo d’Oriente”. Ma come ben sottolinea Diehl (e se vogliamo questa è proprio la chiave del libro): “E se, come sempre accade quando si fronteggiano due civiltà ineguali, la meno avanzata di esse -era allora il caso di quella occidentale- subì potentemente l’influenza delle civiltà superiori, araba, siriana, bizantina con cui fu in contatto, pur ricevendo molto essa dette anche molto in cambio”. E se l’Occidente trasse un notevole beneficio nel campo delle scienze e del pensiero, manifestò senza alcun dubbio una grande influenza sul mondo greco nel campo dei fenomeni sociali. Su tutto troneggia “l’incommensurabile orgoglio dei bizantini, coscienti della loro lunga tradizione di civiltà, di non essere per nulla dei barbari”. Memorabile il grande disprezzo con il quale l’altra grande principessa bizantina Anna Comnena (1083-1153), moglie di Niceforo Briennio, bolla i crociati: “…di quei barbari rozzi di cui si scusa perfino di dover introdurre nella sua storia i nomi grossolani; doppiamente offesa nel suo amor proprio letterario di sentire il ritmo della frase rotto da quei vocaboli stranieri, e nella sua arroganza imperiale di dover perdere tempo a occuparsi di quegli uomini che la disgustano e la tediano”. Giungiamo quindi a un altro personaggio chiave, Andronico Comneno, modello perfetto del bizantino del XII secolo, con tutte le sue qualità e con tutti i suoi vizi che Diehl non esita a definire “Il Cesare Borgia d’Oriente”. Indifferente in materia religiosa, al contrario della maggior parte dei Bizantini provava una noia insostenibile per le dispute teologiche. Morì dopo un atroce supplizio nel 1185 a sessantacinque anni, dopo aver riempito tutto il XII secolo del clamore delle sue avventure, dello splendore delle sue nobili virtù e dello scandalo dei suoi vizi. “La sua vita, fantastica quanto un romanzo, è una delle più pittoresche della storia di Bisanzio. Con i suoi colpi di testa e di spada, le sue evasioni e i suoi amori, le sue disgrazie e i suoi ritorni in auge, questo avventuriero prodigioso, vera e propria incarnazione del ‘superuomo’, seduce ancora i posteri come sedusse i suoi contemporanei”. La sua personalità potente offre qualcosa di più di un interesse aneddotico: è singolarmente caratteristica e rappresentativa. “Nella vita di questo principe geniale e corrotto, tiranno abominevole e grande uomo di Stato che invece di salvare l’impero come avrebbe potuto non fece che affrettarne la rovina, si trovano effettivamente, riuniti in sintesi, tutti i tratti essenziali, tutti i contrasti di questa società bizantina, strano miscuglio di bene e di male, crudele, atroce, decadente, ma anche capace di grandezza, di energia, di impegno. Una società che per secoli, in tutti i momenti torbidi della sua storia, è sempre riuscita a trovare in sé stessa le risorse per vivere e per durare, e non senza gloria”. Nemmeno a Bisanzio, come in ogni luogo e in ogni epoca, gli intellettuali se la passavano granché, “nonostante il rinascimento letterario che contraddistinse l’epoca dei Comneni, le lettere non davano da mangiare. Si professava il massimo rispetto per la letteratura, ma gli scrittori erano ridotti all’accattonaggio”. Uno dei testimoni più importanti dell’epoca, vero prototipo dell’uomo di lettere a Bisanzio, Teodoro Prodromo, in rari momenti d’orgoglio, malgrado la sua miseria, si felicitava che le cose stessero così, dato che la povertà si accompagna sempre al talento: “Data l’impossibilità di essere allo stesso tempo filosofo e ricco, preferisco restare povero e con i miei libri”. Nel 1146 arriva sulla scena un’altra donna memorabile, Berta di Sulzbach che sposa Manuele Comneno e salendo al trono prende il nome bizantino di Irene, simbolo della pace ristabilita tra il suo paese natale, la Germania, e la nuova patria. Irene, moglie sfortunata perché sterile, ammaliò sudditi e cortigiani sia per la sua avvenenza che per la sua cultura. Sopportò i tradimenti del marito e riuscì a mantenere il suo ruolo fino alla morte anche per motivi geopolitici, considerata l’importanza strategica dell’intesa tra Bisanzio e il suo paese d’origine. A Berta-Irene seguirono Agnese di Francia e Costanza di Hohenstaufen, “c’è qualcosa di malinconico nei destini di queste principesse d’Occidente che nel XII e XIII secolo se ne andarono a regnare sull’impero di Bisanzio; la loro figura lontana, quasi evanescente, trattiene in sé una grazia commovente. Trapiantate lontano dal paese natale per i giochi della politica, rimaste quasi sempre estranee alle novità del mondo in cui la sorte le aveva proiettate, queste principesse in esilio hanno dato triste prova, a quell’epoca, dell’impossibilità d’intesa tra Latini e Greci. Coinvolte nei più grandi avvenimenti della storia, ne sono state più che altro le vittime… hanno visto grandi cose (all’ombra dei rispettivi consorti) ma raramente le hanno dirette. Gli splendori della Bisanzio del XII secolo, le tragedie delle rivoluzioni di palazzo, la Quarta crociata e la fondazione di un impero latino a Costantinopoli, la politica orientale di un Federico II illuminano di un fulgore prestigioso le figure incerte di quelle principesse dimenticate. Ma la loro storia, soprattutto, testimonia l’abisso che le crociate finirono di scavare fra Oriente e Occidente. Mai, forse, questi due mondi hanno fatto sforzi più numerosi e più sinceri per compenetrarsi, per comprendersi, per unirsi. Ma, nonostante la reciproca buona volontà, hanno fallito clamorosamente nei loro tentativi”. E il destino vuole che sia proprio un’altra occidentale, italiana questa volta, Anna di Savoia, moglie di Andronico III (Corte dei Paleologhi) ad assumere, con la sua fatale resa (dopo una lunga guerra civile) al ‘gran domestico’ Giovanni VI Cantacuzeno e con tutti gli errori del suo governo e soprattutto con le richieste d’aiuto rivolte ai peggiori nemici dell’impero, la pesante responsabilità della decadenza e della rovina finale dell’impero bizantino. Diehl va giù pesante con la Savoia: “Mai prima d’allora si era vista una principessa bizantina sposata a un musulmano; mai prima d’allora s’erano visti i turchi stabiliti in Tracia come a casa propria e i tesori della Chiesa utilizzati per soddisfare le esigenze degli infedeli… si permettevano libertà inaudite… si sentivano i padroni da vincitori della guerra civile… Non si sbagliavano. Cent’anni più tardi, in una Costantinopoli conquistata, in una Santa Sofia saccheggiata, la mezzaluna avrebbe rimpiazzato per secoli la croce. Il regno di Anna di Savoia contiene le cause lontane ma certe di questa catastrofe finale. E si ha il diritto di deplorare il fatto che, al contrario di tante principesse d’Occidente oscure e evanescenti passate sul trono di Bisanzio, questa abbia voluto e potuto ottenere un ruolo che, poco intelligente qual era, non poteva che svolgere miseramente”. Gli ultimi secoli agonici dell’impero vedono avvicendarsi al potere con alterne fortune, gli ultimi eredi dei Paleologhi con una nutrita schiera di spose occidentali; il pericolo turco aumentava di giorno in giorno e l’impero bizantino, stremato, non vedeva altra risorsa se non nell’aiuto dell’Occidente. “Nonostante il dissenso profondo, nonostante l’antipatia secolare che separava Greci e Latini, gli uomini del XV secolo fecero seri sforzi per riconciliare Oriente e Occidente e assicurare con la loro concordia il traballante impero di Bisanzio”. Gli italiani ebbero un ruolo predominante, “Venezia era ovunque”, il pericolo comune della conquista musulmana avvicinava tutti i principati, una miriade di matrimoni strategici cercò invano di arginare la deriva. I Turchi Ottomani, guidati dal sultano Maometto II, conquistarono Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti. Con la caduta della capitale, ufficialmente conseguente alla morte dell'imperatore Costantino XI Paleologo (1449-1453), l'Impero Romano d'Oriente, dopo 1058 anni, cessò di esistere. Secondo alcuni storici questa data alternativamente alla scoperta delle Americhe, è da intendere come la fine del Medioevo e l'inizio dell'era moderna. Charles Diehl, Figure Bizantine, Corriere della Sera 2021 € 8,90, pagg. 490

domenica 8 agosto 2021

LA PARCELLA A ZAHA HADID L'HA SALDATA FALCOMATÀ

Dalle pagine di Gazzetta del Sud, che correttamente lo scorso 1° agosto ha pubblicato la mia precisazione, il principale corifeo di quel poco che resta della destra Scopellitiana, Lucio Dattola, ha ripreso maldestramente l’argomento della presunta incapacità, o mala voglia, del sindaco Giuseppe Falcomatà di cantierizzare e completare le “favolose opere pubbliche” sognate e commissionate da Giuseppe Scopelliti nel periodo della sua reggenza. Dattola, addirittura, in un intervento pubblicato dalla Gazzetta del Sud, si spinge ad esortare Falcomatà a “limitarsi a completare a ultimare quanto ideato, progettato e iniziato da quel visionario di Peppe Scopelliti…”. Ora è evidente che non tocca a me difendere Giuseppe Falcomatà, anche perché da gennaio 2020 son tornato a fare il mio antico mestiere ma, francamente, di fronte a certe affermazioni non riesco a tacere, anche per una forma di deontologia professionale. Si da’ il caso, infatti, che durante l’espletamento del mio incarico a Palazzo San Giorgio nello staff del sindaco, mi sono imbattuto, proprio nei giorni d’inizio del primo mandato, in un plico contenente un decreto ingiuntivo internazionale proveniente da uno studio di architettura londinese. Dattola parla di Scopelliti come di un visionario appassionato amante della sua città; l’estro ironico di Lucio è universalmente riconosciuto, ma il suo amore per Peppe vola al sopra di ogni cosa, senso del ridicolo compreso, e così non ha tenuto in conto che quel visionario di Scopelliti era talmente preda delle sue visioni che si ritrovava a trascurare le cose terrene. Tra queste il pagamento della mega parcella dell’archistar anglo-iraniana Zaha Hadid, l’ideatrice del tanto celebrato Waterfront, scomparsa purtroppo prematuramente il 31 marzo del 2016. Stiamo parlando di un milione e trecento ventimila euro, pagati nel 2016 dall’amministrazione Falcomatà, di cui 120 mila euro solo di spese legali e di notifica del decreto ingiuntivo internazionale.

lunedì 8 marzo 2021

BENVENUTI A LUMACHE, IL PAESE DELLE VAVE

Più che la “new wave” della letteratura calabrese, "Lumache", il nuovo romanzo di Anton.francesco Milicia e Antonio Tassone, rappresenta le “new vave”. Sono le vave, appunto, il filo conduttore di questo avvincente narrato ambientato nella Locride in cui ironia, mistero, sesso e potere formano un tutt’uno armonico e appassionante, dalla prima all’ultima delle 480 pagine. In realtà, sembrano due romanzi in uno: la prima parte, infatti, ripercorre le vicende di un paesotto di mare – “Lumache”, appunto – che ricorda la “Piccola città eterna” di Ligabue o, nell’accezione meno benevola, la “Piccola città, bastardo posto” di Guccini; nella seconda, invece, la storia assume i contorni di un noir senza sconti, in cui un personaggio apparentemente di secondo piano nella prima parte del romanzo, diviene protagonista assoluto e risolve, con caparbietà e un pizzico di fortuna, un caso particolarmente intricato. Già, perché a Lumache non ci sono solo le vave, le tresche, i pettegolezzi e i retroscena tipici dei posti in cui tutti conoscono tutti. No, ci sono anche omicidi inquietanti, intrighi politici, affari milionari e indagini della magistratura. E se Antonio Tassone, al suo romanzo d’esordio, ci mette la tipica ironia pungente, fino ad immedesimarsi in uno dei personaggi del romanzo, Anton.francesco Milicia apporta la sua anima noir e la sua capacità narrativa già dimostrata ampiamente nei suoi tre precedenti romanzi, in cui una trama robusta e variegata trova efficacemente la sua sintesi conclusiva in cui tutti i protagonisti, apparentemente accantonati, tornano alla ribalta, ognuno col proprio destino. E allora, lasciamo al lettore il piacere di farsi cullare dal ritmo lento della vita di "Lumache", in cui c’è sempre tempo per scambiare due chiacchiere con l’ambizioso architetto, l’arrivista avvocatessa Ferrari, o per uno sguardo lanciato con concupiscenza alla provocante tabaccaia Daniela, sotto l’occhio vigile (benché strabico) di un calzolaio che dall’angolo della piazza principale tiene tutto e tutti sotto controllo, tra il pericolo di cannonate a un pasticcere fascista e le ingombranti incursioni del clochard Canigghia. Fin qui la recensione di MAG ladra di libri, pubblicata il 12 luglio del 2018 sul portale “Locride è Cultura”. "Lumache" è stato un vero caso editoriale, cinquanta presentazioni in pubblico in tanti centri della regione, accolto con entusiasmo da lettori di ogni età. Leggiamo dal prologo, “Il lento resistere”. “A Lumache il tempo fluisce lentamente, scivola via giorno dopo giorno senza fare troppi capricci, come se il nome di questo luogo, strisciando attraverso i secoli, si fosse arrogato il compito affettuoso di decidere quali fossero gli aggettivi adatti per raffigurarne l’identità”. Gli aggettivi sono: Lento, Viscido e Cornuto! Tutto è determinato dallo scorrere delle vave (le bave biancastre e appiccicose). “Le vave, fatte della stessa materia nebulosa dei sogni, rappresentano la inossidabile falsità nascosta in un qualsiasi concentrato umano di carne e spirito, e ne sintetizzano il tanto vero quanto bugiardo genius loci. E dunque: benvenuti a Lumache. Il paese delle vave.” Anton.francesco Milicia, Antonio Tassone, Lumache, Città del Sole edizioni, 2018, pagg. 480, € 20,00

ANILDA IBRAHIMI TRA MACRO E MICROSTORIA

Anilda Ibrahimi è una grande narratrice e questo “Il tuo nome è una promessa” (2017) si colloca appena un passo sotto lo straordinario “Rosso come una sposa” (2008) di cui ho parlato sul blog il 25 gennaio 2009. La Ibrahimi è abile nel tessere le microstorie della sua terra d’origine, l’Albania, nel telaio della macrostoria. La sua terra non è certo avara di Storia, fu Winston Churchill a dire: "I Balcani producono più storia di quanta ne possano digerire". Anilda Ibrahimi è nata e cresciuta nell’Albania Comunista di Enver Hoxha ed è quindi inevitabile che la sua metodologia narratologica sia condizionata da realtà e avvenimenti che lei presume abbiano avuto luogo e che i suoi personaggi si confondano con quelli della vita reale. Il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov sosteneva che l'opera letteraria è storia e discorso allo stesso tempo. “Storia in quanto comprende una certa realtà e avvenimenti che si presume abbiano avuto luogo e personaggi che si confondono con quelli della vita reale. Ma l'opera letteraria è al tempo stesso discorso perché vi è un narratore che narra la storia e un lettore che la percepisce e a questo livello, quello che ha importanza non sono gli avvenimenti raccontati ma il modo in cui il narratore li ha fatti conoscere.” Lo scrittore, il cui linguaggio non può essere neutrale, attinge alle risorse mentali che sono inevitabilmente condizionate dall’impatto degli eventi nel vissuto diretto e quindi prescindono da una valutazione scientifica della realtà. Lo scrittore opera, pertanto, una mediazione tra il valore logico dell’argomentazione e la dose di immaginazione che influenza il percorso di ricostruzione del passato. Non possiamo pretendere pertanto che Anilda sfoderi indulgenza nei confronti del Comunismo; quando Enver Hoxha prese il potere nel 1944 avviò un processo rivoluzionario comunista in un tessuto sociale di tipo feudale segnato da secoli di patriarcato selvaggio. Lenin e Marx hanno insegnato che il processo di transizione al Comunismo non può prescindere da una fase borghese e da una successiva di dittatura del proletariato, ma la microstoria, inevitabilmente, di questa fase di transizione registra solo le conseguenze negative. Ho fatto fatica ad apprezzare questo bel romanzo sia per i giudizi impietosi di Anilda sul periodo comunista del suo Paese, sia per l’ossessivo ricorso al procedimento analettico che genera tensione e disorientamento in chi legge; lo stesso finale indeciso è frutto di questa discontinuità narrativa. La protagonista del romanzo Rebecca, americana, manager di un’organizzazione sovranazionale, arriva a Tirana allontanandosi da un matrimonio in crisi, ma col desiderio recondito di ricostruire una storia familiare che la madre non le ha mai saputo raccontare. “Ha portato la sua vita nella lontana terra dove vagano ancora le ombre della sua infanzia”. A Tirana (“È un posto che ti seduce senza fare nulla per essere seducente”) è accolta da Andi, il funzionario che le farà da assistente, che parla con un “tono svociato” e “le fa venire in mente un cantante di una band heavy metal, nonostante l’abito grigio, anzi fumo di Londra, che lo fa sembrare il testimone di nozze del suo migliore amico all’alba del giorno dopo la cerimonia”. Tra Andi e Rebecca si crea una corrente attrattiva che Rebecca vive con scetticismo e disincanto. “Andi le dice che lui girerebbe la testa, se la vedesse per strada. E lo dice con una tale foga che a lei viene un nodo alla gola. Gli uomini ancora si girano a guardarla, sì, ma lei lo sa, non è nient’altro che un gesto d’addio, un ultimo bagno di stagione”. “È bella Rebecca, a Andi sembra la donna più bella del mondo. Anche se ha gli occhi tristi. La guarda come si guarda un fiore appena sbocciato, pronto a vivere il suo unico giorno. Il suo sguardo non è carico di desiderio ma di incanto, la guarda come il pittore guarda la musa quando ha deciso di regalarle l’eternità”. Molti tratti della narrazione raggiungono livelli di vera poesia, “Nel dormiveglia sente il rumore della pioggia. Finalmente è arrivata. Il ritmo dell’acqua sulla finestra ha una sua dolcezza un po’ amara, quella del fuggitivo che trova riparo lontano da casa e che non riesce a sentirsi in colpa”. L’Albania è il Paese che ha dato ospitalità a sua madre Esther in fuga dalla Berlino nazista (in uno dei tanti flashback troviamo una drammatica descrizione della “Notte dei cristalli”), ma non al punto da metterla al riparo dalla successiva persecuzione degli ebrei ad opera di nazisti e fascisti italiani occupanti. La famiglia di Rebecca è ancora una volta travolta dalla Storia e, allo scoppio della guerra, si ritrova in piena occupazione tedesca, “le loro paure più profonde diventano realtà.” In due pagine, dal grande registro drammatico, Anilda Ibrahimi descrive magistralmente la scena in cui la piccola Abigail si tradisce, rispondendo in tedesco alla brusca domanda di un soldato nazista. I Rosen hanno cambiato identità e lingua per mettersi al riparo, ma “la vecchia lingua ti rantola dentro, relegata in un angolo della mente”. Alla fine, riusciranno a scappare in America (dove nascerà Rebecca) ma perderanno le tracce della sorella di Esther, Abigail, deportata a Dachau. Abigail tornerà da Dachau, ma le due sorelle non si ritroveranno mai più. Abigail condurrà una vita tormentata, in un’Albania preda delle contraddizioni e delle arretratezze civili e sociali a cui, inevitabilmente, nemmeno il comunismo di Enver Hoxha è riuscito a porre riparo. Abigail lotterà disperatamente contro questa realtà, le pagine in cui cerca di conquistare la libertà di genere assieme alla sua amica Italia (un nome volutamente simbolico) sono straordinarie e coinvolgenti, ma nulla potrà. Toccherà a Rebecca fare i conti col passato della sua famiglia, anche con l’aiuto del marito Thomas, che nel frattempo l’ha raggiunta a Tirana per provare a dare un nuovo corso al loro matrimonio. Sarà proprio lui, documentarista e fotografo di successo, a riannodare i fili di quelle vite spezzate ricostruendo in un docufilm le vicende degli ebrei accolti da re Zog e delle due sorelle Esther e Abigail. Grazie al lavoro di Thomas, Rebecca ritroverà il suo uomo (“Questo film per Thomas vuol dire deviare il percorso, alla ricerca di quell’uomo che Rebecca ha visto in lui sin dall’inizio. Vuol dire mettere al riparo l’amore, rovesciare la fine, per ricominciare”) ma troverà in un colpo di scena finale, ma lasciato lì come avesse prodotto un effetto annichilente, la cugina Joanna, figlia di Abigail, che è accorsa alla proiezione e ha riconosciuto la storia della sua famiglia nello schermo. La forma disorganica del romanzo priva del gusto della narrazione classica, ma la formidabile capacità di scrittura della Ibrahimi surroga abbondantemente questa carenza con dei frammenti narrativi veramente memorabili. Quando Rebecca, complice una serata “giusta” di suggestioni musicali e alcoliche, si concede a Andi, leggiamo una scena degna di un film d’autore. “-Facciamo che siamo due che si sono incontrati per caso in una taverna, - aveva detto Rebecca all’improvviso. -E si mettono a bere insieme per non piangere sulle loro vite vuote? – aveva chiesto Andi divertito. -No, così è banale, -aveva riso lei. – Hai ragione. Banale come l’amore. -Non è l’amore che è banale, lo è solo il finale. -Si può avere un amore senza finale? -Sì, in teoria, un amore che non inizia mai e non finisce mai. Ma poi non è più amore. Bisogna inventare una parola nuova, - aveva detto pensoso Andi. … La risposta di Rebecca era stata un lungo bacio. Si era svegliata nel proprio letto con accanto il viso giovane di Andi illuminato dai raggi del sole che entravano dalla finestra. Per una volta non voleva farsi troppe domande. Avevano deciso di trascorrere la giornata al mare. Arrivati a riva, Rebecca si era tolta il vestito ed era corsa verso le onde. … Come ogni donna, era diventata un’altra dopo essersi spogliata davanti a un uomo. Mentre sgusciava via dal vestito aveva quella voluttà che scandisce l’origine del mondo. Poi era sparita in mezzo alle onde come un delfino che esegue il suo numero.” Anilda Ibrahimi, Il tuo nome è una promessa, Einaudi 2017, pagg. 230, € 17,50

domenica 21 febbraio 2021

CORRADO AUGIAS TRA SFURIATE INOPPORTUNE E GAFFE CLAMOROSE

Corrado Augias è tornato di recente a calcare la mano sulle vicende calabresi, commentando i recenti fatti di cronaca relativi all’operazione “Basso profilo” e ai rapporti fra ‘ndrangheta e politica calabrese. Ospite della trasmissione Quante Storie su Rai 3, Augias ha espresso, con la solita finta pacatezza che lo contraddistingue, un giudizio piuttosto sferzante, per non dire sprezzante: “La Calabria è purtroppo una terra perduta, questa inchiesta e anche il maxi processo in corso, del quale i media non hanno parlato a sufficienza, lo dimostrano”. Il conduttore lo interrompe: “È una frase tremenda dire ‘la Calabria è una terra perduta’…” e Augias, senza battere ciglio: “È la mia opinione personale, dunque vale poco, vale quello che vale, è un sentimento, non un’affermazione politica. Io ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile. L’ho visto anche in occasione delle ultime elezioni, avevano un candidato ottimo, un imprenditore calabrese (Callipo, ndr), forte, che resta lì nonostante i rischi che corre, che dà lavoro: lo hanno escluso, hanno eletto un’altra persona che sfortunatamente è mancata (Jole Santelli, ndr). Detto questo, le inchieste di Gratteri vanno seguite con attenzione. Gratteri è calabrese, un altro uomo che è voluto restare in Calabria, fa una vita d’inferno, vive con 4 carabinieri intorno, quando va a zappare il suo piccolo orto la domenica ha 4 carabinieri agli angoli con i mitra, una vita che nessuno vorrebbe fare…”. Ora, a parte, la descrizione iconica di Gratteri ormai trita e ritrita che non tiene in alcun conto i clamorosi flop di gran parte delle azioni penali promosse dal magistar-scrittore calabrese, Augias avrebbe dovuto avere il buon senso di tacere o di documentarsi prima di parlare. Finita la trasmissione sono partite le bordate sui social, prima fra tutte Michela Fazio dello straordinario e popolare blog “La Filosofia Reggina” che il 21 gennaio posta: “No, non ci siamo... se cataloghi un’intera regione come irrecuperabile devi avere gli attributi per andare a monte non mi basta analizzare la vittoria del Presidente di regione; ennò... devi fare i nomi di chi sta a monte... se un uomo si fa lustro sparando a zero su 2 milioni di persone poi deve avere le palle di indicare i burattinai... altrimenti è una pagliacciata. La Calabria è irrecuperabile ma tessi le lodi di due calabresi… sei un tot confuso... irrecuperabile sarai tu coi teatrini ben assestati tipo la restituzione di qualche mese fa. Riempirsi la bocca coi calabresi è facile scontato minuscolo... poi però guarda caso gli intrallazzi si prediligono con la ‘ndrangheta calabrese e guarda caso sono politici altisonanti che vanno dagli ‘ndranghetisti... Gratteri docet. Augias sì Piemontese falso cortese e usurpatori... ringrazia il Sud Italia, staresti ancora alla corte degli austriaci a leccar stivali”. Il giorno dopo sono intervenuto io con questo commento sotto il post di Michela: “30 anni fa ho ospitato Corrado Augias nella mia redazione de Laltrareggio ed è stato anche a casa mia. Era candidato alle Europee col PDS. C’era anche il sindaco Italo Falcomatà. Augias parlava di Questione Meridionale, di terra meravigliosa discriminata e dimenticata, ha promesso che avrebbe portato le nostre istanze in Europa. Eletto con i nostri voti, 5 anni di mandato con stipendio da favola, non si è più visto né sentito. Magari le cose che dice sono giuste ma secondo me avrebbe dovuto tacere per pudore. Anche allora, con lui, i calabresi hanno votato male...” Settimana nera per il povero Augias, dopo qualche giorno la newsletter Charlie del ilPost scriveva: “Corrado Augias si è lamentato nella sua rubrica quotidiana su La Repubblica della mail sgrammaticata che aveva ricevuto da Enel, e del malfunzionamento delle istruzioni che conteneva. Si trattava evidentemente di un caso truffaldino di phishing via mail, e la mail era un'impostura che non c'entrava niente con Enel: è capitato a quasi tutti e la gran parte dei destinatari ormai riconosce il meccanismo e le sue evidenze. Può capitare che per qualcuno come Augias sia una cosa nuova, ma se non ci sono ruoli che fanno filtro in redazione il risultato è che i lettori di uno dei maggiori quotidiani nazionali registrano che Enel spedisce mail sgrammaticate e offrendo servizi ingannevoli e inefficienti, oltre a non essere informati sui pericoli del phishing. Questo nuovo incidente racconta come in molti quotidiani sia stata eliminata la tradizionale cautela di rileggere anche gli articoli più importanti prima di pubblicarli: e questo c'entra con una antica cultura poco attenta alle verifiche e ai controlli ma ormai anche con un sempre più severo taglio delle accortezze e revisioni minime, e che è proprio di un modo di confezionare i giornali diventato più precipitoso. Stamattina si è scusato Augias”. Nella foto: Corrado Augias e Franco Arcidiaco Aprile 1994 – Campagna elettorale Europee, redazione Laltrareggio

sabato 20 febbraio 2021

LA RICOSTRUZIONE DELLA CATTEDRALE DI NÔTRE-DAME PARTE DAL LAVORO DI UN ARCHITETTO REGGINO

Il “cantiere del secolo” come lo chiama il presidente francese Emmanuel Macron, si basa su un modello digitale della cattedrale di Notre-Dame andata a fuoco il 15 aprile 2019. È quello il punto di riferimento, la mappa che guida i lavori, lo strumento che -grazie a robot e intelligenza artificiale- fotografa, cataloga e connette le migliaia di resti di legno e pietre spezzate che sono la conseguenza del disastro. A guidare il gruppo di ricercatori del Cnrs (l’equivalente del nostro Cnr) c’è un italiano 44enne, Livio De Luca, arrivato in Francia quasi 20 anni fa per un master a Aix-en-Provence dopo la laurea in architettura a Reggio Calabria, e vincitore nel 2019 della “medaglia dell’innovazione del Cnrs”. “Per ricostruire Notre-Dame dobbiamo mettere insieme i pezzi di un immenso puzzle”, dice in collegamento Zoom da Marsiglia, dove vive. De Luca è di formazione architetto e poi ha aggiunto diplomi di informatica. La digitalizzazione del Patrimonio è la sua specializzazione. Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi del Corriere della Sera, 19 febbraio 2021

RIPIDDU NIVICATU - ADELANTE ETNA, CON JUICIO...

Stamattina l'Etna (u mungibeddhu) dal balcone di casa mia, era la rappresentazione plastica di uno dei piatti più gustosi e spettacolari della tradizione siciliana: U ripiddu nivicatu. Una montagnola di riso al nero di seppia, un cappuccio di morbida ricotta e uno sbaffo di salsa piccante. Una meraviglia per la vista e per il palato. L'ho mangiato mille volte, ma quello del mio privilegio era servito (come Piatto del Buon Ricordo) dal mitico ristorante di Catania "La Siciliana". "La Siciliana" è stato per decenni il miglior ristorante di Catania, almeno fin quando la sciagura della "nouvelle cuisine" non si è abbattuta sulle nostre tavole. Comunque, il ristorante esiste ancora e mi riprometto di visitarlo appena possibile. Adelante Etna, con juicio...

DA ANGELA MERKEL A MARIO DRAGHI PER GLI STATI UNITI D'EUROPA

La Germania ha detto addio ad Angela Merkel con sei minuti di calorosi applausi. I tedeschi l'hanno scelta per guidarli, e lei ha condotto 80 milioni di tedeschi per 18 anni con competenza, abilità, dedizione e sincerità. Durante questi diciotto anni di leadership nel suo paese, non ci sono state violazioni. Non ha designato una segreteria per nessuno dei suoi parenti. Non ha ostentato il suo ruolo. Non ha combattuto contro coloro che l'hanno preceduta. Quando parlava, non diceva cazzate. Non si è presentata nei vicoli di Berlino per essere fotografata. Lei è la donna che è stata soprannominata "La signora del mondo" ed è stata descritta come l'equivalente di sei milioni di uomini. Pochi giorni fa Merkel ha lasciato la posizione di leadership del partito e l'ha consegnata a coloro che l'hanno sostituita, la Germania e la sua gente tedesca sono in una forma migliore rispetto a prima del suo arrivo. La reazione dei tedeschi è stata senza precedenti in tutta la loro storia. Tutti in città sono usciti dalle case e hanno applaudito calorosamente e spontaneamente per 6 minuti di fila. Non c'è stato alcun complimento, ipocrisia, rappresentazione o esagerazione. La Germania si è presentata come un solo corpo salutando il suo leader, una fisica chimica che non si è lasciata sedurre dal potere, dalla moda o dalle luci. Non ha comprato immobili, auto, yacht o aerei privati, sapendo che era dell'ex Germania Est. Ha lasciato il suo posto dopo aver lasciato la Germania in mani sicure. Diciotto anni alla guida del paese e non è cambiata. In una conferenza stampa un giornalista chiese alla Merkel: - noto che il suo vestito è lo stesso di ieri, non ne ha un altro? Lei rispose: - Sono un funzionario del governo e non una modella. In un'altra conferenza stampa gli è stato chiesto: - La signora ha domestiche che puliscono la casa, preparano i pasti, ecc.? La sua risposta è stata: - No, non ho bisogno di loro. Io e mio marito facciamo questi lavori a casa ogni giorno. La signora Merkel vive in un normale appartamento come ogni altro cittadino. Questo appartamento è quello in cui viveva prima di essere eletta Primo Ministro della Germania e non l'ha lasciato. Non possiede una villa con impiegati, piscine e giardini. Questa è Merkel, il primo ministro della Germania, la più grande economia d'Europa. Fin qui l’articolo di Marianne Gentile, io aggiungo che ora Mario Draghi ne ha raccolto il testimone ed è giunto il momento di un deciso passo in avanti verso il raggiungimento del sogno degli Stati Uniti d’Europa.

IL CEDIMENTO DI STEFANO ZURLO DAVANTI AL POTERE GIUDIZIARIO

Stefano Zurlo e la Baldini+Castoldi, nel vano e velleitario tentativo di bruciare sul tempo l’uscita del libro di Sallusti e Palamara con Rizzoli, hanno confezionato un librettino inutile e sovradimensionato nell’allestimento, per giustificare lo scandaloso prezzo di 18euro. Sto parlando de “Il libro nero della magistratura”, un copincolla noioso e bacchettone di vicissitudini giudiziarie di magistrati e del loro esito processuale. Attenzione, le vicende narrate sono tutte realmente accadute (guarda un po’, l’incipit della prefazione di Zurlo recita: “Altro che Palamara…”) tanto è vero che l’autore rivela che il materiale gli è stato fornito “con la benedizione del vicepresidente del CSM David Ermini”; materiale succoso, quindi, per qualunque cronista che si rispetti. Il punto è che il prode Zurlo di fronte al potere giudiziario ha un cedimento, teme colpi di coda dei magistrati coinvolti, sa, probabilmente, che l’adagio “cane non morde cane” impera soprattutto nelle aule dei tribunali e fa un clamoroso passo indietro. Pubblica il libro, descrive dettagliatamente le vicende ma cambia nomi e cognomi, cambia i luoghi e “i riferimenti che potrebbero rendere riconoscibile l’autore di turno del misfatto”. Il risultato sono 223 pagine inutili e noiose, un elenco di brogliacci per sceneggiature di commedie all’italiana di serie B. Praticamente la negazione del giornalismo d’inchiesta e una semplice paraculata editoriale. Stefano Zurlo, Il libro nero della magistratura, Baldini+Castoldi, 2020, pagg. 224, € 18,00