domenica 17 ottobre 2021

FASCISTI O VIOLENTI SELVAGGI?

In questi giorni si è abusato del termine “fascista”, anche sull’onda emotiva conseguente gli scontri di Roma e l’assalto alla sede della CGIL. Si è abusato al punto tale da far apparire ragionevole finanche Giorgia Meloni, che in parlamento ha spiegato chiaramente cosa può accadere nel momento in cui gli addetti all’ordine pubblico perdono (volontariamente, come lei sostiene con malizia, o meno) il controllo della piazza. Chi si aspettava una replica del celebre “discorso del bivacco” all’interno “dell’aula sorda e grigia” di memoria mussoliniana, è rimasto deluso. La Giorgia nazionale ha avuto buon gioco a mettere alle spalle al muro la ministra dell’interno Lamorgese, apparsa chiaramente indifendibile. La Meloni sa bene che non si può togliere per legge dalla testa a chi si crede fascista di fare il fascista, ma sa altrettanto bene che non è questo oggi il problema principale della società italiana. La parola-chiave “fascista” viene spesso tirata fuori dalla Storia e gettata nell’agone della cronaca ma, come ha chiarito più volte lo storico Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice: «La qualificazione di fascista nei modi in cui ora è adoperata, rischia di diventare un semplice e generico detto di contumelia, buono per ogni occorrenza, se non si tiene fermo il proprio suo significato storico e logico». Gentile è il più grande storico del fascismo da decenni e non si può prescindere dai suoi classici (due su tutti: “Le origini dell’ideologia fascista” del 1975 e “Storia del Partito fascista” del 1989 riedito nel 2021) se si vuole studiare a fondo il ventennio. Molto opportunamente due anni fa, Gentile, rendendosi conto della necessità di mettere un po’ d’ordine nell’interpretazione degli eventi, ha pubblicato con Laterza un agile pamphlet denominato “Chi è fascista”. Dalla sinossi del libro leggiamo: «A 100 anni dalla nascita del movimento fascista, a oltre 70 dalla fine del regime, 'il fascismo è tornato'. In rete e nei media l'allarme è al massimo livello. Caratteristiche del nuovo fascismo sarebbero: la sublimazione del popolo come collettività virtuosa contrapposta a politicanti corrotti, il disprezzo della democrazia parlamentare, l'appello alla piazza, l'esigenza dell'uomo forte, il primato della sovranità nazionale, l'ostilità verso i migranti. Fra i nuovi fascisti sono annoverati Trump, Erdoğan, Orbán, Bolsonaro, Di Maio, Salvini. Insomma, all'inizio del XXI secolo, trapassato il comunismo, disperso il socialismo, rarefatto il liberalismo, il fascismo avrebbe oggi una straordinaria rivincita sui nemici che lo avevano sconfitto nel 1945. Ma cos'è stato il fascismo? È stato un fenomeno internazionale, che si ripete aggiornato e mascherato? Oppure il 'pericolo fascista' distrae dalle cause vere della crisi democratica?». Gentile mette in guardia da una narrazione «che mescola fatti, invenzioni, miti, superstizioni, profezie, paure e illusioni. Una narrazione che inevitabilmente provoca l’anchilosi della mente critica e ci impedisce di comprendere il presente». In un’intervista a Carmelo Caruso de Il Foglio è stato ancora più tranchant: «Non credo che abbia alcun senso, né storico né politico, sostenere che oggi c’è un ritorno del fascismo in Italia, in Europa o nel resto del mondo». Spiega ancora il professore: «Cerco periodicamente di liberarmi da questa domanda (“sta tornando il fascismo?”) offrendo sempre la stessa risposta. Fascismo non significa più nulla quando diventa una parola che si può applicare a tutto. È come la mafia. Se tutto è mafia, niente è mafia. È ormai una delle quattro parole italiane entrate nel lessico internazionale insieme a spaghetti, pizza e appunto mafia. Non sappiamo neppure inventarci una nuova parola… è un’onda lessicale che si alza e si abbassa. Anche quello di oggi non è un effettivo ritorno del fascismo ma un uso sempre più elastico della parola». La lucidità dello storico ci deve indurre a raddrizzare lo sguardo e focalizzare la nostra attenzione sulla realtà che ci sta davanti, che registra l’abbattersi di un’ondata di selvaggia violenza che non risparmia più, ormai, alcun angolo del globo. Gentile è chiarissimo e non da spazio a interpretazioni diverse: «È l’età selvaggia. È l’età dei selvaggi. Un’età di ignoranza, di angoscia e di ostilità. Nasce da mezzi di informazione irrazionali e dalla stupidità. Come si può chiedere di essere ragionevoli quando in televisione si dà libero sfogo a tesi antiscientifiche? Non è più informazione ma qualcosa che ha a che fare con l’oroscopo» e ancora: «La pandemia ha colpito i miei familiari. Ho visto con i miei occhi gli effetti. Propongo visite guidate nei reparti di terapia intensiva. Non saremo mai cattivi. Ai selvaggi non augureremo mai quel dolore». Alla stampa e ai media il compito di sfuggire alle codificazioni stereotipate dei fatti magari ricorrendo all’aiutino, come in questo caso, degli studiosi.

lunedì 11 ottobre 2021

IL POLITICALLY CORRECT CHE INQUINA LA LETTERATURA

Assegnato il premio Nobel 2021 per la Letteratura, la vittoria è andata a Abdulrazak Gurnah, tanzaniano, “per la capacità di raccontare a fondo gli effetti del colonialismo senza compromessi ma con compassione (sic!)”. Ora, a parte il fatto che avrei voluto vedere uno che racconta gli effetti del colonialismo scendendo a compromessi e pretenda di essere premiato, mi domando quando giungerà infine il tempo che l’alloro di Stoccolma sarà assegnato a seguito della valutazione della qualità letteraria e non esclusivamente in base all’impegno civile dello scrittore. Il virus micidiale del politically correct imperversa e non si intravede ombra d’immunità di gregge tra le pecorelle smarrite della letteratura. Luigi Mascheroni su Il Giornale si chiede giustamente: «Perché non duplicare il premio Nobel e, ogni anno, assegnare due diversi riconoscimenti? Uno per l’impegno civile dello scrittore (anche se in parte esiste già: è il Nobel per la Pace) e uno per il valore letterario dell’opera. Così si potrebbe premiare sia un autore che si batte contro i grandi mali dei nostri tempi (e di quelli passati) come il colonialismo, il razzismo, il sessismo, il maschilismo, il White Power, i fascismi imperanti, viva i transgender, i diritti dei Maori, quelli degli Inuit, e la tutela dell’ambiente..., sia un grande autore che se ne frega degli stessi temi ma racconta storie, scritte bene, che hanno la pretesa di riempire la vita (cambiarla sarebbe troppo) a più persone possibili». Il panorama della letteratura è ormai ammorbato da libri ibridi, saggi romanzati, romanzi storici o politici, centoni, zibaldoni, canovacci per sceneggiature di serie televisive, obiettivo quest’ultimo che costituisce il massimo dell’aspirazione per gli scrittori di ogni latitudine. C’è da rimanere sgomenti alla domanda: a che punto è il romanzo contemporaneo? Sembra finita inesorabilmente l’era del “romanzo puro”, i libri non appartengono più a un genere preciso e sono ridotti alla stregua di oggetti inclassificabili. La parola d’ordine è contaminazione e scrittura ibrida, il risultato sono libri noiosi, superficiali e piatti. La tanto celebrata Annie Ernaux nel suo “Una donna” tiene, per esempio, a precisare: “questa non è una biografia né ovviamente un romanzo”. Per non parlare di Sandro Veronesi e del suo caotico (ma ben scritto, per carità!) “Il colibrì”, che l’editore, nell’aletta di copertina, arriva a definire: “Un romanzo potentissimo, che incanta e commuove, sulla forza struggente della vita” mettendo a dura prova la tenuta statica della tomba di Dostoevskij. Certo non si può non amare Emmanuel Carrère, gran sacerdote dell’ibrido e maestro dell’azzeramento di confine tra verità e finzione, anche se il suo ultimo “Yoga” terrorizza sin dal primo claim pubblicitario: “libro per appassionati di complessità”. Non è un caso che un grande affabulatore nostrano quale Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021, passi con disinvoltura dalla classifica di vendite della “saggistica” a quella della “narrativa”. Torneremo al romanzo tradizionale d’impianto classico? I nostalgici dell’io narrante possono nutrire qualche speranza o saranno costretti a tirar giù dagli scaffali i classici dell’Ottocento? In Italia una flebile luce l’ha accesa Giulia Caminito con il bel “L’acqua del lago non è mai dolce” e molte speranze le ripongo nell’ultimo di Alessandro Piperno “Di chi è la colpa”, ma di quest’ultimo mi riservo il giudizio dopo averlo letto.

domenica 10 ottobre 2021

MIMMO LUCANO E LA STAMPA D’OPINIONE

Dal mare magnum di commenti apparsi sui giornali dopo la condanna di Mimmo Lucano ne emergono tre che, da punti di vista differenti, potranno risultare utili agli storici di domani. Nel fronte giustizialista e manettaro, si distingue il solito Marco Travaglio che su Il Fatto quotidiano del 1° ottobre non esita a schierarsi con i giudici accreditando l’immagine di un Lucano certamente condannabile. Negando che l’ex sindaco di Riace sia stato perseguitato prima e condannato poi per l’azione svolta a favore dei migranti, Travaglio sostiene che la condanna si riferisca esclusivamente a gravissimi reati amministrativi. “La sua battaglia contro le leggi sull’immigrazione – ammesso e non concesso che sia ammissibile da parte di un sindaco – non c’entra nulla. E nemmeno il ‘modello Riace’, cioè il meritorio ripopolamento di un comune depresso con l’integrazione dei migranti”. La condanna, secondo Travaglio, riguarda quindi non gli aiuti ai migranti, ma una serie impressionante di “pasticci finanziari con denaro pubblico”. Dall’associazione a delinquere, alla truffa aggravata allo Stato, al peculato, alla concussione, alla turbativa d’asta, fino all’immancabile e, direi, famigerato abuso d’ufficio, vera e propria spada di Damocle che pende inesorabilmente sul capo di tutti quelli che hanno a che fare con la pubblica amministrazione. Da bravo e, in questo caso, paterno questurino, Travaglio vuol dimostrarsi clemente nei confronti di Lucano, ammettendo che il severo giudizio di primo grado possa essere rivisto in sede d’Appello. La chiosa dell’articolo è in linea col nuovo corso grillino: “Sul piano politico e morale, a parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi. È possibile che agisse con le migliori intenzioni. Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole. L’impressione è che la nobile missione del ‘modello Riace’ gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni”. Il nostro Marco è un po’ meno Travaglio del solito ma, naturalmente, si guarda bene dall’indagare sulle vere cause dei “pasticci” di Lucano e non pensa nemmeno lontanamente che magari possano risiedere tra le ovattate mura di qualche Prefettura o del Viminale, autorità che quando non sapevano dove sbattere la testa gli mandavano migranti “da gestire” con tanto di ringraziamenti ed elogi. Tutt’altra musica da parte dell’ultragarantista Adriano Sofri che, su Il Foglio del 30 settembre, non esita a definire la condanna di Mimmo Lucano come “un totale ripudio del buon senso”, liquidando come uno sciocco luogo comune la convinzione generale che “le sentenze non si commentano”, sarebbe come levare il sale alla democrazia, aggiungo io. Sofri sembra voler accendere i riflettori sulla strana e a dir poco avventurosa nomina del giudice Fulvio Accurso a presidente del Tribunale di Locri, quando improvvisamente frena, lasciando sospese nell’aria le pesanti illazioni che sembrava pronto ad imbastire. Severo è comunque il suo giudizio sulla sentenza: “…la condanna pressoché raddoppiata non è solo il ripudio del buon senso confrontato con la lettera della legge, né la severità feroce che respinge come intrusa umanità e buon senso: è una bravata. Per far riuscire il calcolo, ha dovuto negare agli imputati, incensurati, le stesse attenuanti generiche, e negare la ovvia continuazione del reato. Perché? Bisognerà che lo spieghi lui, il giudice, e immagino che vorrà tenere per sé la stesura delle motivazioni, dopotutto è la gran festa della sua vita. Ma le motivazioni non basteranno. Dev’esserci qualcosa d’altro in una simile messinscena della giustizia, in una simile rivalsa sul suo pubblico tramonto. Sapete che cos’è una sentenza suicida. È una sentenza deliberatamente assurda, e assurdamente motivata, per garantirsi l’annullamento nei gradi successivi. Un inganno vergognoso, di solito perpetrato per rivalersi da giudici togati e soprattutto dai giudici popolari dell’assise che abbiano imposto un’assoluzione non voluta dal presidente. Qui, dove tutto sembra ribaltato, la sentenza sfida l’assurdità a vantaggio dell’oltranza. Fama del piccolo sindaco, popolarità nazionale, classifiche internazionali che lo mettono al secondo posto fra i sindaci del pianeta, al quarantesimo dei cento personaggi più influenti, alla candidatura al Nobel: una carriera che va schiacciata col doppio della tracotanza. Ha creduto di ‘dominare’ Riace (così l’accusa) rendendola extraterritoriale, facendosi la sua propria legge, procurando matrimoni di donne straniere e facendo ripulire il paese coi somari, fottendosene dello stato”. Implacabile, quindi, la sentenza di Sofri nei confronti della Giustizia italiana, inguaribilmente sfregiata da deleteri e macchinosi bizantinismi. Bisogna infine giungere alle pagine de Il Manifesto del 2 ottobre e alla penna di Carmine Fotia, per ottenere una chiave di lettura opportunamente “meridionalista” e squisitamente politica della vicenda. Fotia definisce agghiacciante “la sentenza che ha condannato Mimmo Lucano a una pena esorbitante, 13 anni e due mesi, come quelle che prima i tribunali sabaudi e poi quelli fascisti comminavano ai ribelli calabresi che trattavano alla stregua di briganti”. E ancora: “Il problema non è la fisiologica differenza di giudizio sull’interpretazione dei fatti tra giudici, bensì il rovesciamento del significato delle azioni commesse: per inserire persone svantaggiate secondo la Cassazione, per ottenere consenso e potere secondo il tribunale di Locri. E anche l’entità della pena che addirittura raddoppia la richiesta dell’accusa va al di là di possibili errori e violazioni di norme di legge: la condanna è degna del capo di una vera e propria organizzazione criminale”. Carmine Fotia sottolinea come si sia fatta strada “una cultura giustizialista che criminalizza l’accoglienza trasformando migliaia di volontari in potenziali criminali e militanti politici come Mimmo Lucano in pericolosi delinquenti”. La sua chiave di lettura meridionalista sottolinea come la sentenza produca “il rafforzarsi di una grottesca narrazione della Calabria come luogo irredimibile, territorio da bonificare con le buone o le cattive, dove i buoni sono solo un pugno di coraggiosi magistrati che vogliono rivoltarla come un calzino per purificarla dal male. Per fortuna ci sono scrittori e scrittrici come Mimmo Gangemi, Gioacchino Criaco, Katia Colica, che avanzano letture più profonde, colte, più in grado di leggere la drammatica complessità di una terra dura e spesso ingiusta che non ha bisogno di liberatori bensì di poter liberare le proprie energie, come ci ricorda lo storico Ilario Ammendolia nel suo piccolo ma prezioso libro per capire i danni del paradigma giustizialista (La ‘ndrangheta come alibi, Città del Sole Edizioni)”. Esattamente quello che faceva Mimmo Lucano, immaginando che per sottrarre la Calabria all’egemonia e al controllo asfissiante della ‘ndrangheta non basti la repressione, tanto più quando spettacolarizzata, bensì serva affermare nella pratica quotidiana una cultura del rispetto e della dignità di ogni essere umano che è alternativa alla cultura dell’appartenenza e del sangue che è il cuore della cultura mafiosa.

domenica 3 ottobre 2021

IL MILLENNIO BIZANTINO E LE SUE FIGURE FANTASTICHE E CONTROVERSE

Meritevole iniziativa editoriale del Corriere della Sera che, in abbinata al quotidiano, ha mandato in edicola la collana “Medioevo” in 35 volumi curati, manco a dirlo, da Franco Cardini. Uno dei titoli più interessanti è certamente il classico “Figure bizantine” di Charles Diehl (1859-1944) celebre professore di Storia bizantina alla Sorbona. Si tratta di una ricca storia dell’Impero greco d’Oriente che, come ben scrive Silvia Ronchey nella prefazione, “disegna un vero florilegio storico, prosopografico, letterario, estetico, del millennio bizantino. … Sono pochi, tra i sedimenti della storiografia novecentesca, quelli che ancora brillano alla luce del ventunesimo secolo. Le Figure di Diehl sono tra questi.” La storiografia ufficiale del Novecento ha, volutamente o meno, disegnato un’immagine stereotipa e distorta della corte di Bisanzio come regno esclusivo di intrighi da gineceo. Il senso spregiativo che diamo ancora oggi all’aggettivo “bizantino” e anche l’irragionevole percezione della storia bizantina come “decadenza infinitamente protratta”, hanno radice nella pruderie che permeava il partito borghese degli eruditi, di cui lo stesso Diehl era parte predominante. Il gran merito di questo libro consiste nell’aver rilevato, tra l’altro, una dimensione sostanziale: la preminenza, stabilità e autorevolezza del potere femminile lungo tutti gli undici secoli di Bisanzio. “Duttili e delicati spiriti femminili così pronti, nella loro complessità, a ricevere tutte le influenze, a riflettere tutte le tendenze del cangiante mosaico dell’impero”, le donne bizantine che Diehl scoprì -da Irene di Atene a Teofano, da Zoe Porfirogenita ad Anna Dalassena, da Anna Comnena a Irene Ducas, fino alle spose occidentali dell’ultima dinastia imperiale di Bisanzio, i Paleologhi- sono “menti straordinarie e anime mediocri, grandi ambiziose e figure devote”, non meno spregiudicate e incisive di personaggi maschili quali Basilio il Macedone, Leone il Saggio o “quel don Giovanni bizantino che fu Andronico Comneno”. “Non solo la celeberrima Teodora di Giustiniano” verrebbe da dire, in undici secoli nel palazzo imperiale di Bisanzio e nella chiesa di Santo Stefano del Palazzo, si sono avvicendate basilisse che giungevano tra le braccia del basileus attraverso un accuratissimo e sofisticato sistema di scouting che percorreva tutte le vie dell’impero per selezionare la compagna giusta per l’imperatore. Scrive Diehl: “È chiaro che i basileis non tenevano poi eccessivamente ai quarti di nobiltà, e che una qualsiasi bella ragazza poteva sembrar loro un’imperatrice accettabile. Il fatto era che le cerimonie solenni che accompagnavano l’incoronazione e le nozze erano sufficienti a conferire alla futura sovrana una personalità del tutto nuova e a trasformare la povera ragazza di ieri in un essere sovrumano, incarnazione vivente del potere assoluto e della divinità. Non starò a descrivere dettagliatamente il pomposo cerimoniale, poiché queste solennità bizantine si somigliano tutte un po’ nella loro monotona magnificenza… ma basterà ricordare qualche atto simbolico, qualche gesto caratteristico, che mettono a fuoco tutta la maestà insita nel titolo glorioso di imperatrice di Bisanzio. Un esempio, tanto per cominciare, è che le nozze fanno seguito all’incoronazione e non la precedono”. Diehl avverte giustamente che “nella storia di una società scomparsa ciò che deve maggiormente attirare l’attenzione non sono le grandi imprese belliche, né le rivolte di palazzo o di caserma… quelli che bisogna cercare di rintracciare e che ci possono maggiormente ragguagliare, sono gli aspetti molteplici dell’esistenza quotidiana, i modi diversi di essere e di pensare, i comportamenti e le usanze, in una parola la civiltà”, “…ciò che noi conosciamo di meno, ciò che i documenti ci permettono meno agevolmente di intravedere, e ciò che, forse, ci interessa di più sono i sentimenti, i modi di essere e di pensare, la condizione e la vita intima delle classi medie…”, “Il grande uomo, per il solo fatto di essere grande, conserva sempre qualcosa di personale, di fuori dalla norma; mentre la persona di condizione media, in generale non è altro che l’archetipo di un modello ampiamente ripetuto e acquista così una sorta di valore rappresentativo. Conoscerne uno vuol dire conoscerne migliaia… e queste migliaia sono la materia oscura con cui si fa la Storia…”. Non manca una meravigliosa descrizione della Costantinopoli del V secolo: “…nonostante il suo carattere di capitale cristiana rimaneva profondamente impregnata di memorie pagane. Arricchita da Costantino e dai suoi successori delle più splendide spoglie dei santuari antichi, esibiva in piazze e palazzi i più famosi capolavori della scultura greca, ed era come se in questo museo incomparabile gli dèi decaduti serbassero ancora il loro prestigio e la loro gloria”. Il capitolo dedicato a Teodora e alla Storia segreta che la riguarda, assume i contorni del romanzo d’appendice, basterebbe solo la descrizione di Alessandria: “La capitale egiziana non era certamente solo un grande centro commerciale, una città elegante e ricca, corrotta e di facili costumi, paese d’elezione di celebri cortigiane. Dal IV secolo era anche una delle capitali del cristianesimo”, e, guarda caso, una sosta abbastanza lunga ad Alessandria fu determinante nell’esistenza della bella Teodora che possedeva alcune di quelle eminenti qualità che legittimano la ricerca dell’autorità suprema: avvenenza, intelligenza superiore, ambizione e sete di potere, energia feroce, fermezza virile, e “un freddo coraggio che si dimostrò all’altezza delle circostanze più difficili. Col risultato che nei ventun anni in cui regnò accanto a Giustiniano ella ebbe un’influenza profonda e legittima su un marito che l’adorava” e ancora oggi il nome di Teodora è associato a quello dell’imperatore, in San Vitale, a Ravenna, la sua immagine nei mosaici dimostra come Giustiniano aveva voluto condividere con Teodora i trionfi militari e le più fulgide glorie del regno. Il 18 gennaio 532 quando Giustiniano, assediato dagli insorti, non vedeva altro scampo che la fuga, Teodora indignata dalla viltà che la circondava richiamò imperatore e ministri al loro dovere, salvando così il trono di Giustiniano: “Quand’anche non mi restasse altra salvezza che la fuga, io non fuggirei. Chi ha cinto una corona non dovrebbe sopravvivere alla sua perdita. Che io possa non vedere il giorno in cui non mi saluteranno più con il titolo di imperatrice! Se tu, o Cesare, decidi di fuggire, fallo pure: non ti manca il denaro per farlo, ed ecco laggiù il mare, con le tue navi pronte nel porto. Quanto a me, io resto. Mi attengo all’antica massima: la porpora è il più glorioso dei sudari.” In realtà Teodora va iscritta di diritto nella grande famiglia degli imperatori bizantini, i quali hanno sempre saputo intravedere sotto l’apparenza effimera e mutevole delle dispute religiose il fondo permanente di un problema politico, mentre Giustiniano, teologo puro, si occupava di contese religiose per il gusto della controversia, per il piacere sterile del dogmatismo. La galoppata di Diehl lungo i secoli bizantini non manca di analizzare le dispute, una per tutte quella delle immagini, che generarono persecuzioni crudeli e violenze inaudite. La pratica dell’accecamento, che sostituiva cinicamente la pena di morte, era praticata con tale frequente disinvoltura da rendere intollerabile la lettura delle cronache di quegli anni; l’imperatrice Irene moglie di Leone IV e tutrice di Costantino VI (il suo regno viene definito da Diehl come uno dei più sbalorditivi) non esitò a eseguire una lunga sequela di sentenze brutali e cruente, il cui culmine fu l’ordine dell’accecamento del figlio al fine di succedergli, lei donna, con il titolo di imperatore: “Irene, gran basileus e autocrate dei Romani”. Lo splendore del palazzo imperiale raggiunse l’apogeo a partire dal 829, anno dell’insediamento di Teofilo, figlio di Michele II di Amorio. “All’imperatore piaceva edificare. Agli antichi appartamenti di Costantino e di Giustiniano aveva aggiunto tutta una serie di costruzioni sontuose, adornate col gusto più squisito e ricercato. Amante dello sfarzo e della magnificenza, per ravvivare la grandiosità dei ricevimenti a palazzo aveva commissionato ai suoi artisti delle meraviglie di oreficeria e di meccanica: il Pentapirgio, famoso armadio d’oro in cui si esponevano i gioielli della corona, gli organi d’oro che suonavano nei giorni di udienze solenni, il platano d’oro che si ergeva accanto al trono imperiale e sul quale uccelli meccanici volteggiavano cantando, i leoni d’oro accucciati ai piedi del sovrano che a tratti si drizzavano, agitavano la coda, ruggivano, e i grifoni d’oro dall’aspetto misterioso che sembravano vegliare, come nei palazzi dei re asiatici, sulla sicurezza dell’imperatore”. Teofilo, tutto preso dalla sua passione per l’arte sfarzosa, trascurò l’educazione del figlio Michele III che si rivelò “marcio nel profondo” e asceso al trono giovanissimo, alla morte prematura del padre, si abbandonò a una condotta sciagurata e demenziale; le cronache del tempo tratteggiano il suo regno come uno dei momenti più bassi dell’era bizantina. Sorvolando, per brevità su molti altri personaggi di gran rilievo, due su tutte Teofano (vera e propria femme fatale) e Zoe la Porfirogenita (“la sua storia è certamente una delle più piccanti che ci abbiano serbato gli annali bizantini… ha riempito il palazzo imperiale delle sue avventure scandalose…”), giungiamo al XII secolo nel cui corso la seconda e la terza crociata misero ancora una volta in contatto antagonista Bizantini e Latini: “Da parte dei guerrieri indisciplinati della crociata ci sono i soliti saccheggi, le solite violenze, le solite pretese imperiose; da parte dei Greci ci sono i soliti mezzi, spesso molto sleali per sbarazzarsi dei visitatori scomodi e togliergli la voglia di ritornare”. Quando agli antichi rancori cresciuti a dismisura si aggiunse, sempre più chiara, la consapevolezza della ricchezza e anche della debolezza di Bisanzio, i Latini non resistettero più alla tentazione. I baroni della Quarta crociata, partiti per la conquista del Santo Sepolcro, finirono per conquistare Costantinopoli e per rovesciare il trono dei basileis con la tacita complicità del papa e l’applauso universale del mondo cristiano. “L’instaurazione di un impero latino sulle rovine della monarchia di Costantino offendeva troppo crudelmente il patriottismo bizantino perché questa soluzione brutale potesse calmare i vecchi rancori e placare l’antagonismo dei due mondi”. È chiaro che ogni crociata ha avuto come conseguenza la fondazione di uno Stato latino in Oriente. “Fu come un pezzo di Europa feudale trasportata sotto il cielo d’Oriente”. Ma come ben sottolinea Diehl (e se vogliamo questa è proprio la chiave del libro): “E se, come sempre accade quando si fronteggiano due civiltà ineguali, la meno avanzata di esse -era allora il caso di quella occidentale- subì potentemente l’influenza delle civiltà superiori, araba, siriana, bizantina con cui fu in contatto, pur ricevendo molto essa dette anche molto in cambio”. E se l’Occidente trasse un notevole beneficio nel campo delle scienze e del pensiero, manifestò senza alcun dubbio una grande influenza sul mondo greco nel campo dei fenomeni sociali. Su tutto troneggia “l’incommensurabile orgoglio dei bizantini, coscienti della loro lunga tradizione di civiltà, di non essere per nulla dei barbari”. Memorabile il grande disprezzo con il quale l’altra grande principessa bizantina Anna Comnena (1083-1153), moglie di Niceforo Briennio, bolla i crociati: “…di quei barbari rozzi di cui si scusa perfino di dover introdurre nella sua storia i nomi grossolani; doppiamente offesa nel suo amor proprio letterario di sentire il ritmo della frase rotto da quei vocaboli stranieri, e nella sua arroganza imperiale di dover perdere tempo a occuparsi di quegli uomini che la disgustano e la tediano”. Giungiamo quindi a un altro personaggio chiave, Andronico Comneno, modello perfetto del bizantino del XII secolo, con tutte le sue qualità e con tutti i suoi vizi che Diehl non esita a definire “Il Cesare Borgia d’Oriente”. Indifferente in materia religiosa, al contrario della maggior parte dei Bizantini provava una noia insostenibile per le dispute teologiche. Morì dopo un atroce supplizio nel 1185 a sessantacinque anni, dopo aver riempito tutto il XII secolo del clamore delle sue avventure, dello splendore delle sue nobili virtù e dello scandalo dei suoi vizi. “La sua vita, fantastica quanto un romanzo, è una delle più pittoresche della storia di Bisanzio. Con i suoi colpi di testa e di spada, le sue evasioni e i suoi amori, le sue disgrazie e i suoi ritorni in auge, questo avventuriero prodigioso, vera e propria incarnazione del ‘superuomo’, seduce ancora i posteri come sedusse i suoi contemporanei”. La sua personalità potente offre qualcosa di più di un interesse aneddotico: è singolarmente caratteristica e rappresentativa. “Nella vita di questo principe geniale e corrotto, tiranno abominevole e grande uomo di Stato che invece di salvare l’impero come avrebbe potuto non fece che affrettarne la rovina, si trovano effettivamente, riuniti in sintesi, tutti i tratti essenziali, tutti i contrasti di questa società bizantina, strano miscuglio di bene e di male, crudele, atroce, decadente, ma anche capace di grandezza, di energia, di impegno. Una società che per secoli, in tutti i momenti torbidi della sua storia, è sempre riuscita a trovare in sé stessa le risorse per vivere e per durare, e non senza gloria”. Nemmeno a Bisanzio, come in ogni luogo e in ogni epoca, gli intellettuali se la passavano granché, “nonostante il rinascimento letterario che contraddistinse l’epoca dei Comneni, le lettere non davano da mangiare. Si professava il massimo rispetto per la letteratura, ma gli scrittori erano ridotti all’accattonaggio”. Uno dei testimoni più importanti dell’epoca, vero prototipo dell’uomo di lettere a Bisanzio, Teodoro Prodromo, in rari momenti d’orgoglio, malgrado la sua miseria, si felicitava che le cose stessero così, dato che la povertà si accompagna sempre al talento: “Data l’impossibilità di essere allo stesso tempo filosofo e ricco, preferisco restare povero e con i miei libri”. Nel 1146 arriva sulla scena un’altra donna memorabile, Berta di Sulzbach che sposa Manuele Comneno e salendo al trono prende il nome bizantino di Irene, simbolo della pace ristabilita tra il suo paese natale, la Germania, e la nuova patria. Irene, moglie sfortunata perché sterile, ammaliò sudditi e cortigiani sia per la sua avvenenza che per la sua cultura. Sopportò i tradimenti del marito e riuscì a mantenere il suo ruolo fino alla morte anche per motivi geopolitici, considerata l’importanza strategica dell’intesa tra Bisanzio e il suo paese d’origine. A Berta-Irene seguirono Agnese di Francia e Costanza di Hohenstaufen, “c’è qualcosa di malinconico nei destini di queste principesse d’Occidente che nel XII e XIII secolo se ne andarono a regnare sull’impero di Bisanzio; la loro figura lontana, quasi evanescente, trattiene in sé una grazia commovente. Trapiantate lontano dal paese natale per i giochi della politica, rimaste quasi sempre estranee alle novità del mondo in cui la sorte le aveva proiettate, queste principesse in esilio hanno dato triste prova, a quell’epoca, dell’impossibilità d’intesa tra Latini e Greci. Coinvolte nei più grandi avvenimenti della storia, ne sono state più che altro le vittime… hanno visto grandi cose (all’ombra dei rispettivi consorti) ma raramente le hanno dirette. Gli splendori della Bisanzio del XII secolo, le tragedie delle rivoluzioni di palazzo, la Quarta crociata e la fondazione di un impero latino a Costantinopoli, la politica orientale di un Federico II illuminano di un fulgore prestigioso le figure incerte di quelle principesse dimenticate. Ma la loro storia, soprattutto, testimonia l’abisso che le crociate finirono di scavare fra Oriente e Occidente. Mai, forse, questi due mondi hanno fatto sforzi più numerosi e più sinceri per compenetrarsi, per comprendersi, per unirsi. Ma, nonostante la reciproca buona volontà, hanno fallito clamorosamente nei loro tentativi”. E il destino vuole che sia proprio un’altra occidentale, italiana questa volta, Anna di Savoia, moglie di Andronico III (Corte dei Paleologhi) ad assumere, con la sua fatale resa (dopo una lunga guerra civile) al ‘gran domestico’ Giovanni VI Cantacuzeno e con tutti gli errori del suo governo e soprattutto con le richieste d’aiuto rivolte ai peggiori nemici dell’impero, la pesante responsabilità della decadenza e della rovina finale dell’impero bizantino. Diehl va giù pesante con la Savoia: “Mai prima d’allora si era vista una principessa bizantina sposata a un musulmano; mai prima d’allora s’erano visti i turchi stabiliti in Tracia come a casa propria e i tesori della Chiesa utilizzati per soddisfare le esigenze degli infedeli… si permettevano libertà inaudite… si sentivano i padroni da vincitori della guerra civile… Non si sbagliavano. Cent’anni più tardi, in una Costantinopoli conquistata, in una Santa Sofia saccheggiata, la mezzaluna avrebbe rimpiazzato per secoli la croce. Il regno di Anna di Savoia contiene le cause lontane ma certe di questa catastrofe finale. E si ha il diritto di deplorare il fatto che, al contrario di tante principesse d’Occidente oscure e evanescenti passate sul trono di Bisanzio, questa abbia voluto e potuto ottenere un ruolo che, poco intelligente qual era, non poteva che svolgere miseramente”. Gli ultimi secoli agonici dell’impero vedono avvicendarsi al potere con alterne fortune, gli ultimi eredi dei Paleologhi con una nutrita schiera di spose occidentali; il pericolo turco aumentava di giorno in giorno e l’impero bizantino, stremato, non vedeva altra risorsa se non nell’aiuto dell’Occidente. “Nonostante il dissenso profondo, nonostante l’antipatia secolare che separava Greci e Latini, gli uomini del XV secolo fecero seri sforzi per riconciliare Oriente e Occidente e assicurare con la loro concordia il traballante impero di Bisanzio”. Gli italiani ebbero un ruolo predominante, “Venezia era ovunque”, il pericolo comune della conquista musulmana avvicinava tutti i principati, una miriade di matrimoni strategici cercò invano di arginare la deriva. I Turchi Ottomani, guidati dal sultano Maometto II, conquistarono Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, il 29 maggio 1453, dopo circa due mesi di combattimenti. Con la caduta della capitale, ufficialmente conseguente alla morte dell'imperatore Costantino XI Paleologo (1449-1453), l'Impero Romano d'Oriente, dopo 1058 anni, cessò di esistere. Secondo alcuni storici questa data alternativamente alla scoperta delle Americhe, è da intendere come la fine del Medioevo e l'inizio dell'era moderna. Charles Diehl, Figure Bizantine, Corriere della Sera 2021 € 8,90, pagg. 490