domenica 15 marzo 2020

UN LIBRO INEDITO (ANCORA PER POCO) DI FRANCESCO VILLARI

Ciao Francesco, il 6 novembre scorso mi hai inviato il tuo lavoro via email, chiedendomi semplicemente di essere spietato nel valutarlo; me ne avevi parlato qualche giorno prima fuori da Spazio Open con fare disincantato, io, certo che mi sarei ritrovato tra le mani “roba forte”, mi ero riproposto di riservargli un’attenzione particolare. Appena arrivata la mail ho subito stampato il manoscritto, l’ho infilato in un folder e l’ho riposto nella mia inseparabile vecchia bridge nella stessa tasca dove quotidianamente, dopo averla compilata in modo maniacale, ripongo la mia quovadis prenote. In tutti questi mesi ho letto, come al solito, migliaia di pagine sia per lavoro che per diletto, scegliendo tra i manoscritti che arrivano in casa editrice (che mi rifila Antonella) e le montagne di libri che circondano il mio angulus ridet, vale a dire la mia poltrona affiancata dallo scaffale mobile, traboccante di libri che periodicamente tiro fuori dalla mia biblioteca o che ho acquistato recentemente.
Ieri mi sono ritirato nel mio studio per sistemare appunti e carte, avevo tante cose da fare e sono caduto preda dell’abituale ansia paranoica che si manifesta nel momento in cui devo decidere da dove cominciare… ho messo la mano nella tasca della bridge per tirare fuori la quovadis prenote (che in questi casi svolge il ruolo di Virgilio) e… ho tirato fuori il folder con il tuo manoscritto. L’ho posato sulla scrivania ho pareggiato i fogli e ho cominciato a leggerli.
Mi è venuto in mente il modo in cui ci siamo conosciuti; ero venuto a trovarti (diciamo 20 anni fa?) nel tuo ufficio di contrada Gagliardi con il prof. Amato, nella tua qualità di possibile sponsor del Premio Nosside, di cui editavo l’antologia. Quel giorno ho scoperto una realtà inimmaginabile: un angolo di Silicon Valley, distonicamente incastonato nell'orrendo scorcio degradato di una delle nostre tante periferie. Un effetto straniante reso ancor più tale dalla tua impeccabile figura di manager; se non ci fossimo stretti la mano, ti avrei considerato alla stregua di un ologramma, tanto incongruo mi appariva il contesto.
Non potevo sapere che quel giorno ero venuto a contatto di solo una, e nemmeno tra le più importanti credo, delle tue tante vite. Ci siamo ritrovati, diciamo dieci anni dopo, nella mia casa editrice e ti sei presentato stavolta nelle vesti di scrittore abile e immaginifico, appassionato di biliardo. Quell’incontro ha prodotto la pubblicazione con la mia Città del sole edizioni, del romanzo “L’ottavina di Dio” che hai scritto a quattro mani con Marco Di Grazia. Un pugno di anni ancora e ti ho ritrovato musicologo e cinefilo di straordinario livello, affabulatore seducente, nonché “socialcomunicatore” decisamente fuori dalla norma. Quando mi confronto con te su queste nostre comuni passioni mi autoriduco alla stregua di un dilettante, d’altra parte la tua cultura musicale si fonda su solide basi tecniche, come ben si evince da questo nuovo straordinario tuo romanzo.
Tra ieri pomeriggio e stamattina posso finalmente dire di averti conosciuto nella tua interezza e ti ringrazio per avermene dato l’opportunità.
Intanto Arles… è uno dei pochi luoghi che ha messo in crisi il mio razionalismo, città magica e ruffiana come nessun’altra. Se il genius loci è Van Gogh non ti puoi aspettare altro; ci siamo capitati Antonella ed io con una coppia di amici e rispettivi figli, in un memorabile trentun dicembre di non so quanti anni fa, ospiti del Nord-Pinus. Sotto lo sguardo curioso dei viaggiatori che ci avevano preceduto, ritratti nella galleria fotografica dal tono a metà tra l’esotico e il dandy, tra scene di caccia, corride e favolosi bestiari, abbiamo trascorso la serata nel leggendario caffè dell’hotel, per poi immergerci nella mitica Place du Forum per ricalcare i passi di Vincent. Abbiamo atteso la mezzanotte tra giri di valzer (io che ho la grazia di un orso, ma il pastis e l’assenzio fanno miracoli…) al suono di un organino apparso dal nulla ai bordi della piazza, sfidando un freddo polare. Anche noi come te (pardon, come il tuo Ludovico, il cui nome scopriremo però solo nelle ultime righe del libro) in quei giorni ci siamo “sentiti a casa nella stanza di Van Gogh”!
Con queste premesse non ho potuto che procedere spedito e mi sono trovato letteralmente rapito dalla tua scrittura coinvolgente, come solo una buona narrazione in prima persona sa essere. L’espediente narrativo della sordità (per questo hai voluto fortemente che lo leggessi?) che hai usato, è semplicemente geniale e ti ha consentito di svolgere la trama in modo sorprendentemente credibile. D’altra parte, come dice il tuo personaggio, il genio di Van Gogh era bene in grado di dipingere il silenzio.
Pur intriso di passioni e temi cruciali, il romanzo risulta accattivante e scorrevole, svolto con maestria da gran narratore. Il tuo sconfinato amore per la musica ti consente di far svolgere abilmente al tuo personaggio la grande impresa di comprendere la musica senza bisogno di sentirla attraverso un suono. Il biliardo, tema ricorrente nella tua ars narrandi, viene proposto qui come prodotto dell’armonia musicale e della filosofia matematica, non so se nessuno mai si è spinto su questi sentieri, personalmente li trovo affascinanti e originali.
All’amore guardi con il tuo tipico disincanto esistenziale, trovo acuta e condivisibile la tua riflessione sulla felicità e la tristezza, come ingredienti di una forma di masochismo generalizzato “che preferisce la certezza della pena all’ipotesi della gioia”. Per non parlare poi della dotta disquisizione sull’amore che può dirsi compiuto solo una volta finito; della separazione decodificata dal sapore/colore degli arredi e delle suppellettili; della fine del matrimonio visto come una forma di disinvestimento (time to market): l’amore come market dei sentimenti!
All’irrompere di Chloée nella vita del protagonista, il romanzo imbocca la sua strada maestra.
Una donna straordinaria (rendi bene l’idea accostandola alla Fanny Ardant di Truffaut) che inevitabilmente lo pone in stato di sudditanza intellettuale, sia per la sua competenza in materia di arte (Van Gogh è il loro galeotto), musica (è un’eccellente pianista), cocktail (Bloody Mary in primis) e crostacei (i percebes, preistorici eroi), sia per la sua profonda concezione filosofica del primato della memoria nella vita dell’uomo. L’affascinante tesi che fai esporre alla tua Chloée, riguarda la possibilità di isolare la memoria umana come chiave della vita eterna; un processo di back up della nostra vita che, nel momento in cui il nostro corpo dovesse risultare inservibile, si potrebbe installare in un clone. “Se la memoria si potesse isolare genererebbe un essere immortale”, è la stupefacente chiosa di Chloée. Tesi assolutamente non peregrina, suffragata dagli studi del famoso scienziato informatico americano Raymond Kurzweil, che è convinto delle capacità delle nanotecnologie di sconfiggere la morte. Il romanzo si dispiega e conclude con dei credibili e appropriati colpi di scena che avvincono mirabilmente il lettore.
Inutile dire che mi hai fatto innamorare perdutamente, non me ne volere, di Chloée e ti ringrazio soprattutto per il “lieto fine”, non sopportavo l’idea di averla persa per sempre.
Ciao, tuo Franco Arcidiaco




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