domenica 16 aprile 2017

DUE LIBRI, DUE OPPORTUNE PROVOCAZIONI

Immerso nei flutti dell’epoca che mi è dato di vivere, nella quale patetici savonarola da strapazzo assurgono al ruolo di maître à penser intoccabili e indiscutibili, ho ripreso in mano un coraggioso libello del 1995 (“Alcune ragioni per sopprimere la libertà di stampa” di Vincenzo Zeno-Zencovich), accostandolo ad uno di recente uscita (“Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico” di David Van Reybrouck); siamo al cospetto di raffinate provocazioni prodotte da due intellettuali, l’uno italiano l’altro belga, che provano coraggiosamente ad affrontare due tra i più grandi e mistificanti tabù della nostra società: la libertà di stampa e il sistema elettorale cosiddetto democratico.
Onde evitare stupide polemiche che, considerato il mio attuale ruolo politico, finirebbero col coinvolgere altre persone che mi onoro di rappresentare, mi limiterò a riportare alcune significative citazioni di entrambi i libri, astenendomi dal commentarle.
Cominciamo da Zeno-Zencovich (diretto discendente di quel Livio, che dal 1941 al 1945 fu redattore di ‘Radio Londra’) facendoci, però, preventivamente benedire da un grande pensatore indiscusso del calibro di Alexis de Tocqueville: “Amo la libertà della stampa più in considerazione dei mali che previene che per il bene che essa produce”.
A pag. 10 leggiamo: “Diciamo pure che quel che va assicurato è la libera manifestazione del pensiero, anche se questo è vacuo o ripugnante, frivolo o imbecille. Ma cosa c’entra questo con l’attività di informazione? La quale rappresenta atti, fatti e idee altrui? Dove mai sta scritto che essi possano essere riportati secondo l’estro del resocontista? Lasciamo pure a editorialisti ignoranti e saccenti la licenza di esprimere le loro opinioni ma, vivaddio, si potrà esigere che il cronista accerti davvero se un disgraziato è stato ucciso durante un ‘rito satanico’ senza prendere per oro colato la velina della Questura?”.
“I giornalisti hanno tanto diritto alla libertà di stampa quanto il cassiere di una banca sui soldi che maneggia” (pag.11).
Nel nuovo ordinamento immaginato da Zeno-Zencovich “innanzitutto verranno soppresse le cosiddette ‘sale stampa’ in Questura. Naturalmente in ciò non vi è alcun astio o pregiudizio nei confronti delle forze dell’ordine, che in una situazione di generale inefficienza svolgono al meglio, e spesso con grandi sacrifici personali, il loro dovere. Ma il loro compito, appunto, è quello di mantenere, in senso lato, l’ordine, non di fare l’informazione: a ciascuno il suo. … Il vice-questore di turno scende in sala stampa e… distribuisce ai cronisti che gli fanno corona il resoconto delle avventure del giorno. Il cronista, raccolta qualche altra ghiottoneria dall’appuntato amico e compaesano, ci dà dentro di fantasia anche se non deve faticare molto perché ‘in tutta confidenza’, ‘a mezza voce’, gli sono stati rivelati alcuni particolari trucidi, piccanti o comici che faranno senz’altro la gioia dei lettori”. Per non parlare poi dei rapporti con i magistrati: “il giornalista è utilizzato come galoppino del sostituto procuratore di turno, mettendo a disposizione la sua penna, la sua firma, il suo giornale”. (pagg. 30-31)
Il titolo del paragrafo di pagina 33 è lapidario: scoop=cacca. “Lo scoop, infatti, è la negazione dell’informazione corretta: le notizie che vengono fornite sotto il suo influsso sono clamorose solo perché frettolosamente raccolte e sensazionalisticamente gonfiate”.
Succoso è il paragrafo riservato alle tecniche correnti nelle interviste; “Più facile e ricorrente è la tecnica di fare delle domande che sono solo degli sproloqui che contengono il confuso pensiero del giornalista, per poi mettere il contenuto in bocca all’intervistato. Esempio, l’intervista al vulcanologo. Giornalista: ‘Pensa che un’eruzione dell’Etna possa provocare lo scioglimento dei ghiacci del Polo Nord con l’innalzamento del livello dei mari e la scomparsa delle città lagunari?’. Intervistato: ‘È un’ipotesi fantasiosa, ma nel campo della scienza non si può tralasciare nulla’. Titolo sul giornale: ‘L’Etna minaccia Venezia’. Sottotitolo ‘Le catastrofiche conseguenze delle eruzioni nelle previsioni del famoso vulcanologo’. Naturalmente in prima pagina lo strillo è ancora più sintetico. ‘Intervista esclusiva al prof. Lapilli. Drammatico annuncio: maremoto a Venezia’.”
Gustosa l’ironia che Zeno-Zencovich riserva al rapporto giornali-pubblicità : “Se scrivete che l’olio di ricino fa schifo e fa male alla salute non aspettatevi di ricevere molte inserzioni pubblicitarie dai produttori di purganti e dalle associazioni di reduci della Repubblica sociale italiana”.
Le conclusioni del saggio ridimensionano il tono provocatorio: “Occorre dunque sopprimere la libertà di stampa? Sì. Ma nel contempo no. Come non occorre sopprimere la medicina e tornare alla stregoneria perché i medici sono dei cani; o sopprimere la giustizia e tornare alle ordalie perché i magistrati sono incapaci o corrotti. Occorre però sopprimere la ‘libertà di stampa’ come termine ambiguo che è all’origine di una mistificazione che avvantaggia solo i falsari senza offrire ai cittadini alcun diritto di cui già non godano”. “Il termine ‘libertà di stampa’ dà luogo a un ulteriore equivoco: quello di concentrare l’attenzione sul mezzo, ignorando del tutto il contenuto di quanto su esso viene pubblicato, quasi che esso fosse, per definizione, indiscutibile”. “Non vi può essere né libertà fondata sulla menzogna, né libertà di diffondere la menzogna”. E se qualcuno è pronto ad appellarsi alla fatidica ‘opinione pubblica’ ecco la sferzante sentenza dell’autore: “L’opinione pubblica non esiste, a meno che non si voglia confondere l’eco con la voce: incontrollabile, e comunque non verificata, anonima e non individuata, amorfa e raccogliticcia, l’opinione pubblica è solo un’invocazione o una giustificazione per un politico a corto di argomenti e per il giornalista che voglia imitarlo”.
L’assunto che è, invece, alla base del saggio di Van Reybrouck, teorico della sindrome di ‘stanchezza democratica’, è, se possibile, ancora più audace e sconvolgente per le anime belle; lo studioso, infatti, considera le elezioni un meccanismo primitivo, e intravede nel sorteggio regolato il futuro della democrazia rappresentativa. Il suo obiettivo è combattere il “feticismo elettorale”. “Ecco la prima causa della sindrome di stanchezza democratica: siamo diventati tutti dei fondamentalisti delle elezioni. Disprezziamo gli eletti, ma veneriamo le elezioni. Il fondamentalismo elettorale è la convinzione ferrea che una democrazia non sia concepibile senza elezioni, che le elezioni siano la condizione necessaria, fondante, per parlare di una democrazia”. Siamo sotto la “Dittatura delle elezioni”. “La democrazia diventa un kit Ikea per ‘delle elezioni libere e serie’ che il destinatario può assemblare sul posto, all’occorrenza, con l’aiuto del manuale d’uso, accluso nella spedizione”. “Il fatto che delle elezioni non favoriscano necessariamente una democratizzazione, ma possono frenarla e ridurla a niente, è dimenticato, per convenienza”. Con l’avvento del pensiero neoliberista “il cittadino diventa consumatore, le urne un’avventura”, il sistema dei partiti, che aveva creato e retto la democrazia nel dopoguerra, si è tragicamente sbriciolato e il comportamento dell’elettore non è più prevedibile. La soluzione è nella Storia e precisamente nel sistema di Atene, dove sorteggio e rotazione erano l’essenza della democrazia. Aristotele diceva: “Il sorteggio è democratico, l’elezione oligarchica” e Rousseau: “La via della sorte è più nella natura della democrazia”. D’altra parte una delle primissime critiche alla democrazia rappresentativa elettiva arriva nientedimeno che da Tocqueville, il quale lucidamente e nel 1830, considera “il momento dell’elezione del presidente degli Stati Uniti come un momento di crisi nazionale…”.
Ma quali sono i vantaggi del Sorteggio? “I cittadini sorteggiati non hanno forse le competenze dei politici di mestiere, ma hanno un’altra carta vincente: la libertà. Non hanno effettivamente bisogno di farsi eleggere o rieleggere. … Con il sorteggio si ottiene un campione più rappresentativo della società in seno all’organo elettivo …”.
“La via che dobbiamo scegliere oggi è quella di un modello birappresentativo, una rappresentanza nazionale che sia risultato di un meccanismo che associ elezione e sorteggio. Entrambi hanno le loro virtù: le competenze dei politici di mestiere e la libertà dei cittadini che non hanno bisogno di farsi eleggere. Il modello elettivo e il modello aleatorio funzionerebbero insieme. Il sistema birappresentativo è attualmente il miglior rimedio alla sindrome di stanchezza democratica di cui soffrono tanti paesi. … Il sorteggio è una formidabile scuola di democrazia”.
Due libri coraggiosi, assolutamente indispensabili per chi non può più fare a meno di ritenere che la macchina democratica abbia bisogno di un buon “tagliando”.
Franco Arcidiaco
Vincenzo Zeno-Zencovich, Alcune ragioni per sopprimere la libertà di stampa. Laterza, 1995, pagg. 84, £ 9.000
David Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico. Feltrinelli, 2015, pagg. 158, € 14.00










LA NEVE DI SAN PIETRO, OVVERO LA MAGIA DEL NARRARE

Leo Perutz è un grande narratore di avventure. Nato a Praga da una famiglia ebreo-tedesca, allo scoppio della guerra nel 1914 si arruola nell'esercito austro-ungarico, si trova sul fronte orientale quando viene ferito e rimpatriato. In ospedale subisce l’asportazione di due costole ma rifiuta l’anestesia stringendo un panno tra i denti, finita l’operazione chiede al chirurgo le due ossa per darle in pasto al suo molosso, il quale, dopo averle annusate, s'allontana senza toccarle... Perutz esclama felice: “Il mio cane non è un cannibale!”. È uno dei tanti aneddoti, come quello che lo vede diventare esperto contabile di un’importante società dopo essere stato bocciato in matematica alla maturità, che non solo descrive l’uomo, ma rivela la genesi di molti dei suoi racconti che sono zeppi di personaggi eccentrici, stravaganti, ossessionati fino al fanatismo. Sfuggito al nazismo rifugiandosi in Palestina, smette di scrivere e muore dimenticato a 73 anni nel 1957.
Secondo Corrado Augias, una delle ragioni per le quali Perutz è stato trascurato potrebbe nascondersi proprio nella difficoltà di capire che razza di scrittore fosse, cioè di “dare ai suoi romanzi una collocazione sicura all'interno d'un genere riconoscibile”. Basta pensare che il suo “Il maestro del giudizio universale”, venne pubblicato per la prima volta in italiano nel 1931 nella collana dei “Gialli Mondadori”, in una traduzione modesta, liberamente rimaneggiata dai curatori; e che Borges ha pubblicato Perutz in Argentina includendolo in una collana di thriller d'alta qualità. Leggendo le pagine godibilissime di Perutz, si scopre una semplice realtà: ci troviamo al cospetto di un grande narratore, creativo, immaginifico e straordinario interprete dell’intrigante atmosfera d’inizio Novecento, che naviga tra feuilleton e alta scrittura con elegante disinvoltura. Abile tessitore di trame, adora giocare, manipolandolo, col destino dei suoi personaggi.
In questo “La neve di San Pietro”, che ho divorato in una giornata di vacanza sotto il Vesuvio, ci imbattiamo nell’enigmatica ricostruzione di un periodo della vita del dottor Friedrich Amberg, in particolare dei giorni compresi tra il 25 gennaio e il 2 marzo del 1932. Secondo le testimonianze, è stato ricoverato in stato d’incoscienza dopo essere stato investito da un’auto, davanti alla stazione ferroviaria di Osnabrück, mentre si recava a prendere servizio come medico condotto nel paesino di Morwede. Eppure lui ricorda benissimo di esserci arrivato a Morwede, dove, nell’ordine, ha conosciuto il fanatico e reazionario barone Von Malchin, ha ritrovato la donna perdutamente amata ed è stato gravemente ferito nel mezzo di un tumulto di piazza. Perutz non ci rivela la verità ma, come sua abitudine, indugia ambiguamente tra le pieghe dell’ignoto vestendolo di realtà, portandoci alla scoperta di un esperimento ambizioso e grottesco allo stesso tempo, figlio di una folle fissazione, che sortirà risultati tragici quanto sorprendenti. Il Barone Von Malchin è convinto che il mondo sia corrotto e che solo il germanesimo e la fede religiosa possano curarlo, che ogni mezzo sia lecito per raggiungere questa palingenesi. Questo lo induce a sperimentare sui paesani una droga sintetizzata da un parassita che infestava l'Europa fin dal Medioevo.
“Mi prese la mano e mi trascinò in una stanza che odorava di alcol e di loden fradicio. Un erbario era aperto sul tavolo, fra alghe, licheni e muschi d’ogni tipo. Da sotto il sofà faceva capolino un tirastivali in ghisa, a forma di cervo volante. Sopra il comò si trovavano, disposti su due file, alcuni recipienti in cui erano conservati sotto spirito i funghi commestibili e velenosi della zona. Un piccolo riccio lappava del latte da una ciotola di terracotta.”
Ma la sua convinzione non va pari passo con la realtà e non saranno gli inni sacri a risuonare in quelle lande, ma l'Internazionale. Il sogno del vecchio visionario, quasi un apprendista stregone di goethiana memoria, di rimettere sul trono d'Europa un discendente di Federico di Svevia "Stupor Mundi", finirà nel sangue, scempiato da quell’incontrollabile “anima delle masse” che lui stesso aveva risvegliato.
La Neve di San Pietro o Fuoco della Vergine, descritta nel romanzo, è dunque una malattia dei cereali causata da un fungo parassita che si manifesta con un velo bianco e produce sostanze allucinogene in grado di provocare estasi mistiche e visioni ascetiche. Il dipanarsi della storia, tra la restaurazione del Sacro Romano Impero Germanico degli Hohenstaufen (ovvero il Primo Reich) e l’avvento della Rivoluzione Bolscevica d’ottobre, indurrebbe a pensare che lo stesso Perutz ne sia stato preda…
L’incipit è assolutamente coinvolgente e ci immerge nei pensieri confusi di un uomo che si risveglia in un ospedale: frammenti e visioni che appaiono e scompaiono nella sua mente per un attimo prima che i ricordi lo investano con la violenza di un crollo. Ma quei ricordi appartengono a fatti veramente accaduti, o hanno ragione i medici quando insistono nel sostenere che è “solo” stato investito da un’auto e che quegli eventi li ha sognati?
"Quando la notte smise di tenermi prigioniero, ero una cosa senza nome, un essere privo di personalità, che non conosceva i concetti di ‘passato’ e ‘futuro’. Giacqui, forse per molte ore, o forse solo per una frazione di secondo, in una sorta di rigidità… Sarebbe facile dire: galleggiavo nel vuoto, ma sono parole che non significano nulla. Sapevo solo che esisteva qualcosa, ma che quel ‘qualcosa’ fossi io, questo lo ignoravo."
Il Barone descritto da Perutz è un individuo assolutamente certo del suo piano, con una volontà di ferro e dominato da un'energia reale ma sconosciuta, che evoca inevitabilmente un altro personaggio, che la Storia avrebbe liquidato come un pazzo, che di lì a poco avrebbe dimostrato al mondo intero di essere capace di dominare un'intera nazione, soggiogandola con la droga di un'aberrante propaganda e col fascino macabro di un'ideologia razzista di annientamento del più debole e del diverso.
Franco Arcidiaco
Leo Perutz, La neve di San Pietro, Adelphi 2016, pagg. 184, € 18,00









domenica 9 aprile 2017

LA CULTURA È STRUMENTO DELL’INCLUSIONE SOCIALE

Il tema migranti-accoglienza-integrazione è ormai talmente ricorrente sulle colonne dei giornali e sui social da risultare a rischio di deriva retorica. Se poi aggiungiamo l’aspetto antinomico che riguarda precipuamente una terra come la nostra che da terra di emigrazione è diventata d’immigrazione, il gioco è fatto. D’altra parte non possiamo dimenticare che metà della popolazione italiana è andata via negli ultimi cent’anni, e per la maggior parte si tratta di meridionali; adesso però “i bastimenti” percorrono il cammino della speranza al contrario. Non serve essere un mago della statistica per costatare che la tendenza dell’emigrazione si è rovesciata ed oggi il nostro Paese è diventato, anche se in minor rilevanza rispetto agli altri stati europei, un Paese multietnico.
È evidente che le migrazioni producono effetti sociali considerevoli a seguito dell'inserimento degli immigrati in un contesto culturale differente da quello d'origine. Il contatto tra i locali e i nuovi arrivati provoca una conseguenza positiva nello scambio culturale per quanto riguarda gli usi, i costumi, i saperi, i valori, le istituzioni. Ma è innegabile che dall'incontro possano scaturire ostacoli di varia natura, quali la diffusione di atteggiamenti razzistici o il nascere di separatismi e ghetti; proprio qui entra in gioco il ruolo della cultura come strumento di inclusione sociale, che si sta rivelando sempre più centrale di fronte ai massicci fenomeni migratori, dimostrando che possono diventare un’opportunità per un paese come l’Italia che ha raggiunto il punto più basso di natalità nel corso della sua storia.
La cultura di un territorio fa riferimento alle molteplici arti che si sono sviluppate in esso, ma anche alle esperienze, conoscenze, storie di vita delle persone che hanno vissuto e vivono in quel contesto. Il territorio non può essere inteso solo come luogo fisico, ma come l’insieme delle culture, delle relazioni, degli attori che hanno vissuto e fanno riferimento ad esso.
Si rompe pertanto la divisione dei ruoli fra chi produce e chi fruisce della cultura perché il cittadino è al tempo stesso consumatore, ma anche produttore di cultura. In questa prospettiva, nel territorio, la cultura tende ad assumere nuovi ruoli e nuove funzioni. Una cultura che promuove accoglienza, che costruisce benessere, che arricchisce il turismo, che produce sviluppo economico, che crea nuovi linguaggi, che educa e forma le nuove generazioni.
È fondamentale però rafforzare “dal basso” il dialogo interculturale.
Dal 7 al 14 maggio prossimi a Torino si svolgerà il “Festival della Cultura dal Basso” (www.festivaldellaculturadalbasso.it) che sarà realizzato con il sostegno della Compagnia di San Paolo e dell’assessorato alla Cultura della Città di Torino. L’obiettivo è insegnare a lavorare per migliorare la percezione di un territorio e la qualità delle relazioni tra le persone. Si tratta di un’esperienza che intendiamo replicare nella nostra città ed in questa direzione ho già avviato i contatti con gli organizzatori piemontesi. Un altro esperimento che stiamo avviando nella nostra città riguarda da vicino la letteratura o meglio la narrazione, il tema del progetto è il racconto e la tradizione orale quale strumento per facilitare la lotta contro la discriminazione e l’emarginazione, per una riqualificazione del tessuto culturale nelle periferie dell’Europa. L’intento è di avviare metodi di lavoro innovativi, basati sull’educazione non formale e sulla narrazione, intesa come trasferimento di conoscenze tra gli esseri umani; le parole acquistano così una forte valenza interculturale, aldilà di qualsiasi età, confine o barriere, per diventare lo strumento privilegiato di rappresentazione di ogni identità, individuale e collettiva.
Alla base c’è la convinzione che “Ascoltare e raccontare storie è uno dei principali e fondamentali bisogni dell’uomo”. L’esigenza della trasmissione orale, nasce come diritto a esprimere noi stessi. Queste tematiche saranno al centro della Fiera “San Giorgio una Rosa e un Libro” che si svolgerà nella nostra città presso il Palazzo Corrado Alvaro, ex Provincia, i prossimi 21, 22 e 23 aprile.
Franco Arcidiaco, delegato alla Cultura del Sindaco Giuseppe Falcomatà